La "riforma Madia" del lavoro pubblico
Il contributo analizza la cd. “riforma Madia” sul pubblico impiego con particolare riferimento al d.lgs. 25.52017, n. 75. Il decreto interviene ampiamente sulle norme del d.lgs. 30.3.2001, n. 165, che può considerarsi il testo unico in cui è confluito l’intero moto di riforma del lavoro con le pubbliche amministrazioni denominato, con approssimazione, “privatizzazione”. Il quadro legislativo delineato è ancora incompleto e largamente incerto e ad oggi non si può ritenere chiuso il cantiere della riforma del pubblico impiego.
Con i d.lgs. nn. 74 e 75 del 25.5.2017 finalmente la l. delega 7.8.2015, n. 124 produce qualcosa di concreto nell’eterno cantiere della riforma dei rapporti di lavoro con la p.a. Il primo modifica il d.lgs. 27.10.2009, n. 150, noto come “decreto Brunetta”; il secondo interviene ampiamente sulle norme del d.lgs. 30.3.2001, n. 165, che, pur non essendolo in senso stretto [1], può considerarsi il testo unico in cui è confluito l’intero moto di riforma del lavoro con le pubbliche amministrazioni denominato, con approssimazioni, “privatizzazione” [2]. Vanno poi anche considerati il d.lgs. 20.6.2016, n. 116, in materia di procedure e sanzioni disciplinari (cd. “decreto furbetti”), e il d.lgs. 4.4.2016, n. 171, in materia di dirigenza sanitaria, precedenti rispetto ai d.lgs. nn. 74 e 75, ma consolidati solo dopo i d.lgs. correttivi, rispettivamente, 20.7.2017, n. 118 e 26.7.2017, n. 126. La nuova riforma (cd. “riforma Madia”) giunge a valle di un percorso tortuoso, più volte interrotto, in ogni caso realizzato in modo lento e parziale [3]. In un confronto, anche superficiale, con le tre riforme precedenti (Amato/Cassese 1992-93; Bassanini 1997-98; Brunetta 2009) risulta, per ambiti e tempi, la riforma più incerta e stentata della pur lunga storia del cambiamento delle regole dell’antico pubblico impiego. Forse solo la legge quadro del 1983 ebbe un tempo di gestazione più lungo: ma si trattava di un processo di trasformazione che andava avanti dagli anni ’60 e che ancora non aveva trovato una canalizzazione istituzionale condivisa e convincente. Nel lento processo della riforma Madia si staglia la vicenda della delega in materia di dirigenza, che ha visto solo un’attuazione assai parziale, cioè limitata al già citato decreto sulla dirigenza sanitaria. Invece il d.lgs. di portata più generale, previsto dall’art. 11 della l. n. 124/2015, è giunto ad un soffio dall’approvazione definitiva in un Consiglio dei Ministri di fine novembre 2016, con esaurimento dei termini fissati dalla l. n. 124/2015, ma è stato bloccato per la sentenza della C. cost., 25.11.2016, n. 251, che rilevava un contrasto con l’art. 117 Cost. di tutti i decreti attuativi della delega approvati fino a quel momento [4]. Si è trattato di un vulnus grave per il disegno riformatore. Ma in quel disegno molti aspetti si prestavano a critiche (appesantimento di regole e procedure; sottovalutazione del legame tra dirigenza e organizzazione specifica) [5]; per cui non è male fare di necessità virtù e ripensare l’approdo della l. n. 124/2015, forse innovativo, ma in più direzioni poco condivisibile. Pur lasciando da parte la questione della dirigenza, non è agevole capire profondità e direzione della riforma riavviata nel 2015, realizzata non solo sfruttando fino allo stremo i confini temporali della delega, ma anche dopo molti eventi politico-istituzionali che hanno non poco inciso – com’era prevedibile – sui contenuti finali dei decreti approvati (a cominciare dal referendum costituzionale del 4.12.2016). In particolare va tenuto presente che il 30.11.2016 il Ministro della Funzione Pubblica Marianna Madia – impegnando politicamente il Governo Renzi in carica, anche nella qualità di legislatore delegato – siglò un accordo con i sindacati confederali nei quali si concordava un’attuazione della l. n. 124/2015 piuttosto divergente rispetto all’originaria ispirazione della delega. Tuttavia, non essendosi modificata la norma di delega, l’esercizio del potere legislativo in capo al Governo deve sempre poter essere ricondotto in qualche modo agli artt. 16 e 17 della l. n. 124/2015. In definitiva il d.lgs. n. 75/2017 [6] risulta composto da 25 articoli, di cui la maggior parte modificano norme del d.lgs. n. 165/2001. Le materie su cui più si incide sono: fonti; fabbisogni di personale e reclutamento; lavoro flessibile o, in genere, non standard; disabilità; relazioni sindacali e procedure di contrattazione collettiva; responsabilità disciplinare (alla quale son dedicati, oltre al d.lgs. n. 116/2017, ben 6 articoli, dal 12 al 17); controllo sulle assenze per malattie; reintegrazione.
