La rinascita delle matematiche
Quando, sul finire del 17° sec., nasce il nuovo universo newtoniano, al tempo stesso vedono la luce nuovi oggetti matematici (polinomi, curve, differenziali, serie…) che diventeranno il mezzo per descrivere, studiare e dominare quell’universo. Si tratta di una mutazione profonda del rapporto fra matematiche e filosofia naturale, i cui principia non soltanto sono ormai principia mathematica, ma anche principi di una matematica nuova, inizi e fondamenti di quella che oggi conosciamo.
Questa trasformazione non nasce dal nulla, ovviamente. Ha i suoi antecedenti immediati nelle innovazioni introdotte durante il Seicento – in filosofia come nelle matematiche – da Galileo Galilei, René Descartes, Pierre de Fermat e Christiaan Huygens. Ma è evidente che, a voler ricercare le radici della cosiddetta rivoluzione scientifica, bisogna scavare più a fondo. Quali debiti intellettuali ha il Seicento con i secoli che l’hanno preceduto? Quale ruolo ha avuto tale periodo nella formazione di una nuova concezione degli oggetti matematici, concezione che, in ultima analisi, permette le rivoluzioni newtoniane e leibniziane? Si tratta di un problema che è stato variamente affrontato dalla letteratura; tuttavia una sottovalutazione del contributo del Rinascimento a questa trasformazione sembra costituire un tratto comune a impostazioni storiografiche anche molto diverse.
C’è tutta una corrente storiografica del Novecento – che debutta all’inizio del secolo con Pierre Maurice Duhem e si dipana nei lavori dei fondatori della storia della scienza, Anneliese Maier, Ernst A. Moody, Marshall Clagett e, in una certa misura, anche Alexandre Koyré – che svaluta il ruolo del Rinascimento, ridotto a parentesi fra le intuizioni medievali e il Seicento di Galilei e di Isaac Newton.
Esistono tuttavia aspetti del Rinascimento non riducibili a semplici episodi fra due ‘grandi’ periodi. Per es., il recupero della cultura antica ha profondamente condizionato la nascita della nuova scienza. Si potrebbe immaginare Copernico senza Tolomeo? O Galilei senza Archimede, Descartes senza Apollonio di Perge e Pappo? Tuttavia, anche questa interpretazione tende a ridurre la funzione del Rinascimento alla pura e semplice trasmissione dei tesori antichi al mondo moderno.
Il recupero della cultura scientifica antica – e in special modo di quella matematica – comportò tuttavia una profonda elaborazione intellettuale e un vasto lavoro interpretativo.
Se muoviamo dal caso di Galilei, si riconosce ormai che la rivoluzione galileiana è un fenomeno troppo complesso – sul piano dei contributi che vi confluiscono e delle sfide formali e matematiche che essa si trova ad affrontare – perché si possa capirla riducendola, come Duhem, all’evoluzione della fisica dei calculatores del 14° secolo. Ma nemmeno la nuova visione galileiana può essere spiegata nei soli termini della rinascita delle scienze ellenistiche. Se è certamente vero che è impensabile immaginare Galilei senza Archimede, occorre precisare di quale Archimede si tratti.
Quello che viene discusso nei corsi di filosofia e che il giovane Galilei cerca di utilizzare contro Aristotele nel suo De motu antiquiora (scritto nel 1590 ma rimasto inedito)? Quello del suo amico e mentore Guidobaldo Dal Monte, sostenitore del purismo archimedeo in meccanica e in geometria e al tempo stesso architetto e ingegnere militare? O quello di matematici come Francesco Maurolico, Cristoforo Clavio e Luca Valerio che, meditando sui testi archimedei, cercano di collocarli in un nuovo paradigma? O, ancora, l’Archimede degli ingegneri e dei tecnici come Niccolò Tartaglia, Giuseppe Ceredi, Giambattista Aleotti? Inoltre, la nascita delle nuove scienze non può essere ridotta al recupero di Archimede o degli altri classici della scienza greca. La matematica con cui Galilei tenta di interpretare il libro della natura è tutta, o quasi, quella che il tardo Cinquecento recupera da un complesso di tradizioni precedenti: quella archimedea gli è utile almeno quanto quella della matematica dell’abaco, nel cui solco Piero della Francesca aveva creato i primi studi di prospettiva geometrica. Senza queste tradizioni, Galilei non avrebbe mai ‘letto’ i monti della Luna nelle immagini che vedeva nel cannocchiale.
Quanto detto finora, lo si potrebbe ripetere nel caso di Valerio (1552-1618), che forse supera per primo il paradigma greco, introducendo nelle problematiche classiche della geometria di misura lo studio di classi di figure generiche. E la condizione di partenza di Galilei è anche quella di François Viète (1540-1603), il quale inventa l’algebra simbolica, che comporta una rivoluzione ontologica nella considerazione degli oggetti matematici e un approccio nuovo alla geometria.
È da questo intreccio fra tradizioni ed elementi diversi che scaturisce la matematica della ‘rivoluzione scientifica’; un contesto, tuttavia, ancora non del tutto chiarito nei suoi diversi aspetti.
