Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La commedia umanistica, in versione goliardica, riscopre beffe e intrighi della tradizione plautino-terenziana e usa il registro comico per parodiare gli stessi ideali dell’umanesimo assieme alle storture del sapere accademico: l’eros prevarica sullo studio, sulla fedeltà coniugale, sugli obblighi ecclesiastici, sino a imporre le sue esigenze al desiderio di gloria e alla generosità affettiva. Questo teatro cede infine il passo ai primi allestimenti plautini, mentre la tragedia, pur consolidando il suo assetto formale, resta soprattutto un esercizio retorico.
La commedia umanistica tra estri goliardici e parodici
Pier Paolo Vergerio
Dialogo fra Papide ed Erote
Paulus
Papide: Hanno ragione di dire, che sei un uomo accortissimo!
Erote: Non passa giorno, infatti, che non imbastisca qualcosa di nuovo. Quando non posso fare altro, mi diverto a imbrogliare il padrone, e a istruirlo secondo i nostri sistemi. Vedrai, tra poco, come te lo avrò ridotto! Parlan tutti di un certo Lippo Tropo per la bravura con cui sapeva conciare i suoi servi; ma qui c’è Erote, che i suoi padroni se li mangia in salsa piccante! Se tu sapessi quanti di loro ho trascinato dai fastigi della ricchezza all’ospizio dei poveri! Non c’è regno così vasto, che con le mie arti non sia in grado di trasformare in meschina proprietà! Una volta avevo un padrone, al quale – a forza di begli inchini e di dir sempre di sì – sono riuscito a cavare tutto quello che volevo: alla fine l’ho ridotto a dover fare il servo.
Ugolino Pisani
Epifebo istruisce Filogenia
Philogenia
Filogenia: Ahimè, preferisco te a tutte le doti! Tu sei la mia dote più preziosa e più ricca.
Epifebo: Aspetta! Calmati! Riprendi un po’ di fiato. Ora non sei in te.
Filogenia: Io? Povera me!
Epifebo: Stammi a sentire: te lo dirò io come si svolgerà questa faccenda. Dal momento che gli dei o la mala fortuna (è più giusto accusare lei che gli dei!) non hanno voluto che io restassi più con te (e tu stessa, penso, ti sarai resa perfettamente conto perché ciò debba accadere), ho deciso di trovarti un marito e una dote. Taci, lasciami finire con calma! Accanto a tuo marito tu vivrai, stimata da tutti e da tutti portata in palma di mano per la tua pudicizia, come le altre spose, che vivono d’amore e d’accordo coi loro mariti. Non per questo, tuttavia, dovremo dire addio ai nostri piaceri. Tu, infatti, cercherai di imitare il comportamento delle donne perbene e accorte, che, dopo sposate, si godono il loro amante con più sicurezza di prima. Esse non temono più nulla; anche se rimangono incinte, possono sempre affermare che che il figlio appartiene al marito, e la legge stessa vien loro in aiuto, stabilendo che il neonato assuma il cognome della famiglia in cui ha visto la luce. Aggiungi che le altre donne sposate non hanno le briglie al collo come le altre, ma godono di una maggiore libertà di parlare, di ridere, far dei cenni e scherzare con coloro che amano. Tu farai lo stesso. Verrai spesso in città, e porterai al mercato frutta, noci, uve passe, verdure, olive, castagne, eccetera. Appena ti avremo vista, ti abborderemo, facendoti delle domande sulla merce che hai con te; tu, s’intende, ce la venderai. Allora si farà avanti un nostro “factotum” che non dia alcun motivo di sospetto. Costui, bene ammaestrato, ti dirà: “Buona donna, seguimi con la tua cesta; casa nostra è a un passo”. Tu, come in genere fan tutte le altre, verrai da noi in sua compagnia. Qui ci potremo sollazzare, e rievocare il nostro passato. Credimi pure, se faremo così, nessuna calamità potrà mai abbattersi sul nostro amore.
Enea Silvio Piccolomini
Sedulio e Carino discutono di Cassina
Chrisis, III, 8
SEDULIO: (uscito con Libaone dalla casa di Criside) Perché costui ce l’ha tanto con l’amore? È proprio vero che chi ama una donna, se gli manca, si sente in croce. Voglio andare a parlargli. Salve, Carino, che c’è?
CARINO: Ah, Sedulio, che c’è mi chiedi? C’è che son divorato, macerato, sventrato. Per amore, ahimè, son rovinato, son morto, son finito.
SEDULIO: È assurdo straziarsi l’animo fino a questo punto. Nelle avversità, bisogna farsi coraggio.
CARINO: Dimmi cosa posso fare.
SEDULIO: Spiegami il tuo male.
CARINO: Lo sai che stanotte la mia cassina e la tua Criside dormiranno in casa di Cantara, la ruffiana.
