La riforma dell'avocazione del Procuratore generale
Con la l. n. 103/2017 (art. 1, co. 30) sono stati modificati gli artt. 407 e 412 c.p.p., così novellando presupposti e modalità dell’avocazione cd. obbligatoria da parte del Procuratore generale della Corte d’appello per il caso di inerzia del pubblico ministero in ordine alle determinazioni finali dell’attività di indagine. Si tratta di una modifica di particolare rilievo, per gli ovvi risvolti ordinamentali che implica e per i diversi equilibri di gerarchia tra uffici requirenti che innesta. Il tutto, peraltro, in presenza di una littera legis non sempre univoca, precisa ed aperta, pertanto, a plurime soluzioni ermeneutiche, tutte soggette anche ad un realistico confronto con le pratiche possibilità attuative del novellato istituto.
Nel sistema processuale, l’inerzia nelle indagini da parte del pubblico ministero trova rimedio nella previsione di un termine di esse e nella sanzione dell’inutilizzabilità degli atti di investigazione compiuti oltre. L’inerzia nella decisione del p.m. in ordine alle indagini – vale a dire nella determinazione circa l’azione o inazione da esercitare in esito alle investigazioni – è invece tamponata con l’avocazione cd. “obbligatoria” (assai meno tale, come si dirà, ad un’analisi più approfondita) del Procuratore generale presso la Corte d’appello, ai sensi dell’art. 412 c.p.p. Nell’ampio quadro della riforma Orlando, una sfumatura innovativa, limitata ma intensa, ha interessato proprio questo particolare istituto: irrilevante agli occhi dei più (come dimostra l’inesistenza di particolari attenzioni dottrinali), ma assai delicato per una serie di profili, di ordine processuale – per la dinamica dell’esito delle indagini; ordinamentali – per i rapporti di “gerarchia” tra uffici requirenti di grado diversi; organizzativi – per la capacità/idoneità di un inquirente non deputato alle indagini e chiamato nondimeno a svolgerne, in emergenza, l’ultimo segmento; e, persino, costituzionali, venendo in rilievo profili sintomatici dell’esercizio dell’azione in relazione ai criteri di priorità di trattazione dei procedimenti. Un potere surrogatorio – quello pensato dalla riforma – che vuole preservare l’efficienza “procedimentale” e, dunque, la ragionevole durata del processo, poiché, nel rito, tutto si tiene assieme: evitare i “tempi morti” dopo l’indagine, allontanare una stasi i cui effetti si avvertiranno dopo, sotto la mannaia della prescrizione, e garantire certezza della cadenza temporale tra la loro conclusione (o la scadenza dei loro termini) e l’esito che esse determinano. Evitare soprattutto, in punto di garanzia individuale, che lo status di indagato di un soggetto perduri al di là di ogni necessità investigativa. Come il termine dell’indagine è certo, egualmente certo e prevedibile dovrà essere il segmento temporale che segue tale scadenza; ai tempi certi dell’indagine, si vuole che seguano, in parallelo, i tempi certi delle determinazioni del p.m. conseguenti all’indagine. Si vuole, insomma, una concatenazione senza soluzione di continuità: il “procedimento”, come il “processo”, è, anche etimologicamente, un andare avanti per sequenze senza sosta.
