La rivoluzione del moschetto
Uno stratega ha, indipendentemente dall’epoca in cui vive, il problema di battere il nemico sul campo di battaglia. La tattica da impiegare per ottenere la vittoria è intimamente legata alle caratteristiche delle armi in uso, che dettano il modo con cui queste possono essere impiegate. L’organizzazione di un esercito, le catene di comando e controllo, il sistema logistico sono influenzati direttamente dai sistemi d’arma. Non solo la tattica e la logistica rispecchiano la tecnica delle armi; anche le strutture militari ne risentono direttamente. Un esercito che impiega sistemi d’arma tecnologicamente avanzati richiede forme organizzative complesse per ottenere il massimo risultato in termini di efficienza. Un’armata che adotta armi meno sofisticate avrà necessità inferiori in termini di logistica e di organizzazione dello sforzo bellico.
Il periodo che vide l’avvento sistematico e su larga scala delle armi da fuoco portatili, databile al 15° sec., è fondamentale per capire la relazione tra la tecnica delle armi, il modo di combattere, la composizione degli eserciti e altre forme organizzate della società. In tale epoca ebbero luogo delle innovazioni che sarebbero poi sfociate in quella che Geoffrey Parker (1988) definì la rivoluzione militare, ossia un cambiamento radicale nel modo di condurre la guerra che ebbe effetti tali da estendersi anche alla struttura degli Stati.
La ‘rivoluzione militare’ consta di una serie di innovazioni che, partendo dalla tecnica costruttiva delle armi, modificò gli eserciti in modo profondo e duraturo. Semplificando, si possono individuare tre salti tecnologici o, meglio, tre insiemi di innovazioni che hanno modellato la ‘rivoluzione militare’. Il primo riguarda l’introduzione delle armi da fuoco portatili e le loro dottrine di impiego. Il secondo concerne i sistemi fortificati e la loro interazione con le artiglierie e le tecniche ossidionali. Il terzo invece vede l’avvento del galeone, ossia dello strumento che consentì di proiettare, a distanza, la potenza sui mari, permettendo così la nascita di imperi transoceanici. L’attenzione di questo lavoro è centrata tuttavia unicamente sugli effetti dell’introduzione dell’arma lunga portatile, l’archibugio successivamente moschetto, sul campo di battaglia.
Il campo di battaglia
Nella seconda metà del 15° sec. gli eserciti impiegavano una vasta panoplia di armi a cui corrispondevano diversi modi di gestire lo scontro in campo. Si spaziava dalle articolate armate di Carlo il Temerario (1433-1477), con fanti equipaggiati con armi d’asta, cavalieri corazzati, artiglierie da campagna e da assedio, arcieri, balestrieri e gente d’arma con armi da fuoco portatili, ai più semplici eserciti svizzeri, forniti prevalentemente di picche e alabarde. Le forze di Carlo il Temerario sembravano, e sotto alcuni aspetti lo erano, molto più raffinate di quelle messe in campo dai suoi nemici elvetici. Tuttavia il successo andò ai montanari svizzeri nelle battaglie di Grandson (1476), Morat (1476) e Nancy (1477), grazie all’uso che questi seppero fare delle picche e alabarde, sfruttando anche la pochezza delle capacità tattiche di Carlo il Temerario.
In realtà, la formazione di picche, con la presenza anche di alabardieri, di uomini con armi da fuoco e spadoni a due mani, implicava un modo di combattere sofisticato, che coniugava la capacità di resistere con quella d’urto. I picchieri disposti in file numerose erano, in fase difensiva, un ostacolo insormontabile per la cavalleria, che non poteva sfondare le dense linee di picche utilizzando la forza data dalla massa del cavallo e del cavaliere corazzato. Il cavallo, saggiamente, si rifiutava di piombare a corpo morto su una selva di punte aguzze. La cavalleria era un’arma non più decisiva qualora i picchieri, avendo sangue freddo, fossero riusciti a mantenere la coesione e a ben posizionarsi sul terreno. Una falange di picchieri, profonda anche venti righe, comprendente alabardieri e protetta da balestrieri o armi da fuoco, era quindi una noce troppo dura da rompere per la cavalleria, le cui lance erano più o meno della stessa lunghezza della picca da cinque o sei metri degli svizzeri.
La fanteria elvetica, così organizzata, aveva un potenziale difensivo ben superiore a quello delle fanterie medievali tipiche degli eserciti dei comuni italiani che, nei terreni rotti, avevano comunque anch’esse dato filo da torcere alla cavalleria. La chiave del successo degli svizzeri, tuttavia, risiedeva in un altro fattore, non difensivo: la mobilità. Le fanterie dei cantoni elvetici erano in grado di muoversi in formazione ordinata con una velocità sorprendente, così come erano capaci di cambiare rapidamente fronte grazie al meticoloso addestramento al combattimento collettivo. Inoltre, sapevano passare rapidamente da colonne di marcia a formazioni da combattimento. Alla grande efficienza nella difesa si aggiungeva la capacità di urto in movimento che era in grado di scompaginare le formazioni nemiche. In altri termini, gli svizzeri non si limitavano a serrarsi a riccio per neutralizzare la cavalleria nemica, ma avevano la destrezza di piombare rapidamente sul nemico, mantenendo la formazione intatta, come fecero a Nancy nel 1477 cogliendo i borgognoni impreparati. Inoltre, potevano assumere formazioni geometricamente differenti come triangoli, quadrati, rettangoli e convertirsi sveltamente da un assetto a un altro.