Come in ogni treccia che si rispetti, si possono indicare almeno tre fili che vi contribuiscono. Il primo è quello della cultura matematica delle scuole d’abaco, una tradizione che risale al Liber abaci (1202) di Leonardo Fibonacci e che è alla base della formazione di tutti coloro che non frequentano l’università e che non si avviano a una delle professioni liberali; è la matematica per i mercanti, gli artisti, gli architetti, gli ingegneri e i militari. Una cultura matematica tanto diffusa da arrivare a toccare quella umanistica, con cui spesso si intreccia. Se Piero della Francesca è uno dei più notevoli esponenti di questa ‘cultura dell’abaco’, è però in compagnia di un umanista di primissimo piano, Leon Battista Alberti, i cui Ludi matematici (1450-1452) si collocano in pieno nella tradizione abachista.
Il secondo filo è appunto quello ‘umanista’, termine però da prendere in senso molto lato. Certo, il Quattrocento è il secolo in cui ci si accorge, non senza qualche sgomento, della complessità della filosofia antica, scoperta che si lega, specie in Italia, a nuove esigenze sociali e politiche. Recuperare la cultura antica diventa, nel 15° e nel 16° sec., un imperativo per la costruzione di una nuova cultura civile (Garin 1983). È in questo contesto che acquistano senso la ricerca dei testi antichi e la costituzione delle grandi collezioni umanistiche di Roma, Venezia, Firenze, Urbino: fa parte di un’ansia di restitutio e di instauratio, di recupero e rinnovamento, che non poteva non toccare anche la scienza e la matematica (Rose 1975; Gentile 2001). Ma anche qui, le cose non sono così semplici: non si può dimenticare che, dietro e prima del grande recupero dei classici della scienza greca che viene a maturazione nel Cinquecento, c’è tutto un movimento iniziato fin dal 12° sec. con Gherardo (o Gerardo) da Cremona, il grande traduttore dall’arabo, e proseguito nel 13° sec. alla corte papale di Viterbo.
La tradizione filosofica è la terza componente della treccia. Anche questo è un filo che viene da molto lontano; di nuovo, la corte di Viterbo è uno snodo importante: in questo ambiente si sviluppa il tentativo di sorreggere le teorie filosofiche con descrizioni geometriche, tentativo accompagnato da un grande sforzo di recupero dei testi del sapere matematico antico e contemporaneo. In questa tradizione, la descrizione matematica dei fenomeni naturali acquista un notevole peso – basti pensare alle ricerche dei calculatores sulla teoria delle proporzioni – ma prevale su di essa la spiegazione metafisica, la ricerca delle cause. La riscoperta nei primi anni del 16° sec. delle Quaestiones mechanicae pseudoaristoteliche darà luogo per tutto il secolo a una discussione che punta a collocare l’arte dei «vili meccanici» nel contesto della «scienza». Alla vigilia del costituirsi della nuova scienza galileiana, filosofi di fama come Francesco Buonamici (1533-1603) o Iacopo Mazzoni (1548-1598) tenteranno di integrare le novità matematiche apportate dalla riscoperta dei classici nelle teorie aristoteliche del moto degli elementi (Helbing 1989).
Come si vede, si tratta di componenti che attraversano la storia culturale, sociale e politica dell’Italia fra il Duecento e il Cinquecento e che sono intimamente legate a istituzioni quali le università, le corti, le scuole d’abaco. Non si potrà, di conseguenza, dar conto compiuto di tale complessità in queste poche pagine. Ci limiteremo a presentarne alcuni aspetti, ripercorrendo le vicende che portarono i testi di Archimede a essere letti nell’Occidente latino e a divenire uno dei presupposti essenziali della nascita di una nuova matematica e di una nuova meccanica. Avremo modo così di incontrare molti dei protagonisti della rinascita delle matematiche e di vedere più da vicino come questi vari mondi e queste varie tradizioni culturali si incontrarono, contaminandosi a vicenda fino a produrre qualcosa di completamente nuovo.
Lo scarso successo dell’opera di Archimede nel mondo classico fu dovuto, fra l’altro, alla posizione periferica di questo autore rispetto ai grandi centri culturali ellenistici come Alessandria o Pergamo e alla difficoltà intrinseca del suo stile. Inoltre, la sua opera (almeno quella pervenuta) tratta temi di geometria di misura e di meccanica, mentre la corrente principale della matematica ellenistica si concentrava piuttosto sulla geometria delle curve (o ‘geometria di posizione’).
Se a questo si aggiunge la complessiva decadenza delle scienze matematiche nell’epoca imperiale, si può intendere perché, nel 6° sec., il commentatore Eutocio di Ascalona sembri conoscere solo la Sfera e il cilindro, la Misura del cerchio e l’Equilibrio dei piani. Per certo Eutocio, che pure era attento ricercatore di manoscritti antichi, non conosce la Quadratura della parabola e quasi certamente neppure le Spirali. Sembra dunque che alla fine del mondo antico fossero state del tutto dimenticate le opere più profonde di Archimede – le Spirali, i Conoidi e sferoidi, il Metodo –, quelle che contenevano intuizioni che sarebbero state all’origine della matematica moderna.
