La riforma protestante
Il ruolo di Venezia nella diffusione del luteranesimo, come poi di altre confessioni non cattoliche o eterodosse, fu senza dubbio molto rilevante non solo per l'incomparabile attività tipografica, ma anche e anzi ancor più per la singolare caratteristica di non acquisire passivamente gli scritti di Lutero e di Zwingli e di Calvino, perché si cercava di adattarli possibilmente alla peculiare sensibilitas religiosa veneziana, mediante ben adeguate interpolazioni ovvero addirittura divergenti, e assai significative, interpretazioni dottrinali. Non è da ritenere quindi eccezionale, "felice trapianto del discorso protestante in terra italiana, un'opera di notevolissimo livello, anche letterario", che Bartolomeo Fonzio contribuì a "riciclare" nel 1533: il Libro de la emendatione et correctione dil stato Christiano; già Delio Cantimori lo segnalò come tipico della tendenza dei riformati italiani a tradurre la protesta teologico-religiosa d'oltralpe in un discorso di denuncia etico-politica (1).
Preliminarmente è da considerare una difficoltà, insormontabile talvolta nell'esegesi delle fonti storiche, per l'uso indiscriminato e quasi onnicomprensivo del termine "luteranesimo", che spesso non lascia nemmeno trasparire la particolare professione di fede. Si devono quindi riscontrare, nel contesto documentario, indizi non trascurabili, come già notò Valdo Vinay (2) sugli influssi zwingliani e calvinisti, ben diversi da quelli luterani: è "certamente errato vedere la presenza di un moto luterano dove si hanno delle manifestazioni iconoclastiche, perché il luteranesimo non è stato mai iconoclasta" (3). Un'altra difficoltà interpretativa si avverte nel distinguere i luterani dai cosiddetti eretici (4), poiché nell'Italia della controriforma diventarono sinonimi.
Il primo caso documentato di propaganda filoluterana risale al giorno di Natale del 1520, quando l'agostiniano ferrarese Andrea Baura, o Bauria, che aveva fama di seguire la "doctrina di fra Martin Luther, homo doctissimo, qual seguita San Paulo et è contrario al Papa molto", predicò a una gran folla radunata nel piazzale di campo Santo Stefano e, parlando da un balcone per farsi meglio sentire, "disse mal dil Papa e di la corte romana", secondo la testimonianza di Marin Sanudo (5). Fu il preludio di quella che divenne una sorta di "eresia in pergamo" (6); piuttosto che seguire le ulteriori vicende del frate, appare interessante rilevare la fervida accoglienza veneziana nei riguardi dell'inconsueta predicazione, che presuppone un'attesa non soltanto curiosa (ovvero una ricerca già progressiva del rinnovato messaggio evangelico) e, in pari tempo, spiega il rapido costituirsi di conventicole eterodosse. Non senza fondati motivi Clemente VII, con il breve del 12 gennaio 1524 al nunzio Tommaso Campeggi e poco dopo con il dispaccio del 25 gennaio, ribadì l'urgenza di vigilare sui predicatori e sulla stampa e insieme sul mercato librario che dovunque, principalmente a Venezia e nel dominio veneto, diffondeva opuscoli luterani o luteraneggianti (7).
In quegli stessi anni, dal 1520 al 1525, per iniziativa soprattutto dell'umanista tedesco Friedrich Nausea, che studiava giurisprudenza nell'ateneo patavino e nel 1523 fu assunto come segretario dal nunzio pontificio Campeggi a Venezia, le opere di Erasmo vennero sollecitamente ristampate dal tipografo Gregorio de Gregoriis e diffuse e anche adottate per l'insegnamento, sull'esempio pure del Nausea che nel 1521 tenne un corso universitario di grammatica latina, poetica e retorica (8). Non appare fortuito che quasi tutti quelli che parteciparono ai circoli erasmiani di Padova e Venezia siano poi diventati fautori di una qualche riforma religiosa, sia cattolica sia protestante, coltivando tenacemente il sogno di un compromesso dottrinale, come Lucio Paolo Rosello (9), o preferendo infine l'esilio purioris religionis causa, come Pier Paolo Vergerio (10).
Un esempio precoce e illuminante dei reiterati tentativi, da parte degli erasmiani, di procedere all'adattamento cauto e intelligente, quanto ben appropriato ed efficace, di alcuni opuscoli dottrinali di Lutero per renderli meno ostici e anzi conformi, il più possibile, alla cultura umanistica e alla sensibilità religiosa veneziana, nonché italiana, si ebbe nel 1526 con la ristampa in chiave appunto erasmiana di un'antologia di scritti luterani che lo stesso tipografo veneziano Nicolò di Aristotile Rossi, detto Zoppino, aveva già pubblicata anonima un anno prima. Il frontespizio così recita testualmente: La declaratione delli dieci commandamenti: del Credo: del Pater noster: con una breve annotatione del vivere christiano per Erasmo Rotherodamo utile et necessaria a ciascuno fidele christiano. Può stupire che la contraffazione dell'autore sia rimasta insospettata, anche nelle altre due riedizioni del 1532 e del 1540 (pure del tipografo Zoppino) e infine nella ristampa del 1543 "in Vinegia per Bernardino de Viano de Lexona Verzelese" (11). Ma perfino la recente storiografia, sulla scia di Benedetto Croce, ha continuato ad annoverare quest'opera fra le traduzioni cinquecentesche di Erasmo in italiano. Dei motivi che indussero gli editori veneziani ad ascrivere il volumetto catechetico di Lutero a Erasmo, nonostante la distanza ormai incolmabile che nel 1526 separava "i due corifei della teologia rinnovata", appaiono convincenti quelli considerati da Silvana Seidel Menchi: gli scritti di Erasmo "per superiori disposizioni" della Santa Sede continuavano a mantenersi "intangibili", sebbene fossero già fortemente sospetti e quindi "un esame censorio superficiale e frettoloso [...> avrebbe registrato senza sorpresa proposizioni scandalose, scismatiche e magari francamente eretiche, mettendole tutte sul conto di Erasmo"; a Venezia, e nel resto d'Italia, la "disputa teologica che divise [a partire dal 1524> Erasmo e Lutero" rimase scarsamente avvertita, se non ignorata, e addirittura si mantenne la convinzione che "Erasmo equivaleva a un Lutero più temperato, più cauto, più abile" (12).
Certo è che la propaganda filoluterana proseguì soprattutto fra i letterati, al punto che Girolamo Ferro in una lettera del 26 novembre 1531 da Venezia poteva testimoniare: "Apud nos etiam, ne ullus locus hoc careret incommodo, non defuere aut desunt nunc qui Lutheri causam, licet eius nomini parcant, pro concione defendant, quorum quidem optimus ipse vobis testis esse possum qui eorum concionibus saepe interfui. Patavium quoque hanc iampridem invasit pestis ut iam nemo in ea civitate literas scire videatur qui lutheranus non sit ". L'identificazione luterana è qui assai dubbia, non solo per le progressive tendenze di fautori piuttosto dell'ormai nascente movimento di riforma cattolica, con alcune caratteristiche veneziane che saranno ben presto evidenziate da Gasparo Contarini, ma anche perché allora specialmente a Padova l'intensa propaganda eterodossa faceva capo a Michele Gaismayr ed era senza dubbio secondo l'ecclesiologia zwingliana (13).
Propaganda sicuramente luterana, per quanto adattata alla mentalità italiana e alla peculiare sensibilitas religiosa veneziana (mediante interpolazioni così ampie e numerose da farne quasi una parafrasi, piuttosto che una traduzione), è invece il già citato Libro de la emendatione et correctione dil stato Christiano, che in tal modo "riciclava" il famoso appello di Lutero An den christlichen Adel deutscher Nation von des christlichen Standes Besserung.
Il nunzio pontificio a Venezia, Girolamo Aleandro, riuscì a raccogliere notizie abbastanza attendibili, consultando il frate minorita Bartolomeo Fonzio: quel volumetto anonimo era stato edito a Strasburgo per iniziativa di un autorevole patrizio veneziano, dopo essere stato dapprima tradotto in latino "assai grossamente" da un frate tedesco in Cipro e poi curato nella versione italiana "da un fra Thomaso da Casal minorita", non senza l'aiuto dello stesso Fonzio (14). Il nunzio Aleandro aggiunse, nel dispaccio del 23 aprile 1534, altre interessanti notizie, rettificandone qualcuna precedentemente trasmessa:
Io ho scoperto quasi per certa cosa che colui che ha tradotto quel mal libro in italiano, qual mandai, sia un gentilhuomo di questa terra, o almeno che lui sia stato l'autor di farlo stampare in Alemagna et che qua siano stati portati tutti li libri per una via insolita alla quale mai si soleva poner guardia, come ho poi inteso; et credo sia sparso per molte case di questa terra, ché fino una pizzocara è venuta a penitentia di averlo ascoltato leggere più volte, dove si leggeva come cosa di Orlando con applauso degli ascoltatori. Et mentre io scrivo queste, me ne sono stati portati dui volumi da uno il qual mi promise, se io lo voleva tener secreto, che me ne faria haver a mio piacer quanti io volessi, et è persona da ben et non suspetta di ciò (15).
Fra le moltissime interpolazioni e parafrasi, non è possibile qui accennare che a due motivi ricorrenti nel Libro: la contrapposizione del Christus pauper al dives, ossia all'Anticristo (16) ("Ah misero et cieco mondo come te lassi per il naso, come si fano li bufali, menare! Non vi accorgete o miseri christiani che sete da gli nostri papi, da gli nostri spirituali con pompe et con apparati extrinseci ingannati ... Certamente non è niuno di sano intellecto, el qual non cognosca et intenda che il principio de nostri spirituali non fu d'essere in tante delicatezze, come hoggidì sono nudriti, ma in somma inopia et povertà, la vita di Christo imitando") e il mercimonio simoniaco scandalosamente ampliato dall'accumulazione dei benefici ecclesiastici nelle mani dei cardinali:
Et come qualcuno ha comprata alcuna di queste sue licenze, bolle o brevi [...>, allhora quel tale puol liberamente vendere, impegnare, alienare li benefici, le possessioni, le intrate et Christo con sua madre [...>. Item vi prego, o Germani et Italiani, quante abbatie, quanti monasteri, quante ben dotate et riche chiese sono ruinate et vi si fa dentro hosteria et sono divenute lupanari, per cagione de gli nostri spiritualissimi cardinali? Et hano quatro et cinque vescovati, et non però de li poveri, ma de quelli che sono richissimi, ei hano XV. et XX. monasteri, XXX. et XL. prelature, L. et alcuna fiata C. chiese parrochiale. Questo è l'utele che porgeno alla universal chiesa, de ruinar tuto el mondo, di annihilar il culto de Dio, di spender li beni delle chiese, li quali sono stati lassati a laude et honor di Dio, in pompe, in buffoni, in meretrice, in cinedi, in cani.
