La "riforma Madia": rapporto tra legge delega e decreti attuativi
Il contributo ha ad oggetto il rapporto tra le deleghe per la riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche, segnatamente in materia di lavoro pubblico contrattualizzato, ed i decreti legislativi emessi nell’esercizio delle deleghe. La dichiarazione di illegittimità costituzionale di alcune disposizioni della legge di delega in ragione della mancata previsione della previa intesa in sede di Conferenza tra Stato e Regioni ha richiesto l’emanazione di successivi decreti correttivi a sanatoria di quelli privi di tale previa intesa.
Il Governo, così come con la l. 10.12.2014, n. 183 (cd. Jobs act), è stato delegato ad operare una vasta riforma della disciplina del lavoro, che costituisce un intervento complessivo di politica sociale di ampio respiro, parallelamente con la l. 7.8.2015, n. 124 (cd. legge Madia), ha parimenti avuto plurime deleghe per riformare e riorganizzazione le amministrazioni pubbliche, compreso il rapporto di impiego con le stesse. Nel complesso si tratta di una estesa e tendenzialmente organica riforma di grande incidenza nell’assetto sociale ed economico del paese, mirata ad invertire la negativa situazione congiunturale che si protrae dalla crisi finanziaria del 2007; riforma imperniata su due leve fondamentali, quali quelle del lavoro e della pubblica amministrazione.
La spinta di questo intervento riformatore si giova della sinergia delle modifiche normative complessivamente introdotte dai plurimi decreti delegati in questi due importanti settori; ma il processo riformatore si è dovuto confrontare, da ultimo, con la recente dichiarazione di illegittimità costituzionale (C. cost., 25.11.2016, n. 251) di alcune disposizioni della legge delega n. 124/2015 in ragione della mancata previsione della previa intesa in sede di Conferenza tra Stato e Regioni; ciò ha richiesto l’emanazione, nel corso del 2017, di successivi decreti correttivi a sanatoria di quelli privi di tale previa intesa. La pronuncia è di particolare interesse perché sembra chiamare il legislatore regionale (e delle Province autonome) ad un ruolo partecipativo più ampio, anche al di là degli stretti limiti del riparto di competenze legislative disegnate dal nuovo art. 117 Cost.
Al fine di riorganizzare le amministrazioni pubbliche la l. n. 124/2015 ha previsto plurime deleghe al Governo riguardanti il pubblico impiego, la riorganizzazione dell’amministrazione statale centrale e periferica, la digitalizzazione della p.a., la semplificazione del procedimenti amministrativi, la razionalizzazione ed il controllo delle società partecipate, l’anticorruzione e la trasparenza. Tra queste sono state previste, in particolare, distinte deleghe in materia di dirigenza pubblica e di valutazione dei rendimenti dei pubblici uffici (art. 11), di disciplina del rapporto di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche con connessi profili di organizzazione amministrativa (art. 17), di regolamentazione delle partecipazioni societarie delle amministrazioni pubbliche (art. 18), di disciplina dei servizi pubblici locali di interesse economico generale (art. 19). Sono queste le deleghe attinte dalla dichiarazione di parziale illegittimità pronunciata con la cit. sent. n. 251/2016 della Corte costituzionale. Di queste, ricade nella materia del lavoro pubblico, in particolare, quella dell’art. 17 cit., recante appunto la delega per il riordino della disciplina del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche; la quale ha previsto, segnatamente al co. 1, lett. s), come principio e criterio direttivo l’introduzione di norme in materia di responsabilità disciplinare dei pubblici dipendenti finalizzate ad accelerare e rendere concreto e certo nei tempi di espletamento e di conclusione l’esercizio dell’azione disciplinare. Nell’esercizio di queste specifiche deleghe, poco prima della cit. pronuncia di incostituzionalità, erano stati approvati dal Consiglio dei ministri gli schemi dei decreti di riforma della dirigenza pubblica (art. 11) e dei servizi pubblici locali (art. 19) ed erano stati varati tre decreti legislativi: n. 116 del 20.6.2016 sul licenziamento disciplinare dei pubblici dipendenti, n. 171 del 4.8.2016 sulla dirigenza sanitaria e n. 175 del 19.8.2016 sulle società a partecipazione pubblica. Su tutti questi ha inciso la pronuncia di incostituzionalità arrestando l’iter dei primi due ancora in via di emanazione e richiedendo per gli altri tre decreti delegati, nel corso del 2017, distinti decreti correttivi a sanatoria di possibili vizi di illegittimità costituzionale derivata.
