Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
È solo nel corso del XIII secolo che – anche grazie alla riscoperta dell’Aristotele politico – fiorisce nell’Europa cristiana una riflessione politica propriamente detta: un nuovo tipo di testualità, il cui scopo consiste nel sottoporre ad analisi “scientifica” i vari aspetti della vita degli organismi politici, considerati come una particolare categoria di fenomeni naturali di cui studiare la genesi e il divenire. A questa fioritura si accompagna (e si intreccia) il graduale affermarsi di una concezione del potere secondo cui esso deriva dal basso, dal popolo. Tale processo cambia radicalmente il modo di intendere i rapporti fra governanti e governati, ma soprattutto segna – in molti autori – una svolta nelle relazioni fra potere spirituale e potere temporale, affrancando quest’ultimo dal controllo dei vertici ecclesiastici.
Guglielmo di Ockham
La genesi del potere civile
De imperatorum et pontificum potestate
Benché infatti Dio si serva della mediazione del papa per istituire molte autorità ecclesiastiche, quelle secolari – vale a dire l’autorità imperiale, quella del re e dei principi – sono stabilite da lui senza che intervenga il pontefice, ma solo tramite il potere elettivo degli uomini, conferito loro da Dio stesso e non certo dal papa. A conferire il potere regale, pertanto, non è il pontefice, bensì Dio, attraverso il popolo, il quale riceve dal Signore la facoltà di scegliersi un sovrano che governi avendo come fine il bene della comunità.
in La spada e lo scettro: due scritti politici di Guglielmo di Ockham, a cura di S. Simonetta, Milano, Rizzoli, 1997
Tranne qualche rara eccezione, possiamo dire che soltanto nel corso del XIII secolo va affermandosi nell’Europa cristiana una visione più positiva della politica (come pure – per riflesso – del suo studio e di chi vi si dedica), che viene concepita da un numero crescente di pensatori alla stregua di un “prodotto” naturale, laddove in precedenza la si riteneva uno degli effetti della Caduta. Ne deriva la convinzione che sia possibile e, anzi, doveroso procedere a un esame rigoroso delle varie forme associative assunte storicamente dalle comunità umane, da giudicarsi soltanto in base alla loro rispettiva capacità di soddisfare le esigenze terrene dei membri di tali comunità, prescindendo da qualsiasi considerazione di ordine teologico (cioè senza tenere nel minimo conto il credo religioso di chi governa e di chi è governato in ciascuna di quelle società umane). Fa così la sua comparsa, per la prima volta nel Medioevo, una scienza politica (“scienza pratica” per eccellenza), il cui oggetto di indagine è costituito da quelle particolari forme di organismi che sono gli stati.
Nello stesso tempo, il cosiddetto ritorno dell’Aristotele politico – ossia l’entrata in circolo delle traduzioni latine della Politica e dell’Etica a Nicomaco (fra il 1245 e il 1270), che tanto contribuirono al mutamento di prospettiva appena ricordato – mette a disposizione della comunità culturale di quegli anni gli strumenti linguistici e concettuali senza i quali risultava pressoché impossibile formulare questioni di natura politica e dare loro risposte convincenti. Per citare un solo esempio, è la lettura del terzo libro della Politica, ove Aristotele definisce le differenti costituzioni legittime (monarchia, aristocrazia, politia) e ne valuta pregi e difetti, a indurre i tanti maestri universitari che fanno lezione su quelle pagine a domandarsi quale sia la forma di governo migliore, mettendo in discussione ciò che sino ad allora era stato dato per scontato, vale a dire la superiorità assoluta del regime monarchico. In questo caso, come in tanti altri, Aristotele non fornisce ai suoi lettori e interpreti medievali risposte preconfezionate, indicazioni certe, ma si limita a porre loro un problema, offrendo nel contempo il vocabolario tecnico e un serbatoio di argomenti da utilizzare per elaborare soluzioni personali.