Inoltre, le mutuazioni più o meno esplicite dalle opere di Erasmo ricollegano indubbiamente questo Libro alle precedenti contraffazioni "erasmiane" di opuscoli luterani. In realtà, tuttavia, non era il discorso teologico di Lutero "a imporsi agli italiani, ma un corollario (teologicamente secondario) di quel discorso", poiché l'interesse per gli scritti dei protestanti si limitava quasi a recepire, dalle nuove dottrine, nuovi argomenti per alimentare "la tradizionale polemica contro le degenerazioni degli ordini religiosi" (17).
D'altra parte, i controversisti cattolici come Ambrogio Catarino si mostravano fin troppo e vanamente faziosi, ripetendo che Lutero era un interessato, e quindi preconcetto, nemico del papa e dell'Italia per far piacere ai Tedeschi e così camuffare la velenosità della sua dottrina (18).
Ben diverso fu l'atteggiamento di Gasparo Contarini, sia intellettualmente sia religiosamente, che ancora nel febbraio 1523 dimostrava di comprendere il significato dei fondamenti della teologia luterana, come scriveva all'amico Tommaso Giustiniani:
Son venuto in questa firma conclusione, la quale, benché prima l'havesse lecta e l'havesse saputo dire, niente di meno ora per la experientia io la penetro benissimo con lo intellecto mio, cioè che niuno per le opere sue se puoi iustificare over purgare lo animo de li affecti, ma bisogna rincorrere a la divina gratia la quale se ha per la fede in Iesu Christo, come dice San Paulo [...>.
E poi, scrivendo al vescovo Gian Matteo Giberti di Verona il 12 giugno 1537, così precisò il suo biasimo nei confronti dell'insipiente zelo di quanti "habent zelum Dei, sed non scientiam": "li quali, perché Lutero ha detto cose diverse de gratia Dei et libero arbitrio, si hanno posto contra ogniuno il quale predica et insegna la grandezza della gratia et la infirmità humana; et credendo questi tali contradire a Lutero contradicono a santo Augustino, Ambrosio, Bernardo, san Thomaso; et breviter, mossi da buon zelo, ma cum qualche vehementia et ardore di animo non se ne acorgendo, in queste contradictioni loro deviano dalla verità catholica et si acostano alla heresia pellagiana e pongono tumulti nel populo" (19).
La crisi dei cosiddetti "spirituali", ritenuti più o meno filoprotestanti, si manifestò subito dopo la prematura scomparsa, nell'agosto 1542, del venerato cardinale Gasparo Contarini, che aveva magistralmente e prudentemente guidato il movimento veneziano della riforma cattolica; sogni e speranze degli irenici fautori di un compromesso dottrinario con i luterani svanirono e a chi, di fronte alle minacce inquisitoriali, volle mantenere una diversa professione di fede, non rimase che la via dell'esilio religionis causa oppure rassegnarsi a mentire nicodemicamente (20).
Nel frattempo, si era costituita clandestinamente a Venezia una Chiesa luterana piuttosto eterogenea: forse i primi adepti risalivano a vent'anni prima, perché Martino Butzer (Bucero) nella lettera pastorale Ad fratres Italiae del luglio 1526 alludeva già a un attivo discepolato e anzi fu in quella occasione che Lutero manifestò il suo arrabbiato dissenso nei confronti dello stesso Bucero, che aveva osato preferire la dottrina "umanisticamente" eucaristica di Zwingli ed Ecolampadio a quella, appunto luterana, della consustanzialità (21). Ma certamente in seguito si annoverarono comunità e chiese evangeliche a Venezia, direttamente collegate con Lutero almeno tra il novembre 1542 e il novembre 1544, quando gli indirizzarono ("Fratres Ecclesiae Venetiarum, Vicentiae, Tervisii, tibi in Christo deditissimi") richieste per meglio apprendere l'inequivocabile sua interpretazione del messaggio evangelico, in particolare sulla presenza di Cristo nell'eucarestia, per poter quindi eliminare le incertezze dottrinarie e le contrapposizioni che erano insorte. La risposta di Lutero ("Venerandis in Christo viris Ecclesiarum Venetiarum, Vicentiae et Tervisii fratribus, dominis suis observandissimis") condannò le insidie dei falsi profeti che, se non fossero state ben presto smascherate, avrebbero potuto rovinare del tutto e dissolvere il proselitismo già così fervente nell'ambito veneziano (22).
In quegli anni di appassionato fervore religioso si susseguirono altri "riciclaggi" di opuscoli luterani, abilmente adattati per un'efficiente propaganda (cancellando "frasi o espressioni giudicate compromettenti perché troppo esplicitamente luterane") e diffusi sotto il nome anche dell'ormai defunto cardinale Federigo Fregoso, che era tacciato di filoprotestantesimo e perciò poteva essere un espediente per eludere la censura: è, come altrove il nome di Erasmo, una "maschera" (23). Nel 1545 fu appunto edita "in Venetia per Comin da Trino di Monferrato" la Prefatione del reverendissimo Cardinal di Santa Chiesa M. Federico Fregoso nella Pistola di san Paolo a' Romani, traduzione (tuttavia con significativi tagli di frasi polemiche) della Prefatio methodica totius scripturae in Epistolam Pauli ad Romanos, e vernacula Martini Lutheri in latinum versa per Justum Jonam, pubblicata a Wittenberg nel 1524, che a sua volta risaliva all'originale Vorrede auff die Epistel S. Pauli an die Römer di Lutero del 1522. È da notare che il traduttore italiano, pur senza l'entusiasmo riscontrato nella precedente edizione curata da Bartolomeo Fonzio, dimostra di aver ben interpretato il concetto luterano (rimasto, se non del tutto inattingibile, almeno quasi ostico ai controversisti e anche ai non controversisti italiani) di "giustizia di Dio" coincidente o piuttosto risolvibile nel concetto di "misericordia di Dio" (24).
Fede non è una certa fredda opinione overo vago pensiero dell'animo humano, la quale alcuno si potrebbe imaginare et soltamente fingere udendo la storia del Vangelo [...>. La fede è una confidenza della misericordia di Dio verso de noi, che vive nel core et opera con efficacia, con la quale noi ci gettiamo tutti in Dio et ne concediamo a Dio, et da questa assecurati non dubitiamo patire mille volte la morte. Et questa tanto animosa confidentia della misericordia di Dio allegra il core, lo solleva, lo sveglia, lo rapisce con dolcissimi affetti verso Dio et lo inanimisce in tal modo, che '1 core d'uno credente non teme (confidato in Dio) d'opporsi solo a tutte le creature […>. Hora questa fede è la vera giustizia, la quale lo Apostolo chiama la giustitia di Dio.
Quasi contemporaneamente, verso la fine del 1545, circolò manoscritta la filoprotestante Oratione al doge Francesco Donado per il suo ingresso, esortatione alla riforma della Chiesa, che appare "un efficace attacco, più politico che religioso, contro la Chiesa romana" da parte del facondo e irruente Pier Paolo Vergerio (25), cosicché conferma l'atteggiamento preminentemente anticuriale della propaganda luterana in Italia e pur tuttavia dà esplicita testimonianza del propagarsi del movimento evangelico "per gratia di Dio", a tal punto che il doge neoeletto "si consolarebbe se se li potesse veder tutti davanti gli occhi". Anche Baldassarre Altieri, segretario dell'ambasciatore inglese a Venezia, si compiaceva del ben promettente proselitismo, scrivendo al Bucero e alla lega di Smalcalda il 26 settembre 1545 che i giovani senatori erano tanto entusiasti da far senz'altro sperare che presto si sarebbe lasciato liberamente predicare il Vangelo, nonostante l'aspra opposizione di alcuni vecchi patrizi, poiché gli stessi giovani erano riusciti a far sì che nessuno più nel loro dominio fosse condannato a morte religionis causa (26).
Due anni dopo, nel 1547, lo spiritualista eterodosso Francesco Stancaro dedicò pure al doge Francesco Donà il suo trattato Della riformatione, ma con espressioni molto più preoccupate del Vergerio: "[...> se veramente volete portar l'insegna di san Marco l'evangelista, è necessario che voi con fatti lo mostriate e secondo l'Evangelio riformate la Chiesa e lo Stato vostro", altrimenti sarà inevitabile ormai "la rovina nostra, sì del corpo come de l'anima" (27). In realtà, la strepitosa vittoria dell'imperatore Carlo V sulla lega di Smalcalda, il 24 aprile 1547, indusse la Serenissima a limitare dapprima la precedente tolleranza religiosa (28) e poi a provvedere piuttosto drasticamente nei confronti dei filoprotestanti rifugiatisi già in terra veneta, come lamentava Baldassarre Altieri nel settembre 1549: "Venetiis acerbiorem fieri persecutionem adversus Dei sanctos [...>; acerbiorem in dies [...> ; ista nimis insolens persecutio Venetorum" (29).
L'improvviso e rapido tramonto del luteranesimo a Venezia manifestò le inconciliabili divergenze dottrinali fra "Martiniani circa la cena del Signore" e i cosiddetti "Sacramentarii", ovvero luterani meno osservanti che nel marzo 1546 avevano acquisito influenti fautori nei compagni di fede fuggiti da Roma (30). Ma la causa del mutato atteggiamento veneziano nei confronti dei filoprotestanti (esclusi sempre quelli del fondaco dei Tedeschi, assai numerosi e rispettati per gli interessi commerciali) (31) è rintracciabile nella minacciosa diffida di Carlo V contro le trame diplomatiche antimperiali della lega di Smalcalda, che sembrava trovare consensi nella Repubblica veneta, tramite Guido Giannetti, ex segretario dell'ambasciatore inglese a Roma, e insieme tramite Baldassarre Altieri (che curava gli interessi dei principi tedeschi Giovanni Federico di Sassonia e Filippo d'Assia, oltre alla segreteria dell'ambasciatore inglese Sir Edmond Harvel in Venezia) (32).
La decisiva sconfitta della lega di Smalcalda, i cui stessi capi erano stati fatti prigionieri dall'esercito imperiale, influì negativamente sui filoprotestanti veneziani, tanto più che già da alcuni anni alla propaganda moderata luteraneggiante stava subentrando quella radicaleggiante calviniana, il cui primo manifesto (per quanto ancora intriso di reminiscenze luterane e, in parte, pure valdesiane) (33) si può considerare il famoso Beneficio di Cristo che venne pubblicato a Venezia "apud Bernardinum de Bindonis" nel 1543 ed ebbe una straordinaria diffusione in Italia e oltralpe (34). Ovviamente il più notevole successo si riscontrò fra gli "spirituali" che, dopo la morte del cardinale Gasparo Contarini loro saggio moderatore (35), avevano "radicalizzato all'estremo le dottrine del grande veneziano sconfinando decisamente nel campo della Riforma" (36).