Il primo decreto delegato di intervento correttivo (d.lgs. 20.7.2017, n. 118) ha avuto ad oggetto il d.lgs. n. 116/2016, che aveva apportato modifiche all’art. 55 quater del d.lgs. 30.3.2001, n. 165, intervenendo sulla responsabilità disciplinare dei dipendenti pubblici. In particolare in tale disposizione sono stati introdotti i co. 1-bis, 3-bis, 3-ter, 3-quater e 3-quinquies che arricchiscono la regolamentazione del trattamento disciplinare da riservare ai dipendenti pubblici, dando rilievo al ruolo dei dirigenti quanto al controllo da esercitare sui singoli lavoratori. Il legislatore delegato, pur legittimato dalla delega cit., non è però inizialmente intervenuto per estendere al lavoro pubblico la modulazione delle tutele del nuovo art. 18 st. lav. (l. 20.5.1970, n. 300), come modificato dalla l. 28.6.2012, n. 92 (cd. riforma Fornero), cui è ispirata, da ultimo, anche la più recente disciplina del licenziamento disciplinare nel rapporto di lavoro a tutele crescenti. Ciò il legislatore non ha fatto, forse, confidando sulla simmetria di disciplina con il lavoro privato che avrebbe comportato l’estensione della riforma anche al settore pubblico. Ma in tal modo è apparsa essere confermata, indirettamente, la scelta del co. 7 dell’art. 1 della l. n. 92/2012 di lasciare inalterata la più favorevole normativa di tutela costituita dall’art. 18 cit. nel testo precedente tale ultima legge. Il citato co. 7 dell’art. 1 stabilisce, infatti, che le disposizioni della stessa legge «per quanto da esse non espressamente previsto» – e quindi salva espressa diversa disposizione – costituiscono «principi e criteri» per la regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni e quindi non sono direttamente applicabili in tutto il loro contenuto precettivo.
In proposito, quasi contemporaneamente al decreto delegato cit., è intervenuto un arresto giurisprudenziale che ha invece predicato l’applicabilità del precedente testo dell’art. 18 al lavoro pubblico contrattualizzato (Cass., 9.6.2016, n. 11868)[1]. Secondo questa pronuncia, in caso di licenziamento irrogato al lavoratore pubblico contrattualizzato in violazione delle regole del procedimento disciplinare non si applicano le modifiche apportate all’art. 18 dalla l. n. 92/2012. Ma un successivo decreto legislativo nell’esercizio della medesima delega (d.lgs. 25.5.2017, n. 75), recante norme ulteriori sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, ha previsto, all’art. 21, che il giudice, con la sentenza con la quale annulla o dichiara nullo il licenziamento, condanna l’amministrazione alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, e comunque in misura non superiore alle ventiquattro mensilità, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative. Il datore di lavoro è condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali. È stata anche prevista la facoltà del giudice, nel caso di annullamento della sanzione disciplinare per difetto di proporzionalità, di rideterminare la sanzione, in applicazione delle disposizioni normative e contrattuali vigenti, tenendo conto della gravità del comportamento e dello specifico interesse pubblico violato.
È stata quindi introdotta, nell’esercizio della delega di cui alla l. n. 124/2015, una disciplina differenziata che scherma, in parte qua, l’art. 18 st. lav.; disposizione che pertanto non risulta più applicabile, in questi casi, al lavoro pubblico contrattualizzato.