La falange svizzera era uno strumento più flessibile dell’antica falange greco-macedone. Non la si deve interpretare unicamente come un muro mobile di picche perché oltre ai picchieri vantava, in supporto e a complemento, altri tipi di combattenti. La presenza degli alabardieri consentiva di articolare lo sforzo offensivo o difensivo delle picche con armi in grado di colpire il nemico in modi differenti dal semplice colpo di punta. Gli alabardieri esercitavano, agendo singolarmente, un disturbo nei punti critici della formazione nemica per disarticolarla e facilitare il lavoro dei picchieri. I balestrieri, a piedi e a cavallo, fornivano una copertura con armi da getto in grado di perforare, a distanze brevi, le corazze dei nemici e proteggevano i fianchi della formazione. Analoga funzione era svolta da soldati armati con le primitive armi da fuoco. Gli eserciti che inflissero decisive sconfitte ai borgognoni erano il prodotto di una tecnica, semplice e antica, ma che, organizzata in modo flessibile, si trasformava in uno strumento chiave per determinare le sorti della guerra.
Lo stratega di fine Quattrocento per arrivare alla vittoria aveva, semplificando, due strade. La prima consisteva nell’arruolare reparti di svizzeri se il vincolo di bilancio o le circostanze politiche lo avessero permesso. Questa soluzione fu effettivamente seguita dai francesi e da alcuni Stati italiani generando una ‘corsa allo svizzero’ che fece la fortuna dei montanari, i quali abitavano terre altrimenti povere.
Strada simile era quella di creare truppe che fossero addestrate, equipaggiate in modo simile agli svizzeri e ne mutuassero il modo di condurre la battaglia. Così avvenne per i lanzichenecchi, che furono i rivali degli elvetici, utilizzati soprattutto dagli Asburgo. In realtà, i lanzichenecchi, per lo meno fino all’inizio del 16° sec., furono gli unici concorrenti degli svizzeri, a cui tennero testa con successo in numerose battaglie. Il modello svizzero, relativamente al modo di combattere, trovò poi la sua estrema evoluzione nelle fanterie spagnole che, fino all’inizio del 17° sec., dominarono i campi di battaglia europei con i loro pesanti reparti di picchieri.
La seconda strada che il nostro stratega poteva seguire era quella di introdurre delle innovazioni nei sistemi d’arma che fossero in grado di contrastare efficacemente il rullo compressore delle picche. Occorreva colpire i picchieri prima che questi arrivassero a distanza utile per poter impiegare le loro armi. Per seguire questo approccio era necessario rovesciare rapidamente e continuativamente una pioggia di proiettili sul campo di battaglia. La tecnica metteva a disposizione due tipi di armi in grado di scagliare proiettili a distanza: quelle da getto tradizionali, come archi e balestre, oppure le nuove armi da fuoco.
Gli archi erano già noti dall’antichità e la balestra stava raggiungendo proprio allora la sua maturità. L’arco, in mano agli arcieri inglesi, aveva dato prova di essere in grado di fermare gli attaccanti, infliggendo loro perdite tremende, cosa che avvenne nelle battaglie di Crecy (1346) e Agincourt (o Azincourt, 1415). I picchieri avrebbero dunque potuto essere annientati alla stregua della cavalleria pesante e degli uomini d’arme proprio come ad Agincourt?
In realtà, l’arco era nel Quattrocento inoltrato un’arma non più adatta alla guerra moderna. Per quanto le sue prestazioni balistiche fossero di tutto rispetto, con gittate utili di oltre il centinaio di metri e capacità notevoli di penetrazione, l’arma era penalizzata da uno svantaggio consistente nella relazione tra la sua tecnica costruttiva e l’interfaccia umana che la manovrava. Non bastava comperare archi e frecce e distribuirli a contadini che trovavano difficile impiegare una spada da cavaliere. Era necessario produrre degli arcieri. Per avere un buon numero di arcieri in grado di fungere da massa critica sul campo di battaglia occorreva sviluppare una vera e propria ‘cultura’ dell’arco che coinvolgesse vasti strati della popolazione; ciò avvenne in Inghilterra nel Trecento e Quattrocento. Qui l’arco era diffuso in numerosi strati della popolazione sia per la pratica venatoria, sia per l’attività ludica.