Pur tenendo dunque doverosamente conto del sofferto iter che l’ha condotto in porto, va riconosciuto che il d.lgs. n. 75/2017 tocca punti importanti e delicati degli assetti legislativi della materia, costringendo operatori e dottrina ad uno sforzo di ricostruzione sia del sistema sia della disciplina di vari istituti cardine del lavoro pubblico.
Nell’approfondire le modifiche al d.lgs. n. 165/2001, va anzitutto affrontato un problema di coerenza con la l. delega [7]. La riforma è infatti basata su alcuni principi e criteri direttivi generali, di cui il primo è «elaborazione di un testo unico delle disposizioni in ciascuna materia, con le modifiche strettamente necessarie per il coordinamento delle disposizioni» stesse (art. 16, co. 2, lett. a, l. n. 124/2015) e quelle consentite dagli ulteriori principi e criteri direttivi di cui al medesimo art. 16, co. 2, lett. b, c, d e all’art. 17. Da sottolineare è che il nuovo testo unico, salvo le modifiche riconducibili strettamente all’art. 17 in relazione agli istituti o alle problematiche espressamente previste, è configurato come prevalentemente compilativo, consentendosi solo «le modifiche strettamente necessarie per garantire la coerenza giuridica, logica e sistematica della normativa e per adeguare, aggiornare e semplificare il linguaggio normativo» e la «risoluzione delle antinomie in base ai principi dell’ordinamento e alle disposizioni generali regolatrici della materia» (art. 16, co. 2, lett. b, c). Il d.lgs. n. 75/2017 al riguardo si presenta problematico per almeno tre motivi:
a) formalmente non si configura come un nuovo testo unico compilativo, modificando il preesistente d.lgs. n. 165/2001;
b) il legislatore, sin dal titolo del decreto (che non richiama l’art. 16, co. 2, lett. a, l. n. 124/2015), sembrerebbe non aver avuto intenzione di elaborare un nuovo testo unico;
c) non sono facilmente rinvenibili né le «coerenze» né «i principi dell’ordinamento e le discipline generali», soprattutto in ordine a snodi delicati sui quali si interviene (risistemazione delle fonti; ambito e livelli della contrattazione; poteri datoriali e, in particolare, potere disciplinare; lavori flessibili; reintegrazione).
Nonostante tali vizi d’origine, l’interprete, in relazione a ciascun ambito esaminato e nell’insieme delle disposizioni, può e deve verificare se sia possibile ricostruire nel d.lgs. n. 165/2001 novellato nel 2017, anche al di là dell’intentio legis e del mancato richiamo dell’art. 16, co. 2, lett. a) della l. n. 124/2015, un tessuto normativo che conferisca ex post alla riforma le caratteristiche di un testo unico vero e proprio, con le “qualità” indicate espressamente nell’art. 16, co. 2, lett. b), c) e d) (principi omogenei; disciplina generale, cioè riferibilità a tutti i contesti regolati; equilibrio tra disposizioni generali e speciali, cioè coordinamento e coerenza giuridica, logica e sistematica della normativa; poche misure contingenti e/o eccezionali).
