La riforma della dialettica hegeliana
Per La riforma della dialettica hegeliana si intende una serie di scritti compresi tra il 1904 e il 1912, raccolti da Giovanni Gentile, con quel titolo, nel 1913. La prefazione apposta dall’autore al libro inizia così:
Ho dato il titolo speciale del primo degli scritti raccolti in questo volume a tutta la serie, perché tutti, direttamente o indirettamente, si riferiscono al medesimo argomento, e tutti possono giovare a chiarire in vario modo il concetto fondamentale della dialettica hegeliana, studiata nella memoria con cui si apre il libro (G. Gentile, La riforma della dialettica hegeliana, 19543 [d’ora in poi: Riforma], p. VII).
È la fase in cui nasce l’attualismo, espressione formulata nel 1911, a ridosso della stesura della ‘memoria’ cui Gentile si riferisce. Tutto quasi in contiguità con la Teoria generale dello spirito come atto puro, che è del 1916. Dunque, un testo decisivo. Nell’insieme, il tentativo di Gentile fu quello di liberare Georg Wilhelm Friedrich Hegel dalla cappa del suo sistema, e fu essenziale, per dir così, l’aiuto di Immanuel Kant. Nasceva una nuova filosofia che intendeva liberare tutta la potenza del pensiero come creazione del mondo, identificando logica ed etica, e che in questa luce immaginava di inaugurare l’epoca che aveva chiuso, e in modo definitivo, con la vecchia metafisica: così Gentile intese rispondere, nel pensiero, alla crisi d’epoca che attraversava l’Europa. Ma quanti problemi, quante difficoltà insorgono in questo progetto, è proprio la Riforma a mostrarlo. Si tratta allora di portare alla luce, per quanto possibile, avanzamenti e difficoltà, senza dimenticare che fra di essi, dentro insufficienze e contrasti, palpitava l’invenzione di una filosofia nuova.
La critica che Gentile rivolse a Hegel discutendo il suo concetto del divenire – il celebre cominciamento della Wissenschaft der Logik (1812-1816) di Hegel – è espressa da lui in poche parole:
Hegel, insomma, è giocoforza convenirne, ha l’intuizione vaga del divenire, non ne ha il concetto. E non si mette in condizione di possederlo, perché analizza questo concetto, invece di realizzarlo, come avrebbe dovuto, per pensarlo dialetticamente e conforme al principio dell’identità di essere e pensiero (Riforma, p. 22).
Anche a una prima lettura, la critica intende smontare l’intera logica che presiede al divenire hegeliano: la parola chiave è «analizza». E l’altra: «invece di realizzarlo». Poco tempo prima, nel 1911, in comunicazioni fatte alla Biblioteca filosofica di Palermo, il filosofo aveva scritto: «Il concetto del divenire non si può cogliere se non rispetto a quel divenire vero che è il pensare» (Riforma, p. 188). Presupposti al divenire, essere e nulla gli apparivano impensabili nella loro assoluta indeterminazione, gli sembravano dati non pensati e non pensabili. Presa in questa forma generale, la critica di Gentile non dice nulla di diverso dall’obiezione che egli aveva proposto a tutta la filosofia precedente, da Platone a Kant. Il criterio è sempre lo stesso, e non attribuisco a questa osservazione un disvalore, perché la cosa appartiene alla ferma consapevolezza di esprimere un nuovo inizio della filosofia. Gentile era convinto, già negli anni che precedettero la Riforma, che la sua scoperta dell’insuperabile attualità del pensiero potesse guardare dall’alto l’intero percorso della metafisica che, pur differenziato al proprio interno, si era bloccato dinanzi all’insuperabilità del dato, anche quando nobilmente sollevato a ‘idea’: ma idea non pensata nella sua attualità, bensì riversa lì, davanti al pensiero, condizione ineludibile di esso, e che, posta lì, nella sua oggettività, impediva ogni originalità al pensiero stesso, e dunque ogni ‘serietà’ alla storia, ogni responsabilità etica all’azione. Bisognava sgombrare il campo del pensiero da ogni presupposto e, muovendo da lì, ricostruire il mondo.
Guardato dall’alto, questo è l’atteggiamento di Gentile, qualche volta, nei momenti di massima euforia speculativa: largamente ripetitivo, con cadenze critiche e perfino lessicali applicate a sistemi di pensiero anche assai lontani fra loro. Ma, naturalmente, lo sguardo ora va ravvicinato, deve provare a entrare nelle pieghe del suo ragionamento, delle distinzioni che emergono, dei pensieri di cui egli cerca di impadronirsi trascinandoli dentro la nuova e tesa temperie aperta dall’idea di attualità. Se ora dovessi fermare i nomi decisivi che, nei vari intrecci che li legano, permettono di scavare nelle modulazioni critiche del pensiero gentiliano, direi: Hegel, Karl Marx, Kant, infine Antonio Rosmini-Serbati, per aspetti pur importanti relativi alla sua rilettura di Kant, e qui tengo conto, almeno in parte, della riflessione di Augusto Del Noce (1990, pp. 82 e segg.).
