Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Tra l’alto Medioevo e l’XI secolo vengono introdotti, nell’ambito della coltivazione, molti degli elementi che saranno alla base della rivoluzione agricola dell’Occidente. Prima fra tutti, l’introduzione della rotazione delle colture permette di ottenere rese maggiori nella produzione, ma anche la messa in funzione di validi sistemi di irrigazione, nuove tecniche per sfruttare al meglio il lavoro degli animali, l’evoluzione dell’aratro, consentono la moltiplicazione dei raccolti, con una drastica riduzione del lavoro da parte dell’uomo.
Bernardo di Chiaravalle
Il fiume al servizio dell’uomo
Descriptio Monasterii Clarae vallis
Il fiume penetra all’interno del monastero nella misura che è permessa dal muro di cinta; passa dapprima attraverso il mulino del grano, dove le sue acque sono usate per la macinazione sotto il peso delle mole e per manovrare il fine staccio che separa la farina dalla crusca; quindi le acque affluiscono in un successivo fabbricato e riempiono la caldaia, dove si bolle la birra per i monaci, qualora se ne ravvisasse la necessità in caso di scarsezza di vino. Dopo di ciò il fiume non ha ancora terminato il suo compito, poiché viene fatto passare nelle macchine di follatura che sono sistemate dopo il mulino del grano e, mentre in questo il fiume aveva dato la sua opera per la preparazione del cibo per i confratelli, ora li serve nella produzione dei tessuti obbedendo docilmente. Fa abbassare e innalzare alternativamente i pesanti blocchi di legno delle macchine per la follatura (o pestelli o se preferisci martelli, o piedi di legno: quest’ultimo nome mi pare più adatto, perché i follatori pestano con i piedi, saltando in modo ritmico); […] la fatica della follatura quante schiene di cavalli, quante braccia umane avrebbe spezzato! Da questa fatica invece il fiume ci libera e ci fa grazie; di più, senza il fiume, come potremmo mai vestirci e sfamarci? Il fiume mette tutto in comune e del suo lavoro, compiuto sotto il sole cocente, non chiede altra ricompensa se non il permesso di andare via, dopo avere sbrigato tutte le incombenze con premura e sollecitudine. Quando poi con la sua energia il fiume ha fatto girare velocemente tutte le ruote, genera della schiuma e sembra che abbia macinato se stesso e sia diventato più stanco. Poi entra nella conceria, dove dedica le sue cure e il suo lavoro alla preparazione del materiale necessario per le calzature dei monaci; quindi si divide in molti piccoli rivi, e nella sua corsa affannosa passa attraverso vari scomparti, giungendo là dove i suoi servigi sono richiesti per gli scopi più diversi: per cucinare, per far girare ingranaggi, per frantumare, innaffiare, lavare, macinare, ammorbidire, sempre offrendo di buon grado i suoi servigi; infine, per meritarsi completamente i ringraziamenti e per non lasciare nulla di incompiuto, trasporta con sé i rifiuti e lascia tutto pulito.
B. di Chiaravalle, Descriptio Monasterii Clarae vallis, Migne, Patrologia Latina, 1844-1855
Gli investimenti nelle campagne si limitano in genere all’acquisto della terra, non accompagnato da uno sforzo finanziario teso a potenziare i mezzi tecnici della produzione agricola che si basa prevalentemente sul lavoro umano. Tra l’alto Medioevo e l’XI secolo vengono tuttavia recepiti e messi a frutto i principali elementi su cui si fonda la rivoluzione agricola dell’Occidente. La grande crisi scatenata dalle invasioni dei popoli germanici tra il IV e il VI secolo aveva scosso l’Occidente, travolto da distruzioni cui offrivano testimonianza i ruderi sparsi ovunque. I documenti dell’epoca raccontano di popolazioni affamate che vagano in spazi enormi saccheggiati e inutilizzabili, di un bosco in espansione al cui interno trovano riparo pericolose fiere, di guerre, carestie ed epidemie che hanno impoverito città e campagne. Con l’approssimarsi del nuovo millennio la popolazione torna a crescere, l’Italia e la Gallia si coprono di chiese, la terra viene lavorata con maggiore profitto, proseguendo una ripresa che si era manifestata già con la riforma di Carlo Magno, quando abbazie e feudi avevano incentivato nuove coltivazioni.