SEDULIO: Lo so.
CARINO: E non dici niente?
SEDULIO: Lo so e non dico niente. Mio caro, una puttana è come una città piena di ogni ben di Dio, che non può mantenersi ricca senza molti uomini. Una puttana non sta bene se non cambia marito ogni giorno. Oggi è stata con me, stanotte vada con altri, com’è giusto. Non vuole rischiar di dormir vedova; e del resto, se non cambia spesso, crepa di fame. Non ne hai avuto abbastanza di tutte le ore che hai passato oggi in braccio a colei che ami? Ora lascia il posto agli altri, da bravo; non ti porteranno via nulla. Domani tornerà da te tale e quale come è adesso.
E.S. Piccolomini, Chrisis
La tradizione del teatro comico latino non aveva subito un’interruzione totale nel corso del Medioevo e le scuole salvaguardarono la fama di un Terenzio “pedagogico” e la stessa scabrosa esuberanza d’un Plauto. Ai primi del Quattrocento, nella città-stato animata dalle esperienze civili delle prime signorie, il mito della res publica alimenta sì la nascente cultura dell’umanesimo, ma il sogno d’una riconquista dell’antico non investe direttamente il teatro.
L’interesse per la commedia umanistica – ancora un decennio dopo la scoperta fatta da Nicola Cusano nel 1429 di 12 inedite commedie plautine – sopravvive certo negli ambienti universitari, ove però l’estro goliardico si cimenta con gli intrighi delle beffe più per parodiare gli ideali umanistici che per coltivarne i desideri o le ansie di libertà.
Questo gioco demistificatorio nei confronti del sapere umanistico è evidente – a dispetto del moralismo pedagogico dichiarato dal prologo – già nel Paulus, che il ventenne Pier Paolo Vergerio, lettore di logica a Bologna, compone nel 1390 prima di passare al servizio della curia romana. Il protagonista del Paulus, un giovane studente universitario, decide di punto in bianco, ispirato da un sogno notturno, d’abbandonare la sua dissipata e inconcludente condotta per dedicarsi anima e corpo allo studio; ma non appena il servo Erote gli suggerisce di rinviare la conversione, il giovanotto s’arrende impegnando libri e abiti per organizzare una cena con disponibili fanciulle. Invano cerca di opporsi l’ex precettore, il vecchio servo Stico; l’intraprendente Erote s’intrufola in casa della mezzana Nicolosa promettendole d’arricchirla se la figlia Orsola sarà a disposizione del suo padroncino. Ottiene addirittura di provare in anteprima “quanta perizia ci mette nel suo mestiere”; con finto disinteresse consiglia poi che la fanciulla si finga vergine. Al collega Papide Erote racconta l’esito della cena, come la navigata Orsola si fosse scordata di comportarsi da vergine, e vanta la sua soddisfazione nel trascinare i ricchi padroncini “all’ospizio dei poveri”. L’azione s’interrompe su un nuovo svolgimento del terzo o quarto atto: la proposta di Erote di cimentare la propria astuzia, dopo la vittoria sulla mezzana, in un nuovo scherzo ai danni del temibile padrone di Papide. All’obiezione del compare di considerare che “anche la volpe finisce al macello”, la replica di Erote conferma la morale d’un umanesimo satirico in chiave d’irridente cinismo: “Ma a capitarci sono in più le pecore!”.
Riportata ai primi anni del Quattrocento è la Poliscena, attribuibile al cancelliere aretino Leonardo Bruni; sebbene la commedia attinga a Terenzio per una regolarizzazione della forma comica, la vicenda è verbalizzata in prosa, non si vincola a costrizioni di tempo o spazio e accoglie elementi satirici contro i frati predicatori. Entro la consueta tipologia d’un padre avaro, d’un figlio spendaccione assecondato da servi e mezzani, la trama vede il giovane Gracco ricorrere all’astuzia di Gurgulione e alla disponibilità di Tarantara per ottenere un abboccamento con l’innamorata Poliscena: saranno poi le minacce della madre a convincere il seduttore alle nozze.
Cronache scandalistiche e allegorie in commedia
A una vicenda d’attualità sembra rivolgersi invece il bergamasco Antonio Barzizza, studente a Bologna nella prima metà degli anni Venti; la sua Cauteraria dismette programmaticamente ogni confronto con i moduli terenziani dialogando in prosa la cronaca d’un tradimento e d’una vendetta familiare. La commedia con rapidi passaggi di scena – surrogato dei cinque atti – inscena l’amore di Scintilla, moglie del rintontito Braco, per il giovane prete Auleardo: consigliata dalla governante, la donna finge un malore perché il prete accorra al suo letto ma, messo sull’avviso dal servo Granulo, il marito geloso sorprende la donna in flagrante e costringe l’adultera a lasciarsi legare sul tavolo per non contaminare il talamo con un rapporto insieme amoroso e riparatore. La beffarda ritorsione di Braco – uso a uccidere le mogli a bastonate – è quella di marchiare a fuoco la consorte, soluzione che egli esalta con una sentenza ferocemente sadica: “Non castigo te, ma la parte del corpo che ha sbagliato: aggiungo fuoco al fuoco!”. Solo l’intervento armato di Auleardo consente al prete di patteggiare per la donna la possibilità di “peccare impunemente” e un banchetto festeggia l’accordo.