Combinandosi con elementi tratti dalla consuetudine feudale (e dalla concezione del potere da essa sottesa), dal pensiero giuridico e dalla tradizione filosofica ciceroniana, negli ultimi decenni del Duecento quello che può essere definito il linguaggio politico aristotelico viene a formare l’asse portante di un sistema di coordinate entro il quale trovano una giustificazione teorica pratiche di governo dal basso esistenti già da tempo in molti centri urbani di talune aree dell’Europa.
Il risultato è il progressivo diffondersi di una teoria “ascendente” del potere, secondo cui esso trae origine e legittimazione dall’investitura e dal consenso popolare. Da un lato, questa tesi sottopone chi governa al controllo dei governati, in base al presupposto che la relazione fra sovrano e sudditi – fra principans e cives – sia di natura pattizia; dall’altro, tuttavia, contestando l’idea che l’autorità politica discenda dal Cielo su chi la detiene, essa sottrae i principi terreni all’abbraccio della Chiesa, potenzialmente letale, svincolandoli dai vertici ecclesiastici, i quali per secoli avevano saputo sfruttare nella maniera più efficace il ruolo di unici mediatori autorizzati fra Dio e coloro che egli aveva scelto come suoi vicari in temporalibus.
Siamo qui in presenza di una vera svolta epocale, in seguito alla quale, sul finire del Duecento e nella prima metà del Trecento, le massime autorità religiose dell’Europa latina, i pontefici, si vedono privare di quella posizione di indiscusso vantaggio che si erano conquistati, poco alla volta, a partire dal lontano VI secolo, quando la Chiesa di Roma aveva iniziato ad acquisire nei confronti della cristianità occidentale un’egemonia politica, oltre che spirituale. Una supremazia divenuta poi pressoché indiscussa, nell’età carolingia, e successivamente teorizzata in maniera esplicita (nonché tradotta in azioni politiche concrete) da papa Gregorio VII, nel suo celebre Dictatus papae (1075), composto in piena lotta per le investiture con l’obiettivo di affermare, senza mezzi termini, che quello papale era l’unico potere davvero universale.
Alla diffusione di quello che abbiamo indicato come il linguaggio politico aristotelico – sulla cui importanza si è insistito sin qui – dà un contributo decisivo Tommaso d’Aquino, il primo grande docente universitario (insieme al suo maestro Alberto Magno) a fare lezione sugli scritti politici di Aristotele, dai quali trasse gli elementi portanti del suo pensiero politico.
Ciò è vero sia per quanto concerne la tesi della naturale socievolezza dell’uomo – con tutte le conseguenze che ne discendono – sia per la teoria della legge positiva, che Tommaso concepisce come applicazione a una particolare comunità civile dei precetti universalmente validi (ma vincolanti solo nel foro interiore) della lex naturalis, a sua volta intesa come riflesso nelle creature razionali della legge eterna (ossia l’ordine finalistico che Dio ha conferito all’universo). Inoltre, l’idea che l’inclinazione a vivere in società sia una caratteristica dell’uomo in quanto tale, il quale ha bisogno della comunità politica per realizzare in maniera compiuta la propria natura e per attuare le finalità assegnategli nel piano divino del mondo, conduce Tommaso ad affermare la piena integrazione della vita di ciascun individuo in quella della collettività in cui è inserito, “così come ogni parte, per ciò che è, appartiene al tutto”. Ciò non comporta, tuttavia, il totale assorbimento del singolo cittadino nello Stato di cui fa parte, poiché vi è una sfera del suo essere, la sfera spirituale, in relazione alla quale egli non è subordinato alla comunità civile: la realizzazione del suo fine sovrannaturale, infatti, non passa attraverso il potere politico, ma è la Chiesa a presiedere a questa seconda e più importante dimensione dell’uomo.