La l. n. 124/2015 – come già ricordato – è stata dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale con la cit. sent. n. 251/2016 per violazione del principio di leale collaborazione tra Stato e Regioni perché alcune disposizioni sono state ritenute incidenti, a vario titolo, su materie di competenza regionale, senza che vi sia stata la previa intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni. La dichiarazione di incostituzionalità è stata di tipo additivo-sostitutivo di procedimento perché pronunciata nella parte in cui la delega aveva previsto che i decreti legislativi attuativi fossero adottati previa acquisizione del parere reso in sede di Conferenza unificata, anziché previa intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni.
La cit. pronuncia è particolarmente significativa perché la Corte costituzionale, pur riconoscendo che la propria precedente giurisprudenza è nel senso che il principio di leale collaborazione non si impone al procedimento legislativo, ha però affermato che là dove, tuttavia, il legislatore delegato si accinge a riformare istituti che incidono su competenze statali e regionali, inestricabilmente connesse, sorge la necessità del ricorso all’intesa. In particolare la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle seguenti già menzionate deleghe contenute nelle l. n. 124/2015:
a) la delega in materia di dirigenza pubblica e di valutazione dei rendimenti dei pubblici uffici (art. 11, co.1 e 2);
b) la delega per il riordino della disciplina in materia di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche e connessi profili di organizzazione amministrativa (art. 17, co. 1);
c) la delega per il riordino della disciplina in materia di partecipazioni societarie delle amministrazioni pubbliche (art. 18);
d) la delega per il riordino della disciplina in materia di servizi pubblici locali di interesse economico generale (art. 19).
In sostanza la Corte ha ritenuto incostituzionali le cit. disposizioni della legge delega perché prevedevano una semplice acquisizione del parere della Conferenza Stato-Regioni e non una vera e propria intesa per l’approvazione dei decreti attuativi. In vero nella specie il principio collaborativo non era stato negletto dalla legge di delega che conteneva già la generale prescrizione del previo parere della Conferenza unificata per l’esercizio delle deleghe in materia di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, di partecipazioni societarie delle amministrazioni pubbliche e di servizi pubblici locali di interesse economico generale (art. 16, co. 4) e segnatamente in materia di dirigenza sanitaria (art. 11, co. 2). E, quanto alla delega in materia di dirigenza pubblica, era prescritta finanche la previa intesa rispettivamente in sede di Conferenza Stato-Regioni e di Conferenza unificata, ma limitatamente all’istituzione del ruolo unico dei dirigenti regionali e dei dirigenti degli enti locali (art. 11, co.1, lett. b, nn. 2 e 3). Ma ciò non è stato ritenuto sufficiente dovendo essere maggiore e più intenso il coinvolgimento del legislatore regionale. Del resto, stante la perdurante mancata attuazione dell’art. 11, co. 2, l. cost. 19.1.2001, n. 3, che prevede l’integrazione della Commissione parlamentare per le questioni regionali con la partecipazione di rappresentanti delle Regioni, delle Province autonome e degli enti locali, il previo raggiungimento dell’intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni o di Conferenza unificata (più raramente di Conferenza con gli enti locali) rappresenta l’espressione più forte del principio collaborativo nel riparto delle competenze legislative che la giurisprudenza costituzionale ha ritenuto di elaborare da tempo, già nel contesto dell’originario art. 117 Cost. ossia del cd. primo regionalismo. A seguito di questa pronuncia di incostituzionalità il Governo ha lasciato scadere i termini della delega per l’approvazione dei decreti di riforma della dirigenza pubblica e dei servizi pubblici locali, che – come ricordato – stavano per essere emanati essendo stati già approvati gli schemi dei relativi decreti legislativi. Il Governo ha invece acquisito l’intesa della Conferenza unificata, oltre ai prescritti pareri delle competenti Commissioni parlamentari, e successivamente ha emanato tre decreti correttivi, rispettivamente:
a) d.lgs. 20.7.2017 n. 118, correttivo del d.lgs. n. 116/2016 (licenziamento disciplinare);
b) d.lgs. 26.7.2017, n. 126, correttivo del d.lgs. n. 171/2016 (dirigenza sanitaria);
c) d.lgs. 16.6.2017 n. 100, correttivo del d.lgs. n. 175/2016 (t.u. in materia di società a partecipazione pubblica).