A Bologna compare anche la Philodoxeos fabula o Commedia di Filodoxia la cui pesante trama allegorica accoglie nel 1424 non più la locale cronaca d’attualità ma ambienta su una scena romana le considerazioni etiche di Leon Battista Alberti, allora studente di diritto canonico. Il contrastato amore del giovane per Doxia – la gloria – sviluppa in prosa un intreccio estroso e drammatico, complicato dagli intrighi del rivale Fortunio e risolto soltanto dall’intervento di Chronos, il Tempo, che compone i dissidi e supera ogni apparente difficoltà grazie alle agnizioni.
Il modello plautino a profitto con la Philogenia
Intanto negli anni Trenta, oltre al recupero delle commedie plautine, avviene il ritrovamento in Magonza di un corpus terenziano corredato dal commento di Donato (IV sec.). Questo rinnovato contatto filologico e interpretativo con la commedia antica s’avverte nella Philogenia, composta a Pavia dall’umanista parmense Ugolino Pisani durante il suo apprendistato accademico di giureconsulto.
Nelle 15 scene in prosa della commedia lo schema comico a matrice plautina diventa insieme estrosa invenzione espressiva, vitalità dialogica e coerenza tecnica. L’ingenua e sensuale protagonista, sedotta dal gaudente Epifebo, è nascosta dall’amante in casa d’amici col pretesto di sottrarla alle ricerche degli sbirri; in effetti Filogenia finisce relegata e concessa ai compari di Epifebo. Questi per sciogliersi dai propri impegni convince la fanciulla a sposare il rozzo Gobio, si procura l’avallo del confessore Prodigio riservandosi la possibilità di frequentare indisturbato la giovane.
Il gioco irridente della scena – cui dà risalto il realismo cinico di genitori e di servi, la convenienza di preti e ruffiane – lascia affiorare dall’iniziale tensione erotica degli innamorati un’epicurea o utilitaristica volontà di piaceri: la stessa Filogenia si concede non perché Epifebo finge di voler altrimenti morire, ma perché da giovani “il corpo è fatto per l’amore”. Da parte sua il prete Prodigio assolve la fanciulla, rea d’aver ceduto alle voglie di molti, argomentando che non c’è peccato “se a tale turpitudine ti ha spinto non la volontà, ma la necessità”.
Il moralismo del Frulovisi e la spregiudicatezza del Piccolomini
Cinque commedie in prosa (Corollaria, I due Claudi, Emporia, Simmaco e Oratoria) scrive a Venezia il precettore ferrarese Tito Livio de’ Frulovisi, facendole rappresentare tra il 1432 e il 1435 in occasione di feste pubbliche e auspicando invano di potersi inserire nei trattenimenti prediletti dalla società colta. Frulovisi attinge da modelli latini i convenzionali intrecci che vedono il servo assecondare le imprese erotiche del giovane padrone; in questi schemi spesso farraginosi e disordinati inserisce motivi romanzeschi e avventurosi con riferimenti all’attualità: nell’Oratoria compare un frate tartufesco e seduttore a satireggiare, con arcigno moralismo, un suo antagonista domenicano.
Mostrano invece un notevole controllo del modulo classico – modellato in senari giambici capaci di echeggiare festose situazioni plautine – le 18 scene in cui si sviluppa Chrysis, commedia scritta a Norimberga nel 1444 da Enea Silvio Piccolomini. La trama, approntando una beffa da bordello, chiama alla ribalta i due giovani chierici Diofane e Teobulo, l’uno innamorato, l’altro più scettico, che decidono d’allestire una cena per le loro amanti in casa della mezzana Cantara. Ma le giovani cortigiane Cassina e Criside non disdegnano le proposte del sobrio Carino e dello stagionato Sedulio, la coppia rivale che si presenta in anticipo; gli altri restano contrariati e, per il dispetto, se ne vanno, mentre la mezzana, indotta dal servo Libifante, accoglie alla chetichella i sostituti. I permalosi Teobulo e Diofane prima decidono di non spendere più denari con le prostitute, poi finiscono per lasciarsi convincere della loro innocenza. La gnome, ironica e mercantile, esalta una disinvolta amoralità che bilancia l’elogio del celibato: “Noi celebriamo ogni giorno nuove nozze; se un’amica ci piace, ritorniamo; se non ci piace, cambiamo strada”. A controcanto, anche Criside, mirando al sodo, ha deciso di “procurarsi ogni giorno nuovi amanti”.