La lenta ripresa dell’agricoltura prende piede dalla necessità di risolvere due questioni su tutte: offrire il sostentamento di base alla popolazione e assicurare la sopravvivenza del bestiame per tutto l’aiuto che l’uomo ne ricava. Le coltivazioni ripetute troppo spesso esauriscono la terra e le conoscenze tecniche in materia sembrano non offrire soluzioni alternative. Per permettere il riposo ai terreni arati la sola pratica nota prevede di abbandonarli per un certo periodo alla vegetazione spontanea. Il bestiame, d’altro canto, ha bisogno di pascoli e l’erba è spesso insufficiente. Nell’area mediterranea l’avvicendamento più diffuso è quello biennale, per cui ogni anno si alternano i cereali e il maggese, operazione possibile a patto di possedere una superficie doppia e tale da garantire questa successione; nel Nord Europa, invece, si sta affacciando un diverso sistema di rotazione, complesso e fondato su una più mirata selezione tra le piante.
È organizzato a tre tempi: sullo stesso terreno si susseguono senza posa il primo anno i cereali in inverno, seminati in autunno; il secondo anno cereali di primavera e legumi; il terzo anno il maggese. Ne consegue che solo un terzo del terreno coltivato è costretto a fermarsi ogni anno. I documenti non dicono dove la pratica della rotazione triennale sia comparsa per la prima volta, troppo estranea alle tecniche diffuse nel Mediterraneo per essere raccontata. Le più antiche notizie letterarie fanno riferimento alla Gallia del Nord e alla Loira nel IX secolo, ma non possiamo escludere che qualcuno avesse già in precedenza fatto esperienza con questo rivoluzionario modo di lavorare la terra. Con il tempo la rotazione triennale si diffonde, finendo col convivere con il sistema tradizionale che continuerà a essere praticato nelle regioni mediterranee. Con la rotazione triennale, che introduce un nuovo rapporto nel ciclo semina-lavoro, i raccolti si moltiplicano. Coltivazioni a base di legumi e fibre forniscono un’alimentazione sufficiente per i lavoratori i cui terreni adesso producono riso, orzo, fave, lenticchie, spinaci e molte altre specie che traggono beneficio anche dalla messa in funzione di validi sistemi di irrigazione. Oltre alla canalizzazione delle acque, il Medioevo non ha mai dimenticato l’impiego di macchine fondamentali nell’antichità come la noria, la ruota con secchi lungo la circonferenza parzialmente immersa in un corso d’acqua e azionata dalla corrente, e la vite di Archimede, usata specialmente nelle regioni del Nord Africa e nella penisola iberica.
La tecnologia applicata al lavoro degli animali e l’evoluzione dell’aratro
Nonostante questi progressi, la produzione agricola è ancora frenata dall’insufficienza dei mezzi tecnici che dovrebbero essere diversificati da regione a regione, a seconda del clima, del tipo di suolo e di coltivazioni. Scarsa la forza lavoro, pochi gli animali, e quelli da tiro aggiogati in maniera non funzionale, raro il concime. Tuttavia anche in questo settore si affacciano i segni di un nuovo e più positivo rapporto con la terra, fondato sulla diffusione di alcune felici intuizioni.
Ai margini del bosco si conquistano lembi di terreno da coltivare, la legna alimenta forni e fornaci e offre carbone. Rami e tronchi forniscono il legname per l’edilizia che è tornata a essere prevalentemente in legno, come lo sono molti strumenti da lavoro e le torce per illuminare; abituati a fare a meno del metallo, questi uomini trovano un equilibrio con l’ambiente circostante, ponendo le premesse per una nuova epoca che comincia a manifestarsi verso il X secolo, quando in alcune aree dell’Occidente vanno sperimentandosi innovazioni tecniche destinate a uno straordinario impatto sull’economia del Medioevo.
Il cavallo, da tempi antichissimi compagno dell’uomo in una serie di attività, viene adesso impiegato sfruttandone pienamente la potenza, con un notevole incremento della produttività rispetto alle epoche precedenti, quando il sistema di briglie comprimeva la trachea dell’animale che non era in grado di rendere al meglio. Tra la seconda metà del X e il XII secolo si diffonde il nuovo tipo di collare con tiranti appoggiato sulle spalle del cavallo, che può ora avanzare e tirare sfruttando al massimo la sua potenza: infatti, dalla spalla l’operazione di traino si sposta sull’ossatura, lasciando i muscoli liberi. In questo modo il cavallo viene impiegato per lavori nei quali sino ad allora si utilizzavano solo i buoi, più lenti e impacciati. Nel corso dell’IX secolo erano stati introdotti anche la sella di tipo moderno e i ferri, che andavano a sostituire la fasciatura che in precedenza copriva gli zoccoli dell’animale. Di grande importanza sarà anche l’ingresso nell’uso comune della staffa: anche se probabilmente non è mai entrata nella letteratura, essa ha avuto un’importanza sensazionale nella storia dell’umanità. Fu probabilmente Bisanzio nell’VIII secolo a fare da tramite per l’ingresso di questa invenzione nell’Occidente, poco dopo la sua diffusione nelle pianure dell’Asia.