Alla vigilia della conquista araba della Siria e dell’Egitto, nel mondo bizantino lo studio di Archimede doveva quindi riguardare soprattutto le opere di utilità pratica: la Sfera e il cilindro, che forniva la regola per il ‘volume’ e la superficie della sfera; la Misura del cerchio, che offriva la determinazione del rapporto tra circonferenza e diametro come compreso fra 3 10/71 e 3 1/7; l’Equilibrio dei piani, in cui si dimostrava la legge della leva e si dava il calcolo dei centri di gravità del triangolo e del segmento parabolico. Fu forse per questo che nel mondo islamico furono note solo queste opere, anche se ciò non significa che i matematici islamici non sviluppassero una loro matematica archimedea. A partire dal 9° sec., con i tre fratelli Muḥammad, Aḥmad e al-Ḥasan (noti come i Banū Mūsā, ovvero i «figli di Mosè») e con Abū al-Ḥasan Ṯābit ibn Qurra, su su fino all’11° con il grande Abū ‛Alī al-Ḥasan ibn al-Ḥasan ibn al-Hayṯam – noto nel mondo latino come Alhazen – i matematici del mondo islamico svilupparono una matematica neoarchimedea che riuscì a ottenere dimostrazioni molto eleganti e risultati che talvolta andavano al di là di quelli ottenuti da Archimede stesso (Rashed 1996).
Tuttavia, questi esiti della matematica islamica rimasero una sorta di sviluppo dei risultati greci, che non metteva in questione la visione matematica greca, centrata su oggetti matematici ‘concreti’, definiti da una procedura costruttiva. Le ‘matematiche infinitesimali’ del mondo islamico non producono una rottura significativa del paradigma greco: ai risultati di Archimede aggiungono qualche nuovo solido (per es., il ‘limone’ parabolico, ottenuto facendo ruotare un segmento di parabola intorno alla sua base) o la determinazione del centro di gravità del paraboloide di rotazione.
Ma, ciò che qui più conta, i risultati più avanzati dei matematici islamici non penetrarono in Occidente, e non diedero quindi un contributo – almeno non diretto – alla nascita della matematica moderna. La lista delle opere archimedee o di ispirazione archimedea che il Medioevo latino conobbe è quindi piuttosto breve. Ma, per quanto scarna possa essere stata, questa prima circolazione di Archimede in Occidente dopo la fine del mondo antico è strettamente legata a quella che Charles H. Haskins ha chiamato, nel titolo di un suo celebre libro del 1927, The renaissance of the twelfth century (trad. it. 1972).
Il principale protagonista di questa prima diffusione – che diede al mondo latino la Misura del cerchio – fu Gerardo (o Gherardo) da Cremona (1114-1187). Le scienze matematiche devono molto alla sua attività. Desideroso di leggere l’Almagesto di Tolomeo, egli si recò a Toledo, dove imparò l’arabo e tradusse da questa lingua (oltre all’Almagesto) circa novanta opere scientifiche. Tra queste: classici antichi come i testi di trigonometria sferica di Teodosio di Bitinia (o Teodosio Tripolita; 1° sec. a.C.) e di Menelao di Alessandria (1° sec. d.C.); il Maqāla fī ’l-marāyā al-muḥriqa bi ’l-quṭū (Trattato sugli specchi ustori parabolici), un importante testo di Alhazen che, con il titolo Liber de speculis comburentibus, divenne l’unico strumento di conoscenza sulle sezioni coniche per tutto il Medioevo; il Kitāb al-muḫtaṣar fī hīsāb al-Ǧabr wa-’l-muqābala (Libro riassuntivo del calcolo attraverso il conseguimento e il confronto), noto come Algebra, di Abū Ǧa‛far Muḥammad ibn Mūsā al-Ḫwārizmī (780 ca.-850 ca.).
Accanto al De mensura circuli di Archimede, Gerardo tradusse anche il Kitāb Ma‛rifat misāḥat al-aškāl al-basīṭa wa ’l-kurriyya (Libro per conoscere l’area di figure piane e sferiche), un’opera dei Banū Mūsā che risaliva ai risultati della Sfera e il cilindro e che circolò ampiamente in Occidente sotto il titolo di Verba filiorum Moysi o Liber geometriae trium fratrum; essa recava dimostrazioni originali dei Banū Mūsā relative alla quadratura del cerchio, alla formula di Erone per l’area del triangolo, e risultati e formule relative alla superficie sferica, al volume della sfera, alla superficie e al volume del cono e altro ancora.
Potremmo citare, accanto ai Verba filiorum Moysi, il Liber de curvis superficibus, attribuito a un certo Johannes de Tinemue, un’opera di isipirazione archimedea risalente all’inizio del 13° sec. e che avrebbe conservato una certa influenza almeno fino alla prima metà del 16°: a essa si ispirò Maurolico per tentare negli anni Venti del 16° sec. una ricostruzione della Sfera e cilindro. O il Liber Archimenedis de ponderibus (un trattato pseudoarchimedeo risalente al 12°-13° sec., in cui materiali metrologici della tarda latinità si aggiungono ad altri di probabile origine islamica), che tratta di ciò che oggi potremmo definire determinazione del peso specifico di un miscuglio. Questo testo ebbe una larga circolazione fino a tutto il 16° sec. e anche oltre; fu importante probabilmente anche per il giovane Galilei e fu stampato in traduzione italiana ancora nel 1644, insieme alla prima edizione di La bilancetta di Galilei (opera scritta nel 1586; cfr. Archimedes in the Middle Ages, 3° vol., The fate of the medieval Archimedes, 1300 to 1565, 1978).