Tali obiettivi sono stati perseguiti attraverso una disposizione della riforma (l’art. 1, co. 30, l. 23.6.2017, n. 103) che ha aggiunto il comma 3-bis all’art. 407 c.p.p. e sostituito il comma 1 dell’art. 412 c.p.p. La prima interpolazione sancisce l’obbligo del p.m di esercitare l’azione penale o di richiedere l’archiviazione «entro tre mesi dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini» (entro quindici mesi per indagini riguardanti i reati particolarmente complessi e gravi, di cui al comma 2, lett. a, nn. 1, 3 e 4 del medesimo art. 407) e «comunque dalla scadenza dei termini di cui all’art. 415 bis». Tale spatium deliberandi, prima della sua scadenza, può essere prorogato, su richiesta del p.m. titolare dell’indagine, dal Procuratore generale presso la Corte d’appello, ma per non più di tre mesi. Qualora il p.m. titolare dell’indagine «non assuma le proprie determinazioni in ordine all’azione penale nel termine stabilito» come sopra, egli ne dovrà «dare immediata comunicazione al Procuratore generale presso la corte di appello». Il riformulato primo comma dell’art. 412 c.p.p., dal canto suo, prevede che il Procuratore generale, se il p.m. «non esercita l’azione penale o non richiede l’archiviazione nel termine previsto dall’art. 407, comma 3 bis, dispone, con decreto motivato, l’avocazione delle indagini preliminari». Il meccanismo – che si applica ai procedimenti penali iscritti dopo l’entrata in vigore della l. n. 103/2017, avvenuta il 3 agosto 2017 − appare piano e quasi elementare nelle cadenze: al p.m. che indaga è concesso un termine trimestrale (che può essere raddoppiato su richiesta) dopo la scadenza «del termine massimo delle indagini» per adottare il provvedimento terminativo (esercizio dell’azione o richiesta di archiviazione); trascorso inutilmente tale limite temporale, egli ha l’obbligo di informarne il Procuratore generale e quest’ultimo dispone, con decreto motivato, l’avocazione delle indagini. In realtà, i problemi ermeneutici – com’è proprio delle cose in apparenza lineari – sono molteplici e complessi e la loro ragionevole soluzione non semplice: e, nondimeno, indispensabile a schivare il rischio di trasformare la riforma dell’avocazione in una mostruosità partorita da una ragione processuale dormiente. Occorre, cioè, davvero grande prudenza e pazienza ermeneutica (anche a costo, ça va sans dire, di fare oscillare paurosamente la lettera della legge) per evitare che una sussidiarietà contro un’inerzia – e, dunque, uno strumento di accelerazione dell’indagini – si risolva in un ingorgo paralizzante delle indagini stesse, del tutto estraniante rispetto al valore della durata ragionevole.
La prima asperità ermeneutica – quella apicale e decisiva – è stabilire se il Procuratore generale della Corte d’appello (d’ora in avanti: p.g.) abbia l’obbligo di avocare o piuttosto se eserciti un potere sia pure a discrezionalità “stretta”. Se, cioè, l’avocazione sia automatica e legata al solo presupposto dello sforamento dei termini introdotti dalla riforma o se – ricevuta la comunicazione da parte del p.m. sull’avverarsi di tale circostanza – residui in capo al p.g., ex art. 412, co. 1, c.p.p., una specifica valutazione sul “caso concreto”. Ermeneutica, quest’ultima, che parrebbe depotenziare molto gli obiettivi della riforma: il pericolo – evidente − è, infatti, di procrastinare ulteriormente la determinazione circa l’esercizio dell’azione, persino offrendo “copertura” legale all’ulteriore dilazione di un segmento temporale non irrilevante (sei o diciotto mesi) e con tutta l’incertezza che qualcosa dopo effettivamente “accada” quanto alla determinazione finale. La riforma, così, avrebbe partorito un’inezia: il suo effetto di novità rispetto al passato sarebbe, paradossalmente, solo quello di aver differito l’intervento avocante del p.g. dopo la concessione di un ulteriore “termine di grazia”. Non senza considerare che i “cancelli della parola” parrebbero univoci e senza aperture: il costrutto verbale della disposizione (il p.g. «dispone con decreto motivato l’avocazione») appare sintagma univoco nel denotare un precetto imperativo ed automatico, privo di scelta. Nondimeno, a fronte di tali assunti, non mancano argomenti importanti – ed alla fine, come si vedrà, dirimenti – di segno contrario, che portano a preferire l’alternativa interpretativa della non obbligatorietà: verso la quale, d’altra parte, si sono concordemente indirizzati pressoché tutti gli uffici di procura generale dei distretti di Corte d’appello italiani.1 Gli argomenti sono di varia natura. Innanzitutto, di carattere storico: nel sistema antecedente alla riforma – che pure astrattamente configurava, anch’esso, una obbligatorietà di avocazione in capo al p.g. – la Corte di cassazione aveva chiarito, in punta di penna, che il decorso del termine per il compimento delle indagini preliminari, senza che il Procuratore generale avesse esercitato il suo potere di avocazione ex art. 412, co. 