La riforma del codice antimafia
La recente riforma del codice antimafia ha introdotto importanti innovazioni nella disciplina delle misure di prevenzione, estendendone l’area di applicazione, prevedendo nuove tipologie di intervento imperniate su una “vigilanza prescrittiva” più che sull’ablazione dei patrimoni, favorendo il coordinamento tra gli organi competenti a dare avvio alla procedura, ristrutturando la composizione degli organi giudicanti nel segno della specializzazione e della multidisciplinarità, elevando le garanzie processuali, rafforzando la tutela dei creditori e ponendo regole ispirate a criteri di trasparenza nella scelta degli amministratori giudiziari. Si tratta di novità normative che meritano un giudizio sicuramente positivo, anche se non mancano alcuni aspetti che richiedono un intervento correttivo da parte del legislatore.
La riforma del codice antimafia, compiuta con la l. 17.10.2017, n. 161, contiene una serie di importanti novità che hanno modificato la disciplina delle misure di prevenzione sotto molteplici profili, nel segno del rafforzamento delle garanzie processuali, della trasparenza dell’amministrazione della giustizia, della modernizzazione di questo fondamentale strumento di intervento dello Stato nel settore dell’economia. Il testo finale della riforma rappresenta la sintesi di una pluralità di disegni di legge, tra cui la proposta di legge di iniziativa popolare AC 1138, intitolata: «Misure per favorire l’emersione alla legalità e la tutela dei lavoratori delle aziende sequestrate e confiscate alla criminalità organizzata», promossa da una serie di organizzazioni rappresentative del mondo del lavoro e della società civile (Acli, Arci, Avviso pubblico, Cgil, Centro studi Pio La Torre, Legacoop, Libera e Sos impresa), e la proposta di legge C. 2737 (Bindi), che ha ripreso i contenuti delle relazioni predisposte dalla Commissione parlamentare antimafia. Numerose nuove disposizioni costituiscono, poi, la concretizzazione delle indicazioni contenute nelle relazioni finali delle tre Commissioni governative istituite negli ultimi anni per progettare una riforma organica della materia: quella presieduta dal Prof. Giovanni Fiandaca, presso il Ministero della giustizia; e quelle presiedute rispettivamente dal dott. Roberto Garofoli e dal dott. Nicola Gratteri, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri.
Le nuova legge non limita il proprio intervento innovativo al codice antimafia. Essa, infatti, incide anche sul codice penale, sulle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, sul d.lgs. 8.6.2001, n. 231, riguardante la responsabilità amministrativa da reato degli enti, e, soprattutto, sull’art. 12 sexies d.l. 8.6.1992, n. 306, conv. dalla l. 7.8.1992, n. 356, che disciplina la confisca penale “estesa”.
Tra le più importanti novità introdotte dalla riforma, vi è l’inserimento di alcune nuove categorie di possibili destinatari delle misure di prevenzione personali e patrimoniali, attraverso una serie di modifiche apportate al testo dell’art. 4 del codice antimafia.
È stata accompagnata da forti polemiche la scelta di inserire nel co. 1 della suddetta norma la lett. i-bis), che consente di applicare le misure di prevenzione non solo agli indiziati del delitto previsto dall’art. 640-bis c.p. (truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, le cui pene sono state contestualmente elevate sia nel minimo che nel massimo, oscillando adesso da due a sette anni), ma anche agli indiziati di associazione a delinquere (art. 416 c.p.) finalizzata alla commissione di una serie di reati contro la pubblica amministrazione: in particolare, quelli previsti dagli artt. 314 , co. 1 (peculato, con esclusione della fattispecie del peculato d’uso), 316 (peculato mediante profitto dell’errore altrui), 316 bis («Malversazione a danno dello Stato»), 316 ter («Indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato»), 317 («Concussione»), 318 («Corruzione per l’esercizio della funzione»), 319 («Corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio»), 319 ter («Corruzione in atti giudiziari»), 319 quater («Induzione indebita a dare o promettere utilità»), 320 («Corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio»), 321 («Pene per il corruttore»), 322 («Istigazione alla corruzione»), e 322 bis («Peculato, concussione, induzione indebita dare o promettere utilità, corruzione e istigazione alla corruzione di membri degli organi delle Comunità europee e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri»), c.p.
A ben vedere, però, la portata pratica della suddetta innovazione appare decisamente modesta. Già con la disciplina introdotta dal d.l. 23.5.2008, n. 92, conv. dalla l. 24.7.2008, n. 125, l’ambito applicativo delle misure di prevenzione è stato esteso oltre i tradizionali confini del fenomeno mafioso, fino alle tipiche manifestazioni della criminalità dei colletti bianchi. La nozione di “pericolosità generica”, delineata dall’art. 1, co. 1, lett. a) e b) del codice antimafia, e riguardante i soggetti che sono abitualmente dediti a traffici delittuosi, o vivono abitualmente – anche solo in parte – con i proventi di attività delittuose, prescinde del tutto dalla tipologia dei reati (Cass. pen., S.U., 25.3.2010, n. 13426, in CED rv. n. 246272). La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che la nozione di “traffici delittuosi” «designa qualsiasi attività delittuosa che comporti illeciti arricchimenti, anche senza ricorso a mezzi negoziali o fraudolenti» (Cass. pen., 30.1.2013, n. 19995, in CED rv. n. 256160). È quindi largamente praticato, da tempo, il ricorso alle misure di prevenzione nei confronti delle condotte di criminalità amministrativa che siano abituali e comportino illeciti arricchimenti. La giurisprudenza di legittimità (Cass. pen., 24.3.2015, n. 31209, in CED rv. n. 264321) ha, peraltro, precisato che, in rapporto alla fattispecie di pericolosità generica descritta dall’art. 1, co. 1, lett. b), codice antimafia, il giudice della prevenzione, ove il reato oggetto di previa cognizione in sede penale sia rappresentato dal delitto di corruzione, non può prescindere dalla verifica, a carico del corruttore, della effettiva derivazione di profitti illeciti dal reato commesso. Infatti la condotta del vivere abitualmente, anche in parte, dei proventi di attività delittuose presuppone sia la realizzazione, non episodica ma caratterizzante un significativo intervallo temporale della vita del proposto, di attività delittuose produttive di reddito illecito, sia la destinazione, almeno parziale, di tali proventi al soddisfacimento dei bisogni di sostentamento della persona e del suo eventuale nucleo familiare.