Una delle questioni più discusse a partire almeno dal 2009 (ma già dal 2003) è se il lavoro pubblico continua ad essere collocato in un regime giuridico di tipo prevalentemente “privatistico” (secondo le “discipline generali” desumibili dalla l. 11.2.1992, n. 141 e l. 28.2.1997, n. 56, poi entrambe confluite nel d.lgs. n. 165/2001) o graviti di nuovo in un “ambito” pubblicistico. Per molti la “vera privatizzazione” comporterebbe una legislazione in gran parte “comune” ai rapporti di lavoro con i privati, mentre nell’ultimo decennio si riscontrerebbe una crescente divaricazione. Le ambiguità/incertezze non vengono affatto superate dal d.lgs. n. 75/2017, anzi risultano per certi versi accentuate (ad es. in materia disciplinare si punta su una più marcata legificazione, mentre nel privato tutto è lasciato all’iniziativa gestionale); per altri versi invece sembra riprendersi una qualche coerenza con il diritto comune del lavoro (ad esempio dando nuova centralità della contrattazione collettiva). La questione va risolta guardando a caratteristiche di sistema, come le categorie di fondo (contratto individuale, contratto collettivo, atti gestionali) su cui è basata la disciplina e la giurisdizione, aspetti che non sono stati mai modificati dagli interventi successivi al compimento della privatizzazione realizzato con la l. n. 56/1997. Quanto ai singoli contenuti precettivi più specifici, dal lontano 1992/93 troppa acqua è passata sotto i ponti anche del diritto del lavoro dei privati per utilizzare il medesimo parametro di un quarto di secolo fa (privatizzazione come unificazione pressoché totale delle regole: un assetto, tra l’altro, mai pienamente realizzato).
Su questo delicato aspetto c’è una chiara inversione di tendenza rispetto alla riforma del 2009. Il novellato art. 2, co. 2, del d.lgs. n. 165/2001, prevede che «le disposizioni di legge, regolamento o statuto, che introducano o che abbiano introdotto discipline dei rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche, o a categorie di essi, possono essere derogate nelle materie affidate alla contrattazione collettiva ai sensi dell’articolo 40, comma 1, e nel rispetto dei principi stabiliti dal presente decreto, possono essere derogate da successivi contratti o accordi collettivi nazionali e per la parte derogata non sono ulteriormente applicabili». In tal modo, non solo viene superata la formulazione introdotta con la l. n. 15/2009, secondo cui le normative unilaterali potevano essere derogate da parte dei contratti solo ove ciò fosse «espressamente previsto dalla legge», ma si va anche al di là del testo originario del decreto del 2001, dove la derogabilità era prevista facendo salva «la legge (che) disponesse espressamente in senso contrario». Non è però neanche ora escluso, secondo i principi generali, che una legge successiva deroghi al nuovo disposto del d.lgs. n. 165/2001. Viene poi esplicitamente affermato che l’effetto derogatorio delle previsioni contrattuali rispetto a quelle delle fonti legislative (o regolamentari) non riguarda solo le leggi successive all’entrata in vigore del d.lgs. n. 75/2017, ma anche quelle precedenti (in particolare, quelle emanate a partire dal 2009). Sicuramente, in riferimento al rapporto legge/contratto, la scelta di tornare alla regola sistematica della derogabilità è coerente, oltre che con l’accordo fra Governo e sindacati del 30.11.2016, con un assetto improntato ad un principio di delegificazione organica, in virtù del quale alla contrattazione collettiva viene assegnato un ruolo cruciale nella disciplina di istituti necessari per una gestione moderna ed equilibrata delle risorse umane nelle pubbliche amministrazioni (senza una pervasiva e minuziosa regolazione legislativa): ciò significa fare della delegificazione mediante contrattazione un punto di fondo del nuovo testo unico sul lavoro pubblico. Questa scelta, al di là delle norme in cui viene racchiusa la “delegificazione organica”, dovrebbe essere conseguentemente fatta operare per tutto il lavoro pubblico “contrattualizzato”, chiudendo la “parentesi” aperta nel 2009, e riprendendo a dettare regole idonee a favorire reali negoziazioni in tutti i comparti e a tutti i livelli, sostenendo, in particolare, le concrete capacità dei diversi “attori” pubblici. Va però valutato attentamente, istituto per istituto, se si torna agli assetti maturati dopo la l. n. 56/1997 o se non vi sia un regime differenziato ratione materiae.