1, c.p.p., non determinasse la decadenza del pubblico ministero dal potere di esercitare l’azione penale (cfr. Cass. pen., sez. VI, 20.3.2009, n. 19833, in CED rv. n. 24383901, Cavallo, che richiama Cass. pen., sez. II, 4.4.2006, n. 17240, in CED rv. n. 234755, Luca, e Cass. pen., sez. III, 7.7.1995, n. 2691, in CED rv. n. 203474, Imerito): così qualificando come potere un’avocazione che, allora come oggi, era costruita normativamente in termini di obbligo. Insomma, una degradazione per via giurisprudenziale, sia pure attraverso brevi passaggi definitori. Conclusione, questa, che d’altronde trovava corrispondenza nella prassi. Invero, a fronte dei cospicui elenchi settimanali trasmessi – secondo il “vecchio” sistema ex art. 127 disp. att. c.p.p. (norma che tuttavia rimane vigente e, con essa, il parallelo meccanismo di informazione) − dalla segreteria del p.m. al p.g. delle notizie di reato «per le quali non è stata esercitata l’azione penale o richiesta l’archiviazione entro il termine previsto dalla legge o prorogati dal giudice», non risultava attuata una sistematica attività avocativa da parte delle Procure generali presso le Corti d’appello. Detto altrimenti, è sufficiente il confronto tra il dato numerico dei procedimenti segnalati (settimanalmente) come scaduti e quello delle avocazioni disposte per essere edotti che nessuno dei vertici requirenti distrettuali abbia mai considerato l’avocazione ex art. 412 c.p.p. come davvero obbligatoria: e ci fin dagli albori del codice Vassalli. D’altra parte, sempre prima della riforma Orlando, anche l’Organo di autogoverno della Magistratura affermava, in maniera più che esplicita, la non automaticità ed obbligatorietà dell’avocazione, auspicando, a proposito della selezione dei procedimenti oggetto di avocazione delle procure generali, l’adozione di «criteri trasparenti e predeterminati per un corretto esercizio del potere di avocazione che, per l’entità dei procedimenti astrattamente rientrabili nell’àmbito della previsione normativa, non potrà essere massivamente esercitata per la carenza di mezzi strutturali di tali uffici» (C.S.M., delibera dell’11 maggio 2016, Linee guida in materia di criteri di priorità e gestione dei flussi di affari – Rapporti fra uffici requirenti e uffici giudicanti)2. Un sano realismo interpretativo, dunque. a tale importante ed univoca “tradizione” del meccanismo dell’istituto – oltremodo rilevante, ma non decisiva di fronte ad una riforma dell’istituto – si aggiungono tuttavia ulteriori argomenti sistematici. Primo fra tutti quello, testuale, secondo cui il p.g. provvede «con decreto motivato». Se, infatti, la surrogazione nella titolarità delle indagini fosse esito automatico del decorso di un termine, del tutto ridondante ed illogica risulterebbe la motivazione del provvedimento avocativo. Sufficiente sarebbe, viceversa, la constatazione dell’avvenuto superamento del limite temporale: insomma, la presa d’atto di un evento oggettivo, non necessitante di altra giustificazione. Peraltro – e sempre in punto di sistematica – la riforma ha lasciato inalterata la disposizione dell’art. 413 c.p.p., che disciplina la richiesta della persona sottoposta alle indagini o della persona offesa dal reato al Procuratore generale di disporre l’avocazione a norma dell’articolo 412, co. 1: previsione normativa che non avrebbe alcun reale senso logico se l’organo avocante avesse l’obbligo, ora come allora, di esercitare la surroga automaticamente e per tutti i procedimenti con termini scaduti. Quanto, poi, all’argomento letterale, il valore semantico del verbo adoperato («dispone») risulta assai mitigato nella sua portata precettiva considerando che esso compare anche in altra tipologia avocativa in cui, pacificamente, l’esito dell’ablazione investigativa è frutto di valutazione (si pensi all’ipotesi di cui all’art. 372, co. 1-bis, c.p.p., allorquando il p.g. deve valutare l’effettiva mancanza di coordinamento investigativo e, solo in esito a tale giudizio, “dispone” l’avocazione). Infine, da ultimo, gli stessi lavori preparatori della riforma Orlando depongono per la non obbligatorietà, se è vero che l’ordine del giorno n. 53 approvato dalla Camera dei deputati nella seduta n. 813 del 14 giugno 2017, a proposito dell’avocazione del p.g., assume che tale strumento di controllo sostitutivo «è presidio tanto più efficace quanto più concretamente utilizzato con la necessaria misura e cautela»: ci che evidentemente contraddice ogni automatismo ed obbligatorietà di esercizio di esso. Concludendo sul punto, occorre porre in evidenza, dunque, come la “nuova” avocazione non sia automatica ed esiga piuttosto l’esercizio di un potere valutativo in capo all’organo che la dispone. Ovvio che una soluzione di tal genere, se non ulteriormente specificata, rischia di essere gattopardesca: tutto cambia all’apparenza, affinché tutto resti inalterato nella sostanza. Qualche riflessione finale sarà dunque dedicata proprio a tale profilo problematico.