Nel definire l’area di operatività della nuova fattispecie dell’indiziato di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati contro la pubblica amministrazione, descritta dalla seconda parte dell’art. 4, co. 1, lett. i-bis), codice antimafia, occorre, quindi, tenere conto che la condotta associativa contrassegnata dalla abituale commissione dei medesimi reati, produttivi di reddito illecito, risulta già riconducibile alle “vecchie” ipotesi di pericolosità generica descritte dall’art. 1, co. 1, lett. a) e b). Ne consegue che la sola situazione nella quale sembra concretamente essersi verificato un effetto estensivo dell’applicabilità delle misure di prevenzione per effetto di tale nuova fattispecie è quella del soggetto che, pur essendo partecipe di una organizzazione avente nel proprio programma la commissione di una serie indeterminata di delitti contro la pubblica amministrazione, non si sia impegnato in modo reiterato nella realizzazione di tali reati. Una situazione, questa, la cui configurabilità appare tutt’altro che frequente.
Deve pertanto riconoscersi che il testo della riforma non ha affatto determinato una generalizzata equiparazione tra corruzione (o altre forme di criminalità amministrativa) e mafia.
In ogni caso, deve segnalarsi che l’estensione delle misure di prevenzione alle ipotesi di corruzione, tanto più se attuate in forma organizzata, appare coerente con le indicazioni desumibili dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, la quale di recente, ha espresso un giudizio positivo proprio su una fattispecie di confisca civile in rem, avente funzione preventiva e compensatoria, finalizzata all’ablazione della ricchezza accumulata in modo illecito e ingiustificato da persone accusate di gravi forme di criminalità amministrativa, nel quadro di un più ampio disegno di intensificazione della lotta alla corruzione nel settore pubblico (C. eur. dir. uomo, 12.5.2015, Gogitidze e altri c. Georgia).
Un autentico effetto estensivo dell’ambito di applicazione delle misure di prevenzione si è, invece, verificato in relazione sia all’ipotesi della truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (per la quale le misure di prevenzione sono ora applicabili a prescindere dal requisito dell’abitualità, in virtù della prima parte dell’art. 4, co. 1, lett. i-bis), codice antimafia), sia a quella dello stalking (che forma adesso oggetto della specifica previsione contenuta nell’art. 4, co. 1, lett. i-ter, la quale richiede semplicemente la presenza di indizi della commissione di tali delitto, senza che occorra dimostrare – come è, invece, richiesto dal precedente art. 1, co. 1, lett. c)– una più generale dedizione del soggetto alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza e la tranquillità pubblica), sia a quella dell’assistenza agli associati incriminata dall’art 418 c.p. (adesso rientrante nella fattispecie di pericolosità qualificata indicata dall’art. 4, co. 1, lett. b).
Sicuramente apprezzabili sono, poi, le ulteriori innovazioni volte ad accrescere l’effettività del sistema delle misure di prevenzione antiterrorismo.
La fattispecie di pericolosità prevista dall’art. 4, co. 1, lett. d), codice antimafia è stata, infatti, estesa fino a ricomprendere sia gli indiziati di uno dei reati previsti dall’art. 51, co. 3-quater, c.p.p., sia «coloro che, operanti in gruppi o isolatamente, pongano in essere atti preparatori, obiettivamente rilevanti, ovvero esecutivi diretti a sovvertire l’ordinamento dello Stato, con la commissione di uno dei reati previsti dal capo I del titolo VI del libro II del codice penale o dagli articoli 284, 285, 286, 306, 438, 439, 605 e 630 dello stesso codice, nonché alla commissione dei reati con finalità di terrorismo anche internazionale ovvero a prendere parte ad un conflitto in territorio estero a sostegno di un’organizzazione che persegue le finalità terroristiche di cui all’articolo 270-sexies del codice penale». Una analoga indicazione degli “atti esecutivi” è stata aggiunta anche nella successiva lett. f) della norma, riguardante la ricostituzione del partito fascista.
È stato così posto rimedio a una delle più evidenti anomalie della disciplina delle misure di prevenzione antiterrorismo, la quale in passato ha ricevuto una applicazione pratica assai ridotta anche a causa della imperfetta formulazione normativa, che ne confinava l’ambito di operatività ai meri atti preparatori: questi ultimi, secondo la giurisprudenza, dovevano avere una sufficiente riconoscibilità esterna, ma non dovevano comunque raggiungere la soglia della fase esecutiva e neppure integrare gli estremi del tentativo punibile (Cass. pen., 27.3.1984, n. 731, in CED rv. n. 163960). Conseguentemente nel settore del terrorismo la sfera di applicazione delle misure di prevenzione personali e patrimoniali veniva a configurarsi in termini residuali – invece che concorrenti – rispetto all’area di rilevanza penale delle condotte. La nuova formulazione normativa sembra, invece, idonea ad attribuire alle misure di prevenzione antiterrorismo un ruolo corrispondente a quello già sperimentato, con importanti risultati, sul piano del contrasto della criminalità organizzata.
La riforma – pur non avendo accolto la proposta, formulata da ultimo dalla Commissione Gratteri, di attribuire esclusivamente ad organi giurisdizionali il potere di iniziativa nel procedimento di prevenzione – ha introdotto alcune significative innovazioni sul piano della competenza degli organi proponenti.
Mediante una serie di modifiche introdotte negli artt. 5 e 17 del codice antimafia sono stati, infatti, generalizzati a tutte le fattispecie di pericolosità (e non solo a quelle connesse alla criminalità organizzata e al terrorismo) sia il potere di iniziativa spettante al Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, sia quello attribuito al Procuratore distrettuale. Il potere di proposta viene adesso attribuito al Procuratore circondariale in via concorrente rispetto al Procuratore distrettuale, e previo coordinamento con quest’ultimo, limitatamente alle ipotesi di pericolosità di cui all’art. 4, co. 1, lett. c), i), i-bis) e i-ter), codice antimafia).
Con l’inserimento del nuovo co. 3-bis nell’art. 17 è stato, poi, attribuito al Procuratore distrettuale il compito di curare – attraverso il raccordo informativo con il Questore e con il Direttore della Direzione investigativa antimafia relativamente alle misure di prevenzione patrimoniali – che non si arrechi pregiudizio alle attività di indagine condotte anche in altri procedimenti. A questo scopo, si sono imposti al Questore e al Direttore della DIA una serie di obblighi di comunicazione e informazione nei confronti del Procuratore distrettuale (dandogli immediata comunicazione dei nominativi delle persone fisiche e giuridiche nei cui confronti sono disposti gli accertamenti personali o patrimoniali previsti dall’art. 19; tenendolo costantemente aggiornato e informato sullo svolgimento delle indagini; dandogli comunicazione per iscritto della proposta almeno dieci giorni prima della sua presentazione al Tribunale, a pena di inammissibilità della proposta; trasmettendogli, ove si ritenga che non sussistano i presupposti per l’esercizio dell’azione di prevenzione, il relativo provvedimento motivato di “autoarchiviazione” entro dieci giorni dalla sua adozione).