Il principio collaborativo nel riparto delle competenze legislative Stato-Regioni è stato più volte affermato dalla giurisprudenza costituzionale[2], ma quest’ultima più recente pronuncia della fine dello scorso anno fa un significativo passo in avanti nella misura in cui la Corte ritiene che il principio collaborativo trovi applicazione anche nel caso di una legge delega mirata a riformare istituti che incidono su competenze statali e regionali “inestricabilmente connesse”. Il possibile intreccio delle competenze legislative, quelle statali di carattere esclusivo e quelle regionali di natura concorrente o residuale, laddove non sia identificabile una competenza prevalente che renda recessive le altre, costituisce il terreno elettivo del principio collaborativo nella forma della previa intesa. Ciò è stato ripetutamente ritenuto dalla giurisprudenza che ha sottolineato che il principale strumento che consente alle Regioni di avere un ruolo nella determinazione del contenuto di taluni atti legislativi statali che incidono su materie di competenza regionale è costituito dal sistema delle Conferenze [3]. È questa la sede del confronto in esito al quale si individuano soluzioni concordate di questioni controverse [4]. In passato però si era ritenuto che il principio collaborativo e segnatamente la previa intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni non operassero nel caso del procedimento legislativo di produzione della normativa primaria. Anche recentemente [5] la Corte ha affermato che l’esercizio della funzione legislativa non è soggetto alle procedure di leale collaborazione, né tali procedure si impongono al legislatore statale nel procedimento legislativo, ove ciò non sia specificamente previsto [6]. Ricorrente è stata l’affermazione che il «principio di leale collaborazione […] non può mai essere riferito al procedimento legislativo» [7] e che «è giurisprudenza pacifica di questa Corte che l’esercizio dell’attività legislativa sfugge alle procedure di leale collaborazione» [8]. Tale affermazione discende dal rango costituzionale delle norme che regolano il procedimento legislativo. Insomma, prima si riteneva che l’intesa in sede di Conferenza – che la normativa ordinaria deve contemplare in caso di competenze «inestricabilmente connesse» – riguardasse il livello sub-primario della normativa (quale quella regolamentare) o l’attività amministrativa, ma non quella primaria perché equiordinata rispetto alla norma che tale intesa prevede (o che è costituzionalmente illegittima nella parte in cui non la prevede). Sicché le pronunce di incostituzionalità di tipo additivo, che hanno visto inserita, nella disposizione censurata, la previa intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni, fanno riferimento alla normativa subprimaria che ben può essere condizionata, nel procedimento formativo, da quella primaria [9]. Nel caso particolare della legislazione delegata, la legge di delega – che deve contenere princìpi e criteri direttivi perché l’esercizio della funzione legislativa sia legittimamente delegato al Governo (art. 76 Cost.) – può prevedere anche prescrizioni di carattere procedimentale [10]. Si è quindi ritenuto che nelle deleghe che incidono su competenze delle Regioni il legislatore delegante può porre anche limiti costituiti da regole procedimentali finalizzate all’attuazione del principio collaborativo.