Anzi quell'opuscolo era stato con umanistica perizia "abbreviato", sul canovaccio del monaco Benedetto da Mantova, nel circolo viterbese del cardinale Reginaldo Pole per opera di Marcantonio Flaminio, come poteva testimoniare Ludovico Beccadelli che il 29 gennaio 1544 scrisse al cardinale Marcello Cervini:
[...> a me piacque il libretto detto di sopra, lo qual vidi già tre anni sono, parendomi che andasse a questa via di farci conoscere il beneficio di Jesu Christo et infiammarci di lui, si come dovressimo fare, movendomi ancho l'autorità della persona che lo abbreviò, la quale ho per dotta et da bene [...>. Dio m'è testimonio qual sia il cor mio, et la pace et concordia che vorrei vedere non solo in Europa, ma in tutto il mondo ad honore della religione et salute nostra; ma la botega et mercantia che molti fanno sotto questi pretesti et la mala vita loro, che ogni dì vo più scoprendo mi fanno sospettare quod zelus domus domini non comederit eos, ma il suo particolare interesse (37).
Ancor prima di metter mano a quel "libretto", Marcantonio Flaminio si era manifestato filocalvinista e lo confermò poi perfino Pietro Carnesecchi ai giudici dell'Inquisizione romana: "Innanzi che andassimo a Viterbo, essendo il Flaminio alloggiato meco in Fiorenza, mi aveva fatto vedere un poco la Instituzione di Calvino, che mi aveva imbuto la mente di simili opinioni, nelle quali andai continuando insino a l'anno 1545, legendo spesso di quelli libri, e conversando con quelle persone che erano atte a confermarle ne l'animo" (38).
A Venezia ("grande emporio per lo scambio di merci e insieme di idee") ormai l'influenza di Lutero aveva ceduto il posto a quella di Calvino, non solo perché la Institutio christianae religionis fu tradotta nel volgare italiano fin dal 1542, per quanto parzialmente e adattandola alla diversa sensibilità religiosa, ma anche perché si rinnovarono le consuete contraffazioni. Così Pietro Brucioli, oltre alla traduzione della Bibbia in volgare e ai Dialogi, riuscì nella Pia esposizione a camuffare i suoi plagi (tradotti letteralmente o riassunti oppure rispecchiando sempre fedelmente il pensiero calviniano) (39) dall'Institutio di Calvino, tanto che nel primo processo veneziano del 6 dicembre 1548 l'inquisitore fra Marino lo dichiarò né "suspetto né imputato di heresia, né mancho li suoi libri composti et stampati nella ditta cità di Venetia cum el suo nome expresso sono damnati, né ancho reprobati, né di ciò fu mai parlato in iuditio, ma solum che egli fu imputato di havere stampato et venduto libri prohibiti contra la parte dello eccellentissimo Consiglio di dieci". Nel secondo processo poi, del 1555, fu sì sospettato di filocalvinismo ma poté cavarsela con l'abiura, dopo aver addotto il favore di Girolamo Aleandro a continuare il lavoro biblico e rispondendo evasivamente (per es.: "Domandato se alchuno po' haver la fede eccetto li soli eletti, respose: ῾Io credo che li eletti hanno la fede et che assai hanno hauto la fede, li quali cascorno da essa manchando in essi la fede'") (40).
La dottrina di Calvino, sistematicamente esposta con radicalismo e insieme magistrale lucidità di discorso, aveva ben presto conquistato i filoprotestanti veneziani, nonché italiani, che divennero per la maggior parte calvinisti, anche perché maestro dello stesso Calvino era stato quel Bucero che "aveva mantenuto con gli evangelisti italiani stretti e continui contatti, imprimendo nella loro coscienza religiosa segni non trascurabili " (41).
Contemporaneamente, in prevalenza fra gli artigiani e anche con l'adesione di maestri di scuola e di qualche altro di diversa estrazione sociale, si andò diffondendo la più radicale e insieme popolare setta cristiana: quella degli anabattisti, che se pure non potevano non riconoscere l'ascendenza luterana (e anzi spesso chi divenne anabattista era stato dapprima filoluterano) insistevano nel precisare "la differentia che era tra loro" e avvertivano i nuovi adepti che "intrando in questa dottrina, che se li diceva christiana, seriano perseguitati fin alla morte per el nome de Christo et che li persecutori erano antichristi, intendendo de la santità del papa et suoi ministri, né altramente accadeva amaistrarli perché ciaschuno de quelli che intravano in detta setta erano chiari de eucharistia et delli sacramenti della giesia perché erano già lutherani" (42).
Il nunzio pontificio Aleandro, ancora il 5 maggio 1533, aveva denunciato un gruppo ereticale del ceto artigiano ("alcune male spine [...> di bassa mano ancorché certo di mala sorte") che faceva capo a un falegname non digiuno di una certa cultura protestante e ben deciso (con "grande impeto di animo") nelle sue convinzioni, sebbene alcuni testimoni volessero insinuare che "le sue giottonarie non procedessero simpliciter da lui, ma da frati, preti et altri seculari con li quali lui praticava" e anzitutto da un giovane straniero, non identificato, "persona ingeniosa, gran lutherian", probabilmente filoanabattista (43).
Più che nell'ambito cittadino di Venezia, il movimento anabattista si diffuse nella Terraferma con "le openioni antique de anabattisti, come è che li christiani non possono esercitare magistrati et signorie, dominii et regni", anzi sostenendo la netta separazione della comunità ecclesiale degli eletti dallo Stato, e rompendo con furore iconoclastico "le figure de' santi con dire che sono maschare et scaravaggi", oltre a negare il purgatorio. Non mancarono concomitanti manifestazioni di malcontento popolare, non senza la minaccia di esplodere in tumultuose, ma isolate, sommosse (44). Questi eterogenei spunti dottrinari si mantennero finché sopraggiunse d'oltralpe un personaggio affascinante, che suscitò molto entusiasmo e addirittura parve che "Idio havea mandato un angelo de Alemagna, el qual diceva cose grande", riuscendo a incrementare e un po' uniformare dottrinariamente le conventicole disperse. Lo chiamavano Tiziano, forse con uno pseudonimo, e la sua predicazione insisteva soprattutto sulla necessità che "li beni fusseno comuni, persuadeva [...> che chi haveva facultà et robba ghe ne desse a chi non ghe ne haveva" (45).
Sembrava quindi che si costituissero comunità anabattistiche venete secondo il modello realizzato in Moravia dalla "congregation del ben comun" (Gütergemeinschaft) dei Fratelli Hutteriti, così chiamati dal cognome del loro fondatore Jakob Huter (46); sennonché a questa componente popolare che cercava di adattare le esperienze transalpine (con prevalenza sociale contadina) alle aspirazioni diverse del proletariato, ovvero artigianato, cittadino e suburbano veneto si associò una componente dotta, culturalmente umanistica, che andò formulando la dottrina del cosiddetto anabattismo antitrinitario insieme con il postulato della libertà religiosa.
La nuova dottrina antitrinitaria non derivava dalla "nozione panteistica della divinità, che costituiva il fondo del sistema" teologico di Michele Serveto, e tanto meno dal pessimismo antropologico misticheggiante di Juan de Valdés (che attribuiva ai testi biblici assai minore importanza della diretta e interiore ispirazione, appunto dello Spiritus Sanctus internus, cosicché gli eletti possono fare a meno di quella luce riflessa che "da se stessa si diparte, siccome si diparte la luce della candela entrando li raggi del sole, e come si diparte Mosè per la presenza di Cristo e la legge per la presenza dell'Evangelio") (47), ma intendeva fondare sempre la propria interpretazione sui testi sacri applicandovi, sulle orme di Erasmo, il metodo filologico-critico del Valla e proclamando l'assoluta validità della ragione (vera Dei filia) a discernere le verità rivelate, senza dover più ricorrere a irrazionali misteri. La formulazione dottrinaria era stata progressivamente elaborata nell'ambito degli esuli "radicali" italiani nella Rezia, dove nell'autunno del 1547 si era accesa una controversia inconciliabile sui sacramenti fra Camillo Renato e l'ex agostiniano Agostino Mainardi, che si mostrava intransigente nel rifiutare ulteriori postulati teologici travalicanti le posizioni calviniste. Nel Trattato del battesimo et della Sancta Cena Camillo Renato aveva adombrato un certo filoanabattismo ("La fede nell'uomo grande va innanzi al battesimo") e schiuso la strada al razionalismo evangelico; poi, nel febbraio 1548 con nuovi argomenti Adversum baptismum quem sub regno Papae atque Antichristi acceperamus, ripudiò sia il battesimo cattolico-papale sia quello che definì quasi-papale, delle Chiese riformate protestanti. Fu allora che il pastore Filippo Gallicius von Salis (dopo aver informato Heinrich Bullinger, successore di Zwingli, scrivendogli a Basilea sulla irrequietezza e litigiosità degli esuli italiani) fece espellere dal territorio grigionese il Tiziano e altri suoi compagni di fede (48), che si diedero a fare opera di proselitismo particolarmente fra le comunità anabattistiche venete (49).
Le divergenze dottrinarie risorsero e si acuirono ancor più, quando dapprima nelle "gran dispute" di Vicenza e di Padova e poi a Venezia sull'umanità e divinità di Cristo "alchuni volevano che Iesu Christo fusse concetto de seme humano, alchuni non volevano intrar in questa oppinione, di modo che mai la se ressolse et questa oppenion rimase indiscussa"; anzi lo stesso Tiziano "non fu mai di quella oppenion, perché el voleva star sul Evangelio" e insisteva piuttosto sulla necessità che "li beni fusseno comuni". La controversia pure su "altri articoli novi" parve tanto grave da indurre a convocare un sinodo generale straordinario a Venezia; "et così furno eletti dui che andassero per tutti li lochi insino in Basilea a chiamare dui per Giesa, o siano luochi, che dovesseno venire a detto Concilio". L'invito agli anabattisti residenti nella Rezia e in Basilea fu portato dal Tiziano "pratico per quelle parti".
Nel settembre 1550 si riunirono quindi a Venezia circa sessanta "fra ministri et episcopi"; le loro adunanze si protrassero segretamente per quaranta giorni con quotidiane discussioni, dopo la preghiera comune, sul fondamento delle sacre scritture (50). Le due correnti, quella più radicale antitrinitaria e quella più propriamente anabattistica, fissarono i seguenti princìpi dottrinali: " [...> Christo non essere Dio, ma huomo concetto del seme humano di Josepho et Maria, ma repieno de tutte le vertude de Dio"; non esistono angeli e nemmeno demoni, perché la Scrittura intende angeli "ministri cioè homeni mandati da Dio" e con demoni allude nient'altro che "la prudentia humana perché non ritroviamo nelle Scritture nissuna cosa creata da Dio essere nemica di Dio se non la prudentia humana, sì come dice Paolo alli Romani (I, 18-23). Si concluse ancora li impii ne l'ultimo dì non ressuscitare, ma solo li eletti, delli quali è stato capo Christo. Et così si concluse non essere altro inferno che '1 sepulchro. Si concluse ancora li eletti quando moreno dormire nel Signore et non andare altramente le anime loro a fruire cosa alcuna fino al dì del iuditio, quando saranno tutti ressuscitati. Conclusemo ancora l'anime dell'impii perire insieme al corpo, come fanno tutti li altri animali". Secondo George H. Williams (51) quest'ultima conclusione (del cosiddetto psicopannichismo) è da interpretarsi come una ripulsa della rigida dottrina di Camillo Renato sulla naturale mortalità dell'anima rationalis nell'attesa della risurrezione (mentre nel resto vi sarebbe una sostanziale concordanza dottrinale), ma dobbiamo pure rilevare che ambedue le dottrine derivavano dalla tradizione razionalistica patavina. Così anche in seguito, nel 1554, il francescano Daniele da Brescia (che allora "studiava in Padoa") fu inquisito per aver sostenuto, come già nel 1530 il suo confratello Girolamo Galateo, che "non trovava purgatorio nelle scritture et che le anime nostre non pativano fino a l'hora del iudicio" (52).