Se il materiale umano abbondava in Inghilterra, diverso era però il caso delle altre contrade europee. Tirare bene con l’arco in battaglia era più complesso di quanto non possa apparire. Era richiesta forza fisica, coordinazione dei movimenti, agilità e capacità di valutare distanze, direzione e intensità del vento. L’arciere doveva essere addestrato fin da piccolo all’uso dell’arco, che cresceva dimensionalmente con lui. Il suo tirocinio durava anni e implicava un esercizio fisico metodico, accurato e sistematico: i bravi tiratori con l’arco erano quindi una merce scarsa e costosa da impiegare. Mantenere un gran numero di arcieri sempre sul piede di guerra era quindi un problema finanziario grave e serio. Praticamente solo gli inglesi riuscirono a tenere in armi grossi reparti di arcieri.
La costruzione dell’arco era un lavoro artigianale effettuabile solo da maestranze specializzate. Il legno di tasso, necessario per la sua costruzione, era disponibile in zone limitate d’Europa. Vi erano poi inconvenienti nello stesso uso in massa degli archi sul campo di battaglia. Gli arcieri, in realtà, non avevano la capacità di resistere a un attacco deciso di picche in campo aperto. Se con i loro tiri non fossero stati in grado di fermare le picche, l’unica cosa razionale che potevano fare era quella di fuggire a gambe levate. L’impiego degli arcieri in condizioni di sicurezza avveniva con la protezione di fanti o di fortificazioni campali. Ad Agincourt gli arcieri inglesi riuscirono a sterminare i cavalieri corazzati francesi perché ben posizionati, oltre che protetti da ripari campali, sulla cima di un pendio reso fangoso dalla pioggia.
Il tiro con l’arco richiedeva una certa libertà di movimenti e quindi gli arcieri non potevano indossare pesanti corazze o portarsi dietro armi d’asta o spade lunghe. Erano perciò preda di avversari corazzati una volta che avessero esaurito le frecce o il nemico fosse comunque riuscito a serrare sotto. Inoltre gli arcieri, per effettuare le volées di frecce, dovevano fruire di spazi manovra e quindi erano disposti in formazioni necessariamente larghe e aperte. Queste formazioni rappresentavano l’antitesi di quanto era necessario fare per contrastare i picchieri che dovevano essere arginati con concentrazioni di forze. Oltretutto, era difficile coordinare le scariche di frecce su un avversario che avanzava rapidamente, anche perché, a mano a mano che la distanza di ingaggio si riduceva, occorreva cambiare la traiettoria in base a parametri che il singolo arciere doveva valutare.
Ogni arco infatti era costruito in funzione delle misure antropometriche del suo utilizzatore. Di qui un altro problema ancora: un elevato numero di archi implicava la disponibilità di un alto numero di frecce di lunghezza diversa, congrua con le varie ampiezze degli archi medesimi. È ovvio che, in combattimento, pressati dalla necessità, si poteva tirare una freccia corta in un arco lungo e viceversa, in particolare per effettuare tiri di copertura, ma in questo modo cambiavano le gittate. L’arco non era la risposta giusta per fermare la massa dei picchieri e con il tempo si trasformò in attrezzo sportivo e venatorio, sparendo di fatto dai campi di battaglia.
Anche la balestra non fu in grado di diventare l’arma base della fanteria. La balestra aveva dalla sua un’ottima potenza ed era precisa fino a circa una settantina di passi. L’alta densità sezionale delle sue frecce e la buona velocità iniziale garantivano di poter perforare anche robuste corazze. Tuttavia la balestra condivideva con l’arco alcune debolezze che riguardavano l’interfaccia umana. Il balestriere era anch’egli un soldato d’élite, costoso da addestrare ed era oneroso mantenere balestrieri in numero elevato. Inoltre, la balestra, rispetto all’arco, era molto più lenta da ricaricare. Le balestre più potenti richiedevano un’attrezzatura particolare per tendere l’arco e l’operazione in alcuni casi poteva richiedere anche minuti. Contro i picchieri il tempo era però una risorsa scarsa e i reparti di balestrieri avrebbero potuto tirare una o poche salve di frecce contro un’unità di picchieri che li caricavano determinati. Le stesse considerazioni sul livello di protezione e di armamento fatte per gli arcieri valgono poi per i balestrieri. Come gli arcieri, i balestrieri dovevano essere protetti da fanti e davano il meglio di sé operando al coperto di difese campali o fisse e, quindi, in occasione delle operazioni ossidionali. La balestra fece perciò la stessa fine dell’arco e si trasformò in un attrezzo sportivo e da caccia e il suo uso militare fu dal Cinquecento in avanti del tutto irrilevante.