Con la cit. sent. n. 251/2016 la giurisprudenza costituzionale amplia l’ambito in cui è necessaria la previa intesa in sede di Conferenza StatoRegioni perché tra i limiti ulteriori della delega ex art. 76 Cost. predica, quale canone generale, la necessità della previa intesa per l’adozione di decreti legislativi che tocchino materie di competenza statale e regionale «inestricabilmente connesse», così dando un rilievo forte, anche sul piano del procedimento legislativo, al principio collaborativo. È vero che, in mancanza di ulteriori specificazioni, deve ritenersi che l’intesa prescritta per effetto della dichiarazione di incostituzionalità sia quella ordinaria prevista, in generale, dall’art. 3 del d.lgs. 28.8.1997, n. 281, che consente alla fine la decisione del Governo, e non già quella speciale, cd. intesa “forte”, contemplata dall’art. 8, co. 6, della l. 5.6.2003, n. 131, che tale deliberazione unilaterale esclude. Il mancato raggiungimento dell’intesa non preclude, di per sé, l’adozione unilaterale dell’atto essendo il decreto legislativo un atto a struttura necessariamente unilaterale, fermo in ogni caso il successivo controllo di costituzionalità ad opera della Corte. Rispetto alla sola previsione del previo parere, ritenuta insufficiente, la prescrizione in radice della previa intesa proprio per l’emanazione dei vari decreti legislativi in attuazione delle richiamate deleghe rappresenta un indubbio rafforzamento del principio collaborativo. Comunque rileva l’aspetto sostanziale della leale collaborazione, nel senso che, affinché il mancato coinvolgimento di tale Conferenza, pur previsto da un atto legislativo di rango primario, possa comportare un vulnus al principio costituzionale di leale cooperazione, è necessario che in concreto vi sia l’incidenza su ambiti materiali di pertinenza regionale [11].
La sentenza in esame si segnala non solo per la forte valorizzazione del principio collaborativo nei termini di cui si è finora detto, ma anche per l’approccio sostanzialistico nel prefigurare le conseguenze delle plurime dichiarazioni di illegittimità costituzionale che hanno riguardato le (sopra menzionate) deleghe (quella di cui all’art. 11 e quelle di cui agli artt. 1619). Di queste una – quella di cui agli artt. 16, co. 1, lett. b), e 18 – era già stata pienamente esercitata (d.lgs. n. 175/2016, recante il testo unico in materia di società a partecipazione pubblica) all’epoca della sentenza; altre – in materia di lavoro pubblico contrattualizzato – erano state esercitate in parte (quelle di cui all’art. 11, co. 1, lett. p), e agli artt. 16, co. 1, lett. a), e 17, attuate rispettivamente con il d.lgs. n. 171/2016 in materia di dirigenza sanitaria e d.lgs. n. 116/2016 in materia di licenziamento disciplinare); per le altre, i cui decreti legislativi erano in fase più o meno avanzata, la mancata intesa in sede di Conferenza, dopo la dichiarazione di illegittimità costituzionale in parte qua della legge di delega, ne ha precluso la loro adozione e quindi è necessaria una nuova delega.
Rispetto invece ai decreti legislativi già adottati la Corte deliberatamente si è astenuta dal pronunciare l’incostituzionalità derivata ex art. 27 della l. 11.3.1953, n. 87 sicché può ben dirsi che l’omissione della previa intesa, prima della dichiarazione di illegittimità costituzionale della legge di delega nella parte in cui tale intesa non prevede, non comporta automaticamente l’illegittimità costituzionale del decreto legislativo. L’illegittimità derivata sussiste solo ove in concreto, in caso di impugnazione di disposizioni del decreto legislativo, risulti esserci una “effettiva lesione” delle competenze regionali. Anche in passato la Corte [12] ha applicato un criterio sostanzialistico nello scrutinare la legittimità costituzionale di un decreto legislativo che vedeva una formale violazione del procedimento di formazione dello stesso, perché non era stato acquisito il parere in sede di Conferenza, prescritto dalla legge di delega, ma che non è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo perché in concreto le prerogative regionali non erano state violate.
Dopo e a seguito della stessa sent. n. 251/2016 il Governo ha adottato i sopramenzionati decreti correttivi nel corso del corrente anno.
È la stessa sentenza cit. a lasciare intendere che i decreti correttivi possono avere un effetto sanante; ciò perché la lesione delle competenze regionali deve essere valutata in concreto – afferma la Corte – «alla luce delle soluzioni correttive che il Governo riterrà di apprestare al fine di assicurare il rispetto del principio di leale collaborazione».