Nonostante ormai si potesse considerare definito dottrinariamente l'anabattismo antitrinitario e anzi fosse stata subito avviata un'intensa propaganda per ammaestrare i compagni di fede o simpatizzanti e promuovere il proselitismo in gran parte dell'Italia centro-settentrionale, e perfino a Napoli, continuò a riemergere qualche divergenza piuttosto profonda nell'eterogeneo connubio di chi rimaneva fedele alle "openioni antique de' anabattisti" e di chi, al contrario, intendeva procedere nel più radicale razionalismo religioso.
Si giunse al punto che, nel settembre 1551, cominciò a manifestarsi un indirizzo giudaizzante e particolarmente "una nova setta d'heretici in gran moltitudine et de' primi de Napoli, li quali tra l'altre heresie loro tengono [secondo le informazioni pervenute a Padova tramite studenti universitari> Christo non essere Dio, ma gran propheta, et non esser venuto come Messia ma come propheta et essere morto per la verità et che non è ancora resuscitato, ma che ha da resuscitare et venire come Messia, et dapoi esso resuscitaranno li eletti per ordine l'uno dopo l'altro; negano [veniva pure riferito> tutto il Testamento Novo et dicono esser inventione di Greci et Gentili" (53). Non stupisce quindi che sia stata indetta un'altra "congregatione" in Ferrara "dove fu ragionato anchora in simil materia; et, anchor che tutti restorno quieti della humanità di Christo et dell'Evangelio, pur anchora alcuni erano che non assentivano che Christo fosse puro huomo et che non fosse stato aggiunto all'Evangelio" (54).
Nel frattempo, era iniziata già la repressione: Benedetto del Borgo, ex notaio di Asolo, recidivo "pertinace et ostinato in questa mala et perversa heretica volontà" e anzi vescovo anabattista, fu giustiziato il 18 marzo 1551 (gli fu "tagliato la testa et poi brusato lì a Rhovigo") (55). La caccia agli anabattisti divenne generale e spietata subito dopo la denuncia che ne fece il pentito, ovvero traditore, Pietro Manelfi al frate inquisitore di Bologna; l'Inquisizione romana mandò a Venezia il domenicano Girolamo Muzzarelli, maestro del "sacro palazzo", che conservava l'incarico d'inquisitore generale per Bologna, e il consiglio dei dieci per circa due ore in udienza segreta (come aveva chiesto il nunzio pontificio Beccadelli) lo ascoltò, convincendosi che "questa fosse una congiura de ribaldi contra il stato del Paradiso et del mondo". Quella sera stessa del 18 dicembre 1551, appena avuto l'elenco delle persone "infette di questa peste nei loro stati", venne dato "ordine secreto di far mettere le mani addosso, che l'uno non sapesse dell'altro". Pur tuttavia l'ordine di arresto poté essere eseguito soltanto nei confronti di una trentina di anabattisti veneti, che furono dapprima interrogati dal tribunale civile come sovvertitori "per conto del stato"; ma poi, essendo risultato che l'unica imputazione fondata era "per le cose della fede", i processi continuarono nel tribunale del Sant'Uffizio.
Quasi tutti, invece, i ministri e capi anabattisti riuscirono a mettersi in salvo: "preparatosi del biscotto, s'imbarcarono" molti verso Castelnuovo di Dalmazia e di là raggiunsero Salonicco. Fu veramente un esodo, o piuttosto una diaspora per l'improvvisa dispersione senza una meta prestabilita. "Tutti sono scampati via, et se dice che sono andati in Turchia e in Alemagna de qua et di là", dichiarò un loro compagno arrestato prima che potesse raggiungere i confratelli a Salonicco, ed ebbe anzi l'ingenuità di manifestare all'inquisitore il suo rimpianto: "[...> se mi non ero retenuto, ancho mi fra pochi giorni andavo donde sono andati li altri, non per diventare turcho, ma per viver in libertà con la mia fede" (56).
Nemmeno in esilio, rifugiatisi nei più lontani paesi stranieri, gli anabattisti antitrinitari veneti parvero aver concluso il dibattito dottrinario fra le due componenti, popolare e dotta, che nel sinodo di Venezia erano pervenute all'atteggiamento comune nel ripudiare la dottrina teologica trinitaria, tacciandola di aver fatto degenerare paganamente la "vera chiesa di Christo", perché dal concilio di Nicea in poi aveva "aggionto o sminuito tanto contra la parola di Dio che non è più ordinatione sua né de' suoi santi, ma del papa" sovrapponendo l'aristocratica filosofia neoplatonica al puro e rivoluzionario messaggio evangelico della "chiesa dei poveri".
I profughi anabattisti antitrinitari si separarono in seguito alla confluenza della loro componente popolare, o più propriamente anabattistica, nella Giitergemeinschaft ("congregation del ben comun") di Pausram presso Nikolsburg in Moravia. Si affrettarono a raggiungerli perfino quanti si erano rifugiati a Salonicco, appena vennero informati dai compagni di fede che avevano trovato (o ritrovato) "un popolo, il qual per lo evangelio de la verità era liberato da la servitù del peccato" e che camminava "in una nuova vita et regeneration celeste per la resurretione di Giesu Cristo" ("il qual popolo peculiare, seguitator delle bone opere, è la Chiesa sua santa, immaculata, separata da' peccatori, senza ruga o macchia o alcuna cosa simile; la quale, sì como era al tempo degli apostoli Pietro et Paolo in Jerusalem, così è hora nel paese di Moravia").
Per essere accolti nelle "fattorie fraterne" (Bruderhöfe) dei Fratelli Hutteriti di Pausram e in un'altra località presso Austerlitz costoro dovettero, più o meno esplicitamente, ritrattare il credo antitrinitario e anzi si fecero essi stessi promotori per il ravvedimento dei confratelli rimasti ancora in patria, come a Venezia: "mastro Clemente guantaro per mezzo il campaniel de S. Cassan, mastro Antonio fa gelosie et albuoli a S. Stae, mastro Camillo tien camere al campo de S. Lio" (57). Fu così che Giulio Gherlandi nel marzo 1559 ritornò in Italia per portare un messaggio, che ci è pervenuto nel testo originale (58), ed era accompagnato da Matteo e Bernardo "fratelli della chiesa di Moravia congregata in Christo":
Alcuni del mezzo di voi [afferma la lettera missionaria> sono pervenuti a noi, li quali vedendo et cognoscendo ne' cuori suoi la gratia di Iddio per la quale sono stati sforzati et spinti, lasciata la prima bevuta opinione, sottoporsi a quella et come a cosa sicurissima accostarsi, perché hanno veduto Iddio render testimonio alla sua parola, essendoché ancora al testimonio di quello solo si ha da credere come a quello nel quale solo è et consiste la verità […>; havendo già acquistata insieme con noi la pace da Iddio in Christo et sapendo il desiderio vostro non esser secondo la scientia, desiderano che voi possiate trovar salute et quiete come anchora loro alle anime vostre; per la qual cosa si sono mossi a dimandarne che li sia concesso il venir in Italia per visitarvi con questa speranza che hanno conceputo de voi, che udita et cognosciuta la verità vi sottoporete a quella né lasciarete impedirvi da alcuna altra opinione bevuta avanti.
Evidentemente la "prima bevuta opinione", anzi la più grave eresia, era il cosiddetto giosefismo e quindi la negazione della divinità di Cristo, eresia che la Gemain der Heiligen (comunità dei santi) di Moravia confutava sulla base (creduta inequivocabile) del testo evangelico, dove l'angelo annuncia a Maria che lo Spirito Santo sarebbe sceso in lei e la virtù dell'Altissimo l'avrebbe adombrata, cosicché il nascituro giustamente sarebbe stato chiamato Figlio di Dio e unigenito del Padre, come lo definì san Giovanni nel capitolo primo del suo vangelo.
Riconosciuta dunque senz'altro la divinità di Gesù Cristo, qualsiasi meno grave errore (dalla risurrezione dei morti all'esistenza degli angeli e dei demoni) si sarebbe potuto superare se "vi lasciarete governar [conclude il messaggio dei Fratelli Hutteriti> dal Spirito de Iddio nella Chiesa, e questo desideriamo a voi e a tutti quelli che desiderano la verità".
Il proselitismo missionario stava dando i migliori risultati, senonché quasi improvvisamente fu troncato, in seguito alla cattura e tragica fine dei principali e più attivi esuli purioris religionis causa che vennero arrestati, il 27 agosto 1562, a Capodistria; il podestà Girolamo Lando li fece consegnare ai capi del consiglio dei dieci, per "esser loro heretici che conducevano quelle altre persone imbarcate con loro in Moravia alla detta congregation et sono tali che, non contenti d'atrovarsi loro in così enorme errore, operano con mezi indireti che altri suditi di questo Serenissimo Dominio venden le proprie sustantie et beni sui, abandonano le patrie loro et se conferiscono inviati da questi in quelle parti, et di questo modo di operar hano corispondenti in molte città". Infine, nel febbraio 1565, condannati a morte per annegamento, suscitarono non solo commozione ma anche tanta ammirazione che perfino lo storico calvinista Jean Crespin (59) li annoverò fra i "vrais martyrs" (mentre riteneva gli altri anabattisti "martyrs du diable") e anzi raccolse a Venezia direttamente testimonianze e loro scritti, in particolare l'ultima lettera ai "Fratelli in Christo", e insieme a tutti gli "illuminati" (verklärt), di Francesco von der Sag (della Sega) che esortava a perseverare nel progressivo sviluppo del regno di Dio, fondato sulla carità fraterna e sulla vera giustizia, al posto delle "opere sterili delle tenebre" (60).
Diversa fu la sorte della componente, per così dire, dotta degli anabattisti antitrinitari che, più tardi, vennero chiamati sociniani o Unitarians. La tradizione appunto sociniana fa risalire le origini del suo illuminismo religioso ai convegni clandestini, ma piuttosto analoghi alle accademie, ovvero venezianamente ai cosiddetti "ridotti", che allora cominciavano a pullulare: " [...> circa annum 1546 in agro Veneto, Vicentiae et in aliis urbibus non paucos veritati indagandae operam dedisse et huic fini collegia et colloquia pia instituisse. Pertractabant hi praecipua fidei christianae capita. Unum scilicet esse Deum altissimum [...>; collegia colloquiaque de religione, in quibus potissimum dogmata vulgaria de Trinitate ac Christi satisfactione, hisque similia, in dubium revocabant". Vi avrebbero partecipato una quarantina di uomini di cultura, insieme con l'appena ventenne Lelio Sozzini (61) e alcuni studenti universitari che accompagnavano Matteo Gribaldi Mofa, docente di diritto civile, e l'altrettanto celebre giurista Giampaolo Alciati, come pure il medico Giorgio Biandrata (poi fondatore dell'ecclesia minor in Transilvania).