Perché li ricordo in quell’ordine? Vediamo. Marx, nello scritto del 1899 (La filosofia di Marx), è letto alla luce di Hegel, non di Ludwig Andreas Feuerbach o di Kant, in opposizione a criteri, soprattutto neokantiani, che allora prevalevano nel dibattito europeo. La valorizzazione di Marx come filosofo della prassi dipendeva strettamente da ciò che egli riusciva a ereditare da Hegel, filosofo del divenire. Lo tradiva, scolaro degenere, ma pur sempre scolaro. L’idea di prassi, anche se inconciliabile con il materialismo, è il succo vitale che Marx trae da Hegel, dall’idea che la filosofia sia realizzazione, interamente raccolta nel divenire. Anzi, in una certa misura, si può quasi dire che per Gentile Marx stia davanti a Hegel, essendosi liberato del presupposto di un Logo già realizzato (Del Noce 1990, p. 67; Natoli 1989, pp. 36 e segg.). In quel precocissimo libro non è presente l’Io trascendentale, e nemmeno lo Spirito, ma, appunto, la prassi. Il materialismo, da un lato, la fa degenerare, dall’altro, sembra contribuire alla depersonalizzazione del soggetto. La prassi è indirizzata alla produzione dell’oggetto (G. Gentile, La filosofia di Marx, 5a ed. riveduta e accresciuta, a cura di V.A. Bellezza, 1974, p. 92), ma non ha dietro di sé un Io. Dell’Io trascendentale non si parla in La filosofia di Marx; il riconoscimento a Kant come a chi aveva «scoperto» la soggettività (p. 38) è un sintomatico riconoscimento, un sottofondo costante in Gentile, ma la presenza del filosofo tedesco qui si avverte poco, mentre era decisiva la sua presenza nel libro su Rosmini e Gioberti, pubblicato l’anno precedente, presente nella forma di un originale ripensamento del trascendentalismo e di una critica radicale alla teoria dell’intuito, che conduceva, a giudizio di Gentile, il pensiero nella passività (Rosmini e Gioberti. Saggio storico sulla filosofia italiana del Risorgimento, 3a ed. accresciuta, 1958, pp. 165 e segg.).
Kant e Hegel, Hegel e Kant, intrecciati in un rimando reciproco che qui va sciolto e che intanto implica un passaggio essenziale: contro altre linee interpretative, Gentile accentua una lettura fatta di orizzonti di continuità, dove lo spazio nuovo che il filosofo inventa contiene una concettualizzazione formata da quell’intreccio. Non Hegel contro Kant, ma Kant che consente di dare una certa lettura della dialettica hegeliana, con rimandi, ritorni, avanzate, regressioni che toccano ambedue i pensatori, e da tutto questo sforzo nacque il soffio vitale di una nuova filosofia, che Gentile chiamò, nel 1911, attualismo. A Kant e Hegel va aggiunto il nome di Bertrando Spaventa (1817-1883) e il ricordo, difficile da calibrare, di Marx e di Rosmini. Diciamolo in limine: Gentile ha rinunciato a quella chiave d’oro di lettura del percorso della metafisica moderna che sta nella lettura in discontinuità dei due grandi pensatori tedeschi. Ma, a rifletterci, c’è una ragione profonda di questa sua scelta, lo accennavo all’inizio: nulla è veramente in discontinuità in ciò che precede l’attualismo, tutto è immerso nel platonismo in vari gradi e forme, nulla è mai fuori di esso, fuori cioè dalla presupposizione del dato, dalla separazione tra realtà e pensiero, che condanna ambedue all’impotenza.
È importante però comprendere in quale direzione questo insieme di elementi condizioni la critica gentiliana della dialettica hegeliana e lo sforzo per riformarla. Risponderei: la condiziona per un eccesso di soggettivismo, intendendo con ciò non tanto l’influenza di Johann Gottlieb Fichte, quanto l’accento posto sull’ineludibile ‘scoperta’ kantiana della sintesi a priori, che forse condiziona perfino, come vedremo, la lettura che Gentile dà degli scritti hegeliani di Spaventa e le modalità attraverso le quali egli legge il rapporto tra le hegeliane Phänomenologie des Geistes (1807) e Logica.
Una volta che Gentile si è liberato di Marx, dunque, proprio Kant ritorna con una evidenza talmente potente da dover essere considerato il vero ‘autore’ di Gentile, e proprio negli anni intorno alla Riforma. L’Io assoluto di Kant fa dimenticare a Gentile il principio della prassi, di una prassi pur sempre implicata nel materialismo. L’Io è libero da intralci materiali, è il soggetto puro che va riscoperto come il vero iniziatore di un percorso di cui Gentile si considera, comunque, l’erede per molti aspetti eversivo. Risolta la prassi nel pensiero, mutano le fonti e il significato di ciò che significa divenire e produzione del reale, non perché la prassi fosse cieco attivismo, ma perché partecipava di un lessico che sembrava riferirsi, più che a un soggetto, a una forma di trasformazione quasi materiale del mondo. Tra il 1909 e il 1911 il Gentile ‘kantiano’ avanza con un’evidenza che non può non essere sottolineata. Dai Discorsi di religione si ascolta questo Gentile:
L’idealismo attuale è trascendentale, perché il suo pensare, come verità del pensato, è lo stesso Io puro kantiano, ma concepito senza transazioni con le esigenze dell’ingenuo realismo empirico (in Id., La religione. Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia. Discorsi di religione, 1965, p. 337).
L’idealismo attuale reca «a forma rigosamente coerente il principio dell’idealismo trascendentale» (p. 335). E la distinzione tra «Io empirico» e «Io assoluto» sta al cuore della comunicazione del 1911 alla Biblioteca filosofica di Palermo (Riforma, p. 190), come sarà al cuore della Teoria generale dello spirito. E proprio nelle prime pagine della Riforma, si dice:
Nella Logica trascendentale di Kant la relazione: 1° non è rapporto di concetti, ma concetto essa stessa; 2° non è più carattere oggettivo della verità, ma attività del soggetto che conosce la verità (p. 4).
