La riforma degli interpelli
La riforma ha eliminato il precedente polimorfismo dell’istituto realizzandone l’unitarietà sotto i profili della collocazione sistematica e della disciplina procedimentale. L’unità è tuttavia realizzata anche a un livello più incisivo e riguarda situazioni giuridiche soggettive, fattispecie, effetti e facoltatività del medesimo. Appare così molto sfumata la differenza fra “tipi”. Maggiore problematicità presenta la disciplina processuale delle risposte all’interpello dato che, anche attesane la varietà, non si può escludere l’esistenza dell’interesse ad agire.
2.4 La fattispecie 2.5 La generalizzata facoltatività 2.6 L’effetto 2.7 Il procedimento 3. I profili problematici. Impugnabilità delle risposte
Recependo le istanze della dottrina e della stessa Agenzia delle entrate – che avevano da tempo segnalato che lo sviluppo caotico della disciplina degli interpelli rendesse necessario un intervento razionalizzatore1 – l’art. 6, co. 6, della l. 20.3.2014, n. 23 delegava il governo a riformare la disciplina degli interpelli per garantirne la maggiore omogeneità nonché per rendere più celere il procedimento e intervenire sui rapporti fra risposta a interpello e tutela giurisdizionale.
Il compito affidato al legislatore delegato era complesso perché la disomogeneità degli interpelli rilevava da quattro punti di vista diversi.
A) La disciplina dell’interpello ordinario si distingueva nettamente da tutte le altre per il fatto di essere inserita nello Statuto dei diritti del contribuente così risultando diretta attuazione dei principi enunciati nell’art. 1 dello Statuto medesimo e beneficiando del particolare “valore” proprio di tale atto normativo.
B) La possibilità di interpellare l’ente impositore risultava funzionale al conseguimento di risultati diversificati sia fra loro, sia con riguardo alla distinta posizione dell’Agenzia, da un lato, e del contribuente, dall’altro: i) dal punto di vista dell’Agenzia, talvolta l’interpello si collocava nel quadro di un generale dovere di collaborazione con il contribuente, altre volte, la funzione dell’interpello, sembrava maggiormente congruente con esigenze di anticipazione del controllo; ii) dal punto di vista del contribuente, l’interpello poteva essere funzionale all’acquisizione di certezza in ordine a dubbi interpretativi, ovvero all’acquisizione di una certezza anticipata in ordine all’accertamento dei fatti; ovvero ancora, alla rimozione di un ostacolo all’accesso a un regime.
C) A questa diversità di funzioni corrispondeva un coerentemente differenziato regime effettuale: i) gli interpelli maggiormente caratterizzati dal dovere collaborativo dell’amministrazione e dalla funzione di acquisizione di certezza da parte del contribuente producevano, almeno tendenzialmente, un effetto di “affidamento rafforzato” che si risolveva nella preclusione di atti con essi contrastanti; ii) gli interpelli probatori determinavano inversioni del relativo onere oppure la definitiva fissazione del fatto medesimo; iii) natura più propriamente “concessoria” o “autorizzativa”, in senso lato, presentavano infine gli interpelli la cui funzione, necessaria, era la rimozione di una preclusione per l’accesso a un regime.
D) I moduli procedimentali, infine, non solo risultavano diversi, ma mancava una corrispondenza fra la “funzione” e il “procedimento” in quanto alle varie previsioni legislative in materia di interpello probatorio o autorizzativo corrispondevano, per la disciplina del relativo procedimento, rinvii a uno dei modelli già esistenti selezionato in ragione di considerazioni (non sempre obiettivamente comprensibili, ma comunque) avulse da ogni preoccupazione di corrispondenza “tipologica” fra funzione, effetti e procedimento.
Il sintetico quadro prima tracciato indica che, più che di disomogeneità, forse si sarebbe dovuto parlare di polimorfismo e che sul legislatore delegato incombeva, innanzi tutto, il compito di stabilire se occorresse intervenire proprio sul carattere polimorfo dell’istituto o limitare l’intervento a taluno dei profili di disomogeneità segnalati.
I due interventi più evidenti operati riguardano la collocazione sistematica dell’istituto (v. infra, § 2.2) e l’omogeneità del procedimento.