Ma, soprattutto, vale la pena di sottolineare che questa prima rinascita delle matematiche ebbe il suo principale motore nell’opera di Fibonacci: il suo Liber abaci e la sua Practica geometriae (1220 ca.) furono il principale tramite di trasmissione della cultura matematica greca, mediata dalla tradizione islamico-latina, in quello strato culturale intermedio che nasce e si sviluppa proprio nei secc. 12° e 13° con la nuova ricchezza e potenza di cui gode l’Occidente latino. Se è vero che nel mondo delle scuole d’abaco la struttura dimostrativa della geometria greca – che ancora resiste in Fibonacci – si andrà progressivamente allentando, fino quasi a evaporare completamente, è però anche vero che attraverso le scuole d’abaco si produrrà un’alfabetizzazione matematica di massa. E sarà anche grazie a questo fenomeno che – quando nel Cinquecento cominceranno a circolare più ampiamente tutti i testi di Archimede – si assisterà a una riappropriazione del paradigma greco su basi decisamente nuove.
La prima diffusione di Archimede si verificò dunque soprattutto nell’ambiente culturale delle scuole d’abaco, in cui circolarono ampiamente ricette pratiche per la misurazione di superfici e volumi, ma molto meno le conoscenze geometriche e le tecniche dimostrative che quelle regole presupponevano, tecniche che riuscirono a essere comprese solo da pochissimi.
Questo fatto non deve però oscurare un altro fenomeno: già a partire dalla corte normanna e da quella dell’imperatore Federico II era cominciato un lavoro di traduzione e di studio della scienza greca: l’Almagesto, i Data, l’Optica e Catoptrica, gli Elementi di Euclide. Vale la pena di ricordare la recente scoperta (Folkerts, in «Bollettino di storia delle scienze matematiche», 2003, 2, pp. 93-113) che Fibonacci aveva utilizzato nelle sue opere proprio questa versione degli Elementi. È un segno di come si intreccino, già dal loro nascere, la tradizione ‘umanistica’ e quella ‘abachistica’.
Un esempio di come tali filoni si vadano intrecciando anche con la tradizione ‘filosofica’ sembra essere il lavoro compiuto dal fiammingo Guglielmo di Moerbeke (1215 ca.-1286). A questo domenicano viene infatti attribuita la traduzione in latino di quasi tutto il corpus archimedeo. Grande traduttore di opere filosofiche, assai stimato da Tommaso d’Aquino, Moerbeke operò per vari anni presso la corte papale di Viterbo (Guillaume de Moerbeke, 1989). Gli studi di Agostino Paravicini Bagliani (1991) hanno fatto ben vedere come nel 13° sec. Viterbo diventi un centro di cultura e di scienza di prima grandezza, con cui hanno rapporti personaggi come Campano da Novara (a cui si deve l’edizione di Euclide che fece testo fino a metà del 16° sec.) e gli inglesi Ruggero Bacone (il doctor mirabilis, che ha finito per incarnare l’immagine dello scienziato medievale) e John Peckham (che con la sua Perspectiva communis compendiò la grande opera ottica del polacco Witelo, amico e confratello domenicano di Guglielmo).
Fu proprio lo stimolo di questo ambiente attento alle cose matematiche che, probabilmente, portò Moerbeke a rivolgere la sua attenzione ad Archimede. Egli condusse la sua traduzione sulla base di due manoscritti greci (codice A e codice B), entrambi perduti, e l’autografo di questa traduzione archimedea è oggi conservato presso la Biblioteca Vaticana (ms. Ottob. Lat. 1850). Esso contiene la traduzione latina di tutte le opere di Archimede presenti in A e B (con l’eccezione dell’Arenario) e la traduzione del commento di Eutocio alla Sfera e il cilindro e all’Equilibrio dei piani (cfr. Archimedes in the Middle Ages, 2° vol., The translations from the Greek of William of Moerbeke, 1976).
Il lavoro di Moerbeke (ultimato nel 1269) assunse un’importanza inestimabile, per due motivi. In primo luogo il suo stile, estremamente letterale e fedele al testo greco, permette di supplire almeno in parte alla perdita del codice B. Il secondo motivo è che il testo greco dei Galleggianti non era contenuto nel codice A e perciò, con la perdita di B dopo il 1311, la traduzione latina di Moerbeke divenne l’unico testimone di quest’opera fino all’inizio del 20° sec. (si tenga presente che il testo greco dei Galleggianti è tràdito solo dal codice C, il palinsesto ritrovato dal danese Johan Ludvig Heiberg nel 1906, poi di nuovo perduto e tornato disponibile solo recentemente; questo manoscritto, che contiene anche altre opere di Archimede – in particolare è l’unico testimone del Metodo, in cui Archimede spiega i suoi procedimenti euristici –, non sembra aver avuto alcuna influenza sulla tradizione del testo nel corso del Medioevo e del Rinascimento).
Alla fine del 1269, dunque, l’opera di Archimede, con l’eccezione dell’Arenario e del Metodo, era disponibile in lingua latina. Ma nel corso del Medioevo egli non fu così letto e studiato come sarebbe stato possibile.