Archibugi e moschetti
Lo sviluppo delle armi da fuoco portatili era di conseguenza la via giusta se si voleva aver ragione delle picche. Le armi da fuoco erano già ben conosciute nel Trecento. Nel Quattrocento avanzato lo sviluppo delle artiglierie aveva ormai fatto della bombarda uno strumento con funzione rilevante in battaglia e negli assedi. L’arma da fuoco portatile, la bombardella manesca, restava invece un attrezzo di più problematico impiego. Era costituita da un semplice tubo di ferro chiuso a un’estremità nel quale si introducevano dalla bocca la carica di lancio e il proiettile; la completava un grezzo affusto di legno fissato in un qualche modo alla canna. Il primitivo sistema di accensione della carica di lancio richiedeva la presenza di due uomini: il puntatore che imbracciava l’arma e un servente che lo affiancava con lo specifico compito di accendere la carica di lancio infilando un ferro rovente nel focone, foro ricavato nella canna. Le operazioni di caricamento, accensione e sparo si potevano compiere in sicurezza solamente stando in posizione coperta.
Sul campo di battaglia, aperto alle offese dirette del nemico, le operazioni di caricamento e sparo erano inattuabili in modo sistematico e continuativo. A parte l’effetto psicologico del botto e della vampa, la bombardella manesca aveva prestazioni balistiche inferiori a un arco, per non parlare della precisione che era assolutamente casuale. Al più serviva a spaventare i cavalli nemici che non erano ancora abituati agli effetti della polvere pirica. La tecnica di fabbricazione della canna della bombardella riscontrabile negli esemplari sopravvissuti è quella della fusione, a differenza di quanto si usava invece per le bombarde, ottenute mediante la saldatura per ‘bollitura’ di barre di ferro longitudinali e la cerchiatura a caldo del cilindro ottenuto. I proiettili delle bombardelle potevano essere realizzati nei materiali più disparati: piombo, pietra, ferro rivestito in piombo.
Un’innovazione radicale si ebbe agli inizi del Cinquecento con l’apparizione del sistema di accensione a miccia. Traendo palesemente ispirazione dal meccanismo di scatto della balestra si adottò un aggeggio che consentiva di eliminare il servente. Il tiratore poteva caricare da solo polvere e palla e decidere quando sparare premendo una leva che attivava un braccino metallico, o serpe, recante la miccia che veniva così abbassata a contatto del bacinetto. Si incendiava con ciò una modesta quantità di polvere di innesco comunicante, attraverso il focone, con la carica di lancio. Era nato il cosiddetto archibugio.
L’innovazione ebbe immediatamente successo dal momento che ora il fante possedeva un’arma da fuoco veramente portatile. Una serie di miglioramenti interessò l’arma fin dai primi anni della sua esistenza. Il supporto di legno della canna si alleggerì e divenne più ergonomico assumendo forme che anticipavano i calci dei fucili moderni. L’archibugio a miccia era un’arma alla portata delle conoscenze tecniche dei primi anni del Cinquecento. Un bravo artigiano del ferro era in grado di costruirne un esemplare, dal momento che si richiedeva la fabbricazione di pochi pezzi. La canna era adesso un tubo ricavato da un foglio di lamiera di ferro: il foglio veniva ripiegato a caldo su un mandrino e saldato in tutta la sua lunghezza. L’interno del tubo o anima della canna veniva lisciato togliendo imperfezioni e difetti. L’archibugio impiegava palle tonde di piombo che, per facilitare il caricamento, erano di calibro inferiore a quello della canna. Le difficoltà costruttive riguardavano la bontà della saldatura della canna, l’uniformità della sua anima e il calcolo degli angoli di rotazione della serpe e dei collegati leverismi. Un’arma così realizzata consentiva di colpire un uomo a una trentina di passi e a quella distanza di perforare con sicurezza anche una buona corazza. Il tempo necessario per effettuare tutte le operazioni di caricamento e sparo era molto variabile, dipendendo da fattori umani e anche meteorologici. Ragionevolmente si può pensare che si aggirasse attorno al minuto in condizioni operative favorevoli.
Il problema principale dell’archibugio a miccia era costituito dal sistema di accensione. Il tiratore doveva tenere sempre la miccia accesa per poter sparare. La miccia così si consumava, accorciandosi. Era quindi necessario che l’archibugiere intervenisse continuamente, sfilandola in avanti e rinserrandola nuovamente, per ristabilire l’esatta posizione della cima accesa tra le ganasce della serpe. L’archibugiere doveva quindi destreggiarsi tra micce accese, polvere contenuta in una fiaschetta, bacchetta-calcatoio, palle di piombo. La probabilità di incidenti era molto alta. L’archibugio a miccia non era poi usabile in vicinanza dei depositi di polvere e delle batterie dei cannoni ed era di problematico impiego nelle operazioni notturne. La luce della miccia accesa segnalava in modo visibile nel buio la presenza di archibugieri. In condizioni di vento erano frequenti gli incidenti causati dalla partenza involontaria di colpi. Le scintille, portate dal vento, potevano innescare, in maniera non voluta e casuale, la polvere nei bacinetti di altri archibugi. In condizioni di pioggia le possibilità di scatti a vuoto senza far partire il colpo erano più alte: anche se le micce funzionavano bene, il polverino di innesco era soggetto ad assorbire umidità. Era pertanto necessario coprire la polvere d’innesco contenuta nel bacinetto con sportellini mobili. Il consumo di micce era notevole, tanto che ogni archibugiere era costretto a portarsene addosso anche qualche metro.