Per contro, nel primo comma e nel secondo comma dell’art. 11 dello Statuto risulterebbe confermata la molteplicità degli interpelli sotto il profilo dei presupposti ciascuno dei quali dovrebbe individuare un distinto tipo (funzionale) di interpello.
Tuttavia, come vedremo, l’omogeneità raggiunta per effetto dell’intervento è molto più radicale.
Come si è detto, l’unitarietà della disciplina è rimarcata, innanzitutto, dalla sua collocazione sistematica: il diritto del contribuente di “interpellare” l’Amministrazione finanziaria appartiene – indipendentemente dal “tipo” di interpello – alle posizioni soggettive contemplate dallo Statuto.
Dovrebbe da ciò conseguire che l’interpello deve intendersi come un precipitato applicativo delle norme costituzionali indicate nell’art. 1, co. 1, dello Statuto ed assurge a livello di “principio generale dell’ordinamento”.
Tale collocazione, nell’ambito dell’ordinamento tributario, riguarda però solo la disciplina contenuta nell’art. 11 e non le disposizioni extrastatutarie, ossia gli artt. 26 del d.l. 24.9.2015, n. 156.
Le conseguenze dirette della soluzione indicata emergeranno dalla concreta esperienza applicativa, ma non vi è dubbio che questa soluzione pone un criterio interpretativo generale dal quale non potrà prescindersi.
La sua contiguità con l’art. 10 dello Statuto e l’espresso riferimento, in entrambe le disposizioni, alle condizioni di obiettiva incertezza, indirizzano, inoltre, univocamente l’interprete a considerare le due discipline come espressione della tutela del valore della “certezza” del diritto sia pure sotto profili diversi: l’art. 10, co. 3, escludendo l’applicazione di sanzioni al ricorrere delle condizioni di obiettiva incertezza; l’art. 11, disciplinando un istituto idoneo a eliminare “a monte” tali condizioni.
Da questo punto di vista, i diversi tipi di interpello risultano accomunati dall’essere funzionali all’eliminazione di condizioni di incertezza (normativamente, ma come si dirà, non sostanzialmente) distinte.
Quanto al profilo strutturale costituito dalle situazioni giuridiche soggettive implicate dalla disciplina unitaria dell’interpello, sebbene essa appaia concentrata sui profili, per così dire, dinamici dell’istituto, ossia sugli atti e sulla loro sequenza, nondimeno, a tali atti corrispondono, necessariamente, situazioni giuridiche soggettive di cui sono titolari, rispettivamente, il contribuente e l’Amministrazione finanziaria.
Più in particolare, si deve ritenere che la disciplina dell’interpello riconosce al contribuente un vero e proprio diritto potestativo avente ad oggetto la costituzione dell’obbligo di risposta a carico dell’Amministrazione interpellata, la quale quindi è titolare di una situazione giuridica di soggezione.
Questa conclusione è resa assai evidente dalla previsione di talune cause di inammissibilità che corrispondono alle ipotesi in cui l’obbligo di provvedere non è stato ritualmente costituito in conseguenza di un esercizio del diritto potestativo invalido o, comunque, inefficace.
L’inquadramento proposto giustifica anche adeguatamente la previsione del cd. silenzio-assenso il quale risulta atteggiato quale conseguenza negativa (per l’Amministrazione) derivante dall’inadempimento all’obbligo correttamente costituito a suo carico.
Il diritto potestativo all’interpello ha un oggetto specifico: come si desume dall’art. 5 del d.lgs. n.156/2015 l’istanza, qualunque sia il tipo di interpello, ha ad oggetto la soluzione di una “questione” e, in particolare, una “questione” caratterizzata da incertezza obiettiva.
Si tratta, come è evidente, di un carattere strettamente collegato alla funzione stessa dell’istituto che, come si è detto, è quella di realizzare anticipatamente condizioni di certezza per l’agire dell’istante, nel senso meglio specificato fra breve.
È in questa prospettiva che deve essere esaminato il problema della effettiva distinzione fra i tipi di interpello che ha alla base, essenzialmente, la diversità delle questioni alle quali la risposta all’istanza dovrebbe offrire una soluzione le quali si prestano ad essere distinte sul piano descrittivo, potendosi parlare di questioni, in senso lato, interpretative (costituenti l’oggetto degli interpelli ordinari, degli interpelli qualificatori nonché degli interpelli antiabuso e gli interpelli disapplicativi) e di questioni relative all’esistenza di determinate circostanze di fatto (che caratterizzano gli interpelli probatori).