Mediante l’inserimento del nuovo co. 1-bis nell’art. 10 del codice antimafia, è stato predisposto un rilevante meccanismo di raccordo tra gli uffici del p.m. rispettivamente competenti per il primo e il secondo grado di giudizio. Si è, in particolare, stabilito che il Procuratore della Repubblica, oltre a trasmettere il proprio fascicolo al Procuratore generale presso la Corte di appello, deve formare, al termine del procedimento di primo grado, un fascicolo nel quale vengono raccolti tutti gli elementi investigativi e probatori eventualmente sopravvenuti dopo la decisione del Tribunale; gli atti inseriti in tale fascicolo sono portati immediatamente a conoscenza delle parti, mediante deposito nella segreteria del Procuratore generale. È stata così accolta una proposta formulata dalla Commissione Fiandaca, sulla base della constatazione che il procedimento per l’applicazione di misure di prevenzione si avvale frequentemente di elementi probatori scaturenti da fonti nella disponibilità del p.m. di primo grado, mentre nella fase di appello il ruolo della pubblica accusa è rappresentato dal Procuratore generale, organo carente di autonoma capacità investigativa. L’esigenza di sviluppare anche nel giudizio di appello le tematiche probatorie delle misure di prevenzione viene, quindi, soddisfatta con la introduzione di un “fascicolo di collegamento” tra i due gradi del giudizio di merito.
Modificando il testo del co. 4 dell’art. 5 del codice antimafia, la riforma ha attribuito in via esclusiva la competenza territoriale, per i procedimenti di prevenzione, ai Tribunali aventi sede nel capoluogo di ciascun distretto, con la sola eccezione dei Tribunali circondariali di Trapani e di Santa Maria Capua Vetere, cui si è ritenuto di conservare tale compito in considerazione della elevata quantità dei procedimenti ivi pendenti. Si è in tal modo superata la pregressa competenza su base provinciale dell’organo giudicante, che era il portato di un periodo storico nel quale l’iniziativa del procedimento era esercitata essenzialmente da un organo amministrativo – il Questore – con una corrispondente competenza territoriale.
Si tratta di una norma che persegue l’obiettivo di rafforzare la specializzazione del giudice della prevenzione. Un disegno, questo che trova coerente sviluppo nelle ulteriori previsioni attinenti alla organizzazione giudiziaria, contenute nel nuovo testo dell’art. 7 bis, co. 2-sexies, dell’ordinamento giudiziario, dove viene programmata la istituzione, presso tutti i Tribunali distrettuali (nonché presso i due Tribunali circondariali sopra menzionati) e le Corti d’appello, di sezioni o collegi specializzati in materia di misure di prevenzione, composti da almeno tre magistrati, tratti prevalentemente da quelli forniti di specifica esperienza in tale materia o nei reati di criminalità organizzata, o nelle funzioni civili, fallimentari e societarie, in modo da garantire «la necessaria integrazione delle competenze»; tale previsione delinea una multidisciplinarità dell’estrazione (e della preparazione) professionale dei magistrati chiamati a far parte della Sezione misure di prevenzione, in coerenza con le multiformi competenze di quest’organo giudicante.
La riforma ha introdotto nell’art. 7 del codice antimafia diverse nuove disposizioni incidenti sulla struttura del procedimento di prevenzione, che era finora disciplinata in maniera vistosamente lacunosa, tanto da lasciare spazio a prassi molto diverse tra loro, con una netta oscillazione tra la riproposizione di un processo essenzialmente scritto, privo di adeguate garanzie per la difesa, e la contrapposta tendenza a colmare gli “spazi interstiziali” tra le norme mediante l’applicazione dei principi del “processo equo” sanciti a livello costituzionale e internazionale.
Allo scopo di potenziare il “diritto all’informazione” spettante al destinatario dell’azione di prevenzione, si prevede una modifica del co. 2 volta ad includere tra i requisiti dell’avviso dell’udienza fissata dal presidente del collegio la «concisa esposizione dei contenuti della proposta».
Con la modifica del co. 4 viene cancellata l’antiquata disposizione che consentiva all’interessato, se detenuto fuori della circoscrizione del giudice, di essere sentito dal magistrato di sorveglianza competente per territorio prima dell’udienza di prevenzione. In tale ipotesi, il diritto del proposto a partecipare all’udienza viene assicurato, di regola, con il ricorso allo strumento della videoconferenza, lasciando però al Tribunale la facoltà di provvedere diversamente qualora ritenga necessaria la presenza personale della parte. Attraverso la modifica del co. 8 la possibilità di esame mediante videoconferenza, attualmente limitata ai testimoni in senso stretto, viene estesa a tutti i «soggetti informati su fatti rilevanti per il procedimento», quale che sia la loro qualifica processuale, e quindi anche agli imputati in un procedimento connesso o collegato. Una, sia pure sintetica, regolamentazione del “diritto alla prova” spettante alle parti è ora prevista dal co. 4-bis, a norma del quale il Tribunale, dopo l’accertamento della regolare costituzione delle parti, ammette le prove rilevanti, escludendo quelle vietate dalla legge o superflue.
Con i nuovi commi 10-bis, 10-ter e 10quater, viene introdotta nell’art. 7 una apposita regolamentazione dell’incompetenza territoriale, che attualmente nel campo della prevenzione è sottoposta, in modo del tutto irragionevole, ad una regolamentazione molto più rigorosa di quella stabilita, in termini generali, per il processo penale. Il prevalente indirizzo interpretativo sostiene, infatti, che l’incompetenza territoriale del giudice della prevenzione è rilevabile in ogni stato e grado del procedimento, avendo natura funzionale ed inderogabile.
Per evitare che l’incompetenza territoriale costituisca una sorta di “mina vagante”, suscettibile di porre nel nulla procedimenti giunti in grado di appello o al giudizio di legittimità, il progetto di riforma ha adottato una soluzione intermedia tra quelle rispettivamente proposte dalla Commissione Fiandaca e dalla Commissione Garofoli, prevedendo che le questioni concernenti la competenza per territorio del giudice – e quelle riguardanti la legittimazione dell’organo proponente – debbano essere rilevate o eccepite, a pena di decadenza, subito dopo l’accertamento della regolare costituzione delle parti, per essere decise immediatamente dal Tribunale. Alla declaratoria di incompetenza consegue sempre la trasmissione degli atti al Procuratore della Repubblica territorialmente competente; resta esclusa l’inefficacia degli elementi già acquisiti, mentre si stabilisce che il sequestro perda efficacia se entro venti giorni dal deposito del decreto dichiarativo dell’incompetenza il Tribunale competente non provvede ad emettere un nuovo decreto di sequestro. Con l’inserimento del co. 10-quinquies viene prevista la condanna del proposto al pagamento delle spese processuali nel caso di accoglimento, anche parziale, dell’atto introduttivo del procedimento, colmando così una lacuna presente nel tessuto normativo.