Sulle relazioni sindacali si registra innanzitutto una modifica all’art. 5, co. 2, d.lgs. n. 165/2001 dal tenore dimesso, ma emblematico: mentre prima si limitava la tipologia delle relazioni sindacali all’informazione, oggi si fanno salve «le ulteriori forme di partecipazione». La formula è da interpretare e, soprattutto, tradurre in istituti e regole più dettagliate. Ma costituisce senz’altro un’apertura verso modalità gestionali incentrate su un maggiore coinvolgimento dei lavoratori e/o dei loro sindacati. La riforma sceglie poi di riconoscere un maggiore spazio alla contrattazione nazionale, pur ribadendo che si tratta di una contrattazione in libertà vigilata (una via di mezzo tra le riforme Bassanini, da un lato, e Brunetta, dall’altro). Indicativi al riguardo sono i co. 4-bis e 4-ter aggiunti all’art. 40 del d.lgs. n. 165/2001, che assegnano precisi compiti alla contrattazione in tema di razionalizzazione dei fondi per la contrattazione integrativa e di misure per contrastare l’assenteismo, anche se, a ben guardare, si tratta di norme più con valore di indirizzo che realmente conformativo.
Nella delega sembrava poi che la contrattazione integrativa dovesse essere il fulcro dell’intervento riformatore; invece le modifiche sono tutto sommato ridotte e la contrattazione resta limitata e funzionalizzata, sideralmente distante dal privato di oggi (v. ad es. le norme transitorie di cui agli artt. 2223 del d.lgs. n. 75/2017). Al riguardo particolare rilevanza assume il nuovo art. 40, co. 3-ter, che ribadisce sia il potere unilaterale delle amministrazioni di regolare la materia in caso di mancato accordo per la stipulazione dell’accordo integrativo ove possa esservi «un pregiudizio alla funzionalità dell’azione amministrativa»; sia la possibilità che i contratti nazionali individuino un termine “minimo” (ma forse si voleva dire “massimo”) di durata delle sessioni negoziali in sede decentrata, decorso il quale l’amministrazione può in ogni caso provvedere, in via provvisoria, sulle materie oggetto del mancato accordo. La disposizione – attuativa di un punto specifico del citato accordo del 30.11.2016 («i contratti collettivi determineranno la durata massima della vigenza dell’atto unilaterale») – appare confusa e farraginosa: andrebbe armonizzata con la facoltà dei CCNL di fissare un termine per negoziazioni decentrate già prevista in precedenza dall’art. 40, co. 3-bis, d.lgs. n. 165/2001; e manca di chiarezza sui presupposti e sull’assestamento temporale della disciplina unilaterale (dalla natura giuridica assai vaga). Anche il d.lgs. n. 75/2017 sembra consapevole della necessità di registrare tale disciplina dal momento che istituisce un osservatorio a composizione paritetica presso l’Aran, con «il compito di monitorare i casi e le modalità con cui ciascuna amministrazione adotta gli atti» unilaterali a seguito di sforamento dei termini per la contrattazione.
Si tratta di due aspetti fondamentali per la semplificazione e l’omogeneizzazione dei meccanismi selettivi dei pubblici dipendenti, con potenziali effetti positivi anche sui tempi e sui costi delle varie procedure. Sul primo aspetto si introducono regole teoricamente migliorative, ma affidate ad una capacità programmatoria in gran parte da realizzare (art. 4 d.lgs. n. 75/2017). Quanto alle procedure concorsuali, il legislatore delegato sceglie di incidere solo su alcuni specifici profili (percentuale di idonei, titoli dei candidati, coinvolgimento nello svolgimento dei concorsi della Commissione RIPAM e del Formez: v. art. 6 d.lgs. n. 75/2017), rinunciando ad intervenire in altri ambiti pure individuati dalla l. delega (art. 17, co. 1, lett. b, c, d) e affidando ad un futuro intervento del Dipartimento della funzione pubblica l’individuazione di linee guida sullo svolgimento di prove concorsuali ispirate alle migliori pratiche nazionali e internazionali. Emblematico del tipo di intervento è comunque il citato art. 6, co. 1, d.lgs. n. 75/2017, che, alla lett. a), prevede per le singole amministrazioni solo “la facoltà” di limitare il numero di idonei nei concorsi e “la possibilità” di valorizzare il titolo di dottore di ricerca.