Ma si tratta pur sempre di questioni caratterizzate da “incertezza”. Invero l’ulteriore differenziazione fra interpelli ordinari, qualificatori, antiabuso e disapplicativi dipende, per un verso, dal diverso apprezzamento che, nei vari casi, è riservato alle condizioni di obiettiva incertezza (la cui esistenza deve essere riscontrata specificamente nell’ipotesi degli interpelli ordinari e qualificatori, mentre esiste in re ipsa per gli altri due tipi di interpello); per altro verso, dalla esigenza di differenziare lo svolgimento dei relativi procedimenti in ragione della tendenziale maggiore complessità delle questioni.
Se, tuttavia, si considera che anche nel caso dell’interpello probatorio il dubbio circa l’esistenza di un fatto riguarda necessariamente non solo l’esistenza del fatto materiale, ma anche la sua “idoneità” a integrare la relativa previsione normativa, appare chiaro che la distinzione fra i diversi tipi di interpello non fa venir meno la sostanziale unità dell’istituto sotto il profilo del carattere “incerto” della questione oggetto dell’istanza.
Le distinzioni fra le questioni oggetto del dubbio destinato a essere risolto tramite la risposta all’interpello sfuma ancor di più una volta che si abbiano ben presenti due correlate circostanze.
La prima è che il giudizio sull’esistenza del fatto non è mai operato indipendentemente dalla norma che lo qualifica in quanto, in linea generale, i fatti – se si prescinde da quelli affatto elementari che raramente, peraltro, interessano come tali il diritto – presentano una ineliminabile complessità che normalmente impone di selezionare, ai fini dell’affermazione della loro sussistenza o insussistenza, gli elementi considerati davvero necessari da quelli meramente accessori la cui compresenza non incide, di per sé, sull’esito del giudizio di fatto. E tale selezione può operarsi solo utilizzando come parametro di riferimento la ratio della norma che disciplina il fatto medesimo. Ciò è ancor più vero quando il fatto considerato dalla norma è, a sua volta, una vicenda giuridica piuttosto che una modificazione della realtà fenomenica come avviene, quasi costantemente, nell’ambito delle norme tributarie e, ancor di più, nell’ambito di quelle disposizioni che disciplinano l’accesso a regimi tributari.
La seconda circostanza è data dalla distinzione praticamente inesistente fra i dubbi in ordine alla corretta interpretazione della norma e quelli riguardanti la corretta qualificazione della fattispecie. Se, infatti, il dubbio sull’interpretazione – dovendo riguardare una circostanza di fatto concreta e personale – si risolve nel dubbio sulla possibilità di applicare una norma a una determinata fattispecie e se, al tempo stesso, il dubbio sulla qualificazione riguarda la possibilità di sussumere una determinata fattispecie in un determinato paradigma normativo, si dovrebbe concludere che le due ipotesi tendono a coincidere2.
Ciò non vuol dire che non possa tentarsi di ritagliare all’interpello qualificatorio uno spazio autonomo rispetto all’interpello ordinario3 essendo possibile ricondurre al primo le questioni relative alle norme “vaghe” in quanto le relative formule presentano enunciati caratterizzati da vaghezza socialmente tipica o da vaghezza combinatoria. Secondo questa ricostruzione l’interpello ordinario si distingue dall’interpello qualificatorio solo per il grado di intensità dell’incertezza, risultando i due tipi del tutto contigui e, ai margini, sovrapponibili.
Sempre una differenza solo di grado dell’incertezza distingue, poi, i tipi di interpello appena richiamati dagli interpelli antiabuso che risultano definibili come una particolare specie di interpello qualificatorio avendo ad oggetto la possibile qualificazione di un’operazione come abusiva ed essendo la disposizione antiabuso (e anche quella che prevede la disapplicazione delle disposizioni antielusive specifiche) una tipica disposizione con enunciati vaghi4.