E un altro riconoscimento si aggiunge subito dopo: Kant ha dimostrato che
tutto ciò che si può osservare della realtà […] presuppone l’atto stesso del pensare. E in questo atto vede perciò la radice di tutto. In guisa che tutto quello che è, è in virtù del pensare […] e il pensare così non è più postuma e vana fatica che intervenga quando non c’è più niente da fare nel mondo, anzi è la stessa cosmogonia (pp. 6-7).
Da Kant, Gentile vede originarsi, paradossalmente, anche la coincidenza fra logica ed etica. E Kant viene rappresentato come il vero filosofo cristiano della modernità, per aver portato a verità speculativa quel fremito divino di chi celebra «la potenza attiva e infinita dello spirito». Ritorna il Kant che era presente in pagine fondamendali del Rosmini e Gioberti. Il filosofo avviava con queste parole ora citate la Riforma della dialettica hegeliana. Su Hegel egli aveva incominciato a esprimersi nel 1904 con una lunga recensione a The origin and significance of Hegel’s logic di James Black Baillie (Riforma, pp. 69 e segg.). Hegel incombeva, insomma, in un territorio fecondato da Kant.
Perché, avviandomi verso la Riforma, metto l’accento su questi elementi? Perché l’ipotesi sulla quale lavoro è che l’interferenza di Kant nella critica gentiliana alla dialettica hegeliana sia così forte da condizionarla in passaggi essenziali. E che, da lì, inizi un percorso che conduce direttamente alla Teoria generale dello spirito, che infatti è degli anni immediatamente successivi, in quasi contiguità; e che la rottura, radicale, sia segnata dal Sistema di logica come teoria del conoscere (1917-1923), opera che, per certi aspetti, fa riemergere intuizioni già presenti nella Filosofia di Marx e offre la possibilità di un’altra lettura della dialettica hegeliana.
Si è visto: il divenire di Hegel è analisi, non realizzazione di sé. Sia perché, a giudizio di Gentile, i suoi termini, essere e nulla, gli sono presupposti, sia perché la loro indeterminatezza, o cattiva determinatezza, si avvita in errori di logica. Qui si nota la forte sensibilità del filosofo per il dibattito europeo, avviato da Friedrich Adolf Trendelenburg (1802-1872), che faceva perno proprio sull’ambigua fisionomia di essere e nulla (Riforma, pp. 23 e segg.) i quali, identici tra loro, non facevano scattare la molla della contraddizione. Realtà e pensiero, nel triadismo hegeliano, non sono giunti a risolversi una nell’altro, ma il pensiero, ossia il divenire, è stato come immobilizzato dal primato logico dato da Hegel alle componenti del suo movimento, essere e nulla, ambigue per una loro indeterminatezza che sembra identificarle immediatamente, e non contraddirle. Se il divenire ha un presupposto nell’essere-nulla, esso può essere analizzato ma non realizzato, è un divenire solo apparente, incardinato com’è nella fissità di un dato che lo precede.
Ma non era avvenuta la stessa cosa nell’Io penso kantiano? Non c’è anche lì lo spettro della cosa in sé, sulla quale Gentile aveva, ovviamente, appuntato le sue critiche? Lasciando da parte qui l’unicità del criterio con il quale il filosofo si rivolge a tutta la filosofia che lo precede, interamente vittima del cattivo realismo del ‘platonismo’, qui vanno colti degli elementi specifici di differenza.
Si ha l’impressione che l’astrattezza del Logo presupposto da Hegel sia, per Gentile, più prepotente, più invasiva di quella del Noùmenon kantiano. Quest’ultimo è un altro mondo, sta da parte, irraggiungibile; certo, agisce sul pensiero di Kant in molti modi, inaccettabili per il filosofo siciliano, dalla spinta alla moltiplicazione delle categorie alla distinzione tra volere e conoscere, ma infine è un non-pensato, è l’interno, ignoto e irraggiungibile, della cosa. Esso agisce malamente come inaccettabile limite dell’atto del pensare, ma nella sua compatta e ignorata rigidità sta talmente appartato che la volontà riesce perfino a liberarsene, interiorizzando un’attitudine assoluta di libertà. L’alloggiamento dell’imperativo categorico della Legge non ha niente a che vedere con l’alloggiamento appartato del Noùmenon: in mezzo c’è l’assoluto della libertà, l’abisso della differenza che corre tra volontà ed episteme. E questa interpretazione può esser mantenuta anche se si accoglie come fondata la tesi del rovesciamento del rapporto libertà-Legge che Gentile opera rispetto alla Kritik der praktischen Vernunft (Vitiello 2003, pp. 140-41).
Il Logo di Hegel, invece, appare come Natura, come Logo-Spirito realizzato, come incombente presenza dell’Idea, di un ‘passato’ consolidato in strutture, sulla pur riconosciuta potenza del divenire, e insomma come un divenuto corazzato in se stesso e che impedisce al pensiero ogni originalità creativa: diventa vero obiettivo di una lotta, ma di una lotta assai difficile, per risolverlo, interiorizzarlo nell’attualità del divenire. Gentile apprezza questa lotta, non pensa affatto a Hegel come una regressione, a Hegel che con la dialettica fu di questa lotta il vero iniziatore, ma è proprio la forza della dialettica a offrire questa conseguenza: proprio la tensione del divenire, per assorbire, senza riuscirvi secondo Gentile, i propri presupposti, mostra l’invadenza del Logo (realizzato), assai più di quanto il Noùmenon non prema sul fenomeno. Il fenomeno si può disinteressare del Noùmenon, sa di essere tutt’altro; la dialettica insorge invece per penetrare ciò che sembra mostrarsi come impenetrabile Essere, ridurlo a sé, proprio perché esso è Spirito coagulato, storia già realizzata, di cui bisogna impadronirsi. La libertà assoluta dell’etica kantiana, che si è divincolata dal Noùmenon tanto da interiorizzare il limite, la Legge, riconducendola all’assolutezza della propria libertà, appare a ridosso della libertà dell’Atto gentiliano, più di quanto Gentile non veda questa possibilità nel pensiero-divenire di Hegel, condizionato da quella che lui considera l’ambigua preesistenza delle sue componenti, una preesistenza talmente forte e invadente da immobilizzare il divenire nella sua analiticità.
