Nell’ultimo ventennio un sempre più ampio gap tra la complessità delle sfide che un mondo ormai globalizzato pone quotidianamente alla comunità internazionale e i mezzi che questa ha a disposizione nella più grande e rappresentativa organizzazione internazionale esistente ha reso evidente l’urgenza di un cambiamento, anche istituzionale, nella governance delle Un.
Ciò comporta non solo la necessità di un aggiornamento delle policies e delle competenze dei vari organi delle Nazioni Unite, ma anche una revisione della stessa architettura istituzionale, specie dei suoi fori intergovernativi, pensata ormai più di sessant’anni fa e quindi sulla base di un’agenda internazionale e di un equilibrio di potenza mondiale profondamente diversi da quelli attuali.
Sono dunque due le macrodirezioni verso cui si è andato indirizzando tanto il dibattito quanto le prime misure già adottate nel processo di riforma del sistema Un. Da un lato, migliorare ciò che già esiste e cercare di rendere più efficienti ed efficaci gli interventi che i dipartimenti, le agenzie, i fondi e i programmi delle Nazioni Unite mettono in campo: un obiettivo da perseguire tramite la razionalizzazione delle risorse impiegate, il perfezionamento dei meccanismi di accountability (in grado di identificare una catena di compiti e ruoli più chiara), la ristrutturazione o la creazione ex novo di strutture e organismi con l’obiettivo di aggiornarne politiche, progetti e missioni.
Dall’altro, adeguare i meccanismi e le titolarità all’interno degli organi decisionali ai mutamenti sostanziali che sono occorsi da quando la Carta delle Nazioni Unite è stata scritta, specie in considerazione dei nuovi equilibri di potere emersi a seguito del recente processo di transizione dello status di potenza da alcune regioni mondiali ad altre, e che hanno registrato l’affermazione di nuove realtà emergenti sulla scena politica mondiale.
La prima direzione ha riguardato soprattutto la risposta alle emergenze umanitarie, il perfezionamento delle operazioni di peacekeeping, una maggior attenzione alla fase di ricostruzione successiva ai conflitti e ancora la messa in campo di nuovi strumenti per sfide, più o meno recenti, non sufficientemente affrontate in passato. Ne sono esempi l’istituzione del Department of Field Support (2007), la proposta di istituire una centrale per il peacekeeping nel continente africano, la ristrutturazione del Department for Disarmament Affairs (oggi diventato Office for Disarmament Affairs), e ancora la creazione della United Nations Entity for Gender Equality and the Empowerment of Women (2010), e di due importanti nuovi organi come il Consiglio dei diritti umani e la Commissione per il consolidamento della pace.
La seconda direzione, invece, ha visto convergere (ma non coincidere) la volontà della gran parte dei membri di riformare tutti e tre gli organismi intergovernativi delle Un: l’Assemblea generale, il Consiglio economico e sociale (Ecosoc) e il Consiglio di sicurezza. Se, per quanto riguarda l’Assemblea generale, si è cercato di restituirle il ruolo di centro di impulso politico di tutto il sistema Un, migliorandone i metodi di lavoro e i collegamenti con gli altri organi, ugualmente importante è stato il tentativo di rafforzare l’Ecosoc come corpo di riferimento nel collegare le Nazioni Unite alle istituzioni finanziarie internazionali e alle principali organizzazioni della società civile degli stati membri.
È tuttavia la riforma del Consiglio di sicurezza, il più importante organo decisionale delle Un per la gestione e il mantenimento della sicurezza e della pace nel mondo, che negli anni ha non solo catalizzato la maggior attenzione politica e diplomatica degli stati membri, ma ha anche visto divergere le specifiche posizioni nel merito. Dopo più di quindici anni di dibattiti e round negoziali (che sono ripartiti nel 2009), emergono sostanzialmente almeno due visioni contrapposte di riforma. Da una parte ci sono quegli stati che, guidati dal cosiddetto gruppo dei quattro (G4), composto da Germania, India, Brasile e Giappone, vorrebbero mantenere inalterata la ratio della struttura e del funzionamento del Consiglio, allargandone tuttavia tanto il numero complessivo di membri (attualmente fissato a 15) quanto quello dei seggi permanenti (oggi detenuti dai cosiddetti big five e quindi da Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Regno Unito). Dall’altra parte troviamo invece coloro che sono fautori di un approccio più inclusivo e flessibile, che si oppone a un aumento dei seggi permanenti e tenta piuttosto di privilegiare, nella rappresentanza di un rinnovato Consiglio di sicurezza, il carattere plurale della comunità internazionale contemporanea, una maggiore rilevanza per la dimensione politica regionale e la ricerca di un più ampio consenso possibile, specie nell’assunzione di responsabilità in materia di sanzioni e peacekeeping. Capofila di questa seconda visione è il cosiddetto gruppo Uniting for Consensus, alla cui testa figurano paesi come l’Italia, il Messico, il Pakistan, l’Argentina e la Corea del Sud.