Per ovviare a molti di questi problemi, già nella prima metà del Cinquecento, apparvero congegni di accensione più complessi ed efficienti come quelli a ruota a cui si affiancarono quasi subito quelli propriamente detti a pietra. Tuttavia, per loro complessità, costo di produzione e affidabilità posseduta unicamente dagli esemplari di impeccabile esecuzione, le armi a ruota o pietra equipaggiarono soltanto reparti per i quali l’uso della miccia era quanto mai difficoltoso o anche pericoloso. Si pensi agli addetti alle artiglierie, alle truppe montate o, ancora, alle guardie del corpo.
L’archibugio a miccia si trasformò, rapidamente, in mano agli spagnoli, nel pesante moschetto, sempre a miccia, di grosso calibro, in grado di forare qualunque corazza entro una cinquantina di passi. Il moschetto spagnolo richiedeva per sostenerlo l’uso di una forcella alta quasi un metro e mezzo. Raggiungeva anche i 10 kg di peso con un calibro di circa 20 mm. Con processo evolutivo a spirale, nella seconda metà del Seicento il moschetto si ibridò con l’archibugio generando il tipico moschetto di circa 18 mm di calibro e dal peso che non superava in genere i 6 kg. Il moschetto bastardo quindi era usabile senza l’appoggio dato dalla forcella che cadde così in disuso e poi scomparve. Questo tipo di moschetto rimase l’arma base del fante fino all’inizio del Settecento.
A prima vista l’archibugio e il moschetto non erano superiori all’arco o alla balestra in termini di efficacia sul campo di battaglia. La loro precisione e portata non erano maggiori di quelle della balestra ed erano nettamente inferiori a quelle all’arco, che era anche molto più rapido da tirare. Tuttavia, vi è una differenza fondamentale nell’interfaccia umana che utilizzava queste armi da fuoco. Le operazioni di caricamento e sparo, per quanto complesse, non richiedevano un’abilità particolare. Personale anche non qualificato le poteva apprendere in poco tempo. Era più impegnativo imparare a usare la spada che non caricare e sparare. Inoltre non era richiesto ad archibugieri e moschettieri, inquadrati in unità da combattimento, di possedere speciali doti di tiratori, dal momento che il bersaglio era a pochi passi e avanzava frontalmente. Diventava così possibile avere reparti numerosi di soldati armati di arma da fuoco lunga giacché gli archibugieri e i moschettieri, valutando i costi complessivi dell’addestramento, erano meno costosi rispetto agli arcieri o ai balestrieri.
La possibilità di disporre di un soldato relativamente poco costoso, armato con un’arma efficiente, non spiega però da sola come il moschetto abbia fatto tramontare la gran parte di armi portatili da getto, taglio e d’asta. Al fine di capire come esso sia diventato l’arma base della fanteria occorre indagare la relazione che c’è tra la sua tecnica costruttiva e l’uso sul campo di battaglia. È proprio questa connessione, di natura dinamica e interattiva, che dette origine a cambiamenti epocali nella condotta della guerra, con riflessi estesi sulla società.
Al di là dei miglioramenti costruttivi e balistici intervenuti, il moschetto era lento da ricaricare: difetto che condivideva con la balestra. Assumendo che il tempo di ricarica si fosse aggirato sul minuto o, in circostanze estremamente favorevoli, sul mezzo minuto, i moschettieri avrebbero avuto a disposizione solo una singola scarica per disarticolare la formazione di picchieri che avanzava in campo aperto. Se la scarica non avesse avuto il suo completo successo, i picchieri sarebbero piombati sui moschettieri diventati praticamente inermi con le armi scariche. Solo in terreni rotti la lentezza di ricarica del moschetto non costituiva un problema, dal momento che un fossato, un muretto, un bosco, una siepe rallentavano grandemente l’avanzata dei picchieri. I medesimi ostacoli rappresentavano, per l’opposto, un ottimo appoggio per disporre i moschettieri. Ove non esistevano barriere di sorta, in campo aperto, occorreva invece riuscire a fare più scariche nel tempo in cui i picchieri avrebbero chiuso lo spazio di poche decine di metri che li separava dalla formazione avversaria.