Nella visione di Tommaso, d’altra parte, sia il potere spirituale che quello temporale derivano da Dio e, quindi, il secondo è subordinato al primo “nella misura in cui ve lo ha sottoposto la potestà divina, ossia unicamente nelle cose che riguardano la salvezza dell’anima”. Pertanto, la subiectio del potere civile rispetto alle principali autorità ecclesiastiche, teorizzata negli scritti politici del maestro domenicano (fra i quali il De regimine principum del 1265 circa e il Commento alla Politica, composto intorno al 1270) sembra riguardare soltanto l’ordine dei fini, assegnando alla Chiesa una funzione di supervisione e vigilanza sull’operato dei governanti terreni che si giustifica con la superiorità del fine spirituale. Il delicato tema dei rapporti fra Stato e Chiesa, comunque, non viene mai trattato in modo conclusivo nelle pagine di Tommaso a esso dedicate, che proprio per questo si prestano a letture profondamente divergenti: accade così che già nella prima generazione dei suoi seguaci vi siano alcuni che – come il suo allievo Tolomeo da Lucca – gli attribuiscono una rigida subordinazione del potere temporale a quello spirituale.
Il Trecento, tuttavia, è dominato da un gruppo di teorici politici la cui riflessione mira soprattutto a contestare la presunta “pienezza di potere” (plenitudo potestatis) papale, ossia l’idea che, in quanto vicario di Cristo e successore di Pietro, il pontefice romano detenesse la forma più completa di autorità esistente: l’unico potere autenticamente universale e assoluto, in virtù del quale il papa si riteneva superiore a qualsiasi governante terreno, come aveva teorizzato – fra gli altri – Gregorio VII e come aveva ribadito Bonifacio VIII, proprio all’inizio del XIV secolo, nella celebre bolla Unam sanctam (1302). L’opposizione a questo genere di tesi, solitamente indicate con la formula “dottrina ierocratica”, assume forme assai diverse negli autori di cui ci occuperemo, in ognuno dei quali – peraltro – essa si accompagna e si intreccia all’elaborazione di concetti che hanno importanza anche indipendentemente dal loro essere funzionali alla polemica contro le pretese assolutistiche del papato tardomedievale.
Emblematico, al riguardo, è il caso del domenicano Giovanni da Parigi, o Jean Quidort, il cui Tractatus de potestate regia et papali (1302 ca.) risale alla fase più aspra della disputa che vede contrapporsi papa Bonifacio VIII e il re francese Filippo il Bello. Per sostenere la causa del suo sovrano e difendere l’autonomia della giurisdizione temporale dalle anacronistiche mire egemoniche del pontefice, Giovanni si richiama all’idea di Tommaso – col quale aveva studiato – secondo cui ogni comunità politica trae origine dalla naturale socievolezza degli uomini e non ha, pertanto, alcun bisogno di essere legittimata dalla Chiesa; quest’ultima, del resto, ha una genesi differente, essendo funzionale al raggiungimento del fine sovrannaturale dell’uomo, ragion per cui ai suoi ministri spetta soltanto il compito di amministrare i sacramenti. Ciò fa della Chiesa un’istituzione universale (la salvezza è unica per tutti), mentre le profonde diversità naturali – geografiche, climatiche, di lingua e di costumi – che sussistono fra i vari popoli giustificano la compresenza di una pluralità di regimi politici, rendendo del tutto irrealistico qualunque sogno di impero universale: poiché non esiste un modo di vita buono per ogni comunità civile, è preferibile che ciascuna scelga la forma costituzionale più consona alle sue peculiarità.
L’ideale universalistico è invece ancora al centro di buona parte della riflessione politica di Dante Alighieri, in particolare della sua Monarchia (1312?), ove la presenza di un monarca universale che funga da organo di coordinamento supremo fra tutte le comunità civili è considerata di gran lunga la migliore soluzione costituzionale: la sola in grado di attenuare gli effetti del peccato originale e garantire al genere umano (humana civilitas) quelle condizioni di pace, sicurezza, ordine e unità che gli sono indispensabili per realizzare il proprio fine naturale, ossia sviluppare al massimo le potenzialità intellettive di cui è dotato. In Dante, quindi, la polemica antiierocratica si inserisce nel contesto di un discorso volto a respingere l’idea che l’autorità imperiale (remedium stabilito dalla provvidenza divina) dipenda in alcuna misura dalla mediazione del papa, la cui giurisdizione non deve mai travalicare la sfera spirituale.