Nell’adottare i decreti correttivi il Governo ha previamente investito la Conferenza per l’intesa così sanando il possibile vizio di illegittimità costituzionale derivata, conseguente alla pronuncia della Corte. Ove la disposizione del decreto legislativo originario, adottato inizialmente senza l’intesa, non abbia già avuto attuazione, mancherebbe, dopo il decreto correttivo, l’interesse ad agire per promuovere la questione di costituzionalità in via principale ed altresì, in ipotesi, la rilevanza per sollevare analoga questione in via incidentale. In tal senso appare essere anche il parere della Commissione speciale nominata con decreto 28.12.2016, n. 177 del Presidente del Consiglio di Stato che ha reso il parere n. 83 del 17.1.2017 richiesto dal Governo. Quindi i decreti legislativi già adottati nell’esercizio della delega suddetta non sono radicalmente illegittimi, quale che sia il loro contenuto, per violazione di una regola del procedimento legislativo, ma lo sono limitatamente alle previsioni che vedono convergere in modo “inestricabile” competenze legislative statali (esclusive) o regionali (concorrenti o residuali). C’è il problema della possibile efficacia retroattiva della disciplina correttiva apparendo ciò sempre compreso nella delega ad emanare decreti correttivi. Il decreto correttivo può prevedere che le norme correttive abbiano la stessa efficacia temporale del decreto legislativo oggetto di correzione. Può ricordarsi che una retroattività naturale è quella che l’art. 77, co. 3, Cost. attribuisce alla legge che regola i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti-legge non convertiti; secondo la Corte [13] la norma costituzionale abilita il legislatore a dettare una regolamentazione retroattiva dei rapporti. Anzi, allorché [14] vi era la prassi, non ancora censurata dalla Corte, della reiterazione dei decreti-legge in ragione di una invariata e perdurante situazione di urgenza e necessità, la salvezza degli effetti di tutti i precedenti decreti legge prevista, con disposizione di chiusura, dalla legge di conversione dell’ultimo decreto-legge della catena, si riteneva anche che determinasse un continuum normativo facendo risalire nel tempo la nuova disciplina alla originaria disposizione decaduta e consolidandola negli effetti, così da assicurare la permanenza dei medesimi senza soluzione di continuità [15]. La stessa giurisprudenza costituzionale ammette le leggi di sanatoria, anche se le ritiene sottoposte a uno «scrutinio particolarmente rigoroso» [16]. Quindi, con la riserva di tale controllo di costituzionalità, si ha che l’effetto correttivo sanante opera retroattivamente eliminando ex tunc il vizio procedimentale. Nella specie in sede di Conferenza Stato-Regioni vi è stata la conferma del testo originario e può anche dirsi che l’intesa si riferisca altresì agli effetti relativi al periodo intercorso tra l’entrata in vigore del decreto legislativo originario e quella delle misure di correzione.
In disparte il decreto legislativo correttivo n. 100/2017, recante il testo unico in materia di società a partecipazione pubblica, gli altri due decreti correttivi hanno riguardato il lavoro pubblico contrattualizzato: il n. 118/2017 in materia di licenziamento disciplinare e il n. 126/2017 in materia di dirigenza sanitaria. Nelle premesse del primo decreto correttivo si dà atto che è stata acquisita l’intesa della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano sul d.lgs. n. 116/2016, e sulle integrazioni e modifiche apportate a tale decreto legislativo con il provvedimento correttivo, nella seduta del 16.3.2017; talché il contenuto principale del decreto correttivo appare essere proprio quello di sanare possibili vizi di illegittimità costituzionale derivata per effetto della cit. pronuncia di incostituzionalità. Ed infatti l’art. 1 conferma integralmente il contenuto del precedente d.lgs. n. 116/2016; mentre l’art. 2 inserisce nelle premesse del decreto legislativo il riferimento all’acquisizione, ora per allora, del’intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, raggiunta nella seduta del 16.3.2017. Il contenuto dispositivo in termini innovativi è invece assai limitato perché riguarda l’allungamento del termine per la denuncia al pubblico ministero e la segnalazione alla competente procura regionale della Corte dei conti a partire dall’avvio del procedimento disciplinare e del termine per l’esercizio dell’azione di responsabilità dopo la denuncia. È stato poi introdotto l’obbligo di comunicazione degli atti conclusivi dei procedimenti disciplinari all’Ispettorato per la funzione pubblica. Parimenti, quanto alla disciplina della dirigenza sanitaria, il decreto correttivo n. 126/2017 conferma tutte le disposizioni del precedente d.lgs. n. 171/2016 ed inoltre inserisce nelle sue premesse il riferimento all’acquisizione dell’intesa Stato-Regioni in sede di Conferenza permanente. Entrambi i decreti correttivi fanno salvi gli effetti già prodotti dal d.lgs. n. 116/2016 e dal d.lgs. n. 171/2016.