Stabilito che l’avocazione “obbligatoria” è in realtà piuttosto fondata su di un potere valutativo (o, se si vuole, di un “obbligo condizionato”), il passaggio ulteriore è restringerne il possibile oggetto attraverso innanzitutto la cernita dei procedimenti per i quali essa non potrà intervenire: insomma, i casi certi di esclusione. In tale perimetro rientreranno, innanzitutto, i procedimenti in relazione ai quali il ritardo nella determinazione circa l’esercizio dell’azione non possa ascriversi alla “colpa” del p.m. titolare dell’indagine: in cui, cioè, non vi sia una “stasi arbitraria” del procedimento poich l’inerzia del p.m. è del tutto incolpevole. Tali sono le ipotesi, per esemplificare, di misura cautelare già tempestivamente depositata e su cui il g.i.p. non abbia provveduto entro i termini di cui all’art. 407, co. 3-bis, c.p.p.; di analoga sequenza per l’incidente probatorio richiesto e non ancora ottenuto; di difficoltà di notifica di un avviso ex art. 415 bis c.p.p. ancorch tempestivamente emesso dal p.m.; di ritardi conseguenti al deposito di una complessa consulenza tecnica, pure per tempo disposta dall’organo inquirente; soprattutto, della fissazione della data dell’udienza dibattimentale particolarmente lontana a fronte di una richiesta del p.m. avanzata tempestivamente. a proposito di tale ultima evenienza, sembra di poter escludere dal novero dei procedimenti avocabili – proprio per la statistica incidenza di tale scollamento temporale – l’intera categoria dei reati cdd. a “citazione diretta” (art. 552 c.p.p.). Premesso che a tale tipologia di reati nessun riferimento normativo è dedicato dalla riforma dell’istituto, è ovvio che, a fronte di una data di udienza che deve essere fornita dal presidente del tribunale (art. 160 disp. att. c.p.p.) e che è presupposto necessario per l’esercizio dell’azione penale, il meccanismo surrogatorio dell’avocazione è un’arma spuntata e sostanzialmente inutile, ponendosi identico ostacolo tanto al p.m. procedente quanto, eventualmente, al p.g. avocante. Parimente, dal meccanismo dell’avocazione dovrebbero essere esclusi i procedimenti contro ignoti (iscrizioni a mod. 44) e quelli costituenti i cdd. atti relativi (i cdd. “non reati” iscritti a mod. 45), considerato – a parte i problemi di compatibilità strutturale dell’istituto con tali tipologie − il brevissimo termine (30 gg.) disponibile in capo al p.g. per le determinazioni in ordine all’azione. Tutto il resto teoricamente potrà essere avocato: ma anche qui facendo buon uso del principio di ragionevolezza, che deve ispirare l’esercizio di ogni potere istituzionale di tipo valutativo. E la ragionevolezza impone di considerare le concrete condizioni di fattibilità di uffici chiamati, in via eccezionale, a completare indagini entro trenta giorni, organizzati a fini assai diversi e, a tali scopi ulteriori, precari quanto a risorse. Dovranno certamente essere avocati – con priorità, si starebbe per dire – quei procedimenti per i quali è segnalata, da parte del p.m., l’esigenza dello svolgimento di ulteriori atti di indagini, che, scaduto il termine massimo delle indagini stesse, sarebbero inutilizzabili se non “recuperati” dall’investigazione del p.g.; quelli per reati ricompresi tra quelli cdd. a trattazione prioritaria; quelli per i quali vi sia stata espressa richiesta della p.o. o dello stesso indagato. Ma, più in generale, occorrerà un’attenta valutazione circa la “condizione concreta” del procedimento scaduto: se completamente privo di indagini o con indagini effettuate – e distinguendo in tal caso quelli con indagini sufficienti a sostenere l’esercizio dell’azione ovvero da completare con atti investigativi indispensabili −; se privo dei soli capi di imputazione, ma con ragionevole previsione che, adempiuto tale incombente, possa poi agevolmente procedersi all’esercizio dell’azione o che (alternativa opposta) il procedimento sia incompleto perché proiettato verso l’inazione con richiesta di archiviazione. Il problema sarà quello di un calcolo realistico circa la convenienza alla surroga, un’analisi costi-benefici: il che disvela come il vero specimen della riforma, più che negli automatismi avocativi, debba rinvenirsi – come è stato acutamente affermato − in una supervisione critica ed efficace della durata delle indagini dopo la loro scadenza, attraverso una interlocuzione costante e collaborativa tra gli uffici di procura di diverso grado. Profilo, anche questo, cui sarà dedicata qualche ulteriore considerazione finale.