La fattispecie costitutiva del diritto potestativo è integrata, innanzi tutto, da un elemento soggettivo, ossia l’essere l’istante: a) un contribuente, b) un soggetto tenuto a porre in essere adempimenti per conto del contribuente, c) un soggetto obbligato con questi o in suo luogo all’adempimento di obbligazioni tributario. Si deve, al riguardo, segnalare l’impiego, nella formula di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 156/2015, del termine “contribuente” secondo un’accezione di matrice squisitamente dottrinale e, a quanto consta, mai precedentemente impiegata nei testi normativi: invero la giustapposizione dell’ipotesi sub a) e c) indica che per contribuente si intende il soggetto passivo dell’obbligazione tributaria (anche in via solidale) per fatti o situazioni a questi riferibili, là dove, viceversa, nell’ipotesi sub c) è riprodotta la formula impiegata dall’art. 64 del d.P.R. 29.9.1973, n. 600 per individuare i sostituti di imposta (ossia coloro che sono tenuti “in luogo di altri”) e i responsabili (coloro che sono tenuti “insieme con altri”).
Sotto il profilo oggettivo, invece, la fattispecie costitutiva del diritto potestativo in esame è integrata da due elementi che costituiscono il riflesso diretto della funzione dell’istituto.
Il primo è rappresentato dalla “preventività” dell’istanza richiesta dall’art. 2, co. 2, d.lgs. n. 156/2015. Si tratta di un elemento meramente temporale consistente nella necessità che l’istanza sia proposta anteriormente alla scadenza dei termini per la presentazione di una dichiarazione o per l’adempimento di altri obblighi tributari. É evidente che l’esigenza di tale requisito discende direttamente dalla funzione dell’interpello, ossia dalla sua preordinazione a realizzare anticipatamente le condizioni di certezza richieste per l’agire dell’istante. Cosicché il diritto potestativo a provocare l’intervento dell’Amministrazione non sussiste se la risposta, a causa dell’assenza della preventività, è inidonea a realizzare la funzione tipica dell’istituto.
Ancor più direttamente coordinato con tale funzione è il secondo elemento consistente nella situazione di dubbio la quale presenta, come si è già anticipato, caratteri diversi a seconda dei diversi tipi di interpello.
Nel caso dell’interpello probatorio, la “singolarità” di ciascuna situazione di fatto sarebbe già di per sé idonea a determinare l’esistenza dell’incertezza potenziale in ordine alla sussistenza di una specifica circostanza. A ciò si aggiunge la particolarità che l’interpello probatorio non può essere esperito al fine di acquisire la prova dell’esistenza di qualsivoglia “fatto”, ma solo nel caso di “fatti” la cui esistenza condiziona l’accesso a specifici regimi fiscali e solo là dove il ricorso all’interpello sia espressamente previsto. Ed è naturale ipotizzare che l’espressa previsione normativa dovrà tendenzialmente sussistere in tutti i casi in cui l’esigenza di certezza preventiva si presenti con un’eguale “intensità” (pena, altrimenti, l’illegittimità costituzionale dell’omessa previsione dell’interpello per violazione del principio di eguaglianza).
Nel caso degli interpelli antiabuso e disapplicativi l’incertezza risulta connaturata alla complessità e individualità della questione stessa dell’esistenza dei presupposti per l’applicazione della clausola generale recante il divieto di abuso del diritto o per la disapplicazione delle norme speciali antielusive.
Il collegamento già evidenziato fra gli artt. 10 e 11 dello Statuto dovrebbe condurre a delineare in termini unitari la nozione di “condizioni di obiettiva incertezza” impiegata in entrambe le disposizioni e, così, a poter far riferimento, al riguardo, all’ampia giurisprudenza formatasi in relazione all’art. 10, co. 3.
In questa prospettiva, la previsione contenuta nell’art. 11, co. 4 – ai sensi della quale la condizione di obiettiva incertezza non sussiste in presenza di una indicazione fornita dall’amministrazione finanziaria (e debitamente pubblicata) in ordine alla medesima fattispecie (astrattamente considerata) – non appare suscettibile di essere letta nel senso di escludere la rilevanza (tanto al fine di eliminare, quanto a quello di creare situazioni di incertezza) dell’evoluzione giurisprudenziale successiva all’intervento dell’Amministrazione e, in casi particolarmente eclatanti, anche di quella anteriore.