La soluzione fu trovata compartimentando il fuoco in scariche a comando e in successione. In altre parole, una o più linee di moschettieri aprivano il fuoco e, dopo aver sparato, lasciavano il posto ai colleghi delle linee arretrate. Mentre la seconda sezione di moschettieri faceva fuoco, i primi che avevano sparato potevano effettuare le operazioni di ricarica protetti dai compagni. Era lo schema del fuoco a salve cadenzate che rappresenta uno degli elementi costitutivi della rivoluzione militare come ipotizzato da Parker. La tecnica aveva realizzato l’archibugio e il moschetto. Tuttavia questi non avrebbero potuto diventare l’arma capace di cambiare le sorti di una battaglia se i soldati avessero sparato in maniera non coordinata. Tirando scariche a comando si poteva sempre mantenere il fuoco sul nemico. Questo schema permetteva di ovviare anche all’insoddisfacente precisione dell’arma. L’elevato e continuo numero di colpi che investiva una sezione dello schieramento avverso avrebbe posto rimedio alla scarsa precisione. Inoltre, un fuoco continuo avrebbe avuto sull’avversario un effetto psicologico più elevato di quello ottenibile con una singola scarica o con tiri a intermittenza e non coordinati. I picchieri nemici non avrebbero dovuto affrontare un solo lancio di frecce o una scarica unica di moschetti, ma un fuoco continuo e sostenuto nei metri che separavano le due formazioni.
In genere, l’idea e l’attuazione pratica sul campo di battaglia di questo modo di combattere si fanno risalire al principe olandese Maurizio di Nassau (1567-1625), alle battaglie di Tournhaut (1597) e di Nieuwpoort (1600) combattute contro gli spagnoli, ma anticipazioni importanti risalgono a ben prima. Si può riandare fino alla battaglia della Bicocca del 1522. Questa battaglia segnò la caduta del mito dell’invincibilità dei picchieri svizzeri: gli archibugieri al soldo del re di Spagna, sotto il comando di Ferdinando Francesco D’Avalos, marchese di Pescara, furono schierati dietro un fossato, su quattro linee e, alternandosi, fecero fuoco contro gli svizzeri che avanzavano. Il Pescara comandò personalmente le scariche e coordinò l’alternarsi delle linee di archibugieri al fuoco. I reparti svizzeri furono praticamente annientati anche perché persero il loro impeto, intralciati dal fossato che non riuscirono a superare.
Nel fuoco a salve cadenzate la rotazione degli elementi che tiravano poteva avvenire nei modi più diversi: effettuando una contromarcia dal fronte per posizionarsi alle spalle dei compagni e lì ricaricare, oppure rientrando attraverso le linee nello spazio tra un moschettiere e l’altro. Gli strateghi dell’epoca si resero subito conto, però, che, a causa della complessità delle manovre e per la corta portata pratica del moschetto, la velocità delle scariche non era sempre sufficiente a fermare un reparto di picchieri o di cavalleria nemica che attaccava con determinazione. Fu necessario affiancare agli uomini muniti di arma da fuoco i soldati con picca; in tal modo i due tipi di armati si supportavano a vicenda e si integravano. Uno dei primi esempi di impiego di reparti misti di picchieri e archibugieri risale al 1503, quando, a Cerignola, al comando di Gonzalo Fernández de Cordoba, gli archibugieri spagnoli, ben schierati sul terreno e protetti da picchieri, inflissero una pesante sconfitta alla cavalleria corazzata francese.
I picchieri erano disposti in spesse formazioni a rettangolo o a quadrato su diverse linee. I moschettieri si disponevano sui lati dei picchieri in oblunghe maniche, o in quadrati. Nelle fasi di fuoco i moschettieri si spostavano, a rotazione, dai lati al fronte della formazione di picche per far fuoco. Ricaricavano, poi, ritornando alle spalle dei picchieri. I picchieri fungevano da protezione campale mobile dei moschettieri. In questo modo il fuoco poteva essere effettuato con relativa sicurezza. Tutto il Seicento vide un continuo miglioramento di questo modo di combattere. I reparti, anche a opera del re svedese Gustavo II Adolfo (1594-1632), persero di profondità e le picche incominciarono a diminuire di numero, fino a sparire del tutto all’inizio del Settecento.
Un ruolo non trascurabile nel definitivo tramonto dell’uso della picca va riconosciuto anche alla migliore qualità dei moschetti e all’introduzione della baionetta, trasformata già nello scorcio del Seicento da Sebastien Le Prestre, marchese di Vauban (1633-1707), in uno strumento che consentiva di ricaricare il moschetto e sparare mantenendola inastata. Il moschetto munito di baionetta assorbiva in sé, in situazioni di emergenza, la funzione della picca.
L’abolizione delle picche fu infine dovuta a mutate esigenze tattiche relative alla tipologia dei teatri operativi. Molte guerre tra il 16° e il 17° sec. gravitarono attorno ad assedi o comunque videro il prevalere di operazioni a bassa intensità sulle grandi battaglie in campo aperto. In questi casi le picche erano più un impaccio che un vantaggio. Anche la natura del terreno giocò contro le picche. Schierare, per es., reparti di picchieri nelle vigne del Monferrato non era cosa saggia. Inoltre, i moschettieri avevano una flessibilità operativa più elevata. Le picche sparirono anche perché progressivamente si erano talmente ridotte di numero che non riuscivano più a fare una massa critica sufficiente a proteggere i moschettieri o a forzare un attacco. Erano quindi diventate inutili.