L'attendibilità di questa tradizione, per quanto avallata da Fausto Sozzini nipote ed erede dello zio Lelio, è messa in dubbio dalla recente storiografia; certamente il riferimento cronologico dev'essere corretto, prolungandolo fino al 1553, quando Lelio Sozzini ritornò a Padova e fu ospite del Gribaldi, mentre anche Giorgio Biandrata soggiornava tra Padova e Venezia.
Uno stretto collegamento con il razionalismo eterodosso patavino fu ipotizzato da Delio Cantimori (62), ma sembrava del tutto contraddetto dall'indiscusso presupposto che il socinianesimo derivasse dall'antitrinitarismo platonizzante di Michele Serveto, tutt'altro che conciliabile con la tradizione aristotelica padovana.
La critica storica ha dovuto perciò sciogliere preliminarmente questo dilemma, citando l'esplicita e inequivocabile testimonianza o precisazione dello stesso Fausto Sozzini:
Hoc primum negamus, Servetum fuisse progenitorem nostrum, quippe a quo non parum ab ipso dissideamus, praesertim in explicando quid sit illud verbum aut sermo de quo Iohannes in principio sui evangelii loquitur, sed multo magis in iis interpretandis quae illi ibidem tribuuntur, quae tamen maximi sunt momenti ad recte intelligendum quid de Christo sentire aut possimus aut debeamus (63).
Sono quindi da escludere le supposte origini servetiane o platonizzanti dell'ecclesiologia sociniana, che si fonda sull'ermeneutica filologica dell'umanesimo erasmiano e in pari tempo accoglie spunti eterodossi caratteristici dei logici padovani (come quello della naturale mortalità dell'anima), rifuggenti dalle "fantasticherie dei platonici", formulando nuovi valori morali e prospettando l'esigenza di una reintegrata unità spirituale dell'uomo nella pienezza delle sue facoltà razionali. D'altra parte, per la prima volta si discuteva in chiave radicale il problema dell'umanità di Cristo e si concludeva che la salvezza eterna si persegue mediante un impegnativo pragmatismo etico (immortalitas acquiritur) sull'esempio di Cristo, la cui imitazione si considerò possibile perché appunto lo si riconosceva vero uomo (64).
Mentre dunque, nell'ambito delle comunità hutterite di Moravia, gli esuli veneti si andavano involvendo in una concezione settaria, chiusa al mondo esterno, invece nella Transilvania e in Polonia i profughi antitrinitari o unitariani progressivamente si manifestarono fautori di un liberalismo religioso, talvolta perfino tendente a un soggettivismo antidogmatico che postulava la libera interpretazione delle sacre scritture, impegnandosi tuttavia ciascun fedele a "vivere secondo che gli detta la sua coscienza illuminata da questo lume".
Ma, nonostante le divergenze dottrinarie, si mantenne un qualche rapporto dialettico e parve pure riemergere un comune anelito religioso, come si può avvertire nella lettera citata ai "Fratelli in Cristo" di Moravia e insieme a tutti gli "illuminati", e come poi anche alludeva il calvinista Giovanni Hoornbeek con l'epigramma: Anabaptista indoctus Socinianus, Socinianus autem doctus Anabaptista.
Se la repressione controriformistica aveva inesorabilmente perseguitato gli eterodossi più radicali e indifesi (perché non erano nemmeno tollerati nei paesi protestanti con i quali Venezia era legata da interessi commerciali), si estese in seguito ai calvinisti e costrinse all'esilio perfino patrizi veneziani, come Andrea da Ponte (65) fratello del futuro doge Nicolò, e indusse gli stessi luterani o filoprotestanti che vivevano nel fondaco dei Tedeschi a non manifestare la loro fede religiosa.
Come ha rilevato Delio Cantimori (66), "tutto questo mondo clandestino, molto più attivo e vivace di quanto non sia apparso per molto tempo agli studiosi, [...> è in continuo movimento fra i paesi d'oltralpe (specie i cantoni svizzeri) e gli stati italiani", preminentemente a Venezia; è riscontrabile pure il rapido affievolirsi e infine quasi l'estinguersi del proselitismo calvinista, oltre a quello luterano. La pena capitale inflitta nel 1553 a Michele Serveto aveva già influito negativamente sui filocalvinisti, la cui defezione si aggravò in seguito ai processi nei confronti soprattutto di mercanti di seta che mantenevano una corrispondenza assai compromettente con ugonotti francesi e svizzeri. Per non essere coinvolti e subire l'eventuale confisca dei beni, molti preferirono ritrarsi nell'ambiguità del cosiddetto nicodemismo, come Calvino aveva definito e biasimato l'incoerenza di quanti, consenzienti in cuor loro all'evangelismo calvinista, non intendevano tuttavia rischiare la perdita del patrimonio e ancor meno affrontare le incognite dell'esilio. Poteva testimoniarlo amaramente Alessandro Trissino (67), scrivendo il 20 luglio 1570 da Chiavenna al conte Odoardo Thiene, anzi manifestava la preoccupazione addirittura che "quella luce, della quale essi si vantano, non sia per convertirsi, non dirò in tenebre d'ignoranza ma, quello che è peggio, a poco a poco, in uno bestiale ateismo ed alla fine in orrenda rabbia di perseguitare Gesù Cristo ne' suoi membri".
In realtà, l'inasprirsi della persecuzione controriformistica, durante il pontificato di Pio V, troncò il collegamento degli eterodossi rimasti in patria con i capi rifugiatisi in paesi stranieri (68); d'altra parte, gli esuli finirono col farsi integrare dalle comunità ecclesiali transalpine, anche perché l'appoggio solidale di quei correligionari serviva talvolta piuttosto ai loro interessi commerciali nel più ampio mercato europeo.
Fra tanti esempi che si potrebbero citare, basterà qui accennare a un caso (per così dire) emblematico: quello del merciaio veneziano Giovanni Zonca, che giovane ventenne aveva soggiornato nelle Fiandre ad Anversa dal 1562 al 1566 ("un bel stare et de grande libertade", come scriveva agli amici); al suo ritorno, tutti lo ritenevano "un lutherano", mentre invece si manteneva filocalvinista e certamente era iconoclasta, perché "circa le figure lui, dopo la morte di suo padre, le ha strazzade tute" e, d'altra parte, i suoi compagni di fede "qui in Venetia andavano a redutto che erano XIIII, et vi era uno de ca' Mocenigo lo qual poi scampò"; inoltre, lo stesso Zonca aveva letto l'Institutio christianae religionis di Calvino, di cui nel 1557 era stata pubblicata a Ginevra una traduzione italiana da Giulio Cesare Paschali. Denunciato al tribunale del Sant'Ufficio, abiurò senza esitare il 27 settembre 1582; eppure nel testamento poi continuò a manifestarsi alquanto filoprotestante (69).
Diverso fu l'atteggiamento del savoiardo Claudio Textor che, dopo aver abiurato il 19 aprile 1580, invano cercò di placare l'inquietudine dell'animo, ripetendo che "quello che fa esteriormente lo fa per timore et per obedienza, che Dio sa el cuore". Si sapeva che era stato per parecchi anni a Ginevra e anzi difendeva sempre ("contra tutte le ragioni") quella città esclamando: "Beati i christiani se facessero la loro legge et osservassero inviolabilmente come s'osserva quella di Genevra! et che detti Genevrani osservavano totalmente et integramente la fede catholica, dall'obedienza del pontefice in fuori; della quale obedienza, dice egli, ci saria da dire assai ragioni et da disputare". Sulla religiosità dei patrizi veneti era solito affermare che molti Veneziani vivevano "a lor posta secretamente" e che, "se non fosse per dubitatione dell'interesse proprio della Republica, loro viverebbono come si fa in Genevra et in altri luochi, et che de questa cosa lui sa secreti mirabili, se lui li volesse dire". Soggiungeva che "l'Inquisitione non è altro che un'estrema tirannia"; infine, nuovamente inquisito, non si difese nemmeno e con grande fermezza d'animo dichiarò: "Io l'altra volta, che fui preggione, dissi altramente perché non poteva far altro per uscir de preggione et ne son pentitissimo, et spero che Christo me haverà misericordia d'aver abiurato el contrario de quel che credeva". Quella notte stessa, 18 aprile 1587, fu portato su una barca e "butato in mar fuora di doi castelli [...> itaché in esso mar se habbi a suffogar et morir" (70).
Non è da stupirsi dunque che i nunzi pontifici a Venezia in quegli anni si mostrassero soddisfatti per "quello ch'appartiene al S. Offitio dell'Inquisitione", ma tuttavia non desistevano dal segnalare il "pericolo grande" che incombeva "da due parti, cioè dalli scholari oltramontani che vivono in Padova per occasione di studio et dai Tedeschi c'habitano in Venetia, et da quelli particularmente che vivono in quel fondaco celebre chiamato de' Tedeschi", tanto più "per il continuo commertio c'hanno insieme et gl'uni et gl'altri per la vicinità de' luoghi". Si calcolava che fossero circa novecento i Tedeschi "habitanti in Venetia, computati anco quelli del fondaco" che, "collegialmente vivendo tutti in comune [...>, teneano libri heretici, mangiavano carne et altri cibi d'ogni sorte in giorni prohibiti a voglia loro, ragionavano come a loro piaceva delle cose della religione et se alcuno vi capitava il qual mostrasse o in mangiare o in parlare, o in altro modo, d'adherire al rito della Chiesa santa et catholica romana, veniva da gl'altri disprezzato et deriso". Quasi altrettanto accadeva in due locande: una gestita da "alemano hosto all'Aquila Negra" presso la chiesa di San Bartolomeo e quella, più rinomata, del Leon bianco (già casa da Mosto) ai Santi Apostoli (71).
Secondo il cardinale Carlo Borromeo, che nel febbraio 1580 aveva visitato Venezia su commissione di Gregorio XIII, la sfrenata tolleranza nei riguardi degli eterodossi tedeschi, oltre che "per ragion di Stato" e per interessi commerciali, si poteva addebitare all'inettitudine del patriarca Giovanni Trevisan che "non ha già [soggiungeva> cattiva volontà, ma è huomo da niente et da non farne capitale alcuno" (72). Ma, come notava il nunzio Alberto Bolognetti, neanche era riuscito a conseguire risultati discreti l'iniziativa missionaria "d'un P. Jacomo della religione de' Gesuiti, persona di molta bontà il qual per essere della natione havea amicitia con molti" e, se pur "spesso solea andare da gl'altri artefici di bassa mano et fra loro faceva qualche frutto, [...> nondimeno tentò indarno di fare il medesimo con questi del fondaco percioché, dopo esser andato alcune volte ad esplicar loro l'Evangelio mentre erano a tavola, per 1'amicitia che prima havea con alcuni di loro, gli fu detto finalmente che non vi tornasse più perché non voleano sottoporsi alla disciplina altrui, sapendo molto bene leggere da loro stessi l'Evangelio". Il nunzio Bolognetti quindi non sapeva suggerire alcun rimedio, poiché perfino era vano sperare nella presenza di un buon predicatore tedesco, spettando l'elezione per il "pulpito di S. Bartolomeo" alla "schola de' Tedeschi et quando si levasse loro questa facultà nissuno andrebbe alla predica".