Le considerazioni appena svolte sembrerebbero confermare la sostanziale unitarietà dell’istituto disciplinato dall’art. 11 dello Statuto al di là della distinzione in tipi.
Prescindendo dalle lievi differenze relative al procedimento, non è dato fondare una distinzione fra i diversi tipi di interpello nemmeno sotto il profilo della loro obbligatorietà.
La facoltatività degli interpelli previsti dal co. 1 dell’art. 11 dello Statuto è, infatti, un dato indiscusso.
Alla medesima conclusione si perviene anche relativamente agli interpelli disapplicativi (nonostante talune indicazione di segno opposto) in modo sufficientemente agevole considerando la triplice circostanza che (i) il contribuente che non abbia presentato l’istanza di interpello disapplicativo risulta passibile di una mite sanzione “fissa” se, in sede di accertamento, dimostra comunque la sussistenza delle condizioni per la disapplicazione (cfr. art. 11, co. 7-ter, d.lgs. 18.12.1997, n. 471); (ii) affinché il contribuente vada esente dalla sanzione non è necessario l’accoglimento dell’istanza, ma la sua mera presentazione, (iii) in caso di risposta negativa all’interpello, se il contribuente cionondimeno disapplica la norma, è comunque necessario attivare, in sede di accertamento, lo stesso contraddittorio previsto in materia di abuso del diritto ai sensi dell’art. 10 bis dello Statuto (art. 6, co. 2, d.lgs. n. 156/2015).
È dato affermare, quindi, che la disapplicazione non è un effetto dell’accoglimento dell’istanza di interpello, la quale, invece, può aver luogo anche in sede di accertamento con la sola differenza che, in mancanza dell’istanza, il contribuente è soggetto a una sanzione fissa e, invece, ove l’istanza sia stata presentata ma abbia avuto esito negativo, dovrà attivarsi il particolare procedimento di contraddittorio previsto dall’art. 10 bis dello Statuto5.
Ovviamente, si tratta di una soluzione di non lieve impatto sistematico, in quanto determina la “degradazione” della violazione delle norme antielusive specifiche a mere forme di abuso (e non di vera e propria evasione) e, quindi, una netta discontinuità rispetto al regime anteriore alla riforma, non solo con riguardo alla natura dell’interpello stesso, ma anche rispetto a quella delle norme antielusive specifiche6.
L’assenza di un’effettiva distinzione fra i “tipi” di interpello emerge, infine, anche sotto il profilo degli effetti.
L’accoglimento dell’istanza determina in tutti i casi il medesimo effetto preclusivo, rendendo invalidi gli atti posti in essere dall’Amministrazione finanziaria contrastanti con il contenuto della risposta.
Tale effetto preclusivo presenta una particolare intensità nel caso di fattispecie (che abbiano formato oggetto di interpello favorevolmente accolto) aventi carattere ricorrente.
Per espressa previsione dell’art. 11 dello Statuto – che in questo caso ha generalizzato un orientamento già emerso anteriormente alla riforma – la preclusione si estende anche a tutte le successive reiterazioni della medesima fattispecie.
Da questo punto di vista, la risposta all’interpello assume una forte impegnatività per l’Amministrazione e produce un effetto sostanzialmente normativo in quanto caratterizzato da astrattezza (sia pure senza generalità).
Si realizza, in questo modo, un peculiare “bilanciamento” fra il valore della “certezza” del diritto e il principio di legalità a vantaggio del primo termine del rapporto. Bilanciamento appena temperato dalla possibilità riconosciuta, ovviamente si direbbe, all’Amministrazione di “revocare” la propria risposta, ossia, in termini tecnicamente più precisi, di annullarla in sede di autotutela7.
La disciplina relativa al procedimento dell’interpello è quella, come si è detto, sulla quale si è concentrata l’attenzione principale del legislatore delegato introducendo novità praticamente (forse, più che sistematicamente).
L’innovazione maggiormente evidente consiste nell’individuazione di una disciplina unitaria per tutti i “tipi” di interpello. Residua, infatti, una sola differenza che attiene alla durata del termine massimo entro il quale l’Amministrazione ha l’obbligo di provvedere: novanta giorni per gli interpelli ordinari e qualificatori e centoventi giorni per ogni altra forma di interpello.