Tra gli snodi maggiormente problematici della riforma rientra poi quello della individuazione del momento a partire dal quale si innesta il meccanismo dell’avocazione. La lettera della legge è oltremodo ambigua: il comma 3-bis dell’art. 407 – come detto – sancisce che il p.m. «è tenuto a esercitare l’azione penale o a richiedere l’archiviazione entro il termine di tre mesi dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini e comunque dalla scadenza dei termini di cui all’articolo 415-bis». Orbene, la locuzione «dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini» può intendersi in due modi assai diversi: come termine astratto, codicisticamente previsto e svincolato dalle specifiche vicende del procedimento, calcolato quindi, in via generale, sulla base degli artt. 406 e 407 c.p.p; ovvero come termine legato alle dinamiche concrete ed effettive del procedimento de quo, quindi sul tempo effettivo “a disposizione” del p.m. sulla base delle richieste di proroga avanzate ed eventualmente ottenute dal giudice. Si tratta, all’evidenza, di prospettive assai differenti e con impatti assai diversi anche sulla realtà degli uffici giudiziari. L’ermeneutica di un dies a quo considerato in astratto è fondata innanzitutto sulla lettera della disposizione, nella quale non compare il riferimento al termine prorogato dal giudice, secondo la classica formula sancita, ad esempio, nel (inalterato) comma 3 dell’art. 407 c.p.p. («nel termine stabilito dalla legge o prorogato dal giudice»). a tale argomento testuale si affianca una giustificazione di ordine pratico: e, come sempre, i “duri fatti” hanno peso specifico nel processo ermeneutico. Infatti, considerare il termine “virtuale” massimo a prescindere dal fatto che la proroga sia stata richiesta dal p.m. (s che il p.g. non possa esercitare il potere di avocazione per procedimenti con termine delle indagini scaduto in concreto perché difetta il presupposto del decorso del termine in astratto previsto dai commi 1 e 2 dell’art. 407 c.p.p.) eviterebbe l’avocazione di un numero rilevantissimo di procedimenti e salverebbe, verosimilmente, la possibilità di gestione dell’avocazione stessa da parte degli uffici di Procura generale. accade infatti che, nei più grandi uffici di Procura, la richiesta di proroga dei termini di indagine venga avanzata solo in casi numericamente contenuti: precisamente, quelli in cui, per la determinazione in ordine all’azione, siano necessari atti di indagine in senso stretto, indispensabili cioè all’esercizio dell’azione penale e dei quali possa poi essere eccepita l’inutilizzabilità nella successiva fase processuale. Negli altri casi – la gran parte, per quanto sia dura da accettare questa realtà per gli studiosi del processo – non viene avanzata richiesta di proroga per le indagini al g.i.p., al fine di evitare il definitivo ingolfamento di tale ufficio già gravato di migliaia di adempimenti ed in cronica carenza di mezzi e risorse: ne verrebbe infatti seppellito da ulteriori, probabilmente di dubbia utilità per l’esito procedimentale. Dunque, a fronte della valanga di procedimenti iscritti, si preferisce non avanzare richiesta di proroga per quelli non prioritari e che non richiedano specifici atti di indagine. Se, quindi, il termine massimo delle indagini dovesse essere determinato in forza delle proroghe effettivamente da richiedere (dunque, con riferimento al procedimento in concreto e del termine che esso reca in tal modo, e non di quello massimo “virtuale”), il numero dei procedimenti avocabili risulterebbe enorme: ad esempio, secondo un calcolo approssimativo per difetto, nella sola Procura della Repubblica di Roma, in una prima fase, sarebbero oltre 20.000 all’anno i procedimenti da avocare da parte del p.g. di quel distretto. Il che porterebbe, in un momento successivo, ad una crescita esponenziale (e “difensiva”) delle richieste di proroga avanzate dai grandi uffici di procura e ad un conseguente pregiudizio, fin quasi alla sicura paralisi, degli uffici