Naturalmente vale la reciproca: la dialettica si pone il compito di sfondare il campo dove alloggia la cosa in sé, trasformata in Logo-Natura, lotta per impadronirsi del presupposto, farlo proprio. Insomma, ora Kant su Hegel, ora Hegel su Kant, le due direzioni si intersecano e si contrastano e l’attualismo a un certo punto si libra oltre di esse. Ma, alla fine, va ribadito, mai Gentile sottolinea il pensiero di Hegel come una via alternativa nella lettura del moderno, mai è disposto a rompere veramente la linea di continuità che peraltro contiene in sé le ragioni ermeneutiche generali che sono state indicate. Lo sforzo di trovare il passaggio fra trascendentalismo e dialettica, di volta in volta, conduce a situazioni teoriche complesse, di cui la Riforma è esempio, come ci apprestiamo a vedere. Ha osservato Del Noce, riferendosi a L’idealismo attuale di Giovanni Gentile (1925) di Vincenzo La Via, che
la riforma della dialettica hegeliana non può esser vista se non come conseguenza della riforma gentiliana del trascendentalismo kantiano, nel senso che “l’idea hegeliana e la natura in cui essa deve negarsi per particolarizzarsi, sono dal Gentile risolute pienamente nell’Io puro kantiano assolutamente percepito” (1990, p. 89).
Ricavo la seguente conseguenza da questo sviluppo del ragionamento: c’è un vero corpo a corpo di Gentile con Kant e Hegel, negli anni in cui si forma l’attualismo, giacché il filosofo siciliano non può né rinunciare al principio dialettico semplicemente tornando all’idealismo trascendentale (per la ragione evidente che la dialettica hegeliana costituisce il maggiore sforzo logico per impadronirsi del presupposto, e uscire dal ‘platonismo’), né però può rinunciare alla purezza dell’Io trascendentale che, tradotto nell’Atto, coincide con il divenire. La dialettica sembra avere per compito di liberare l’Io trascendentale, ma si fa problematico il rapporto dell’Io con il divenire che implica l’oggettivazione e la necessità dell’astratto. Per dirla in breve, il richiamo costante alla sintesi a priori interiorizzata nell’Io trascendentale va letto come richiamo all’espressione veramente capace di comprendere, da un punto di vista superiore, il divenire come unità di essere e non-essere, di far sì che sia l’originarietà dell’Io trascendentale a costruire lo spazio logico-esistenziale del divenire come unità di essere e non-essere. Ma da dove il non-essere?
Il problema è capire quali conseguenze produce l’alloggiamento del divenire nello spazio dell’Io, con una soggettivazione radicale dell’atto del pensiero, uno spazio che, non avendo più alle spalle il Noùmenon, rifonda neokantianamente l’Io su se stesso, facendone la funzione unica e decisiva della costruzione del soggetto. Gentile non cade nella trappola di una critica di soggettivismo a Kant: con il problema già aveva fatto i conti nel Rosmini e Gioberti (cit., pp. 206 e segg.; Del Noce 1992, pp. 537 e segg.). L’assolutezza dell’Io non è affatto soggettivismo empirico, e tanto meno antropologismo. Insomma, l’andamento del problema si può rappresentare così: in Gentile, l’Io trascendentale di Kant, liberato dal Noùmenon e dalle categorie pluralizzate (esso è l’unica categoria), appare luminoso, in piena luce, nella sua assolutezza, senza che l’oggettivazione si mostri come il suo destino, con l’immanente necessità di un distacco che deve poi ricomporsi in unità. Insomma, se il divenire è visto come divenire dell’Io assoluto (trascendentale), l’astratto (il suo diventare oggetto) non si comprende più nella sua necessità. Se il divenire è divenire dell’Io, ci troviamo in presenza di un divenire privo di oggettivazione, o almeno che non ne penetra la complessa necessità, il carattere di destino che essa contiene dentro di sé.
Così stando le cose, non emerge il significato e la funzione della negatività, che non riesce a disegnarsi e a fondarsi logicamente come inquietudine interna della dialettica e come concreta realtà dell’astratto. La situazione si presenta complicata e contrastata, dal momento che Gentile ha posto sul medesimo piano (come sinonimi logici) il divenire come sintesi a priori di soggetto e oggetto, e il divenire come identità di essere e non-essere. È difficile capire, in questo quadro, la funzione del non-essere nell’essere (che è essere dell’Io) e dell’essere nel nulla, onde i termini, fondativi del cominciamento della Logica hegeliana, sembrano restare irrelati. La critica di Gentile, da questo punto di vista, è radicale:
Ognuno dei due termini è unità di sé e dell’altro […]. Sicché il divenire ha una doppia faccia: ora ha come immediato il nulla, cioè comincia dal nulla e passa all’essere; ora il suo immediato è l’essere, e muove dall’essere e passa nel nulla: nascere e perire. Orbene, qui ci vuol poco ad accorgersi (tenendo fermo il concetto dell’attualità dell’idea) che tutta questa deduzione contravviene al proposito essenziale della dialettica hegeliana, ed infatti rende possibile quel
concetto antidialettico per eccellenza, a cui essa subito mette capo, della neutralizzazione del divenire nel divenuto, per cui come l’essere svanisce nel non-essere, anche il divenire svanirebbe nella negazione del divenire (Riforma, p. 17).