Particolare attenzione (art. 10) viene prestata a specifiche misure di sostegno per l’inserimento al lavoro dei disabili (materia regolata dalla l. 12.3.1999, n. 68, ma rivisitata di recente dal d.lgs. 14.9.2015, n. 151): si istituisce la Consulta nazionale per l’inserimento in ambiente di lavoro delle persone con disabilità e, nelle amministrazioni con più di 200 dipendenti, il responsabile dei processi di inserimento al lavoro. Infine si perfeziona il sistema informativo a carico delle amministrazioni, con riferimento sia al circuito nazionale (DFP) sia a quello periferico (centri per l’impiego territorialmente competente), prevedendo, in caso di inadempimento degli obblighi informativi specifici, l’invio numerico dei disabili ad opera del centro per l’impiego, che potrà attingere “alla graduatoria vigente con profilo professionale generico”.
Sul lavoro flessibile sembrerebbe che si voglia tornare all’unificazione normativa, stando al riferimento testuale al cd. codice dei contratti del d.lgs. 15.6.2015, n. 81 inserito dal d.lgs. n. 75/2017 (art. 9) nell’ennesima versione dell’art. 36 del d.lgs. n. 165/2001. Per molti aspetti però si tratta di un ritorno solo apparente, permanendo rilevanti differenze nella disciplina dei vari istituti della flessibilità. La riformulazione dell’art. 36, co. 2, del d.lgs. n. 165/2001 risulta infatti troppo generica e il rinvio ora previsto al d.lgs. n. 81/2015 foriero di varie confusioni interpretative. Innanzitutto andrebbe esplicitato – in coerenza con la lett. o) dell’art. 17 della l. n. 124/2017, che chiede la «individuazione di limitate e tassative fattispecie» – quali sono i contratti di lavoro “flessibile” utilizzabili dalle amministrazioni pubbliche. L’elenco, tenuto presente quanto dispone il d.lgs. n. 81/2015, potrebbe essere composto dal lavoro a tempo determinato, dal lavoro part-time (in ipotesi, anche a termine), dalla somministrazione di lavoro a tempo determinato (l’unico richiamato dal nuovo art. 36, co. 2, d.lgs. n. 165/2001) e dal lavoro accessorio. Da questa elencazione rimarrebbe fuori l’apprendistato, che però, pur non essendo a rigore lavoro flessibile (dal momento che è lo stesso legislatore a qualificarlo come contratto di lavoro a tempo indeterminato: v. art. 41 del d.lgs. n. 81/2015), non è affatto precluso alle amministrazioni pubbliche nella tipologia di apprendistato professionalizzante e di alta formazione e ricerca (artt. 44-45 del d.lgs. n. 81/2015). Un suo utilizzo sarebbe auspicabile al fine di incentivare l’occupazione giovanile nelle amministrazioni pubbliche, ma da tempo si attende una regolamentazione ad hoc almeno sulle modalità di reclutamento.
Nella disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, principale veicolo della flessibilità, il d.lgs. n. 75/2017 non unifica privato e pubblico, perché opta per la permanenza della “causalità” (rimane il solito riferimento alle «comprovate esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale»). Il contestuale rinvio ai contenuti di cui agli artt. 19 e ss. del d.lgs. n. 81/2015 (salvo l’espressa esclusione della normativa in materia di diritti di precedenza) crea una certa confusione. Se infatti l’impianto regolativo del contratto a termine nel lavoro privato è incentrato, come ben noto, sulla “acausalità” del rapporto di lavoro a termine, almeno sarebbe stata necessaria una regolazione specifica sulle proroghe. Opportuna sarebbe stata anche una disciplina delle clausole di contingentamento, non stabilite per legge in modo esplicito per il lavoro pubblico, ma rimesse integralmente alla contrattazione collettiva (o vale il 20% dell’organico come nel privato, aggiuntivo al limite causale?); come pure occorrerebbe una espressa presa di posizione sulla vexata quaestio del risarcimento del danno in caso di violazione di disposizioni imperative, che ha dato luogo ad un significativo contenzioso proprio nel pubblico [8].