Allo stesso nunzio pontificio "parea gran cosa" che lì appunto, dove si predicava "in lingua tedesca, fosse stato solito di predicarsi pubblicamente dottrina heretica et che già un predicatore havesse introdotto di far cantare pubblicamente in chiesa alcune canzoni in dispregio della fede cattolica, chiamata da loro fede papistica, mentre esso predicatore in pulpito faceva atti da imbriaco con riso del popolo".
Venezia, nonostante il dissolversi (in rapida successione) delle comunità eterodosse locali sia luterane sia calviniste e anabattiste, continuò a essere "considerata nell'alta Italia come punto di partenza e di appoggio del movimento protestante" (73). Parve anzi che vi fosse una qualche risorgenza di proselitismo al tempo di Paolo Sarpi, come attesta una relazione ufficiale del Sant'Ufficio:
In Venetia et altre città del suo Dominio dimorano eretici sotto diverse cause e pretesti. Alcuni vi stanno come familiari e servitori degli ambasciatori d'Inghilterra e di Olanda, ivi residenti. Altri vi alloggiano come soldati. Molti vi tengono domicilio continuo, altri vi capitano alla giornata per ragione di traffico e di mercantia. Alcuni ve ne sono di passaggio, e non pochi per occasione dello studio di Padoa (74).
Certo è che vecchi e nuovi interessi, non solo mercantili né occasionali, favorivano e consolidavano l'atteggiamento filoprotestante di una parte piuttosto notevole del ceto dirigente veneziano, che persistette nel misconoscere la bolla pontificia del 26 luglio 1596, confermata poi nel 1622, deludendo assai le reiterate proteste e lamentele dei nunzi che "eretici e scismatici per riguardi commerciali continuassero a poter dimorare nella città lagunare" (75).
Notizie meno generiche sull'eterogenea presenza dei protestanti, a Venezia, poté attingere Christoph von Dohna (inviato dal principe Achatius von Anhalt, uno dei promotori dell'Unione evangelica tra protestanti e calvinisti tedeschi) nei colloqui che ebbe con il Sarpi, nel luglio-agosto 1608:
Fra 1500 gentilhuomini tre quarti contro il papa e ne parlano apertamente: fra questi appena 30 della religione [riformata>; fra cittadini 8 o 10 mila della religione e fralloro molti forestieri.
Inoltre, lo stesso Sarpi auspicava che i mercanti tedeschi del fondaco superassero i dissidi confessionali e quindi si accordassero nell'affidare il culto a un pastore da tutti stimato; altrettanto avrebbero potuto fare sia gli Svizzeri sia gli Olandesi, opportunamente istituendo pure un loro fondaco. Aveva poi soggiunto confidenzialmente ancora il Sarpi nei riguardi di Leonardo Donà: "Il doge non è confermato nella religione [riformata> n'è però ateista. Ma huomo tanto intento al suo carico che non cerca sottigliezze di discernere la Religione", dichiarandosi tuttavia ben consapevole che un'eventuale "mutazion di religione" avrebbe senz'altro comportato un mutamento nell'assetto politico (76). Appunto questa considerazione del doge era stata ripresa dal Sarpi per cercare abilmente di suggerirgli un qualche ricupero della cosiddetta tradizione cesaropapistica:
Quando il principe mi disse questo che mutazion di religione mutava il governo, io dissi: "È vero. Certi preti nuovi, dimenticando e cangiando la semplicità de' vostri vecchi preti, si sono congiunti col papa tenendo stretta corrispondenza seco etc.; questi introducono nuova religione e per tali ultimamente vedeste questo Stato turbato. Certo è, ch'ogni religione che non conosce superiore in terra di voi, non muterà nulla. Ma quelli che ne riconoscono superiore, come i giesuiti e altri il papa, da tali bisogna temere mutazione" (77).
Non senza qualche motivo, dunque, si vociferava che il frate consultore favorisse la diffusione della riforma protestante a Venezia e appunto perciò i nunzi pontifici non desistevano dal richiedere che lo si estromettesse "dal servitio et stato"; ancora nel novembre 1622 il nuovo nunzio Laudivio Zacchia insistette "con tanta vehemenza che maggiore non poteva", ma il patriziato si mantenne sempre in netta prevalenza fermamente schierato in difesa di Paolo Sarpi (78).
Pur tuttavia, dopo la morte del Sarpi e dei più autorevoli tra i soci fautori (79), poche tracce lasciarono nella società veneziana quelle ormai sporadiche presenze e propagande eterodosse (80), mentre invece il movimento veneziano della riforma cattolica (che, mediante il suo ispiratore Gasparo Contarini, aveva promosso il dialogo e la disponibilità, per quanto assai prudente, ad accogliere quanto della riforma protestante fosse compatibile con la tradizione e sensibilità religiosa veneziana) (81) continuò particolarmente nell'ambito del Ridotto Morosini (82), ed ebbe poi ulteriori "risorgenze carsiche" (83).
1. Cf. Delio Cantimori, Atteggiamenti della vita culturale italiana nel secolo XVI di fronte alla Riforma, "Rivista Storica Italiana", 53, 1936, pp. 83-110, ristampato in Id., Umanesimo e religione nel Rinascimento, Torino 1975, pp. 3-39; Silvana Seidel Menchi, Le traduzioni italiane di Lutero nella prima metà del Cinquecento, "Rinascimento", 17, 1977, pp. 64-80.
2. Valdo Vinay, La riforma protestante, Brescia 1970, p. 303.
3. Come pure si possono avvertire le interpretazioni assai divergenti sulla cena eucaristica, zwinglianamente intesa quale semplice commemorazione ("questo è il mio corpo" = significa) anziché luteranamente quale consustanziazione fideistica, e anche sul battesimo. Cf. Francesco E. Sciuto, Ulrico Zwingli. La vita, il pensiero, il suo tempo, Napoli 1980, pp. 212-235; Salvatore F. Romano, Riflessi zwingliani nella divulgazione della riforma protestante radicale nell'Italia settentrionale del Cinquecento, "Memorie Storiche Forogiuliesi", 64, 1984, pp. 69-105; per una documentazione più pertinente alla storia veneta, mi permetto di rinviare a due miei recenti contributi: Aldo Stella, Le minoranze religiose, in Storia di Vicenza, III/1, L'età della repubblica veneta (1404-1797), a cura di Franco Barbieri-Paolo Preto, Vicenza 1989, pp. 199-219; Id., Influssi e fermenti eterodossi, in AA.VV., La Chiesa concordiese, II, Pordenone 1989, pp. 131-142.
4. Nell'accezione dì "ribelli ad ogni forma di comunione ecclesiastica", secondo Delio Cantimori, Eretici italiani del Cinquecento. Ricerche storiche, Roma 1939; cf. Tommaso Bozza, Lutero nel Cinquecento italiano, "La Scuola Cattolica", 111, 1983, pp. 245-258.
5. Marino Sanuto, I diarii, XXIX, a cura di Federico Stefani-Guglielmo Berchet-Nicolò Barozzi, Venezia 1890, coll. 492, 552, 561, 609-615. Per notizie più dettagliate cf. Fedele Lampertico, Ricordi storici del palazzo Loredan, "Nuovo Archivio Veneto", 5, 1893, pp. 225-285; S. Seidel Menchi, Le traduzioni italiane di Lutero.
6. Pietro Tacchi-Venturi, Storia della Compagnia di Gesù in Italia, I, Roma 19302, pp. 431-484; Franco Gaeta, Un nunzio pontificio a Venezia nel Cinquecento (Girolamo Aleandro), Venezia-Roma 1960, pp. 117-121, 126-127, 137.
7. Bartolomeo Fontana, Documenti vaticani contro l'eresia luterana in Italia, "Archivio della Società Romana di Storia Patria", 15, 1892, pp. 76-77, 81-82 (pp. 71-165; 365-474).
8. Cf. Silvana Seidel Menchi, Erasmo in Italia 1520-1580, Torino 1987, pp. 35-37, 361.
9. Andrea Del Col, Lucio Paolo Rosello e la vita religiosa veneziana verso la metà del secolo XVI, "Rivista di Storia della Chiesa in Italia", 32, 1978, pp. 422-459; S. Seidel Menchi, Erasmo, pp. 139, 268.
10. Anne Jacobson Schutte, Pier Paolo Vergerio: the Making of an Italian Reformer, Genève 1977 (Travaux d'Humanisme et Renaissance, 160).
11. S. Seidel Menchi, Le traduzioni italiane di Lutero, pp. 61-62; Ead., Erasmo, pp. 377-378 n. 44.
12. Ead., Alcuni atteggiamenti della cultura italiana di fronte a Erasmo, in AA.VV., Eresia e Riforma nell'Italia del Cinquecento, Firenze-Chicago 1974 (Corpus Reformatorum Italicorum, Miscellanea 1), pp. 71-133; Ead., Le traduzioni italiane di Lutero, pp. 62-64.
13. Cf. F. Gaeta, Un nunzio, pp. 113-115; Aldo Stella, Michael Gaismair `cavaliere degli Strozzi' e la sua famiglia durante il soggiorno padovano (1527-1532). Segrete collusioni con i fuorusciti antimedicei e antiasburgici, in Die Bauernkriege und Michael Gaismair, a cura di Fridolin Dörrer, Innsbruck 1982, pp. 115-124; Id., Michael Gaismair im Exil (1526-1532), "Südtirol in Wort und Bild", 26, 1982, pp. 30-34; Id., Il ῾Sozialevangelismus' di Michael Gaismayr e le origini dell'anabattismo hutterita, in AA.VV., I Valdesi e l'Europa, Torre Pellice 1982, pp. 245-263.
14. Nunziature di Venezia, I, a cura di Franco Gaeta, Roma 1958 (Istituto storico italiano per l'età moderna e contemporanea, Fonti per la storia d'Italia, 32), p. 190, dispaccio del 14 marzo 1534.
15. Ibid., p. 209. È da notare che corrispondente veneziano del Fonzio, durante il soggiorno in Germania, era stato il nobile Girolamo Marcello, cui faceva capo una conventicola filoprotestante, cf. F. Gaeta, Un nunzio, pp. 126-134; Aldo Stella, Dall'anabattismo al socinianesimo nel Cinquecento veneto. Ricerche storiche, Padova 1967, pp. 25-26; Achille Olivieri, Ortodossia ed eresia in Bartolomeo Fonzio, "Bollettino della Società di Studi Valdesi", 128, 1970, pp. 37-55.
16. Oltre al ben documentato saggio storico di S. Seidel Menchi, Le traduzioni italiane di Lutero, pp. 65-80, cf. L'Anticristo: replica ad Ambrogio Catarino (1521), a cura di Laura Ronchi De Michelis, Torino 1989 (Martin Lutero, Opere scelte, 3).