La regolamentazione contenuta nei co. 10-sexies, 10-septies e 10-octies stabilisce che il termine di deposito del decreto conclusivo del procedimento di prevenzione, pari ordinariamente a quindici giorni, nei casi di particolare complessità della stesura della motivazione può essere prolungato dal collegio giudicante fino a novanta giorni, prorogabili di altri novanta giorni con provvedimento del presidente del Tribunale. Vengono così recepite le indicazioni della Commissione Fiandaca, cristallizzando nel testo normativo la soluzione accolta, in via interpretativa, da una parte della giurisprudenza di merito (Tribunale di Caltanissetta).
Con alcune modifiche al testo dell’art. 8 e dell’art. 10, viene prevista l’inclusione del difensore tra i destinatari del notifica del provvedimento applicativo della misure di prevenzione, nonché tra i titolari del diritto di proporre appello e ricorso per cassazione. Nel dare attuazione alle indicazioni contenute nella pronuncia di incostituzionalità parziale relativa all’art. 15 del codice antimafia (C. cost., 6.12.2013, n. 291) la regolamentazione contenuta nei nuovi co. 2-bis e 2-ter dell’art. 14 chiarisce che la verifica della persistenza della pericolosità sociale deve essere compiuta d’ufficio dal Tribunale esclusivamente nell’ipotesi in cui la detenzione per espiazione di pena si sia protratta per almeno due anni; in tal caso deve essere attivato un procedimento, da condurre secondo le forme dell’art. 7 in quanto compatibili; nel caso di persistenza della pericolosità sociale, il Tribunale emette decreto con cui ordina l’esecuzione della misura di prevenzione, il cui termine di durata continua a decorrere dal giorno in cui il decreto stesso è comunicato all’interessato. Da tale previsione discende, quindi, implicitamente la sospensione ipso jure dell’esecuzione della misura di prevenzione nel (solo) caso in cui l’interessato sia rimasto detenuto per espiazione di pena per almeno due anni.
Con riguardo al contenuto delle misure di prevenzione personali il testo della riforma stabilisce che il divieto di soggiorno può essere imposto, oltre che in determinati comuni, anche in una o più Regioni (invece che Province). Tra le prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale nell’ipotesi di pericolosità generica descritta dall’art. 1, lett. c), viene poi incluso il divieto di avvicinarsi a determinati luoghi, frequentati abitualmente da minori.
Tra le nuove disposizioni introdotte dalla riforma nel settore delle misure patrimoniali, vanno menzionate:
a) la necessità della citazione, nel procedimento di prevenzione patrimoniale, anche dei terzi titolari di diritti reali di garanzia sui beni in sequestro (art. 23, co. 4);
b) la regolamentazione del rapporto tra il sequestro (totalitario o meno) delle quote sociali e quello dei beni aziendali (art. 20, co. 1; un’analoga disciplina è prevista per la confisca dal co. 1-bis dell’art. 24);
c) la previsione, introdotta nell’art. 20, co. 2, secondo cui, a seguito dell’esercizio dell’azione di prevenzione, il Tribunale, nel caso di incompletezza delle indagini patrimoniali, deve restituire gli atti all’organo proponente, indicando gli ulteriori accertamenti patrimoniali indispensabili per valutare la sussistenza dei presupposti previsti per il sequestro (o delle misure alternative);
d) la rimodulazione del termine di efficacia del sequestro, la cui durata viene ridotta, perché la proroga semestrale può essere disposta per una sola volta, e la sospensione, nel caso in cui nel corso del giudizio si proceda ad accertamenti peritali sui beni, non può eccedere i tre mesi; al contempo, però, si estende la sospensione alle ulteriori ipotesi della ricusazione presentata dal difensore, della citazione degli eredi o aventi causa nei cui confronti prosegue il procedimento nel caso di morte del proposto, della pendenza del termine fissato dalla legge, dal collegio o dal presidente del Tribunale per il deposito del decreto conclusivo del procedimento (v. il nuovo testo del co. 2 dell’art. 24);
e) la previsione (contenuta nel co. 6-bis dell’art. 27, che colma una lacuna legislativa) della decorrenza ex novo del termine di efficacia del sequestro nel caso di annullamento, in sede di impugnazione, del decreto di confisca con rinvio al Tribunale (anche per il caso di declaratoria di incompetenza);
f) la modifica delle competenze per l’apprensione materiale dei beni in sequestro e l’immissione dell’amministratore giudiziario nel possesso degli stessi, che, in coerenza con le indicazioni espresse dalla Commissione Fiandaca, vengono affidate dal nuovo testo dell’art. 21, co. 1, alla polizia giudiziaria, con l’eventuale assistenza dell’ufficiale giudiziario;
g) la introduzione di una articolata disciplina in tema di sgombero degli immobili e liberazione delle aziende in sequestro;
h) la integrazione della regolamentazione, contenuta nell’art. 22, co. 2, della procedura di convalida, ad opera del collegio, del sequestro urgente, disposto dal Presidente del Tribunale, con l’ampliamento a 30 giorni del termine per la convalida;
i) la revisione dei presupposti del sequestro e della confisca di prevenzione per equivalente, che vengono assimilati a quelli ordinariamente valevoli in materia penale, svincolandoli quindi dalla necessaria presenza dei comportamenti elusivi delle misure patrimoniali richiesti dal precedente testo dell’art. 25 del codice antimafia; si riconosce esplicitamente, inoltre, la operatività del sequestro e della confisca di prevenzione per equivalente nei confronti dei successori del proposto, già ammessa dalla prevalente giurisprudenza;
l) la previsione, contenuta nel nuovo testo dell’art. 27, co. 1, dell’impugnabilità del decreto con cui il Tribunale dispone l’applicazione, il diniego o la revoca del sequestro, davanti alla Corte di appello, secondo le forme ordinarie previste per il decreto di confisca; si tratta di una norma di garanzia di particolare importanza, poiché consente di sottoporre la decisione cautelare che applica il vincolo sui beni (o respinge tale richiesta) ad un immediato controllo affidato, con pienezza di poteri di cognizione, ad un giudice diverso da quello che ha emesso il relativo provvedimento, così come avviene in materia penale; viene così superata la attuale inadeguata limitazione degli strumenti di reazione giuridica contro la decisione cautelare, suscettibile di formare oggetto soltanto di opposizione davanti allo stesso giudice, nelle forme dell’incidente di esecuzione, con successivo ricorso per cassazione per violazione di legge;
m) la esplicita enunciazione della regola, già affermata dalla giurisprudenza (Cass. pen., S.U., 29.5.2014, n. 33451, in CED rv. n. 260244), secondo cui il proposto non può giustificare la legittima provenienza dei beni allegando che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale;
n) il riconoscimento, inserito nell’art. 31, co. 3, dell’ammissibilità della rateizzazione del versamento della cauzione sulla base di una valutazione delle condizioni economiche del soggetto;
o) la integrazione della disciplina della revocazione della confisca, per la quale si prevede la individuazione della Corte d’appello competente secondo i criteri di cui all’art. 11 c.p.p. e si attribuisce alla stessa Corte il compito di provvedere direttamente alla restituzione per equivalente.