Con riguardo ad altre forme di lavoro non standard (parasubordinazione), la novella di cui all’art. 5 del d.lgs. 75/2017 presenta un assetto molto restrittivo (in particolare v. il novellato art. 7, co. 6, d.lgs. n. 165/2001), ma non privo di ambiguità. In particolare la formulazione proposta lascia aperto il dubbio circa la possibilità per le amministrazioni pubbliche di avvalersi delle collaborazioni coordinate e continuative di cui all’art. 409, n. 3, c.p.c., fatte esplicitamente salve dall’art. 52, co. 2, del d.lgs. n. 81/2015, ed oggi ancor più di prima (almeno nel privato) riconducibili al lavoro autonomo, dal momento che l’art. 2 del medesimo d.lgs. n. 81/2015 sembra riproporre uno schema binario autonomia/subordinazione nella tipologia di utilizzo del lavoro altrui.
È vero che il nuovo art. 7 del d.lgs. n. 165/2001 rende definitiva l’inapplicabilità dell’art. 2, co. 1, del d.lgs. n. 81/2015 alle pubbliche amministrazioni, ma ciò non toglie che con le pubbliche amministrazioni si possano stipulare contratti ex art. 409, n. 3, c.p.c. che prevedano prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative ma con modalità di esecuzione relative ai tempi e al luogo di lavoro non organizzate dal committente. Sul lavoro accessorio è intervenuto da ultimo l’ art. 54 bis del d.l. 24.4.2017, n. 50 introdotto dalla l. 21.6.2017, n. 96, che qui non può essere analizzato [9]. Mentre per la parziale novità del lavoro a distanza (oggi smart working) l’art. 14 della l. n. 124/2015, seppure richiamando con terminologia imprecisa il telelavoro, lo incentiva direttamente nell’ambito della conciliazione lavoro/vita privata (con l’obiettivo di raggiungere il 10% entro il 2020), rinviando per il resto ad una direttiva del Presidente del Consiglio poi adottata (n. 3 dell’1.6.2017). La disciplina specifica sui rapporti di lavoro va ora coordinata con la l. 22.5.2017, n. 81, di dubbia praticabilità proprio nelle pubbliche amministrazioni per la centralità di un inedito accordo individuale su vari aspetti della disciplina.
Quanto alle stabilizzazioni dei pregressi rapporti di lavoro flessibili (art. 17, co.1, lett. a, l. n. 124/2015) siamo nella tradizione, a sanatoria dei soliti guasti. A parte i dubbi di costituzionalità, c’è da chiedersi se le procedure previste dall’art. 20 del d.lgs. n. 75/2017 siano razionalmente inclusive e se, rispetto al passato, vi sono più garanzie che non si ripropongano i soliti guasti.
Molte novità soprattutto in ordine al potere disciplinare, oggetto di un intervento di razionalizzazione/sistemazione delle modifiche apportate dal 2009 in poi. Le norme sono da analizzare nel dettaglio. Nell’insieme pare difficile valutare se si tratti di fumo, non necessariamente legato ad arrosto. Destinato ad avere un impatto applicativo pare l’istituzione del polo unico per le visite fiscali, previsto dal novellato art. 55 septies del d.lgs. n. 165/2001 e già operativo dal 1.9.2017.