È opportuno porre in evidenza che il legislatore delegato ha privilegiato una maggiore concentrazione dei termini con la riduzione sia del termine “ordinario” per la risposta alle istanza di interpello ordinario e qualificatorio, sia del termine per provvedere nel caso in cui l’Amministrazione richieda l’integrazione della documentazione presentata a corredo dell’istanza (fissato in sessanta giorni).
Decorsi tali termini (ossia quello ordinario, ovvero quello decorrente dall’integrazione della documentazione) si forma, qualunque sia il tipo di interpello, il silenzio assenso in ordine alla soluzione che l’istante ha l’obbligo di formulare nell’istanza.
L’art. 2 del d.lgs. n. 156/2015 individua, come si è anticipato, i titolari del diritto potestativo; ancorché tale individuazione sia operata avendo riguardo alla condizione soggettiva dell’istante, la formula è tuttavia sufficientemente ampia per poter essere tradotta in quella secondo cui la legittimazione sussiste in capo a tutti coloro che abbiano un interesse concreto alla soluzione di “questioni” caratterizzate da incertezza nelle diverse forme previste dall’art. 11, co. 1 e 2 dello Statuto.
L’art. 3 del medesimo decreto indica gli elementi che l’istanza deve contenere la cui necessità discende dal fatto che, in base al combinato disposto della disposizione in esame e del successivo art. 5, la loro mancanza determina l’inammissibilità dell’istanza in ogni caso ovvero, per taluni di essi, a seguito dell’inutile decorso del termine per la loro integrazione secondo quanto disposto dall’ultimo comma dell’art. 3.
All’art. 4 del d.lgs. n. 156/2015 – che attribuisce all’Amministrazione il potere di chiedere un’integrazione della documentazione allegata all’istanza e stabilisce il termine per provvedere a seguito dell’avvenuta integrazione – deve essere affiancato l’ultimo comma dell’art. 6 il quale esclude, con riguardo ai documenti non prodotti su richiesta dell’Amministrazione, l’applicazione della “sanzione” costituita dalla non producibilità di tali documenti in un successivo giudizio.
L’art. 5 del d.lgs. n. 156/2015, infine, codifica la possibilità che il procedimento si chiuda, oltre che con una decisione “di merito”, anche con una decisione “in rito”, ossia con la declaratoria dell’inammissibilità dell’istanza, che, secondo la ricostruzione qui proposta, corrisponde alla constatazione da parte dell’Amministrazione dell’insussistenza del proprio obbligo a provvedere.
Considerata la diretta conseguenzialità dell’obbligo di provvedere al valido esercizio di un diritto potestativo effettivamente esistente, l’inammissibilità non può che discendere o dall’inesistenza del diritto potestativo apparentemente esercitato per il tramite dell’istanza, oppure ad un suo esercizio non corretto. Da questo punto di vista, pertanto, le ipotesi di inammissibilità previste dall’art. 5 devono intendersi come esemplificative, là dove esse sono riconducibili all’inesistenza del diritto, mentre possono considerarsi tassative nei casi in cui esse individuano (i soli) casi normativamente rilevanti di invalido esercizio dello stesso8.
Oltre ai dubbi interpretativi che inevitabilmente accompagnano qualunque intervento normativo, i profili di maggiore problematicità riguardano il regime processuale degli interpelli.
Il legislatore, nel prevedere la non impugnabilità di tutti gli interpelli e l’impugnabilità differita dell’interpello disapplicativo, ha tenuto conto dell’indicazione contenuta nella legge delega. La previsione appare quindi rispettosa dei criteri direttivi e, tutto sommato, ragionevole.
Tuttavia, non si può negare che la previsione della non impugnabilità degli interpelli (e dell’impugnabilità differita degli interpelli obbligatori) contenuta nell’art. 6 del d.lgs. n. 156/2015 appare norma priva di reale contenuto prescrittivo, come tutte le norme che intendano introdurre limiti alla tutela giurisdizionale in via generale e astratta, ossia in contrasto con l’art. 24 Cost. che impone il riconoscimento del diritto alla tutela giurisdizionale tutte le volte in cui vi è interesse ad agire la cui esistenza, viceversa, deve essere necessariamente verificata in concreto. Invero, delle due l’una: o nell’ipotesi prevista non vi può mai essere, anche in concreto, un qualsiasi interesse ad agire, e allora il divieto di impugnazione è inutile; oppure non si può escludere in assoluto che l’interesse ad agire possa talvolta sussistere, e allora il divieto di impugnazione è destinato a essere superato da una lettura costituzionalmente orientata della norma oppure è costituzionalmente illegittimo.