Uno degli aspetti più innovativi della riforma è costituito dalla valorizzazione di strumenti di bonifica aziendale in alternativa a quelli ablatori sul versante delle strategie di intervento contro le infiltrazioni criminali nelle attività imprenditoriali. Tale disegno viene perseguito attraverso la riscrittura della disciplina, contenuta nell’art. 34, dell’amministrazione giudiziaria dei beni connessi ad attività economiche e delle aziende, e la introduzione della nuova misura del controllo giudiziario delle aziende, prevista dal successivo art. 34 bis.
In particolare, in base alle modifiche introdotte nel testo degli artt. 20, 24 e 34, la misura dell’amministrazione giudiziaria dei beni connessi ad attività economiche e delle aziende può seguire anche gli accertamenti compiuti ai sensi dell’art. 6 d.lgs. n. 163/2006 (codice dei contratti pubblici) dall’Autorità nazionale anticorruzione (oltre che le ordinarie indagini patrimoniali e gli accertamenti compiuti per verificare i pericoli di infiltrazione mafiosa); può essere applicata anche d’ufficio dal Tribunale qualora non si ravvisino i presupposti per il sequestro o la confisca nel corso del procedimento di prevenzione patrimoniale; vede ampliato il proprio ambito applicativo in quanto trova il proprio fondamento anche in una serie di ipotesi ulteriori rispetto a quelle già indicate nella precedente formulazione dell’art. 34; ha una durata iniziale fino ad un anno, e presenta una durata massima raddoppiata (due anni) rispetto a quella della normativa previgente.
Sulla base delle indicazioni espresse dalla Commissione Fiandaca, il progetto di riforma ha delineato nell’art. 34 bis la misura, del tutto nuova, del controllo giudiziario delle attività economiche e delle aziende, applicabile in presenza di due presupposti: da un lato, la occasionalità dell’agevolazione ex art. 34 prestata dalle predette attività economiche e aziende; dall’altro lato, il pericolo concreto di infiltrazioni mafiose idonee a condizionarne l’attività.
Il controllo giudiziario può essere disposto dal Tribunale, anche d’ufficio, sia contestualmente alla decisione che revoca la misura dell’amministrazione giudiziaria dei beni connessi ad attività economiche e delle aziende, sia nell’ambito del procedimento di prevenzione patrimoniale, qualora non si ravvisino i presupposti per il sequestro o la confisca.
La misura, la cui durata varia da un anno a tre anni, può presentare un duplice contenuto: il Tribunale, infatti, può limitarsi a imporre all’azienda oneri comunicativi nei confronti dell’autorità giudiziaria e di polizia, oppure nominare un amministratore giudiziario che, sotto la guida del giudice delegato, attui una “vigilanza prescrittiva” finalizzata a munire l’attività imprenditoriale dei presidi occorrenti per tenerla indenne dal condizionamento mafioso; in tal caso il Tribunale stabilisce i compiti dell’amministratore giudiziario e può imporre numerosi obblighi tendenti a rendere effettivo il controllo, disponendo specifici accertamenti diretti alle necessarie verifiche. La regolamentazione delle due misure previste dagli artt. 34 e 34 bis è ispirata ad una moderna logica di recupero alla legalità delle imprese e di graduazione dell’intervento preventivo in rapporto alle diverse modalità concrete di esplicazione del rapporto tra attività economiche e ambienti criminali. Come è stato rilevato in dottrina1, questi due istituti potrebbero conferire all’intero sistema delle misure di prevenzione patrimoniale quella flessibilità di intervento necessaria al fine di definire meglio il contrasto alle infiltrazioni mafiose nell’economia lecita nel rispetto del principio di proporzione e di minor invasività possibile nel libero esercizio dell’impresa.
Il titolo IV del libro I del codice antimafia è dedicato, tra l’altro, alla tutela dei terzi nell’ambito della procedura di prevenzione patrimoniale. Si tratta di una tematica che ha subito l’influsso novativo della riforma, sebbene – in qualche occasione – l’intervento del legislatore si sia risolto in un mero maquillage linguistico-espressivo.
Con riferimento alla tutela dei terzi creditori ex art. 52, certamente sostanziale deve considerarsi, al co. 1, lett. a), la sostituzione dell’onere – gravante sul creditore chirografario istante – di preventiva escussione del restante patrimonio del proposto con il diverso presupposto della mera mancanza, in capo a quest’ultimo, di «altri beni sui quali esercitare la garanzia patrimoniale idonea al soddisfacimento del credito». Si tratta di una novità apprezzabile, in quanto affranca il creditore da una probatio a tratti diabolica per la verosimile inconciliabilità dei tempi della escussione infruttuosa, peraltro onerosa per il creditore, con quelli della verifica dei crediti.
Appare scevra di particolare rilevanza euristica, per converso, la modifica della lett. b) del co. 1, laddove – nell’ipotesi di strumentalità del credito rispetto all’attività illecita del proposto o a quella che ne costituisce il frutto o il reimpiego (mancanza della cd. buona fede oggettiva) – esprime la clausola di salvezza afferente lo stato soggettivo del creditore (cd. buona fede soggettiva) non più nel senso dell’onere, in capo a quest’ultimo, di dimostrare di «avere ignorato in buona fede il nesso di strumentalità», ma di provare «la buona fede e l’inconsapevole affidamento», essendo indubbio, ora come allora, il riferimento alla ignoranza scusabile circa la situazione apparente del debitore2. Costituisce, invece, una novità la previsione della comunicazione, alla Banca d’Italia, del provvedimento definitivo di rigetto della domanda di ammissione del credito per difetto della buona fede nella concessione del credito da parte di soggetto sottoposto alla sua vigilanza (co. 3bis dell’art. 52 cit.), oltre che la erosione, all’art. 53, del limite della garanzia patrimoniale dei creditori (pari, com’è noto, al 60 per cento del valore dei beni sequestrati o confiscati) mediante l’assottigliamento della soglia per effetto della previa decurtazione «delle spese del procedimento di confisca nonché di amministrazione dei beni sequestrati e di quelle sostenute nel procedimento» di verifica dei crediti.