Con le staffe, il morso e i ferri fissati con i chiodi sullo zoccolo, il cavallo è messo in condizione di muoversi in maniera più efficace, trasformato in una potente macchina da lavoro che libera l’uomo da pesanti attività come l’aratura, adesso svolta più velocemente che con i buoi. Inoltre, alcune miniature risalenti all’anno Mille mostrano i cavalli a traino in fila verticale, soluzione ancora più efficace rispetto all’attacco in linea orizzontale. In campo militare erano stati i Franchi di Carlo Martello a comprendere in pieno le potenzialità della staffa, fondando su di essa un nuovo modo di combattere basato sull’urto del cavallo: uomo e cavallo vanno a costituire un’unica unità potente quanto l’energia sprigionata dall’animale, una vera e propria macchina bellica che farà vedere i suoi effetti sul campo di battaglia.
Grazie a una serie di modifiche rispetto allo schema di base, anche l’aratro evolve verso tipologie sempre più meccanizzate. Leggero e fatto di pezzi messi assieme in modo semplice, l’aratro usato nell’antichità era trainato da un solo uomo e smuoveva il terreno senza rivoltarlo. Di notevole importanza, la sua diffusione nel mondo antico consentì per la prima volta al contadino di applicare alla terra una forza mediata da un attrezzo che ne compiva il lavoro. Nella sua forma più semplice, un grosso palo opportunamente lavorato solcava la terra lasciando una striscia scavata, ma non rivoltata. Non adatto a tutti i tipi di suolo, questo aratro venne modificato per poter lavorare con successo i terreni più densi e umidi del nord Europa. Giunto alle popolazioni slave dall’Oriente, l’aratro pesante, di fabbricazione e uso costosi, entra in funzione nel VII secolo nella zona del Reno e contribuisce alla ripresa economica registratasi sotto i Franchi; nel IX secolo i Vichinghi lo portano con sé nella loro espansione in Inghilterra e Normandia e dal X in poi viene più ampiamente recepito. Munito di tre elementi in aggiunta allo schema di base, questo aratro è dotato di un coltro, una lama pesante messa sul timone che serve a tagliare verticalmente la terra; vi è poi il vomere, perpendicolare rispetto al coltro, che apre la zolla in senso orizzontale, mentre il versoio la rovescia. Attaccato a un cavallo, velocizza il lavoro del contadino, che vede compiersi più operazioni in una volta sola: la terra era infatti rovesciata, rivoltata e frantumata. Si può quindi eliminare l’aratura incrociata, inevitabile con l’aratro semplice, e coltivare una superficie maggiore in un tempo minore. La piena diffusione di questo dispositivo avviene dopo il Mille, quando le modifiche rispetto allo schema di base vengono più ampiamente recepite.
Per quanto riguarda l’Oriente, l’agricoltura ha tratto notevole beneficio dallo sviluppo della tecnologia nel mondo islamico. Tra le più significative realizzazioni tecniche dobbiamo infatti considerare la costruzione di grandi ed efficaci impianti di irrigazione in Asia Minore, nel Nord Africa e in Spagna.
Lo sviluppo di queste conoscenze trova collocazione anche all’interno dell’opera di Ibn al-Awwam, un dotto arabo vissuto a Siviglia verso la metà del XII secolo e autore di uno dei più importanti testi di letteratura agronomica di tutto il Medioevo. Il titolo originario, Libro del mestiere del contadino, sarà volto in Libro dell’agricoltura. L’autore, che si richiama soprattutto all’opera di Columella, effettua un’ambiziosa operazione di sintesi all’interno della letteratura agronomica esistente, consultando numerosissime fonti puntualmente citate, tra le quali figurano anche Aristotele, Democrito e Ippocrate. L’esposizione privilegia le problematiche delle coltivazioni tipiche del sud del Mediterraneo; di notevole interesse è la parte relativa alla classificazione dei suoli, che getta luce sulla varietà dei terreni che gli Arabi si trovano a lavorare ricorrendo di volta in volta a tecniche, strumenti e dispositivi diversi.
Nell’opera di Ibn al-Awwam il piccolo aratro usato dai Romani nei terreni sabbiosi viene affiancato dall’aratro pesante, più adatto ai suoli argillosi. Di notevole interesse è anche la parte dedicata all’irrigazione, affrontata con notevoli considerazioni sulla meccanica dei fluidi, forte di una tecnologia alla cui evoluzione e consolidamento la scienza araba stava dando un contributo di rilievo attraverso ricerche che avevano raggiunto risultati di eccellenza. Lo studio dei testi della tradizione della pneumatica ellenistica era infatti stato aggiornato con la dettagliata descrizione di fontane, giochi d’acqua e apparati idraulici nei quali gli Arabi furono a lungo maestri impareggiabili.