La rilevanza dell’intreccio delle competenze legislative di Stato e Regione, che è al fondo della pronuncia di incostituzionalità per la mancata previsione della previa intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni, non conduce però a modificare quella giurisprudenza che esclude la competenza regionale in materia di pubblico impiego, anche del personale regionale. Dalla prescrizione della previa intesa non può desumersi una modifica dei criteri di riparto di competenze legislative. Ed infatti successivamente la Corte[17] ha confermato che, per effetto della privatizzazione del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, la regolamentazione dello stesso concerne una materia attinente all’ordinamento civile, attratta nella competenza esclusiva dello Stato, essendo la disciplina del rapporto di lavoro infatti contraddistinta dal concorso della fonte legislativa statale (le previsioni imperative del d.lgs. n. 165/2001) e della contrattazione collettiva (art. 2 del d.lgs. n. 165/2001), alla quale, in forza della legge statale, è attribuita una potestà regolamentare di ampia latitudine. Quindi – ha ulteriormente precisato la Corte [18] – anche, ad es., la disciplina del tempo della prestazione lavorativa deve essere ricondotta alla materia dell’ordinamento civile, in quanto parte integrante della disciplina del trattamento normativo del lavoratore dipendente, sia pubblico che privato. Questo generale principio è stato, da ultimo, ribadito dalla Corte [19] altresì con riferimento al personale regionale, essendosi affermato che, a seguito della privatizzazione del pubblico impiego la disciplina del trattamento giuridico ed economico dei dipendenti pubblici – tra i quali, ai sensi dell’art. 1, co. 2, d.lgs. n. 165/2001 sono ricompresi anche i dipendenti delle Regioni – compete unicamente al legislatore statale, rientrando nella materia «ordinamento civile».
[1] Cfr. Amoroso, G., Art. 18 st. lav. e pubblico impiego, in Libro dell’anno del Diritto 2017, Roma, 2017, 393.
[2] ex plurimis, C. cost., 1.10.2003, n. 303; C. cost., 22.7.2010, n. 278.
[3] C. cost., 23.11.2007, n. 401.
[4] Cfr. C. cost., 1.2.2006, n. 31.
[5] C. cost., 24.3.2016, n. 65.
[6] V. anche, in senso conforme, C. cost., 5.4.2013, n. 63; C. cost., 19.3.2010, n. 112; C. cost., 20.5.2008, n. 159; C. cost., 23.11.2007, n. 387.
[7] C. cost., 19.12.2012, n. 299; conf. C. cost., 6.11.2009, n. 289.
[8] C. cost., n. 401/2007.
[9] C. cost., 21.1.2016, n. 7; C. cost., 11.2.2016, n. 21; C. cost., 16.9.2016, n. 211.
[10] C. cost., 28.7.2004, n. 280.
[11] C. cost., n. 401/2007.
[12] C. cost., 2.2.2011, n. 33.
[13] C. cost., 21.3.1996, n. 84.
[14] Prima della C. cost., n. 360/1996.
[15] C. cost., n. 84/1996.
[16] C. cost., 5.2.1999, n. 14.
[17] C. cost., 13.4.2017, n. 81 e C. cost., 14.7.2017, n. 197.
[18] C. cost., 26.1.2017, n. 121.
[19] C. cost., 13.7.2017, n. 175.