Di matrice pretoria è la norma contenuta nel neointrodotto art. 54 bis, che, nel rispetto dei vincoli autorizzatori giudiziali propri dell’attività di straordinaria amministrazione, prevede, da parte dell’amministratore giudiziario, il pagamento «anche parziale o rateale», al di fuori della verifica dei crediti, dei debiti anteriori al sequestro, se essi afferiscono a «prestazioni di beni o servizi … collegate a rapporti commerciali essenziali per la prosecuzione dell’attività» (co. 1). Si tratta di una norma che, in via derogatoria rispetto alla regola generale della posticipazione dei pagamenti dei debiti pregressi, previa opportuna verifica, consente all’amministratore giudiziario di assicurarsi, con il pagamento tendenzialmente immediato, la stabilità dei collaudati rapporti di forniture (acqua, luce, etc.), qualora indispensabili per il mantenimento in vita dell’attività oggetto di ablazione.
Al medesimo fine, inoltre, il Tribunale, nel programma di prosecuzione o ripresa dell’attività in sequestro di cui all’art. 41, «può autorizzare l’amministratore giudiziario a rinegoziare le esposizioni debitorie dell’impresa e a provvedere ai conseguenti pagamenti» (co. 2).
Al di fuori di questa ipotesi eccezionale, proprio in ragione del necessario accertamento contestuale di tutte le pregresse posizioni creditorie nell’apposita fase della verifica, l’art. 55 continua a prevedere l’inibizione delle azioni esecutive individuali sui beni oggetto di sequestro, azioni che, se già pendenti, ora sono dichiarate espressamente sospese (co. 2). Nella procedura di verifica dei crediti, inoltre, che non può più essere effettuata «anche prima della confisca», ma soltanto «dopo il deposito della confisca di primo grado», è ridotto da novanta a sessanta giorni il termine per la presentazione delle istanze creditorie, mentre il termine – ordinatorio – per la fissazione dell’udienza è passato dai trenta ai sessanta giorni successivi (così il nuovo co. 2 dell’art. 57). Centrale appare, dopo la riforma, il ruolo dell’amministratore giudiziario, il quale, a norma del neointrodotto co. 5-bis dell’art. 58, «esamina le domande e redige un progetto di stato passivo rassegnando le proprie motivate conclusioni sull’ammissione o sull’esclusione di ciascuna domanda». Deposita, infine, ai sensi del successivo co. 5-ter, almeno venti giorni prima dell’udienza fissata per la verifica dei crediti, il progetto di stato passivo, con facoltà, per i creditori e i titolari dei diritti sui beni oggetto di confisca, di presentare osservazioni scritte e di depositare documentazioni aggiuntive fino a cinque giorni prima dell’udienza, termine presidiato dalla sanzione della decadenza.
La cesura temporale alle interlocuzioni delle parti, peraltro sulla base della fissazione di un termine notevolmente breve, appare ispirata ad un principio di rapida spedizione della procedura, che si riflette – coerentemente – nella disciplina del giudizio di impugnazione o di opposizione aventi ad oggetto rispettivamente il provvedimento di ammissione o esclusione del credito del giudice delegato. Nel giudizio di gravame, infatti, il legislatore della riforma ha imposto la stenosi dei canali istruttori mediante l’affermazione della tendenziale cristallizzazione del materiale probatorio acquisito. All’udienza, invero, ciascuna parte non può più «chiedere l’acquisizione di ogni elemento utile e proporre mezzi di prova», potendo soltanto produrre «documenti nuovi» se «prova di non esserne venuta in possesso tempestivamente per causa alla parte stessa non imputabile» (co. 8 dell’art. 59).
La novità della riforma appare dirompente, sotto il profilo dello “strozzamento” della prova, non solo per l’ammissione del novum esclusivamente nell’ipotesi di impossibilità di pregressa acquisizione ad opera della parte, ma anche per il troncamento di ogni ulteriore mezzo di prova, essendo il predetto novum – incomprensibilmente – limitato alla prova documentale, con esiti aprioristicamente preclusivi di prove non documentali, quand’anche di impossibile pregressa acquisizione (co. 8).
Sostanzialmente soppressa, o comunque notevolmente emarginata, la rinnovazione della fase istruttoria, il legislatore della riforma abroga la previsione di un termine, in esito alla stessa, per il deposito di memorie ad opera delle parti.
Al pagamento dei creditori e, se necessario, alla previa vendita dei beni ablati procede adesso l’Agenzia «dopo l’irrevocabilità del provvedimento di confisca», con una soluzione del tutto inedita rispetto alla pregressa collocazione della liquidazione dei beni, affidata all’amministratore giudiziario, a conclusione dell’udienza di verifica (art. 60). A beneficio del soddisfacimento dei creditori, il legislatore della riforma ha altresì previsto la possibilità di differimento della vendita dei beni (ma non oltre l’anno dalla irrevocabilità del provvedimento di confisca) la cui redditività, ove ulteriormente amministrati, può ampliare i margini di solvenza (cfr. il nuovo co. 1 dell’art. 60). Al medesimo fine l’Agenzia, ai sensi del co. 4 dell’art. 60, può sospendere la vendita non ancora conclusa ove pervenga offerta irrevocabile d’acquisto migliorativa per un importo non inferiore al 10 per cento del prezzo offerto. In maniera congruente rispetto alla scelta di posticipare la liquidazione e il pagamento dei creditori, con conseguente migrazione dei relativi adempimenti dall’amministratore giudiziario all’Agenzia, è quest’ultima, e non più il primo, che «redige il progetto di pagamento dei crediti», al di fuori di ogni superato potere di interferenza correttiva del giudice delegato, il quale, tra l’altro, non «determina [più] il piano di pagamento», compito – quest’ultimo – parimenti affidato all’Agenzia (art. 61).