L’esperienza culturale del teatro umanistico, nel suo alternare prospettive morali-pedagogiche e intenti parodico-satirici – che non rifuggono da motivi osceni derivati dalle farse goliardiche – cede il passo nella seconda metà del Quattrocento alle edizioni, alle traduzioni e alle rappresentazioni di Plauto e Terenzio: a Firenze, per il carnevale del 1476, gli allievi di Giorgio Antonio Vespucci allestiscono una recita in latino dell’Andria; per i natali di Roma, nel 1486 Pomponio Leto dirige la rappresentazione dell’Epidicus di Plauto; nel maggio del 1488 vanno in scena a Firenze i Menaechmi con il prologo approntato da Angelo Poliziano – ma a Ferrara la stessa commedia era stata rappresentata in volgare due anni prima. Dello stampo classico si fa forte l’Epirota (1483), commedia del patrizio veneziano Tommaso Medio che in scena introduce un’attempata Panfila a struggersi per il giovane Clitofane, già amante di Antifile, ma osteggiato da uno zio; la soluzione la garantirà appunto l’arrivo dall’Epiro d’un provvidenziale aspirante alla mano di Panfila. Sul finire del secolo echeggia Plauto e soprattutto Terenzio in un’anonima Aetheria che rappresenta in senari il solito matrimonio contrastato tra la coppia Orchite/Clarimena; al termine dei cinque atti divenuti canonici, il soccorrevole amico Filebo, dopo aver sognato le nozze con Eteria, la bella dea dell’etere, ne ritroverà le fattezze nella sorella di Orchite, avverando il suo sogno. La vicenda va intesa forse come una garbata parodia della favola di Amore e Psiche, trasposta nel comico fra prestiti di denaro e meschine contrattazioni.
Il genere tragico:una riattualizzazione retorico-celebrativa
Sebbene ancor più elitaria della commedia, la tragedia è praticata soprattutto come esercizio retorico su cui si macera l’educazione umanistica; il suo assetto formale consolida nel Quattrocento gli schemi, le tematiche, il ritmo tragico e il linguaggio del modello senecano, garantendo un’apertura – allusiva piuttosto che diretta – all’attualità.
Una notevole fama letteraria godette la Progne del veneziano Gregorio Correr, composta come saggio drammaturgico nel 1427. La tragedia, strutturata in cinque atti con quattro cori, svolge il tema della tirannide con un occhio rivolto ai Visconti, tracotanti signori di Milano; le apocalittiche sventure – preannunciate nel primo atto come incombenti sulla reggia di Tereo – si materializzano a iniziare dal racconto menzognero del re che ha violato la cognata Filomena; nel quarto atto messaggero e coro narreranno l’orrendo delitto compiuto dalla regina Progne: a vendetta della sorella, ha ucciso il figlioletto dandolo in pasto al marito.
Mentre Correr s’ispirava al mito ovidiano, il notaio fiorentino Leonardo Dati popola la sua tragedia Hiempsal (1442) di personaggi storici e allegorici. Sono appunto Strage e Tradimento, convocati da Erebo e Invidia a raccontare nel quinto atto come Giugurta si sia vendicato dei fratelli decapitando Iempsale.
Alla contemporaneità storica s’appoggia Laudivio Zacchia, cresciuto nella cerchia di Guarino Veronese , poi militare a Rodi; nel 1465 compone la tragedia De captivitate ducis Iacobi (Le prigioni del condottiero Iacopo) rappresentando in cinque atti la drammatica vicenda di Niccolò Piccinino, condottiero al servizio del re Ferrante di Napoli, che viene sacrificato in nome della ragion di Stato. Fra i personaggi figura Borso d’Este, amico del condottiero e destinatario dell’opera.
Nell’ambiente erudito dell’Accademia Romana, guidata da Pomponio Leto e protetta dal cardinale Raffaele Riario, tra il 1486 e il 1488 va alcune volte in scena – dopo la rappresentazione “domestica” della plautina Asinaria – la tragedia senecana Hippolytus, testo classico, scelto quasi a battesimo d’una renovatio urbis anche teatrale. Ne cura l’allestimento Sulpicio de’ Veroli, editore del De architectura di Vitruvio, mentre il ruolo dell’eroina tragica viene interpretato memorabilmente da un giovane attore, Tommaso Inghirami, da allora soprannominato “Fedra”. Tra gli autori della corte pontificia si distingue il segretario dei brevi papali Carlo Verardi che, negli anni Novanta, con il Ferdinandus Servatus drammatizzò in palazzo Riario un fallito attentato al re di Spagna, il trionfante conquistatore di Granada.