g.i.p., la cui già provata efficienza sarebbe tramortita definitivamente dall’inseguimento delle richieste di proroga avanzate a tappeto dal p.m. È uno scenario apocalittico, ma oltremodo realistico, di fronte al quale è difficile chiudere gli occhi, anche considerando la prevedibile sorte dei procedimenti in tal modo avocati. Poi, si potrà anche discutere di tutto il resto, in punto di ermeneutica autorizzata dal testo: ed anche convenire sulla considerazione che il riferimento temporale del comma 3-bis dell’art. 407 c.p.p. possa ben essere inteso in relazione al concreto procedimento, tenendosi conto dei termini fissati dall’art. 405 c.p.p. e delle eventuali proroghe concesse ex art. 406 c.p.p. e non in astratto, considerando solo il termine massimo delle indagini astrattamente previsto dai commi 1 e 2 dell’art. 407 c.p.p. Si potrà, cioè, anche convenire sulla considerazione che tale opzione sia effettivamente più armonica rispetto all’ulteriore ipotesi, affiancata, della scadenza dei termini ex art. 415 bis, nel senso che, se è intervenuto l’avviso di conclusione delle indagini, il dies a quo non potrà che essere quello (commi 3 e 4 dell’art. 415 bis c.p.p.) della scadenza delle notifiche, dunque concreto e totalmente agganciato alla contingenza del singolo procedimento, per cui non si spiegherebbe lo stridore concettuale di un termine ora considerato astrattamente ora concretamente. E si potrà anche concordare con l’idea – ineccepibile in punto di dogmatica – che la soluzione “in concreto” varrebbe davvero ad evitare ogni iato temporale tra effettiva scadenza del fascicolo e determinazione dell’organo inquirente in ordine all’azione e, parimenti, che allorquando la disposizione parla di «termine massimo delle indagini», il dato testuale può ben riferirsi all’epilogo temporale del potere di indagine del p.m. nel singolo procedimento. Tutto vero. Se non fosse che lo spettro di un’avocazione paralizzante (e, poi, paralizzata a sua volta) si aggira assai minaccioso per i principali uffici nazionali di Procura: ed ignorarlo saprebbe, più che di altezzoso distacco teorico, di pericolosa superficialità.
Come preannunciato, le poche certezze della riforma sono superate dalle molte problematicità innestate. E, quanto sopra accennato per sintesi, ne costituisce solo una parte. ad esempio, occorrerebbe scandagliare funditus il rapporto tra procedimenti a “trattazione prioritaria” (con la necessaria individuazione dei relativi criteri) e procedimenti da avocare (o avocabili). Ed è una miniera di problemi − teorici, ma anche pratici – il rapporto tra meccanismo di avocazione del p.g. e procedimenti con plurime iscrizioni soggettive, in relazione alle quali soltanto per alcune sia scaduto il termine massimo di indagine. Pensare, ad esempio, che in tale ipotesi – cioè per “frammenti di indagine scaduta” – possa procedersi ad un’avocazione pro parte del procedimento appare del tutto irrealistico e persino resistito dal principio di segretezza dell’indagine e di necessaria unitarietà di essa: nondimeno, per resistere a tali opzioni occorre, ancora una volta, superare la letteralità del disposto normativo e fornire interpretazioni improntate a ragionevolezza, sia pure in prospettiva sostanzialistica. Sono poi tutte da meditare, con una buona dose di inventiva ermeneutica, le problematiche che si intravedono sulla sponda dell’organo avocante. Se è vero, infatti, che il p.g. dispone di trenta giorni per chiudere il cerchio sull’indagine, è legittimo chiedersi – in un ordine sparso di dubbi – se questo sia un termine meramente ordinatorio e se sia foriero di conseguenze processuali (ad esempio, per un atto di indagine dell’avocante compiuto oltre tale termine); se sia un termine a sua volta prorogabile (evenienza che parrebbe da escludersi in assenza di previsione normativa espressa e di meccanismi normativi espressi); se e come eventualmente sopperire all’eventuale inerzia a sua volta replicata dall’organo avocante che trattenga per tempi