L’oggetto è interiorizzato nel soggetto, è lo specchio in cui esso si riflette. C’è anzitutto il positivo, il concreto; il negativo, l’oggettivazione, non hanno ragioni fondate per emergere. Giacché l’Io-soggetto, interiorizzando il divenire come identità di essere e non-essere, fa sì che tutto l’andamento della Riforma resti come sospeso, in vista di due esiti che possono essere sostanzialmente differenti tra loro: Teoria e Logica. E che magari si possono ritrovare ambedue, embrionalmente, nella Riforma, sia pure con il prevalere netto della prima sulla seconda. Ciò che nella Riforma rimane, mi pare, non compreso a pieno (e il rapporto con il pensiero di Spaventa lo rende evidente, vedremo fra poco) è che il divenire pensato da Hegel non è il divenire dell’Io, ma l’autocreazione del mondo; che ha per presupposto la Fenomenologia, non come percorso a tappe della coscienza, ma come luogo dove si esercita per intero la potenza del Negativo; e che, in questo senso, senza tener fermo l’asse alternativo a Kant entro il quale Hegel pensa il divenire, non è possibile penetrare il discorso di Hegel. Il discorso di Hegel sul divenire si può comprendere nel suo senso profondo a condizione di staccare i principi fondativi dei due filosofi, e vederli all’apice di vie alternative.
Questo è il tema centrale entro il quale, mi pare, nasce la Riforma, in un complicato rapporto sia con le obiezioni rivolte a Hegel dai logici tedeschi sia con le riflessioni di Spaventa. Va ricordato che la critica alle prime categorie della Scienza della logica era tema molto frequentato nel dibattito europeo da circa metà Ottocento, e proprio nella Riforma il filosofo ne tenne conto, soffermandosi soprattutto sulle critiche di Trendelenburg, di Karl Werder (1806-1893) e di Kuno Fischer (1824-1907), e aggiungendo, in un’appendice, la riflessione di Spaventa sul tema, analizzando sia gli scritti spaventiani precedenti, sia quel Frammento inedito, scritto nel 1880, che Sebastiano Maturi gli aveva affidato proprio in quel 1912, anno di composizione del testo gentiliano e con il quale c’è un rapporto ambivalente di Gentile.
Il cominciamento hegeliano aveva colpito soprattutto i logici, che si erano trovati in un campo favorevolissimo per i loro controcanti. Tutto il sistema hegeliano sembrava dipendere da come si poteva pensare il rapporto tra quelle tre parole: essere, nulla, divenire. Ma mentre i puri logici tedeschi si affaticavano a sminuzzare quei tre lemmi hegeliani per coglierne, in forme differenti, l’impossibilità o la criticità, l’operazione di Gentile, che si muoveva in una atmosfera da certi punti di vista non dissimile, si rese disponibile ad accogliere pensieri che da lui già erano stati formulati, essendo ormai orientata a creare una filosofia für ewig. E il nome attualismo, lo si è ricordato, era già comparso nel 1911.
Il compito che egli si pose, nel momento più comprensivo del pensiero hegeliano, fu di criticare Hegel con Hegel stesso, come egli non manca di dire nel medesimo paragrafo in cui ne smonta l’idea centrale.
Giacché il processo analitico è il processo (apparente) della logica aristotelica retta dal principio di identità: laddove il vero processo hegeliano è quello della sintesi apriori, per cui non si unisce l’identico ma il diverso (Riforma, p. 18 [corsivo mio]).
Gentile dice: Hegel tradisce il livello più profondo da lui inconsapevolmente raggiunto, il livello che lo unisce a Kant, e che continua a coesistere con altri livelli pure in lui presenti che gli impediscono di fare il salto definitivo oltre la logica antica, oltre quel ‘platonismo’ che aveva caratterizzato tutto il pensiero occidentale, fino a Gentile. Come scrisse Luigi Scaravelli, Gentile rilevava un contrasto ineludibile tra l’esigenza da cui nasceva la dialettica e la sua pratica realizzazione logica, salvava l’intenzione di Hegel di proseguire oltre la scoperta della soggettività assoluta, ma ne criticava la realizzazione.
Nella esigenza v’era la coscienza dello Spirito come concretezza e come atto che pone la realtà; nell’impostazione del problema, questo spirito è concepito come in sé, fuori dell’atto di porlo. Incoerenza intrinseca, per cui sono giustificate tutte le grandi difficoltà che sulla interpretazione di queste prime categorie della logica hegeliana hanno trovato i commentatori (Scaravelli 1999, p. 81).
Il che corrisponde a quella ‘giustificazione’, da parte di Gentile, degli argomenti logici dei Trendelenburg, dei Fischer e così via.
Ma giacché il vero elemento eversivo della dialettica hegeliana era l’irrompere della negatività, come poteva avvenire che quest’ultima si mettesse a funzionare nel modo giusto inserendosi nella logica della sintesi a priori prodotta dall’Io trascendentale? Non perché fosse in discussione l’a priori della sintesi, ma perché – ribadisco il punto più delicato – essa non poteva essere l’alloggiamento dell’Io assoluto senza rendere improbabile la logica del divenire. L’astratto non vi era compreso, e torna alla memoria una obiezione che Benedetto Croce rivolse a Gentile: «come sorge l’opposizione dalla proclamata unità dell’atto spirituale?». Ovvero: da dove il Negativo? Da dove l’astratto?