Specularmente, la previsione dell’impugnabilità differita dell’interpello disapplicativo non è di per sé idonea a dimostrare l’esistenza, strutturale e costante, di un interesse ad agire in presenza di una risposta negativa. Anzi, sembra fondato affermare che la disciplina della risposta negativa desumibile dall’art. 11, co. 2, u.p. dello Statuto e dall’art. 6, co. 2 del d.lgs. n. 156/2015 attesta che le ipotesi in cui vi potrà essere interesse ad agire a fronte di una risposta negativa sono destinate ad essere molto limitate e, comunque, non dipendenti, in via generalizzata e strutturale, dalla (supposta) natura obbligatoria dell’interpello.
Inoltre, il divieto di impugnazione – calibrato solo sulle risposte negative – è inidoneo a escludere effettivamente l’impugnabilità di qualsiasi risposta ove si tenga conto della maggiore varietà di atti che la stessa disciplina degli interpelli introduce.
Basta pensare che l’interesse ad agire non può essere negato tanto rispetto alle pronunce di inammissibilità – non potendo esso essere eliso dalla possibilità di ripresentare l’istanza emendata dei vizi riscontrati dall’Amministrazione poiché, ove la dichiarazione di inammissibilità pervenga dopo la scadenza del termine per l’adempimento oggetto di interpello, la reiterazione dell’istanza risulta preclusa dal difetto di preventività9 – quanto nel caso degli atti di “revoca” delle risposte favorevoli all’interpello rispetto a fattispecie suscettibili di reiterazione.
Note
1 Cfr., in argomento, Fransoni, G., Integrazione e armonizzazione della disciplina degli interpelli, in Corr. trib., 2009, 757 ss.
2 Si veda il perspicuo rilievo di Pistolesi, F., Gli interpelli tributari, Milano, 2007, 48 secondo cui «Norma e fatto concorrono quindi ad integrare la condizione di fondata perplessità […] la norma, di per sé, potrebbe risultare di chiara e piana applicazione, ma non lo è se messa al cospetto della circostanza dedotta».
3 L’argomento è ampiamente sviluppato in Fransoni, G., Qual vaghezza, …. Considerazioni sui presupposti dell’interpello qualificatorio, in Rass. trib., 2016, 570 e ss.
4 Ed, infatti, già prima della riforma la dottrina acutamente qualificava anche l’interpello antielusivo di cui all’art. 21 della l. 30.12.1991, n. 413 come “qualificatorio” cfr. Pistolesi, F., Gli interpelli tributari, cit., 4.
5 Più puntuali indicazioni in Suraci, R.Fransoni, G., Facoltatività o obbligatorietà dell’interpello disapplicativo, in Corr. trib., 2016, 1645-1652
6 Il rapporto fra norme antielusive specifiche e interpello disapplicativo anteriormente alla riforma è illustrato da Padovani, F., La disapplicazione delle norme antielusive specifiche: riflessioni sulla tutela processuale del contribuente, in Rass. trib., 2011, 1175 e da Fransoni, G., L’impugnabilità degli interpelli fiscali con particolare riguardo all’interpello disapplicativo, in AA.VV., Elusione e abuso nel diritto tributario, in Quaderni della rivista di diritto tributario, Maisto., G., a cura di, Milano 2009, 77.
7 Un accenno, in Conte, D., Imposizione fiscale e nuovi accordi preventivi per le imprese con attività internazionale, in Riv. dir. trib., 2016, I, n. 5, in corso di pubblicazione.
8 La questione è più ampiamente sviluppata in Coli, F.Fransoni, G., L’inammissibilità degli interpelli, in Corr. trib., 2016, 1964.
9 Cfr. Coli, F. - Fransoni, G., L’inammissibilità degli interpelli, cit.