La corte di Viterbo durò solo una breve stagione: il trasferimento della sede papale ad Avignone, la peste nera che devastò l’Europa latina a partire dal 1348, l’appuntarsi dell’interesse di centri universitari quali Oxford e Parigi su tematiche lontane da quelle archimedee, tutti questi fattori concorsero a far sì che la traduzione di Guglielmo rimanesse per il momento quasi lettera morta.
Soprattutto, la matematica archimedea è difficile, e può essere intesa solo attraverso una meditazione sull’intero corpus della geometria greca: la teoria delle proporzioni euclidea, il XII libro degli Elementi, la conoscenza della teoria delle sezioni coniche. Tutto questo o mancava ancora o non era stato ancora sufficientemente assimilato. Il Trecento e soprattutto il Quattrocento saranno i secoli in cui la cultura dell’abaco conoscerà un enorme sviluppo, generando così una competenza matematica di base diffusa. Negli stessi decenni, il fiorire dell’Umanesimo quattrocentesco aprirà nuove prospettive e nuovi orizzonti.
All’inizio del terzo decennio del Quattrocento rimbalzò – da Ambrogio Traversari a Niccolò Niccoli, a Tommaso Parentucelli, a Giovanni Aurispa e ad altri ancora – la notizia di un codice greco di Archimede in possesso di Rinuccio da Castiglione (o da Arezzo). Lo scalpore suscitato dalla scoperta fu grande, e un fitto scambio epistolare attraversò le capitali dell’Umanesimo italiano: bisognava saperne di più, in molti desideravano ottenere una copia del prezioso esemplare. Il fervore delle indagini, delle precisazioni e delle smentite durò alcuni mesi. Poi, d’improvviso, tutto tacque, vuoi perché l’informazione si rivelò infondata, vuoi perché del codice, malgrado ogni sforzo, si persero le tracce. Come vedremo fra breve, trascorse un quarto di secolo prima che l’interesse per Archimede si risvegliasse, sia pure in sordina e senza grande clamore: questa volta, però, un corpus consistente di opere di Archimede e di Eutocio era effettivamente tornato alla luce, giacché numerosi manoscritti ne tramandano la versione latina realizzata per l’occasione.
Ma vale la pena di sottolineare preliminarmente un aspetto peculiare di questo primo accendersi dell’interesse umanistico per Archimede. Il misterioso manoscritto di Rinuccio sarebbe stato intitolato De instrumentis bellicis et aquaticis, un’opera dunque di meccanica o di ingegneria militare; allo stesso modo, sul finire del secolo, quando Angelo Poliziano scoprirà nella biblioteca veneziana di Giorgio Valla il codice A, contenente quasi tutte le opere matematiche archimedee, sembrerà più interessato alla figura leggendaria dell’inventore di macchine e strumenti bellici che a quella del cultore di una geometria difficile e astratta. Non a caso, più che dalle opere archimedee, Poliziano si mostrava attratto dalla seconda sezione del codice A, contenente un’opera di Erone mechanicus, come risulta da alcune lettere del 1491 (cfr. Archimedis opera omnia cum commentariis Eutocii, ed. I.L. Heiberg, 3° vol., 1881; Gentile 2001).
Non si pensi a un disprezzo ‘umanistico’ verso le matematiche: questo è un fenomeno che ha preso piede – purtroppo – in tempi molto più vicini a noi. La verità è che, a partire almeno da Francesco Petrarca, l’Umanesimo italiano scopre la ‘leggenda’ di Archimede. Dai racconti di Polibio, Livio, Cicerone, Valerio Massimo e tanti altri scrittori classici (Jaeger 2008), che tornano nelle librerie e sugli scrittoi, emerge la figura dello strenuo difensore della propria patria, l’inventore di congegni meravigliosi. E questa ‘leggenda’ contagia ben presto quegli ambienti che si formano nell’ambito della cultura dell’abaco: ingegneri e pittori, architetti e militari. Questo aspetto della tradizione archimedea – che andrebbe letto in parallelo con quello della riscoperta e della diffusione di Vitruvio – assumerà ben presto un’importanza cruciale.
Si può meglio apprezzare l’intrecciarsi di queste culture esaminando i destini della nuova traduzione del corpus archimedeo che fu intrapresa dall’umanista cremonese Iacopo da San Cassiano (noto anche come Iacopo Cassiano o Giacomo da Cremona).
La ricerca su Iacopo è fatto recente (Archimede latino, 2012), e la sua figura e la sua opera sono ancora non del tutto chiarite. Nato fra il 1395 e il 1413, verso il 1432 entrò alla ‘Giocosa’, la scuola di Vittorino da Feltre a Mantova. Pochi anni dopo studiò alla facoltà di Arti a Pavia; verso il 1442, conseguito il dottorato, tornò a Mantova, e nel 1446, alla morte di Vittorino, ne ereditò i libri e gli succedette nella direzione della Giocosa. Lasciò la scuola nel 1449 e nella primavera del 1451 abbandonò Mantova per recarsi a Roma alla corte di papa Niccolò V.