Per provare a rispondere alla domanda, resta un elemento per molti aspetti dirimente: come si interpreta il cominciamento della Logica, come ‘autocominciamento’, assoluto inizio, oppure come avente alle spalle il risultato della Fenomenologia dello spirito? Il dibattito puramente logico sulle tre parole iniziali, in cui si avvolge anche Gentile, ma che sa un po’ di scolastica, non sembra tener conto prioritariamente di questo dilemma. Risolve tutto ridurre l’essere a pensiero? E concludere che il divenire è divenire del pensiero? E così rispondere al quesito che assilla tutto il dibattito su termini indeterminati che, per questa loro assoluta indeterminatezza, non riescono a entrare in relazione tra loro? Cosa che anche Gentile pensa – e anzi conduce all’estremo della criticità – quando scrive che «la differenza (tra essere e niente) non entra nell’attualità del processo logico del divenire» in quanto appartiene all’opinione (Meinung) che è altra dall’attualità del processo (Vitiello 2003, p. 130). ll testo gentiliano, come osserva Vincenzo Vitiello, è il segno della sua incomprensione del problema dell’astratto.
Muovendo da qui, mi interessa accennare a una risposta alla domanda che ho proposto all’inizio. Non mi azzardo a giudicare, infine, quel dibattito tra logici, abbastanza bloccato già alle origini, almeno nella misura in cui si accanisce, con molte varianti, intorno all’impianto di Trendelenburg sull’impossibilità che dall’astratta indeterminatezza di essere e nulla venga fuori il divenire. Né importa qui sottolineare, se non come una notizia filologicamente da annotare, la dichiarata vicinanza delle posizioni di Gentile con le tesi di Fischer, nelle quali il filosofo siciliano ritrovava quasi una sensibilità preattualistica nell’affermata necessità di considerare l’essere come atto del pensiero, altrimenti «non si può scoprire in esso nessuna contraddizione» (Riforma, p. 25).
Per me la questione principale resta un’altra: se la Logica nasce dove la Fenomenologia si conclude, ciò significa che il cominciamento è già allocato nel sapere assoluto, ovvero che l’Ultimo della Fenomenologia è il Primo della Logica, il che può dare per acquisita, senza troppi arzigogoli, la ragione del primato del divenire. Il divenire e l’Assoluto della negatività si danno la mano. Ora sembra che questo problema non sia presente nelle formulazioni con le quali Gentile affronta il problema delle prime categorie della Logica hegeliana e nemmeno nelle modalità della sua critica. Quando Gentile parla del rapporto tra Fenomenologia e Logica lo fa solo per criticare la distinzione e per sostenere che la seconda deve assorbire la prima, giacché quella distinzione è
analoga a quella delle due dialettiche platoniche una delle quali è ascensione empirica alla seconda. Il processo dialettico della fenomenologia dunque non è un processo dentro la verità, ma un processo alla verità. Una logica fuori della fenomenologia, che vi mette capo, è la dichiarazione della trascendenza della verità al pensiero, che deve sollevarsi fino ad essa per attingere il suo valore (Riforma, p. 227; cfr. Vitiello 2003, pp. 219-20).
Il problema è sollevato per essere eliminato alla luce di un radicalismo critico che forse non avverte che il percorso della Fenomenologia si debba leggere attraverso il rovesciamento del rapporto tra Primo e Ultimo, in modo che la funzione del sapere assoluto avvolga tutto ciò che si chiama esperienza, sia insomma il vero Primo. La Fenomenologia è un processo dentro la verità, non un processo di ascesa verso di essa.
Spaventa sembra il più consapevole del carattere dirimente di questo problema, ed è singolare che Gentile percepisca la cosa, ma poi non ne faccia carne e sangue del proprio ragionamento. La spiegazione può muovere dalla seguente citazione dalla Riforma.
Lo Spaventa insisteva fin dal ’64 su questo punto che è un punto fondamentalissimo della crisi, che ora si viene operando in seno alla filosofia hegeliana; giacché si proponeva l’obbiezione (che gli si sarebbe potuto certamente muovere dallo stretto punto di vista hegeliano) dell’illegittimità di questo introdurre una categoria spirituale come quella del pensare, nella logica, anzi nel primo passo del Logo: dove non ci dovrebbe essere altro che il pensiero puro oggettivo, ossia l’oggetto del puro pensiero, e rispondeva che la logica hegeliana presuppone la fenomenologia, la quale, muovendo dalla coscienza immediata, arriva a un punto, a una forma, in cui la opposizione, che è la coscienza in generale, cessa e si risolve: il sapere (il soggetto) e il saputo (l’oggetto) come saputo, non è più semplicemente oggetto, semplice realtà, ma mentalità: e la verà realtà è la mente (p. 33).
La mia domanda ora è più puntuale: Gentile, che cita questo Spaventa, riesce a collocarsi a livello della sua impostazione, o finisce, per ragioni che possono essere argomentate, con il collocarsi comunque in un’altra posizione? La domanda è legittima. Se, come scrive Spaventa, la Fenomenologia è la premessa della Logica, e della necessità di «mentalizzare la logica», ciò può solo voler dire che la triade da cui si muove – essere, nulla, divenire – è allocata nello spazio del sapere assoluto, che la logica è già integralmente percorsa dal pensiero, ma che proprio la definizione di ciò che è pensiero diventa un problema. Dire, come dice Spaventa, che la vera realtà è la mente – nel senso mostrato dall’ultimo capitolo della Fenomenologia: come sapere assoluto – implica mettersi alle spalle la problematica dell’Io trascendentale di origine kantiana, e aprire un territorio dove c’è già l’unità di sapere e saputo, ma non tanto nella formulazione gentiliana di sintesi di soggetto e oggetto, quanto in quella hegeliana di identità di essere e non-essere intesa, questa identità, come autocreazione del mondo. Gentile sembra accorgersi di come l’interpretazione spaventiana stia già oltre il dibattito, acuto, ma a rischio di scolastica, sulla logica interna alle tre categorie messe sotto il riflettore critico.