La superiorità del moschetto contro l’arco e le armi bianche risulta evidente analizzando la battaglia di Lepanto, atipica per l’ambiente in cui si svolse. Lo scontro tra la flotta cristiana e quella turca nel 1571 fu in gran parte, in realtà, un combattimento terrestre di fanterie imbarcate. I cristiani erano equipaggiati con un rilevantissimo numero di archibugi e moschetti con un’alta quantità di colpi a disposizione; i turchi, invece, contavano sull’arco e sulle armi bianche. I moschettieri cristiani erano anche protetti dalle rembate lignee delle galee (i palchi che si ergevano ai lati della prora a formare un castello in cui erano sistemate le artiglierie e gli uomini d’arme), che i turchi, per procedere più agevolmente agli abbordaggi, non usavano. Le scariche dei moschettieri spagnoli, intense e soprattutto continue, decimarono i turchi ammassati nei ristretti spazi disponibili sulle galee. Le frecce turche erano invece impotenti contro le corazze dei cristiani e le protezioni lignee delle galee. Per l’uso del moschetto stando al coperto, Lepanto, forzando un poco il concetto, fu una riedizione, sull’acqua, della battaglia della Bicocca.
L’interazione tra tecnica dell’arma e modo di impiego è evidente se si osservano le caratteristiche del moschetto utilizzato dalle fanterie nel 17° secolo. È ad avancarica, a canna liscia, con congegno di accensione a miccia ed è dotato di rudimentali congegni di mira. In realtà, la tecnica, già dalla metà del Cinquecento, era in grado di produrre sofisticati meccanismi di accensione a ruota e a pietra che eliminavano il problema dei metri di miccia che il moschettiere doveva portarsi dietro. Tali meccanismi consentivano di tenere l’arma carica sempre pronta a sparare in condizioni di sicurezza. Così pure erano noti i benefici di mire a diottra per la precisione e di canne rigate per la gittata. La stessa retrocarica era ben conosciuta. Tuttavia, l’arma base della fanteria rimase l’‘arretrato’ moschetto a miccia. La spiegazione va ricercata nella dottrina di impiego che privilegiava il volume di fuoco e la rapidità delle scariche. I sistemi a pietra e ruota erano difficilmente riproducibili su larga scala, a causa della loro complessità, ed erano reputati meno affidabili. Gli strateghi volevano invece tanti moschettieri. La quantità diventava essa stessa una qualità. Le armi a pietra e a ruota erano più care e la stessa loro supposta fragilità era uno ostacolo per un’adozione generalizzata.
Anche per le armi rigate esistevano inconvenienti. È vero che la rigatura aumentava decisamente la precisione, ma per caricare era necessario forzare le palle in canna con un mazzuolo. La palla doveva infatti essere di calibro superiore ai pieni della rigatura. Solo in tal caso il proiettile, pressato nelle rigature elicoidali, ruotava stabilizzandosi in volo. Calcare la palla dentro le rigature era un’attività che richiedeva tempo e abilità per non deformare troppo il piombo. Le armi rigate rimasero quindi patrimonio delle truppe speciali o dei cacciatori. Anche i sistemi di mira sofisticati erano inutili dato che il bersaglio era distante pochi metri e i soldati potevano limitarsi a puntare il fucile dritto in avanti.
Le conseguenze
Il metodo di sparare scariche cadenzate e a comando dette luogo a una serie di conseguenze che vanno oltre gli aspetti meramente tattici. Per sparare all’unisono era necessario avere armi standardizzate all’interno dei reparti. In altri termini, un reggimento non poteva essere equipaggiato con moschetti di calibro non omogeneo o con canne di lunghezza diversa o con sistemi di accensione non uniformi. I tempi di ricarica, la gittata e le prestazioni in generale sarebbero stati differenti da moschetto a moschetto. Le operazioni necessarie a caricare un moschetto a miccia, per es., sono diverse da quelle utili per un moschetto a pietra. Era necessario per concentrare e sincronizzare le scariche a comando sul bersaglio che i moschetti si adeguassero a un preciso modello di ‘ordinanza’. Il concetto di moschetto d’ordinanza, ossia di un’arma codificata nelle sue dimensioni e caratteristiche tecniche dall’acquirente statale, si affermò allora ed è durato praticamente fino ai giorni nostri. Per la verità un certo grado di standardizzazione è sempre stato presente negli equipaggiamenti militari. Si trovano esempi di standardizzazione di armi ben antecedenti al moschetto: dal gladio romano alle picche. È evidente, infatti, che in un reparto le picche dovevano avere la lunghezza e altre caratteristiche abbastanza omogenee per presentare un fronte unico al nemico.