Non è assodato se egli portasse con sé anche il testo greco di Archimede o se ne avesse già cominciata la traduzione: ma si è dimostrato recentemente (Archimede latino, 2012) che la sua versione riveste un interesse filologico di prima importanza, dato che egli utilizzò un codice greco diverso da quelli oggi noti, anche se strettamente imparentato con essi. In ogni caso gli venne ben presto affidata la mathematica provincia della grande opera di latinizzazione della cultura greca che il papa stava intraprendendo. Inoltre, Niccolò V lo incaricò di tradurre insieme a Poggio Bracciolini e a Pier Candido Decembrio la Bibliotheca historica di Diodoro Siculo. Le sue elevate competenze matematiche gli permisero di accettare anche il compito di rivedere il commento di Giorgio di Trebisonda all’Almagesto. Le pesanti critiche mosse da Iacopo a questo testo gli attirarono le ire di Giorgio; lo scandalo che ne seguì si sommò ad altre inimicizie che quest’ultimo si era procurato fra gli umanisti della corte pontificia, provocandone infine l’allontanamento da Roma nell’estate del 1452.
Sembra che Iacopo sia morto poco dopo, probabilmente nel 1454. L’interesse per questo dato è dovuto al fatto che su di lui e sul suo lavoro – e in particolare sulla sua traduzione di Archimede – calò un silenzio tanto più misterioso ove si tenga conto che egli fu legato a molti umanisti dell’epoca, Francesco Filelfo, Giovanni Marliani, Giovanni Aurispa, Niccolò Perotti, Teodoro Gaza. Inoltre, nessuno dei manoscritti che ci sono pervenuti della sua traduzione gliela attribuisce. In uno di essi (il Nouv. Acq. Lat. 1538 della Bibliothèque nationale de France, autografo di Iacopo e archetipo di tutta la tradizione successiva), una mano recenziore lo attribuisce piuttosto a un conterraneo di Piero della Francesca, l’architetto e scrittore apostolico Francesco di Benedetto Cereo da Borgo San Sepolcro (1415 ca.-1468).
La traduzione di Iacopo suscitò subito, tuttavia, grande attenzione nei circoli umanistici, in special modo in quelli legati al cardinale Bessarione, che favorì l’incontro fra Archimede e un giovane studioso tedesco, Regiomontano (Johann Müller, 1436-1476), forse il maggiore matematico del Quattrocento. Entrato al seguito di Bessarione a Vienna, Regiomontano studiò il greco e si poté giovare dei codici antichi che il cardinale andava raccogliendo. In particolare, verso il 1462 si servì di una copia della traduzione di Iacopo e di una copia del codice A, entrambe appartenenti alla biblioteca di Bessarione. Fu proprio Regiomontano a svelare in Iacopo l’autore della traduzione latina di Archimede.
Informato, quasi certamente da Bessarione, dei fatti avvenuti all’inizio degli anni Cinquanta e delle vicende della traduzione, Regiomontano in un foglio volante senza data né titolo (è oggi noto come Programma editoriale e fu pubblicato nei primi anni Settanta) indicava chiaramente Iacopo come autore della traduzione (Malpangotto 2008). In effetti egli emendò profondamente la traduzione e, intuendo le enormi potenzialità della stampa, progettò un’edizione archimedea nel contesto del suo vasto programma di pubblicazioni, che avrebbe dovuto diffondere i tesori della matematica greca e i suoi personali contributi. La morte lo colse nel 1476, impedendogli di portare a termine il suo progetto; tuttavia nel 1544 uscì a Basilea l’editio princeps greco-latina delle opere di Archimede, dichiaratamente basata sull’impegno di Regiomontano.
Senza tema di esagerare, si può sostenere che questo avvenimento – al pari della pubblicazione del De revolutionibus orbium coelestium di Copernico, apparso l’anno precedente a Norimberga – abbia fornito un forte impulso alla nascita della scienza moderna: grazie alla edizione di Basilea, Archimede poteva finalmente abbandonare gli scaffali delle biblioteche erudite e parlare direttamente ai filosofi naturali, ai matematici, agli ingegneri. Fu l’Archimede latino di Basilea che conobbe e studiò il giovane Galilei; fu questo stesso Archimede che, sullo scorcio del 16° sec. e nei primi anni del 17°, ispirò un radicale cambiamento nel modo di intendere la matematica.
L’opera di Archimede non fu tuttavia importante solo per i circoli umanistici. Piero della Francesca fu tra i primi lettori della traduzione di Iacopo. James R. Banker ha recentemente dimostrato (in A manuscript of the works of Archimedes in the hand of Piero della Francesca, «The Burlington magazine», 2005, pp. 165-71) che il codice 106 della Biblioteca Riccardiana di Firenze (che indicheremo con F), recante la traduzione di Iacopo, è da attribuire a Piero, che molto probabilmente lo esemplò alla fine degli anni Cinquanta, mentre si trovava a Roma per lavorare alle Stanze vaticane. Infatti il codice riccardiano mostra stretti rapporti con il codice Urb. Lat. 261 della Biblioteca Vaticana (che indicheremo con U), del 1458 circa. Quest’ultimo è un codice sontuoso, la cui delicata pergamena fu affidata a un ignoto copista (talora identificato a torto con il francese Michel Foresius) e poi forse al pennello del pittore e miniatore toscano Giuliano Amedei.