Per dirla sinteticamente: se la Fenomenologia è presupposto della Logica, è già avvenuta la dimostrazione del primato del divenire, ed è già dimostrata la necessità che il Logo della Logica sia la mobilità del pensiero in atto. Oltre Kant e contro Kant. E si può guardare dall’alto l’affaticarsi intorno alla consistenza di ciascun termine della triade. Il divenire implica la riabilitazione dell’intero percorso delle figure della coscienza come figure del mondo. In quelle tre parole, c’è tutta la forma del mondo. E la Logica non fa che argomentare, fondare questa interiorizzazione del Logo nell’attivismo dell’autocoscienza. Ma il filosofo siciliano non sembra collocarsi stabilmente su questo crinale, e il segnale principale è il modo in cui risponde al tema del rapporto tra Fenomenologia e Logica.
Lavoriamo allora su un’altra ipotesi. Se non si fa reagire la Fenomenologia sulla Logica e viceversa, allora lo scenario cambia, e può mutare in due direzioni: o riuscendo a leggere il cominciamento della Logica come prova effettiva del primato del divenire, valorizzando l’uso del tempo verbale al passato utilizzato da Hegel per indicare il movimento tra essere e nulla e quindi recuperando il negativo, l’assoluto pensiero dell’inizio, pur nella ‘dimenticanza’ della Fenomenologia; oppure criticando il cominciamento hegeliano per non aver posto con chiarezza, all’inizio, l’Io trascendentale, immaginando che il divenire debba essere assorbito nell’Io, che è l’atteggiamento tendenziale di Gentile, a cui concorre il suo kantismo. Il che corrisponde a quanto dicevo prima, sulla parziale incomprensione del tema dell’astratto che ingombra la Riforma gentiliana e che sarà profondamente ripensata nel Sistema di logica.
Gentile coinvolge Spaventa in questi suoi scritti, pubblica, entro il testo della Riforma, il Frammento inedito, ma forse non ne assorbe il punto più alto, proprio perché non utilizza il risultato che si poteva acquisire scorgendo tutto il problema attraverso il nesso Fenomenologia-Logica. Se la relazione essere-nulla-divenire accade dentro lo spazio del sapere assoluto, la funzione del Negativo è stata già ‘provata’, e la logica interna ai termini astratti è già intrinsecamente mediata, per cui essere comprende nulla, e nulla comprende essere, perché le mediazioni presenti in ciascun termine si raccolgono nel divenire come ‘sintesi di sintesi’. E perciò il divenire è all’origine, senza i tanti arzigogoli nati dall’obiezione di Trendelenburg. A me pare che Spaventa si collochi lungo questa linea. Gentile, invece, resta in una posizione meno netta per una ragione precisa: egli identifica il termine pensiero con l’Io assoluto di Kant, liberato da Noùmenon e da moltiplicazione delle categorie. Troppo libero e assoluto per poter fare i conti con l’astratto, con l’oggettivazione. In fondo, la Fenomenologia è proprio la rappresentazione dell’oggettivazione della coscienza.
Se passiamo al Frammento inedito di Spaventa, il problema prende profili ancora più netti. Gentile lo legge così: esso
documenta che già lo Spaventa giunse a scorgere il principio dell’idealismo come noi ora l’intendiamo, distruggendo l’opposizione della logica (Denken) e della riflessione (Nachdenken), ossia risolvendo completamente il processo dialettico, a partire dallo stesso essere, nel puro atto del pensare: dov’è la vera liquidazione del trascendente, e l’inveramento dell’hegelismo come dialettica trascendentale, e quindi assoluto immanentismo (Riforma, p. 37).
Spaventa comprende che la questione ridotta all’essenziale è ‘provare l’identità’ tra essere (realtà) e pensiero, e Gentile aggiunge in modo assai sintomatico:
In verità, l’aspra difficoltà, intorno alla quale s’erano travagliati, e continuano a travagliarsi i commentatori della logica hegeliana, si dilegua appena la dialettica si consideri, senza preoccupazioni, in quella logica in cui Hegel, dopo Kant e Fichte, l’aveva pur chiaramente posta: nell’attualità del pensare. Se l’essere non è più un’idea in sé, ma una categoria, e categoria è atto mentale, come può realizzarsi l’atto della mente altrimenti che come unità di essere e non essere, cioè divenire? L’atto si fa, fit, diviene. È, in quanto diviene. Non può essere prima di divenire. Quando è semplicemente, non è (p. 38).
Qui si giunge dunque a far coincidere Riforma e nascita dell’attualismo, si sgombra il campo dal puro dibattito di logica in cui lo stesso Gentile era rimasto invischiato: Gentile stesso dice che, alla luce di Spaventa, esso dilegua. Lo scopo della Riforma a Gentile sembra raggiunto, anche con il contributo, decisivo, di Spaventa. Che Gentile però immediatemente riduce e riconduce al percorso unitario Kant-Fichte-Hegel, dove Fichte c’entra assai poco, mi pare, e dove, piuttosto, il cortocircuito tra Kant e Hegel continua ad agire, ribadisco, come riduzione all’Io trascendentale dell’attualità del pensiero. Con effetti dirompenti sulla funzione dell’intelletto, dell’astratto, ricondotto, senza resistenza nella logica assoluta dell’Atto. Il mondo è interamente assorbito nell’Atto del pensiero. Il gioco si svolge su un abisso dove il Denken è salvato essenzialmente dalla responsabilità etica del pensiero. Tutto è riassorbito nel pensiero: Noùmenon, le multiple categorie, ma anche Natura, Logo, Spirito, tutto ciò che Kant e Hegel (con diversi gradi di problematicità) avevano lasciato fuori, un fuori che per Hegel doveva essere interiorizzato, ma in un superamento che era anche conservazione.