Al riguardo il d.lgs. n. 75/2017 (art. 21) novella l’art. 63 del d.lgs. n. 165/2001, inserendovi sostanzialmente il testo originario dell’art. 18 st. lav., innovato sensibilmente quanto al profilo risarcitorio. La scelta si presenta opinabile per fondamento normativo e contenuti precettivi, ma fornisce una direzione chiara di disciplina dell’istituto nel lavoro pubblico dopo un quinquennio di distrazioni, incertezze e contrasti giurisprudenziali. Per spiegarne il fondamento nella delega il riferimento alle antinomie, che si legge nel parere del Consiglio di Stato, 21.4.2017 n. 916, mi pare sostanzialmente corretto. Infatti, le antinomie in tema di applicabilità della cd. “tutela reale” nelle amministrazioni pubbliche sussistono e sono propriamente riconducibili a irrisolti contrasti tra principi e regole del lavoro pubblico. In materia le riforme legislative che si sono susseguite dal 2009 in poi hanno “perso la bussola” soprattutto perché nella legislazione sul lavoro privato si è progressivamente superata l’unicità testuale e precettiva in tema di reintegrazione. L’istituto non è stato affatto legislativamente superato, ma, al contrario, sono state introdotte tre diverse versioni della reintegrazione (o tutela reale) tutte potenzialmente coesistenti proprio nell’area del lavoro pubblico [10]. Così stando le cose, si può senz’altro ritenere che nella disciplina dei rapporti di lavoro globalmente e unitariamente ci sia un problema di antinomie [11] di principio e di regole specifiche in ordine allo spazio da riconoscere alla tutela reale contro i licenziamenti illegittimi. In presenza di queste antinomie, ricorrendo tutti gli altri presupposti inizialmente richiamati per invocare i principi di delega di cui all’art. 16 co. 2, lett. c) della l. 124/2015, la scelta di cui all’art. 21 del d.lgs. n. 75/2017 potrebbe avere il suo fondamento, sebbene così l’antinomia si superi incamminandosi indubbiamente verso una ulteriore diversificazione di disciplina tra lavoro privato e pubblico.
A voler sintetizzare alcune impressioni di fondo, ciò che appare piuttosto evidente nella riforma Madia è la riproposizione non solo e non tanto di vecchie ideologie, ma di un insieme di valori, modelli e persino luoghi comuni che riemergono dagli sviluppi normativi degli ultimi trent’anni. Questo ricco “armamentario” pare collocato nella riforma del 2015/17 su un piano di coesistenza paritaria, con un grado di crescente ambivalenza sistematica. Solo per fare alcuni esempi: nella dirigenza si oscilla tra il rilancio di una burocrazia a vocazione generalista-repubblicana e la persistente evocazione di un manager/datore di lavoro; nel sistema delle fonti si riprende la delegificazione tramite contrattazione collettiva (fonte più dinamica), ma senza rinunciare ad una maggiore “legificazione” (unilateralità come veicolo di buon andamento); la meritocrazia viene ribadita (più investimento micro-organizzativo), ma mantenendo un tasso di regolazione procedurale piuttosto accentrato affidato alla legge o ad organismi ministeriali (Funzione pubblica); il rafforzamento del sistema punitivo è affidato alla legge piuttosto che a scelte squisitamente organizzative (impulso legale); la reintegrazione viene rilanciata (con qualche eccezione legata all’anima disciplinare della riforma), ma senza una chiara scelta di principio (stabilità come risoluzione di antinomie piuttosto che come principio ordinamentale). Le “ideologie” cui si possono ricondurre le diverse scelte non sempre sono facilmente coordinabili. Le direttive iniziali della stessa riforma Madia sembrano smentite in tutto o in parte (governo centralizzato della riforma; meno sindacato; iper-responsabilizzazione di una dirigenza ad alta professionalità ma molto al servizio della politica). Non è chiaro se nelle modifiche apportate da ultimo al d.lgs. n. 165/2001 tali coordinate vengono corrette con convinzione o con opportunismo politico. Il problema è se le diverse “ideologie” si combinano meglio o peggio di prima. Sembra esserci molto spazio per un nuovo polimorfismo modellato su impulso di settori, amministrazioni, sinergie tra i vari soggetti. Ma anche per inerzie o nuova grande confusione, disomogeneità, se non vere e proprie giungle normative e organizzative. Qui particolarmente grave appare, oltre la mancata riforma della dirigenza, la persistenza di tre vecchi problemi irrisolti o risolti male:
a) lo snellimento delle procedure di assunzione;
b) la persistente confusione in ordine all’utilizzazione delle varie forme di lavoro flessibile;
c) il mancato rafforzamento del soggetto pubblico nelle contrattazioni decentrate.