Il codice fu fatto allestire da quel Francesco dal Borgo cui era stata attribuita la traduzione di Iacopo. Si è dimostrato che il codice allestito da Piero è copia diretta di U per quanto riguarda il testo. Questo, a sua volta, si dimostra essere una copia diretta dell’autografo di Iacopo (il Nouv. Acq. Lat. 1538), che si trovava in quel tempo in possesso di Francesco. Come copista, Piero si dimostra piuttosto inavveduto, copiando supinamente gli errori contenuti in U e aggiungendone altri.
Ultimate la trascrizione e la decorazione di U, restò il problema di riprodurre le figure geometriche delle dimostrazioni. Francesco – da architetto qual era – era ben consapevole di non poter affidare un compito così difficile a un copista qualunque. Si dedicò allora personalmente alla riproduzione dei diagrammi, in collaborazione con il suo parente e conterraneo Piero, come dimostra un’analisi dei disegni geometrici di F e di U. Inoltre, preme qui evidenziare che Piero e Francesco non furono affatto supini copisti dei disegni che trovavano nell’autografo di Iacopo, spesso sbagliati nelle lettere e nel tracciato, poiché riproducevano acriticamente quanto Iacopo trovava nell’esemplare greco da cui traduceva. I diagrammi geometrici di U e di F sono basati, infatti, non solo sui disegni eseguiti da Iacopo, ma anche sull’analisi dell’esposizione del testo delle proposizioni, spesso addirittura con la proposta di figure del tutto nuove.
Piero utilizzò il suo studio di Archimede per ottenere vari risultati, anche originali, illustrati nel Libellus de quinque corporibus regularibus (di datazione incerta). Vi risalta quello sul calcolo del volume e della superficie della volta a crociera. Certo, a considerare le argomentazioni che Piero fornisce nei risultati archimedei del Libellus, colpisce che esse siano ancora lontane dallo stile della geometria greca. Per es., nel calcolo del volume della volta a crociera Piero, che ancora risente della cultura abachistica, sembra ragionare per analogia con quanto era riuscito a capire dei Conoidi e sferoidi di Archimede, raggiungendo il risultato corretto per intuizione piuttosto che svolgendo un ragionamento rigorosamente deduttivo.
È tuttavia significativo che, di fronte alla traduzione di Iacopo, la tradizione umanistica e quella abachistica si intreccino così profondamente. Solo un matematico di grande valore come Regiomontano riuscì a venire a capo, almeno in parte, delle difficoltà del testo di Archimede; ma anche Piero si confrontò con quello stesso testo, con risultati non disprezzabili.
In questi ambienti di tecnici e artisti andrà crescendo nel corso del Quattrocento e del Cinquecento l’interesse per il recupero delle tradizioni matematiche antiche: si pensi solo a Leonardo. Al tempo stesso giungono a maturazione spunti di ricerca nel campo dell’algebra, arte che si era sviluppata solo negli ambienti abachistici.
Sarà proprio un figlio di questa cultura, Niccolò Tartaglia, a tentare entrambi questi passi. Egli riscopre da solo la regola di Scipione dal Ferro per ottenere le radici di un’equazione di terzo grado in funzione dei coefficienti (1535); tenta di costruire un modello geometrico per la traiettoria dei proiettili (Nova scientia, 1537); traduce Euclide in volgare e pubblica una raccolta di scritti archimedei (Opera Archimedis Syracusani […], 1543); propone di applicare le teorie archimedee sul galleggiamento al recupero delle navi affondate (La travagliata inventione, 1551). Come già nel caso di Piero, anche Tartaglia si muove su uno sfondo umanistico. I suoi interlocutori sono sì i ‘bombardieri’ e i tecnici, ma anche personalità come Diego Hurtado de Mendoza (1503-1575), ambasciatore dell’imperatore Carlo V, umanista, poeta e traduttore in spagnolo delle Questioni meccaniche aristoteliche.
Ciò che Regiomontano non poté portare a termine sarebbe divenuto il compito principale delle generazioni immediatamente successive. Per limitarci a una lista molto sommaria, nell’arco di pochi decenni escono a stampa: l’Euclide di Campano (1482); il De expetendis et fugiendis rebus opus (1501) di Valla, sorta di antologia enciclopedica, ricchissima di testi matematici greci; la nuova traduzione di Euclide condotta da Bartolomeo Zamberti (1505); i primi testi archimedei pubblicati da Luca Gaurico (1503); l’editio princeps del testo greco di Euclide (1533); la traduzione di Memmo delle Coniche (1537); la traduzione italiana di Euclide e – naturalmente – l’edizione di varie opere di Archimede fatte da Tartaglia (entrambe 1543); l’editio princeps di Archimede con testo greco e latino (1544).
Ci sono personaggi che sembrano riassumere in sé, sia pure in modo molto difforme, questo incontro fra culture, linguaggi e interessi diversi. Uno di essi è sicuramente Luca Pacioli, che – come Regiomontano – intuì le enormi potenzialità della stampa e – meglio di Regiomontano – seppe sfruttarle. Cresciuto negli ambienti della cultura mercantile, seppe sposarla con quella umanistica e universitaria.