Non è qui possibile approfondire il percorso di Spaventa, dove veramente conducesse. Ma questa sua sottolineatura forte del rapporto Logica-Fenomenologia sembra porre la premessa per un altro svolgimento, nel quale «mentalizzare la logica» non comprende più la costituzione originaria ed esterna dell’Io. E contiene soprattutto la comprensione piena dell’oggettivazione, la coincidenza tra logica e mondo. In Gentile il pensiero sembra nascere in isolamento, in un totale assorbimento di tutto. È naturalmente programmatica questa posizione di Gentile, è l’irrompere dell’attualità, l’euforia di una scoperta radicale, ma la sua comparsa è talmente luminosa da implicare l’annientamento di ogni resistenza, di ogni passività, di ogni limite, onde non nasce l’astratto, assorbito nel concreto dell’Atto. È questo l’attualismo che nasce nella Riforma. Il commento di Del Noce è, a questo proposito, tra i più acuti, anche se con il difetto di non vedere l’evoluzione dell’attualismo che è nettissima fra Teoria generale dello spirito e Sistema di logica. Come scrive giustamente Emanuele Severino, muovendo da una riflessione su Heidegger: questi intende
la luce che illumina e lascia essere l’ente come qualcosa di indipendente e di separato rispetto alla totalità del disvelato, e cioè come qualcosa che ripresenta quel carattere di inobbiettivabilità che Gentile attribuiva in un primo tempo all’Io trascendentale (1994, p. 25, corsivo mio).
A che punto dell’evoluzione di Gentile collocare dunque la Riforma? È un bilancio da leggere in controluce. Il compito che egli si dà è travolgere il limite che, a suo giudizio, ancora aduggia il dialettismo hegeliano, contro la più profonda intenzione dello stesso Hegel, che rimane però impotente. Ma il rifiuto dell’oggettivismo che Gentile individua nella residua presupposizione dell’essere-nulla al divenire, spinge la sua costruzione verso una così intensa autocostruzione del soggetto, da mettere decisamente in ombra la necessità dell’oggetto. Certo, un’affermazione così esplicita non si troverà mai in Gentile, ma è la dilagante potenza del soggetto a mettere in angolo la necessità della sua oggettivazione, o meglio a impedire di cogliere l’effettiva differenza tra l’oggetto come astratto e la sua identificazione con l’autoriflessione concreta del soggetto su se stesso. Fondato, mi pare, se limitato a questa fase di Gentile, l’interrogativo di Vitiello:
se il cogito pensa se stesso come soggetto e non come oggetto, perché l’oggetto? Perché l’oggetto opposto al soggetto, l’oggetto che è quiete e identità e non movimento, e non contraddizione (2003, p. 140).
Penso che Gentile scriva la Logica per dar risposta a questo problema, che sembra implicare un passaggio da definire nei seguenti termini: nella Logica, il divenire non è più l’auto-oggettivazione tautologica dell’Io trascendentale, ma l’autocreazione del mondo, e Gentile interiorizza la dialettica hegeliana a questo nuovo livello, lasciandosi indietro i risultati della Riforma. La quale, tuttavia, ha l’inestimabile valore di far da tramite tra la scoperta dell’attualismo, che avviene, con piena consapevolezza anche lessicale, tra il 1909 e il 1911, e la Teoria generale dello spirito, che è del 1916 e il cui compito, dice Gentile, «è fare l’opera di Kant nostro pensiero attuale» (Teoria generale dello spirito come atto puro, in Id., Opere filosofiche, a cura di E. Garin, 1991, p. 670). E di costituire un punto cruciale nella collocazione dell’attualismo che supera il filologismo necessario per leggere le tappe del percorso di un filosofo. Questo compito non è evitabile e, per come ho potuto, lo ho esercitato. Ma devo ribadire, a fine percorso, quanto accennavo all’inizio, che con la Riforma stava nascendo un’altra filosofia, oltre Kant e oltre Hegel, che, facendo coincidere integralmente la verità con il fare del pensiero, rendendo impossibile il trascendimento dell’esperienza, inaugurava un’epoca postmetafisica (come, con altri strumenti e pensieri, stava tentando Heidegger) con in epigrafe:
Fermo [l’idealismo attuale] nel concetto della realtà dell’essere nel pensiero, non può più ammettere una idealità, né una forma qualsiasi dell’essere che trascenda l’attualità del pensiero; e fa avvertire che ogni pensato [...] è reale nell’atto unico del pensiero che lo pensa, e soltanto lì ha la sua verità (Riforma, p. 12).
S. Natoli, Giovanni Gentile filosofo europeo, Torino 1989.
A. Del Noce, Giovanni Gentile. Per una interpretazione filosofica della storia contemporanea, Bologna 1990.
A. Del Noce, Da Cartesio a Rosmini. Scritti vari, anche inediti, di filosofia e storia della filosofia, a cura di F. Mercadante, B. Casadei, Milano 1992, pp. 533 e segg.
E. Severino, Heidegger e la metafisica, Milano 1994, p. 25.
L. Scaravelli, La logica gentiliana dell’astratto, a cura di V. Stella, Soveria Mannelli 1999.
V. Vitiello, Hegel in Italia. Dalla storia alla logica, Milano 2003.