Se Dante critica ogni tentativo di intromissione del papato nelle questioni politiche in nome della derivazione diretta (sine medio) da Dio del potere temporale – e in special modo di quello imperiale –, Guglielmo di Ockham, assai più tiepido nelle sue prese di posizione filoimperiali, contesta le pretese assolutistiche papali appellandosi alla convinzione – già presente nelle pagine di Giovanni da Parigi – che il potere di chiunque governi in ambito secolare discenda sì da Dio, come sosteneva la tradizione paolino-agostiniana, ma attraverso l’elezione popolare. Questa dottrina, formulata in particolare nella sezione conclusiva del Dialogus de potestate papae et imperatoris (1339-1341), induce il francescano inglese a valutare qualunque governo esclusivamente in base alla sua capacità di rendersi utile allo specifico gruppo di individui sui quali esso si esercita, di rispondere in maniera adeguata alle loro necessità.
Nello stesso tempo, l’idea secondo cui ogni signoria terrena derivi a deo per homines delegittima qualsiasi interferenza dei vertici ecclesiastici nell’assegnazione delle autorità temporali, sebbene Ockham sia disposto ad ammettere che in circostanze del tutto straordinarie (casualiter) il pontefice possa per lo meno destituire un principe terreno trasformatosi in tiranno, compiendo così un atto che di norma (ordinarie) gli è precluso. Tale eccezione alla regola, d’altra parte, è ammessa solo nell’eventualità in cui tutti i consueti sistemi autocorrettivi del potere temporale si siano rivelati inefficaci e, quindi, costituisce una sorta di ultima spiaggia; secondo Ockham, inoltre, la medesima eccezione vale anche in senso opposto, ossia consente (in casi particolari) a re e imperatori di deporre un papa caduto in palese eresia.
L’attacco più duro nei confronti delle tesi ierocratiche, comunque, è condotto dall’inglese John Wyclif, convinto dell’opportunità di assegnare al potere temporale il controllo di buona parte della sfera spirituale, e soprattutto da Marsilio da Padova, ai cui occhi la pienezza di potere rivendicata dai vescovi romani appare come un cancro in grado di aggredire e uccidere, uno dopo l’altro, tutti i regimi civili esistenti.
Nel suo Defensor pacis (ultimato nel 1324), d’altra parte, la violenta polemica antiierocratica si fonda su una concezione politica al cui centro sta l’idea che ogni essere umano abbia un desiderio innato di garantirsi una vita sufficiens, ossia un’esistenza degna di essere vissuta. Marsilio muove dal presupposto secondo cui tale livello di vita può essere conseguito da un individuo solo se si trova inserito all’interno di una comunità civile, che sia retta da un unico governo supremo (principans) incaricato di dare attuazione alle norme promulgate dall’insieme dei cittadini: principio-cardine del Defensor pacis, infatti, è la tesi che la facoltà di legiferare in ciascuna civitas compete alla volontà generale di quanti ne fanno parte (universitas civium).
Tuttavia, pur di contrapporre un potere temporale sufficientemente solido all’assolutismo papale e impedirgli di minare l’unità di governo degli Stati nei cui affari si intromette indebitamente, privando i cittadini del loro diritto a una vita degna di questo nome, Marsilio non esita a “recuperare” la teoria discendente del potere, precisando come la fonte “remota” di qualsiasi principans sia Dio: “qualunque governante esiste per ordinazione divina, benché la sua causa immediata sia il legislatore umano” (cioè il popolo da cui viene eletto). Emerge qui come il linguaggio politico paolino-agostiniano, al pari di quello aristotelico e di ognuna delle altre tradizioni di pensiero che contribuirono a veicolare la tesi dell’origine del potere dal basso, sia soltanto uno dei molteplici strumenti di cui i teorici politici tardomedievali si servono per sostenere le loro tesi, spesso assai distanti le une dalle altre: un dato che testimonia l’estrema ricchezza e complessità della riflessione politica nel basso Medioevo, al di là dei rigidi schematismi con cui talora la si è ricostruita, nel tentativo di mettere ordine all’interno di quella complessità.