17. S. Seidel Menchi, Le traduzioni italiane di Lutero, pp. 38, 72-75.
18. Elisabeth G. Gleason, Sixteenth Century Italian Interpretations of Luther, "Archiv für Reformationsgeschichte", 40, 1969, pp. 160-173.
19. Per non eccedere nelle citazioni, mi permetto di rinviare al mio contributo specifico: Aldo Stella, La lettera del cardinale Contarini sulla predestinazione, "Rivista di Storia della Chiesa in Italia", 15, 1961, pp. 411-439; cf. Gaspare Contarini e il suo tempo, a cura di Francesca Cavazzana Romanelli, Venezia 1988, pp. 147-166.
20. Delio Cantimori, "Nicodemismo" e speranze conciliari nel Cinquecento italiano, in Id., Contributi alla storia del concilio di Trento e della controriforma, Firenze 1948 (Quaderni di "Belfagor", 1), pp. 12-23; Id., Spigolature per la storia del nicodemismo italiano, in AA.VV., Ginevra e l'Italia, Firenze 1959, pp. 177-190; Antonio Rotondo, Atteggiamenti della vita morale italiana del Cinquecento: la pratica nicodemitica, "Rivista Storica Italiana", 79, 1967, pp. 991-1030; Carlo Ginzburg, Il nicodemismo. Simulazione e dissimulazione religiosa nell'Europa del '500, Torino 1970.
21. Jacques V. Pollet, Martin Bucer. Études sur la correspondance avec de nombreux textes inédits, I, Paris 1958, p. 62; dove pure sono pubblicate (II, Paris 1962) le lettere del 1 e 17 dicembre 1531 che il Fonzio scrisse al Butzer sullo stesso problema dell'eucarestia.
22. Martin Luthers, Briefwechsel, I-XIX, a cura di Ernst L. Enders et al., Frankfurt am Main-Leipzig 1884-1932: X, pp. 201-206, 328-332, 376-383, 680-682.
23. S. Seidel Menchi, Le traduzioni italiane di Lutero, pp. 84-88.
24. Ibid., pp. 81-83.
25. Fu pubblicata nella Raccolta di orationi diverse et nuove di eccellentissimi auttori, Firenze 1547, ec. 7r- 12v, da Anton Francesco Doni, che diede forma toscaneggiante al testo originale veneto, da me edito: Aldo Stella, L'orazione di Pier Paolo Vergerio al doge Francesco Donà sulla riforma della Chiesa (1545), "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 128, 1969-1970, pp. 25-39 (pp. 1-39).
26. Max Lenz, Briefwechsel Landgrafs Philipps des Grossmütigen von Hessen mit Bucer, II, Leipzig 1887, p. 370: "In Venedig sind die jungeren senatoren so fil des Evangelii verstendig und begirig, das man gute hoffnung hat, man werde des orts bald das Evangelion frei predigen lassen, obwol der elteren herren nach etliche streng darwider sind. So fil aber haben die jungeren herren erlanget, das man erkennet hat, nieman meer in iren herschaften mubs Evangeli willen todten zu lassen ".
27. Opera nuova di Francesco Stancaro mantovano della riformatione, sì della dottrina christiana come della vera intelligentia dei sacramenti, con matura consideratione et fondamento della Scrittura santa et consiglio de santi Padri: non solamente utile, ma necessaria a ogni stato et conditione di persone. Alla illustrissima Signoria di Venetia. Apoc. cap. V: Ecce, vicit leo de tribu Iuda, radix David, ut aperiat librum et solvat septem signacula eius, in Basilea, il primo aprile 1547. Cf. Francesco Ruffini, Studi sui riformatori italiani, a cura di Arnaldo Bertola - Luigi Firpo - Edoardo Ruffini, Torino 1955, pp. 300-309. È da notare che lo Stancaro, già inquisito a Venezia come zwingliano, si era rifugiato dal settembre 1540 all'8 marzo 1542 a Spilimbergo, dove aveva assunto l'incarico dell'insegnamento di ebraico nell'accademia di educazione umanistica, fondata nel 1538 da Bernardino Partenio; cf. A. Stella, Influssi e fermenti eterodossi, pp. 133-134.
28. Ancora durante le trattative veneto-imperiali del 1529, l'ambasciatore plenipotenziario Gasparo Contarini si era opposto alla richiesta di estradizione dei profughi tedeschi eterodossi, dichiarando: "Quanto a li lutheriani et heretici, che '1 Stato et Dominio nostro è libero et però non potemo deve darli" (Marino Sanuto, I diarii, LIII, a cura di Guglielmo Berchet-Nicolò Barozzi-Marco Allegri, Venezia 1899, coll. 66, 68).
29. Traugott Schiess, Bullingers Korrespondenz mit den Graubüindnern, I, Basel 1904, pp. 472-475; per una più approfondita ricerca storica, si può vedere il mio contributo Utopie e velleità insurrezionali dei filo-protestanti italiani nel biennio 1545-1547, "Bibliothèque d'Humanisme et Renaissance", 27, 1965, pp. 133-183.
30. Oltre a P. Tacchi-Venturi, Storia, I, p. 139, Cf. Aldo Stella, Guido da Fano eretico del secolo XVI al servizio dei re d'Inghilterra, "Rivista di Storia della Chiesa in Italia", 13, 1959, pp. 196-238, particolarmente pp. 209-212; John W. O'Malley, Lutheranism in Rome, 1542-43: the Treatise by Alfonso Zorrilla, "Thought", 54, 1979, pp. 262-273.
31. Theodor Elze, Geschichte der protestantischen Bewegungen und der deutschen evangelischen Gemeinde in Venedig, Bielefeld 1883; Henry Simonsfeld, Der Fondaco dei Tedeschi in Venedig und die deutsch-venetianischen Handelsbeziehungen, II, Stuttgart 1887, pp. 247-249; Lorenz Hein, Die Reformation und ihr Weg in die Republik Venedig, in Venezia centro di mediazione tra Oriente e Occidente (secoli XV-XVI). Aspetti e problemi, a cura di Hans-Georg Beck - Manoussos Manoussacas - Agostino Pertusi, II, Firenze 1977, pp. 550-570, 627-631.
32. Karl Benrath, Geschichte der Reformation in Venedig, Halle 1886 (Schriften des Vereins fiir Reformationsgeschichte, 18), p. 26; Emilio Comba, I nostri protestanti, II, Firenze 1897, p. 189.
33. Cf. Domingo De Sta Teresa, Juan de Valdés: 1498 (?) -1541. Su pensamiento religioso y las corrientes espirituales de su tiempo, Roma 1957; José C. Nieto, Juan de Valdés and the Origins of the Spanish and Italian Reformation, Genève 1970; Carlos Gilly, Juan de Valdés: Übersetzer und Bearbeiter von Luthers Schriften in seinem Dialogo de Doctrina, "Archiv für Reformationsgeschichte", 74, 1983, pp. 257-305, che corregge persuasivamente le precedenti interpretazioni; cf. pure l'introduzione ben documentata di Carlo Ossola a Juan De Valdés, Lo Evangelio di San Matteo, Roma 1985, pp. 11-93.
34. Benedetto Da Mantova, Il Beneficio di Cristo, a cura di Salvatore Caponetto, Firenze-Chicago 1972. Cf. Giovanni Miegge, Ispirazione protestante del "Beneficio di Cristo", "L'Appello", 7, 1942, pp. 132-137; Tommaso Bozza, Il "Beneficio di Cristo" e la "Instituzione della religione cristiana" di Calvino, Roma 1961; Id., La Riforma cattolica. Il Beneficio di Cristo, Roma 1972; Mario Rosa, Il "Beneficio di Cristo": interpretazioni a confronto, "Bibliothèque d'Humanisme et Renaissance", 40, 1978, pp. 610-620.
35. Gigliola Fragnito, Gli `spirituali' e la fuga di Bernardino Ochino, "Rivista Storica Italiana", 84, 1972, pp. 777-813; Andrea Del Col, Note sull'eterodossia di fra Sisto da Siena: i suoi rapporti con Orazio Brunetto e un gruppo veneziano di ῾spirituali', "Collectanea Franciscana", 47, 1977, pp. 27-64; Aldo Stella, Gasparo Contarini e i gruppi evangelici veneti, in Atti del simposio su Lutero e la Riforma (Vicenza, 26-27 nov. 1983), Vicenza 1985, pp. 75-81, oltre a Hubert Jedin, Gasparo Contarini e il contributo veneziano alla Riforma cattolica, in Storia della civiltà veneziana, a cura di Vittore Branca, II, Firenze 1979, pp. 273-275.
36. T. Bozza, La Riforma cattolica, p. 104.
37. Ibid., pp. 105-107, 116-120. Cf. Elisabeth G. Gleason, On the Nature of Sixteenth-Century Italian Evangelism: Scolarship 1953-1978, "The Sixteenth-Century Journal", 9, fasc. 3, 1978, pp. 3-26; Paolo Simoncelli, Evangelismo italiano del Cinquecento: questione religiosa e nicodemismo politico, Roma 1979.
38. Estratto del processo di Pietro Carnesecchi, a cura di Giacomo Manzoni, in Miscellanea di storia italiana edita per cura della R. Deputazione di Storia Patria, X, Torino 1870, p. 195 (pp. 187-573); cf. anche Alessandro Pastore, Marcantonio Flaminio: fortune e sfortune di un chierico nell'Italia del Cinquecento, Milano 1981.
39. È un volumetto di sessantotto carte di testo "impresso in Venetia per Francesco Brucioli et frategli, nell'anno del Signore MDXLII" (T. Bozza, La Riforma cattolica, pp. 130-134).
40. La documentazione è pubblicata in appendice alla nota di Andrea Del Col, Il secondo processo veneziano di Antonio Brucioli, "Bollettino della Società di Studi Valdesi", 146, 1979, pp. 85-100. Contemporaneamente si svolse Il processo veneziano di Guglielmo Postel, che pubblicai nella "Rivista di Storia della Chiesa in Italia", 22, 1968, pp. 425-466; cf. Postello, Venezia e il suo mondo, a cura di Marion L. Kuntz, Firenze 1988, pp. 119-136.
41. T. Bozza, Lutero nel Cinquecento italiano, p. 258.
42. A.S.V., Sant'Uffizio, b. 158, fasc. III, c. 37r, costituto di Marcantonio d'Asolo, 5 marzo 1552.
43. Franco Gaeta, Documenti da codici vaticani per la storia della Riforma in Venezia, "Annuario dell'Istituto Storico Italiano per l'Età Moderna e Contemporanea", 7, 1955, pp. 6-13; Nunziature di Venezia, I, pp. 42, 104.
44. Carlo Ginzburg, I costituti di don Pietro Manelfi, Firenze-Chicago 1970 (Corpus Reformatorum I-talicorum), p. 63; cf. Aldo Stella, Anabattismo e antitrinitarismo in Italia nel XVI secolo. Nuove ricerche storiche, Padova 1969, pp. 45-47.