non tollerabili il fascicolo avocato (il più classico: quis custodiet custodes?) e, soprattutto, quale tipo di organizzazione si daranno gli uffici di Procura generale per fronteggiare l’emergenza avocativa, apparendo forse auspicabile una separazione tra procedimenti pronti per la richiesta finale da quelli necessitanti di ulteriori indagini (dunque, ipotizzando una sorta di “ufficio spoglio” dei procedimenti avocati, assai tempestivo ed agile, con inquirenti separati per le diverse funzioni da espletare). Come si vede, è davvero il più classico work in progress, su cui occorrerà la verifica della futura prassi. fin d’ora, tuttavia, è possibile qualche ulteriore considerazione, a mo’ di riflessione finale. Si accennava sopra che sarebbe perduto il senso della riforma se essa fosse intesa in senso di assoluto minimalismo: non può esser vero, insomma, che nulla sia cambiato rispetto al passato. Innanzitutto, è mutata la forma dell’interlocuzione tra uffici di procura di diverso grado e tale cambiamento ha certamente, nelle intenzioni del legislatore, una grande valenza “pedagogica”, un messaggio subliminale inviato dal legislatore della riforma ai destinatari. Oggi è il p.m. ad informare, direttamente e personalmente, l’organo inquirente “gerarchicamente” superiore della patologia temporale del procedimento; non è più soltanto la sua segreteria con l’invio settimanale degli elenchi dei procedimenti scaduti, ex art. 127 disp. att. c.p.p. Orbene, questa “esposizione” soggettiva del singolo magistrato inquirente, se non intesa nel senso di una improbabile vetero-gerarchia, acquista il valore di una interlocuzione collaborativa, finalizzata alla soluzione di un problema oggettivo di tempestività della conclusione dell’indagine. L’avocazione, intesa quale surrogazione all’inquirente “naturale”, sarà un “obbligo condizionato” in capo al p.g. (un suo “onere funzionale”; un “potere-dovere”; una “discrezionalità vincolata” all’agere procedurale: le formule possibili si sprecano) in funzione essenzialmente di ausilio: non sarà automatica, ma neppure interamente (e vacuamente) discrezionale, dovendo fondarsi su di un attento bilanciamento di prospettive. Proprio perché non improntata all’obbligo cieco dell’ablazione processuale, l’avocazione del p.g. dovrà, nella motivazione, spiegare le ragioni per le quali, in quel caso di specie, risulterà funzionale all’effettiva accelerazione della definizione delle indagini. Se obiettivamente esistenti e riconosciute, tali ragioni vincoleranno l’organo di secondo grado alla surrogazione: in caso contrario, anche in presenza degli astratti presupposti di possibilità di avocazione, il p.g. potrà astenersi dall’avocare. In breve, una forma di supervisione che, strutturalmente fondata su di un assetto effettivamente gerarchico, vira tuttavia, funzionalmente, verso forme collaborative, così progressivamente spogliandosi delle scorie che, in passato, l’hanno caratterizzata: non più finalizzata all’affermazione del rapporto gerarchico; non più anticamera per un “rimprovero” di tipo disciplinare, ma strumento dell’unitarietà di intenti della magistratura inquirente. Per il bene dell’indagine, insomma.
1 Il dato emerge dalle relazioni sul problema dell’avocazione inviate dai Procuratori generali al Procuratore generale presso la Corte di cassazione in relazione all’attività di coordinamento svolta da questo vertice requirente ai sensi dell’art. 6 d.lgs. 20.2.2006, n. 106. anche nella riunione plenaria dei Procuratori generali presso le Corti d’appello indetta dal Procuratore generale della Corte di cassazione per dibattere il problema dell’avocazione – tenutasi in Roma il 22 marzo 2018 – è emersa univocamente, dal dibattito, tale scelta interpretativa.
2 Non senza considerare, in tempi più recenti, che la Circolare sulla organizzazione degli Uffici di Procura, adottata con delibera del C.S.M. del 16 novembre 2017, all’art. 21 fa un ulteriore, espresso riferimento all’«esercizio del potere di avocazione» del p.g.