A fronte dell’eclissi del giudice delegato nella fase del progetto e in quello del piano di pagamenti dei crediti, anche il mezzo di impugnazione avverso tale ultimo atto cambia radicalmente, sicché l’opposizione al Tribunale della prevenzione cede il passo alla opposizione innanzi alla sezione civile della relativa Corte di appello, così introducendosi i primi elementi suggestivi di una progressiva “civilizzazione” della procedura.
La riforma ha, inoltre, inciso sulla disciplina dei rapporti tra procedura di prevenzione patrimoniale e fallimento contenuta negli artt. 63 e 64 del codice antimafia, rispettivamente dedicati alla dichiarazione di fallimento successiva al sequestro e al sequestro successivo alla dichiarazione di fallimento.
Orbene, nel ribadire, in entrambi i casi, il principio della prevalenza della procedura di prevenzione su quella fallimentare, con conseguente chiusura di quest’ultima se la massa attiva fallimentare non comprende beni ulteriori rispetto a quelli appresi in sede prevenzionale, nella disciplina della riforma il baricentro della verifica dei crediti inerenti i beni oggetto di sequestro, da condursi ai sensi dell’art. 52 cit. (accertamento della buona fede ecc.), si sposta dal giudice fallimentare a quello della prevenzione.
Segnatamente, con il nuovo co. 4 l’art. 63 attribuisce al giudice delegato della prevenzione la verifica di tali crediti («Quando viene dichiarato il fallimento, i beni assoggettati a sequestro o confisca sono esclusi dalla massa attiva fallimentare. La verifica dei crediti e dei diritti inerenti ai rapporti relativi ai suddetti beni viene svolta dal giudice delegato del tribunale di prevenzione nell’ambito del procedimento di cui agli articoli 52 e seguenti»), pur mantenendo, al co. 5, l’analogo e concorrente potere in capo al giudice delegato al fallimento, sia con riguardo ai rapporti inerenti ai beni in sequestro sia con riferimento a tutti gli altri crediti reclamati in sede fallimentare («Nel caso di cui al comma 4, il giudice delegato al fallimento provvede all’accertamento del passivo e dei diritti dei terzi nelle forme degli articoli 92 e seguenti del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, verificando altresì, anche con riferimento ai rapporti relativi ai beni sottoposti a sequestro, la sussistenza delle condizioni di cui all’articolo 52, comma 1, lettere b), c) e d) e comma 3 del presente decreto»). Le ragioni per cui l’attribuzione della verifica ex art. 52 cit. al giudice della prevenzione non abbia comportato la soppressione di analogo adempimento in capo al giudice del fallimento non sono agevolmente comprensibili, specie se si considera che quest’ultimo finirebbe per ammettere crediti che, quand’anche correlati ai beni in sequestro, non verrebbero soddisfatti mediante la erosione del compendio sequestrato, ma mediante la liquidazione dei beni della massa fallimentare.
Le riserve esposte si alimentano di ulteriori sfumature opacizzanti se si esamina la portata dell’intervento novatore sul successivo art. 64, ove la scelta di eleggere il terreno della prevenzione quale sede naturale per la verifica dei crediti ex art. 52 è improntata ad una più spiccata discontinuità rispetto alle soluzioni normative pregresse.
Infatti, il nuovo art. 64, nel disciplinare il sequestro successivo alla dichiarazione di fallimento, inverte la precedente scelta legislativa di rimettere comunque al giudice del fallimento la predetta verifica, attribuendo esclusivamente al giudice della prevenzione il compito di esperirla (co. 2, nel testo riformato: «Salvo quanto previsto dal comma 7, i crediti e i diritti inerenti ai rapporti relativi ai beni sottoposti a sequestro, ancorché già verificati dal giudice del fallimento, sono ulteriormente verificati dal giudice delegato del tribunale diprevenzione ai sensi degli articoli 52 e seguenti.»). È in un solo caso che la verifica può essere esperita in entrambe le sedi: se il giudice del fallimento vi abbia proceduto prima del sequestro (ovviamente secondo i criteri fallimentari, e non quelli “prevenzionali” di cui all’art. 52). In questo caso, tuttavia, il riconoscimento di una competenza esclusiva in capo al giudice delegato della prevenzione impone la ripetizione della verifica da parte di quest’ultimo, stavolta nel rispetto dei parametri di cui all’art. 52.
Di notevole rilievo sono le innovazioni attinenti all’amministrazione dei beni sequestrati, che, al fine di garantire la necessaria continuità delle scelte di gestione, viene adesso attribuita all’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata soltanto a seguito del provvedimento di confisca emesso dalla Corte di appello (e non più dalla conclusione del primo grado di giudizio).
La dotazione organica dell’Agenzia è ora determinata in duecento unità complessive, introducendo una serie di modifiche strutturali e organizzative.
La gamma dei soggetti cui il Tribunale può affidare l’incarico di amministratore giudiziario è stata ampliata dalla riforma, che ha previsto la possibilità di nomina anche di personale dipendente dell’Agenzia o (per le aziende di straordinario interesse socio-economico e le aziende concessionarie pubbliche o che gestiscono pubblici servizi) dalla società Invitalia Spa, senza diritto ad emolumenti aggiuntivi, oltre che degli iscritti nell’Albo nazionale degli amministratori giudiziari (per i quali occorre seguire criteri di trasparenza che assicurano la rotazione degli incarichi, tenuto conto della natura e dell’entità dei beni in sequestro, delle caratteristiche dell’attività aziendale da proseguire e delle specifiche competenze connesse alla gestione).
Sulla base delle problematiche evidenziate da una serie di indagini giudiziarie, ed evidenziate anche nei lavori parlamentari (si vedano, in particolare, le proposte formulate nel corso delle audizioni svolte il 19 maggio 2016 presso la Commissione giustizia del Senato, in cui si è posta in risalto l’esigenza di evitare qualsiasi rapporto di cointeressenza economica tra gli amministratori giudiziari, i loro coadiutori e collaboratori, da un lato, e la famiglia del magistrato e del personale di cancelleria destinato ad assisterlo, dall’altro), la riforma ha previsto, mediante la riformulazione dell’art. 35 del codice antimafia, una specifica regolamentazione che incide sulla scelta dell’amministratore giudiziario da parte del Tribunale, con un sistema di incompatibilità volto a garantire la trasparenza dell’amministrazione della giustizia. Particolarmente significativa, al riguardo, risulta la nuova norma contenuta nell’ultima parte del co. 3 dell’art. 35, che esclude che possano assumere l’ufficio di amministratore giudiziario, ovvero quelli di coadiutore o diretto collaboratore del medesimo, i creditori o debitori del magistrato che conferisce l’incarico, del suo coniuge o dei suoi figli, come pure le persone legate da uno stabile rapporto di collaborazione professionale con il coniuge o i figli dello stesso magistrato, nonché i prossimi congiunti, i conviventi, i creditori o debitori del dirigente di cancelleria.