Ciò non vuol dire che il nuovo quadro normativo non possa servire a far ripartire nuove sperimentazioni di gestioni innovative. In un quadro legislativo incompleto e largamente incerto, conterà però più di quanto dovrebbe essere fisiologico la politica, nei diversi contesti, con tutte le convulsioni che oggi la caratterizzano. Per alcuni versi ci si deve augurare che la riproposizione di alcune linee portanti del passato possano aprire nuovi percorsi che portino, su scenari di maggiore coesione politico-sociale, nuove idee più chiare e tra loro coerenti. Per ora tutto appare molto abbozzato e affidato a futuri imprevedibili sviluppi. Insomma il cantiere generale della riforma del lavoro pubblico sembra ancora lontano dal chiudersi.
[1] V. Zoppoli, L., Le fonti: recenti dinamiche e prospettive, in Santoro Passarelli, G., a cura di, Diritto e processo del lavoro e della previdenza sociale, Milano, 2017, 2689 ss.
[2] Di recente sulla correttezza dell’espressione Gardini, R. La dirigenza locale in bilico tra uniformità e specialità, in Lav. pub. amm., 2016, 156 ss.; Esposito, M., Il contratto collettivo nel lavoro pubblico: così speciale così reale, in Zoppoli, L.Zoppoli, A.Delfino, M., a cura di, Una nuova Costituzione per il sistema di relazioni sindacali?, Napoli, 2014, 79 ss.
[3] V. Zoppoli, L., L’impiego pubblico tra riforme urgenti (e serie), riforme apparenti (e inutili) e svalutazione del lavoro, in Economia e società regionale, 2016, 1, 12 ss.
[4] V. Battini, S., Cambiamento amministrativo, cambiamento giurisprudenziale, cambiamento costituzionale, e Alaimo, A., La “Riforma Madia” al vaglio della Corte costituzionale, in Dir. lav. mer., 2017, 121 ss.. Frutto di questa sentenza sono anche i citati d.lgs. n. 118/2017 e d.lgs. n. 126/2017, correttivi dei d.lgs. nn. 116/2016 e 171/2016.
[5] V. Zoppoli, L., Reclutamento e ruolo unico: filosofie organizzativo-istituzionali e tecniche regolative, in Lav. pub. amm., 2016, fasc. 12. L’intero fascicolo appena citato è dedicato a questa materia con contributi di Boscati, A.Gardini, R.Garilli, A.Nicosia, G.Ricci, M.Santucci, R.Voza, R., (e Talamo, V., nel fasc. 34).
[6] Sull’altro d.lgs. n. 74/2017 v. in questo volume, Diritto del lavoro, 3.2.1 Performance: strumenti per la misurazione e verifica.
[7] V. D’Alessio, G.Zoppoli, L., Riforma della pubblica amministrazione: osservazioni sugli schemi di d.lgs. attuativi dell’art. 17 della legge n. 124/2015, in www.astridonline.it aprile 2016.
[8] Da ultimo v. Cass., S.U., 15.3.2016, n. 5072, su cui da ultimo De Luca, M., Precariato pubblico: condizionalità eurounitaria per divieti nazionali di conversione, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.INT – 134/2017, 13.
[9] V. Monda, P., Prime riflessioni sulla nuova disciplina del lavoro occasionale, in Mass. giur. lav., 2017.
[10] V. Luciani, V., L’art. 18 dello Statuto e il suo doppio: due versioni aspettando l’armonizzazione, in Dir. lav. mer., 2016, 682-683.
[11] Antinomie imputabili all’ordinamento giuridico – nel senso di insieme coerente di regole – che in quanto tali devono essere risolte dall’interprete, con particolare urgenza al momento della soluzione della controversia giudiziaria, e che non sempre possono essere risolte secondo i criteri consolidati per evitare il concorso/conflitto regolativo (gerarchico, cronologico, di specialità, ecc.). Dall’assenza di una soluzione interpretativa sufficientemente piana deriva che le antinomie posso tradursi e amplificarsi nella molteplicità degli orientamenti giurisprudenziali anche delle Alte Corti.