45. Ibid., pp. 52-55; C. Ginzburg, I costituti, pp. 18-23.
46. Cf. Aldo Stella, Rivolte contadine trentino-tirolesi e genesi del comunismo evangelico dei Fratelli Hutteriti, "Atti e Memorie dell'Accademia Patavina di Scienze, Lettere ed Arti", 93, 1980-1981, pp. 151-167; Id., Einflüsse und Entwicklungen der huterischen Taüfer auf italienische Ketzergemeinden, "Der Schlern", 63, 1989, pp. 671-678.
47. Oltre a Tommaso Bozza, L'illuminazione dello Spirito Santo, Roma 1968, pp. 21-30, cf. Margherita Morreale, Fuan de Valdés come traduttore dei Vangeli ed il Nuovo Testamento di Erasmo, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 135, 1976-1977, pp. 507-540.
48. T. Schiess, Bullingers Korrespondenz, I, p. 286; cf. Antonio Rotondò, Camillo Renato: Trattato del battesimo e della santa cena, "Rinascimento", 15, 1964, pp. 343-361.
49. A. Stella, Anabattismo e antitrinitarismo, pp. 58-64.
50. C. Ginzburg, I costituti, pp. 34-36, 83-84 (pp. 48 ss. sui filoanabattisti residenti in Venezia).
51. The Radical Reformation, Philadelphia 1961, p. 24.
52. A.S.V., Sant'Uffizio, b. 159, cc. 1r, 10v (22 settembre e 6 ottobre 1554).
53. Ibid., b. 9, fasc. IV, costituto del 13 novembre 1551; cf. anche Francesco Lemmi, La Riforma in Italia e i riformatori italiani all'estero nel secolo XVI, Milano 1939, p. 68.
54 A.S.V., Sant'Uffizio, b. 158, fasc. III, c. 33v.
55. Ibid., fasc. II, c. 49V.
56. Mi si consenta di rinviare, per non eccedere nelle citazioni, ai miei saggi storici Dall'anabattismo al socinianesimo, pp. 94-102; Anabattismo e antitrinitarismo, pp. 72-81, 87-90.
57. Ibid., p. 249.
58. A.S.V., Sant'Uffizio, b. 18, c. 46.
59. Histoire des vrays tesmoins persecutez et mis à mort pour la verité depuis le temps des apostres jusqu'à l'an 1570, s.l. 1570, cc. 697-698.
60. Cf. Aldo Stella, Ecclesiologia degli anabattisti hutteriti veneti (1540-1563), "Bollettino della Società di Studi Valdesi", 94, 1973, pp. 5-27.
61. Per la complessa problematica storica si può citare il mio recente contributo: Una famiglia di giuristi fra eterodossi padovani e bolognesi: Mariano e Lelio Sozzini (1525-1556), in Rapporti tra le Università di Bologna e di Padova. Omaggio dell'Università di Padova all'"Alma Mater" bolognese nel suo IX centenario, a cura di Lucia Rossetti, Trieste 1988 (Contributi alla storia dell'Università di Padova, 20), pp. 127-160.
62. Eretici italiani, pp. 128-147, 357-369, 413-421.
63. Fausti Socini Opera omnia, Irenopoli 1656 (Bibliotheca Fratrum Polonorum, I), p. 535b, cit. da Antonio Rotondò, Studi e ricerche di storia ereticale del Cinquecento, I, Torino 1974, pp. 90-92.
64. Ibid., pp. 58-116; Aldo Stella, Influssi dell'aristotelismo veneto nella genesi del socinianesimo, in Aristotelismo veneto e scienza moderna. Atti del 25° anno accademico del Centro per la storia della tradizione aristotelica nel Veneto, a cura di Luigi Olivieri, II, Padova 1983, pp. 993-1007.
65. A.S.V., Sant'Uffizio, b. 20, costituto del 19 giugno 1565 negli atti processuali a carico di Antonio Loredan e Alvise Malipiero, che confessarono di aver appreso dallo stesso da Ponte "pestifere heresie". Cf. Edouard Pommier, Notes sur la propagande protestante dans la République de Venise au milieu du XVIe siècle, in AA.VV., Aspects de la propagande religieuse, Genève 1957, p. 243 (pp. 240-246); Id., La société vénitienne et la Réforme protestante au XVIe siècle, "Bollettino dell'Istituto di Storia della Società e dello Stato Veneziano", 1, 1959, pp. 3-21; Gaetano Cozzi, Il doge Nicolò Contarini. Ricerche sul patriziato veneziano agli inizi del Seicento, Venezia-Roma 1958, pp. 40-41; A. Stella, Dall'anabattismo al socinianesimo, pp. 177-178 n. 185.
66. Umanesimo e religione nel Rinascimento, Torino 1975, p. 206; cf. anche Carlo De Frede, L'estradizione degli eretici dal dominio veneziano nel Cinquecento, "Atti dell'Accademia Pontaniana", 20, 1970-1971, pp. 1-32.
67. Nel suo Ragionamento, pubblicato in appendice all'articolo di Achille Olivieri, Alessandro Trissino e il movimento calvinista vicentino del Cinquecento, "Rivista di Storia della Chiesa in Italia", 21, 1967, pp. 77-117; Id., Riforma ed eresia a Vicenza nel Cinquecento, Roma 1992 (Italia Sacra, 50), pp. 55, 390-395, 423-427, 439-456, 459, 462.
68. Cf. il mio contributo: Aldo Stella, L'Inquisizione romana e i movimenti eretici al tempo di san Pio V, in AA.VV., San Pio V e la problematica del suo tempo, Alessandria 1972, pp. 65-82; Achille Olivieri, L'"ecclesia" di Massimo Massimi. Ricerche sul movimento ereticale veneto del Cinquecento, in AA.VV., Miscellanea G.G. Meersseman, Padova 1970, pp. 817-827.
69. Valerio Rossato, Religione e moralità in un merciaio veneziano del Cinquecento, "Studi Veneziani", n. ser., 13, 1987, pp. 193-253; Id., Anvers et ses libertés par Giovanni Zonca hétérodoxe vénitien (1562-1566), "Revue d'Histoire Ecclésiastique", 85, 1990, pp. 291-321.
70. Per notizie più dettagliate e documentate, si possono consultare le mie Ricerche sul socinianesimo: il processo di Cornelio Sozzini e Claudio Textor (Banière), "Bollettino dell'Istituto di Storia della Società e dello Stato Veneziano", 3, 1961, pp. 77-120. Cf. per l'analoga tragica conclusione il processo nei confronti di Achille Rubini, il cui spiritualismo appare "venato di motivi radicali" e che fu annegato la notte fra il 30 e il 31 luglio 1587: Paolo Ulvioni, Cultura politica e cultura religiosa a Venezia nel secondo Cinquecento: un bilancio, "Archivio Storico Italiano", 141, 1983, pp. 602-607 (pp. 591-651); S. Seidel Menchi, Erasmo, p. 356.
71. Dello stato et forma delle cose ecclesiastiche nel dominio dei signori Venetiani, relazione del nunzio Alberto Bolognetti, pubblicata nel mio volume Chiesa e Stato nelle relazioni dei nunzi pontifici a Venezia. Ricerche sul giurisdizionalismo veneziano dal XVI al XVIII secolo, Città del Vaticano 1964 (Studi e testi, 239), pp. 277-294.
72. Giovanni Soranzo, Rapporti di san Carlo Borromeo con la Repubblica Veneta, "Archivio Veneto", ser. V, 27, 1940, pp. 18-31 (pp. 1-40); Aldo Stella, I rapporti di s. Carlo Borromeo con Venezia, in AA.VV., San Carlo Borromeo e il suo tempo. Atti del Convegno internazionale nel IV centenario della morte (Milano, 21-26 maggio 1984), II, Roma 1986, pp. 727-739.
73. Ludwig von Pastor, Storia dei Papi dalla fine del Medio Evo, VIII, Roma 1951, p. 216; cf. Émile G. Léonard, Storia del protestantesimo, I, Milano 1971, pp. 361-363. In realtà, anche gli esuli italiani religionis causa, "non rappresentavano una forza attiva, come gli esuli francesi, come quelli inglesi, che proprio in quegli anni affluivano più numerosi in terra riformata: dietro di essi non stava un"Italia reformata' dove la forza della fede si manifestasse attivamente, completando l'attività degli emigrati, e rimanendo in contatto con loro" (D. Cantimori, Eretici, p. 156).
74. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Barb. Lat. 5195.
75. Paolo Sarpi, Opere, a cura di Gaetano e Luisa Cozzi, Milano-Napoli 1969, pp. 1017-1021, 1212.
76. Boris Ulianich, Il principe Christian von Anhalte e Paolo Sarpi: dalla missione veneziana del Dohna alla relazione Diodati (1608), "Annuarium Historicum Conciliorum", 8, 1976, pp. 492-497; cf. Gaetano Cozzi, Stato e Chiesa: vicende di un confronto secolare, in AA.VV., Venezia e la Roma dei Papi, Milano 1987, pp. 28-56 (pp. 11-56).
77. Maria Paola Terzi, Una vicenda della Venezia seicentesca: l'amicizia e la corrispondenza tra Fulgenzio Micanzio e Sir Dudley Carleton, ambasciatore d'Inghilterra, tesi di laurea, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Venezia, a.a. 1979-1980, p. 340, cit. da G. Cozzi, Stato e Chiesa, p. 44.
78. Ibid., pp. 42-46.
79. Ibid., pp. 47-50.
80. Come quella del mercante marsigliese Claudio Caza, che a Venezia nell'estate del 1585 andava profetizzando: "che fra 10 anni tutti saressimo d'una legge lutherana et che Christo naque povero et era povero, biasimando le richezze nella chiesa, et che Martin Luthero haveva catado la vera strada" (A.S.V., Sant'Uffizio, b. 55).
81. Gigliola Fragnito, Memoria individuale e costruzione biografica: Beccadelli, Della Casa, Vettori alle origini di un mito, Urbino 1978, pp. 11-14; cf. anche Aldo Stella, Movimenti di riforma nel Veneto nel Cinque-Seicento, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/I, Il Seicento, Vicenza 1983, pp. 1-21.
82. G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini, pp. 49-51; Id., Paolo Sardi tra Venezia e l'Europa, Torino 1979, pp. 137-138. Cf. Delio Cantimori, L'utopia ecclesiologica di M.A. De Dominis, nella miscellanea Problemi di vita religiosa in Italia nel Cinquecento, Padova 1960 (Italia sacra, 2), pp. 103-122; Paolo Prodi, Il sovrano pontefice. Un corpo e due anime: la monarchia papale nella prima età moderna, Bologna 1982, pp. 47-49, 69, 202-205, 345, 347.
83. Giuseppe Alberigo, Cattolicità e Ecumenicità nel Settecento, in Cultura religione e politica nell'età di Angelo Maria Querini, a cura di Gino Benzoni - Maurizio Pegrari, Brescia 1982, p. 10 (pp. 9-21); v. anche Aldo Stella, Costanti di religiosità nella storia delle Venezie, in Anima religiosa della cultura veneta, a cura di Giuseppe Dal Ferro, Vicenza 1986, pp. 41-62.