A questa regolamentazione direttamente prevista dalla legge, ed ispirata a criteri del tutto ragionevoli, è destinata ad aggiungersi una ulteriore disciplina di dettaglio che sarà inserita in un decreto ministeriale, volto ad individuare «criteri di nomina degli amministratori giudiziari e dei coadiutori che tengano conto del numero degli incarichi aziendali in corso, comunque non superiore a tre». Tale limite, in effetti, appare incongruo in quanto, prescindendo da ogni profilo qualitativo, finisce per equiparare irragionevolmente situazioni del tutto diverse (i tre incarichi aziendali potrebbero riguardare altrettante multinazionali o, all’inverso, piccolissime imprese individuali), e potrebbe disincentivare professionisti esperti dall’assumere incarichi “minori” ma per i quali si richiede una collaudata competenza e una totale estraneità al contesto socioeconomico locale. Si corre, per questa via, il rischio di provocare una dispersione, invece che una diffusione, delle competenze professionali già accumulate in un settore estremamente complesso.
Positive appaiono, per converso, le nuove disposizioni che offrono un esplicito riconoscimento alla prassi orientata verso la possibilità di nomina di più amministratori giudiziari (operanti congiuntamente o disgiuntamente, secondo le scelte del Tribunale) nei casi di particolare complessità della gestione, e che consentono all’amministratore giudiziario di organizzare, sotto la sua responsabilità, un proprio ufficio di coadiuzione (art. 35, co. 1 e 4).
Di particolare interesse è pure la nuova disciplina finalizzata ad assicurare la continuità dell’attività delle aziende sequestrate, previa valutazione della effettiva possibilità di prosecuzione dell’attività di impresa.
In questa prospettiva, è stato riformulato l’art. 41 del codice antimafia, in forza del quale, nel caso di sequestro di aziende, l’amministratore giudiziario deve depositare, oltre alla relazione particolareggiata sui beni, anche un’ulteriore relazione contenente una dettagliata analisi sulla sussistenza di concrete possibilità di prosecuzione o di ripresa dell’attività. All’eventuale proposta di prosecuzione o di ripresa dell’attività devono essere allegati un programma contenente la descrizione analitica delle modalità e dei tempi di adempimento della medesima proposta, e l’elenco nominativo dei creditori, di coloro che vantano diritti reali o personali, di godimento o di garanzia sui beni, e delle persone che risultano prestare attività lavorativa in favore dell’impresa. Tale proposta deve essere esaminata dal Tribunale in camera di consiglio con la partecipazione del p.m., dei difensori delle parti, e dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati e dell’amministratore giudiziario, che vengono sentiti se compaiono. Se la proposta viene approvata, il Tribunale impartisce le direttive necessarie e, in virtù del nuovo art. 54 bis, può autorizzare l’amministratore giudiziario a rinegoziare le esposizioni debitorie dell’impresa e a provvedere ai conseguenti pagamenti. Inoltre, l’amministratore giudiziario può chiedere al giudice delegato di essere autorizzato al pagamento dei crediti per prestazioni di beni o servizi che siano collegate a rapporti commerciali essenziali per la prosecuzione dell’attività. Si tratta di una deroga di notevole rilievo rispetto alla disciplina che, in termini generali, differisce il pagamento dei crediti sorti prima del sequestro fino alla conclusione del procedimento di verifica della buona fede.
La riforma può essere considerata come un primo, importante passo in direzione della modernizzazione della disciplina delle misure di prevenzione, che è essenziale per la costruzione di un sistema di contrasto alla criminalità organizzata capace di far compiere un vero e proprio salto di qualità sul piano della considerazione internazionale della realtà giudiziaria italiana. Il processo di rinnovamento così avviato richiede, però, una serie di ulteriori sviluppi. Oltre ai temi che hanno formato oggetto dei puntuali rilievi espressi dal Capo dello Stato in sede di promulgazione della legge (segnatamente, il monitoraggio degli effetti applicativi della disciplina, previsto dall’ordine del giorno approvato dalla Camera dei deputati nella seduta del 27 settembre 2017, e l’esigenza di assicurare rapidamente una stabile conformazione dell’ordinamento interno agli obblighi comunitari quanto all’area di operatività della confisca “allargata” prevista dall’art. 12 sexies d.l. n. 306/1992, conv. nella l. n. 356/1992), si rendono necessari alcuni interventi normativi volti a rimuovere le incongruenze già segnalate (tra cui quella, di notevole rilevanza pratica, connessa al limite quantitativo degli incarichi di amministrazione giudiziaria), e, soprattutto, un organico disegno riformatore diretto al perseguimento di tre fondamentali finalità:
a) la compiuta realizzazione di un “giusto processo di prevenzione” (che richiede una dettagliata disciplina relativa all’esercizio del diritto alla prova, alle modalità di conduzione dell’attività istruttoria, al regime di conoscibilità degli atti formati dall’accusa);
b) il rafforzamento della tutela dei diritti fondamentali nella fase di esecuzione delle misure di prevenzione, in modo da salvaguardare il principio di proporzionalità e le esigenze di risocializzazione anche in questa materia;
c) la modernizzazione delle prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale in modo da apprestare una reazione mirata agli specifici aspetti di pericolosità insiti nell’attuale fenomeno terroristico e in altri fenomeni criminali che trovano un terreno privilegiato di manifestazione e diffusione nelle reti informatiche.
Sembra questo il percorso più fruttuoso per potenziare la collaborazione giudiziaria internazionale nel settore della prevenzione personale e patrimoniale, evitando alla radice il rischio della imposizione di “pene del sospetto”, e valorizzando intensamente le potenzialità del codice antimafia nel quadro della costruzione di un diritto penale postmoderno, capace di superare il vecchio modello “individualistico” fondato su un orizzonte statocentrico e sul primato della pena detentiva, per indirizzarsi decisamente verso la percezione della natura collettiva e della dimensione economica dei più gravi fenomeni criminali, la progressiva diversificazione dei modelli di intervento dello Stato, l’inserimento nella dinamica del diritto comune europeo e nel più ampio scenario delle molteplici forme di controllo e di reazione proprie del sistema socio-istituzionale.
1 Visconti, C., Approvate in prima lettura dalla Camera importanti modifiche al procedimento di prevenzione patrimoniale, in www.penalecontemporaneo.it, 23.11.2015.
2 Cass. pen., 2.3.2017, n. 25505, in CED rv. n. 270028.