Esemplari sono anche le figure di Girolamo Cardano e di Giambattista (o Giovan Battista) Benedetti (1530-1590). L’Ars magna (1545) di Cardano, com’è ben noto, divulgò in tutta Europa i risultati algebrici delle scuole d’abaco italiane. Sempre nella scia della tradizione abachistica, Cardano studia problemi del gioco dei dadi e degli scacchi, progetta meccanismi. Ma, medico di fama, possiede una formazione umanistica che gli permette di citare in greco Aristotele e Galeno; o di utilizzare la sua padronanza di Euclide nel campo della filosofia naturale.
Benedetti studia con Tartaglia a Venezia, esordisce ancora giovanissimo con lo scritto Demonstratio proportionum motuum localium contra Aristotelem et omnes philosophos (1554). In esso utilizza i Galleggianti di Archimede nell’edizione tartagliana del 1543, le Coniche tradotte da Memmo, Euclide e altri materiali della matematica greca per dimostrare l’infondatezza della proporzionalità aristotelica fra velocità e peso nella caduta dei gravi. Nella sua maturità, al servizio dei Farnese di Parma prima e dei Savoia poi, si occuperà della teoria degli orologi solari e proporrà, nel Diversarum speculationum mathematicarum et physicarum liber (1585), una riforma della teoria euclidea delle proporzioni. In Benedetti i fili delle varie tradizioni appaiono così strettamente intrecciati da risultare quasi indistinguibili. In effetti, siamo arrivati alla fine del Cinquecento e due fattori hanno agito in maniera assai potente.
Il primo è l’invenzione della stampa. È infatti questo nuovo strumento che permette il diffondersi rapido delle nuove traduzioni di testi: nell’arco di meno di quarant’anni la stampa rende accessibile al pubblico (su una scala fino allora impensabile) gran parte delle opere della matematica greca e i più importanti risultati della matematica latina e islamico-latina medievale. Il sapere matematico classico e non, che in varie forme e seguendo intricate tradizioni aveva circolato nel Medioevo e nel primo Rinascimento, ma sempre in ambiti definiti da una rete di conoscenze personali o dalla possibilità di accesso a raccolte librarie di patroni o di regnanti, è ora a disposizione di chiunque voglia accostarvisi.
È grazie alla stampa che nel corso dei primi tre quarti del 16° sec. comincia a formarsi una comunità di matematici che condivide lo stesso paradigma, quello della ‘nuova matematica antica’ che il Quattrocento e il primo Cinquecento sono riusciti a recuperare. Si tratta di una comunità ancora piccola, ma non trascurabile, e fortemente legata: Clavio conosce Maurolico e ne eredita scritti e ispirazione; il giovane Galilei si reca a Roma per studiare con Clavio, per poi rivolgersi piuttosto a Guidobaldo, allievo di Federico Commandino, che a sua volta era in corrispondenza con Maurolico; Guidobaldo, oltre a essere in stretti legami epistolari con Clavio, legge e commenta le prime opere di un allievo di Clavio, Luca Valerio, il quale conosce Galilei a Pisa. Si tratta inoltre di una comunità relativamente aperta, in cui le scoperte e il sapere non vengono gelosamente custoditi, come avveniva nel mondo dei maestri d’abaco (si pensi agli strani rapporti fra Tartaglia e Cardano sulle equazioni di terzo grado). Anzi, in questa comunità non ci si scambiano solo (come avveniva fra gli umanisti del Quattrocento) testi e informazioni su testi: si scambiano anche – e soprattutto – temi di lavoro, ipotesi da verificare, congetture da dimostrare.
Il secondo fattore è il recupero della matematica greca classica, che verso il 1575 è ormai quasi integrale. Dopo la stagione delle edizioni di Basilea, dopo Maurolico, Commandino e Clavio, ormai i testi di Euclide, Archimede, Apollonio, Pappo, Teodosio, Menelao e Tolomeo sono disponibili in più di un’edizione a stampa; anzi, alcuni di essi sono perfino tradotti in volgare. Inoltre, questi testi cominciano a essere assimilati; la loro lettura, che per un Piero della Francesca, per un Leonardo e persino per un Regiomontano era stata ardua, se non decisamente problematica, diventa ora il primo passo per impegnarsi in precisi programmi di ricerca.
Nel 1565 Commandino pubblica a Bologna il Liber de centro gravitatis solidorum, in cui cerca di fornire la determinazione del centro di gravità del paraboloide e di altri solidi. Le manchevolezze, ma anche le intuizioni, di Commandino daranno il via a una trentina d’anni di studi in cui si impegneranno Simon Stevin, Michel Coignet, Clavio, il giovane Galilei. Maurolico, in precedenza, vi aveva già dedicato uno studio. Il successo arriderà pienamente solo a Valerio, che porrà il problema in termini nuovi e più generali e riuscirà a determinare il centro di gravità di tutti i solidi della matematica classica. Il De centro gravitatis solidorum libri tres (1604) di Valerio è uno di quei testi che segnano la fine dell’impostazione classica e la nascita della matematica moderna.
Parallelamente, le discussioni che hanno attraversato tutto il Cinquecento sulle Quaestiones mechanicae attribuite ad Aristotele sfociano nel Mechanicorum liber (1577) di Guidobaldo e – soprattutto – in Le mecaniche (1594 ca.) di Galilei. Sfociano in una nuova concezione della meccanica: non più arte, ma scienza; non più mezzo per ingannare la natura con l’empiria delle macchine, ma campo in cui si dispiega tutta la potenza della modellizzazione geometrica.
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