Alla standardizzazione necessaria per ottenere dai moschetti salve regolari si aggiungeva, per ovvi motivi logistici, la necessità di un certo grado di intercambiabilità tra le parti. Gli armieri di reparto dovevano essere messi in condizione di poter sostituire pezzi senza dover ricorrere a molti aggiustamenti. Il problema era che, pur potendo trovare artigiani in grado di costruire un buon moschetto a miccia, dato il sistema di produzione preindustriale, era difficile ottenere un rilevante numero di moschetti a miccia abbastanza uguali tra di loro e con pezzi intercambiabili. In altri termini, per avere un armamento standardizzato e uniforme non occorreva solo poter disporre di un buon moschetto; quest’ultimo doveva poter essere costruito in migliaia di pezzi aventi caratteristiche identiche. Il problema era quindi quello di ottenere un oggetto tipico della rivoluzione industriale in un’era dominata dalla produzione artigianale. Se la produzione era decentrata in mano ad artigiani era difficile avere, senza un intervento esterno rispetto al sistema produttivo, moschetti con le richieste qualità. Era necessario che lo Stato stabilisse dei criteri uniformi a cui gli artigiani si adeguassero.
La produzione dei moschetti e delle loro parti venne quindi realizzata da industrie artigianali in base a capitolati accurati e dettagliati stabiliti dallo Stato. La congruità dei pezzi e il livello di standardizzazione, intercambiabilità, sostituibilità, stabilito dai contratti, erano controllati da ispettori governativi. La prova della loro attività era il marchio di ispezione, collaudo e accettazione apposto sulle armi che rispettavano quanto previsto da enti permanenti o creati per la bisogna come, per es., le Conferenze militari nello Stato sabaudo. Lo Stato riusciva così a ottenere, anche da svariati costruttori, un prodotto relativamente standardizzato in grado di essere impiegato con successo secondo il nuovo modo di condurre la guerra.
Il sistema di controllo statale sulla produzione di armi fu potenziato e arricchito attorno alla seconda metà del 16° sec. con la creazione dei banchi di prova che avevano l’ufficio di controllare e verificare la qualità e la sicurezza delle armi prodotte. Per es., già nel 1544 a Essen venne ufficializzato dalle autorità municipali l’obbligo della prova a carica forzata, ossia con una dose maggiorata di carica. A Suhl i primi punzoni del banco, oggi ancora esistente, sono datati al 1564.
In generale, quindi, il ruolo dello Stato era quello di effettuare la commessa dei moschetti e parti di rispetto ai produttori, controllare lo standard e accettare il prodotto se confacente ai capitolati. La produzione dei moschetti poteva essere realizzata, oltre che negli opifici privati, negli arsenali di Stato. In alcuni casi questi arsenali costruivano sistemi d’arma con metodi che già si avvicinavano a quelli industriali. L’esempio più immediato è l’Arsenale di Venezia, dove le parti delle galee venivano costruite con criteri standard e assemblate alla bisogna. Tuttavia, molti arsenali, almeno fino alla rivoluzione industriale, operavano con criteri di tipo artigianale. In Piemonte, ancora in pieno 18° sec., la produzione delle parti dei moschetti nelle varie fucine e nell’arsenale del re di Sardegna era appaltata a impresari privati che, con le loro maestranze e attrezzature, si installavano nei locali governativi.
In Italia, la produzione di moschetti e delle loro parti di rispetto fu concentrata nelle aree dove esistevano i centri di produzione e di lavorazione del ferro. In particolare, la zona del Bresciano fu la più attiva nella costruzione di armi da fuoco portatili destinate o all’armamento della Repubblica di Venezia o all’esportazione in Europa. In Piemonte, invece, la produzione di armi portatili non raggiunse mai livelli molto elevati. Le importazioni dalla Francia, dalla Svizzera e dal Bresciano furono le fonti principali di approvvigionamento dell’armata sabauda. Le canne di fucile, per es., furono importate dal Bresciano perché quelle prodotte in loco non superarono in molti casi i test di collaudo degli ispettori sabaudi. In particolare, in Piemonte non si riuscivano a costruire canne con l’anima forata in maniera uniforme e dritta. Anche i tentativi di realizzare canne con l’anima rigata furono un insuccesso clamoroso e ci si rivolse alla produzione di oltre confine.
La standardizzazione delle parti non fu l’unico portato dell’interazione tra tecnica e modo d’uso del moschetto. L’uniformità nelle caratteristiche del moschetto non era in realtà sufficiente a garantire la coordinazione delle scariche sul bersaglio; occorreva introdurre anche un’omologazione nei gesti del soldato in battaglia e nelle procedure di comando. La standardizzazione degli uomini era necessaria per il corretto impiego del moschetto nelle complesse unità da combattimento come il reggimento. L’attività di portarsi in linea, caricare, puntare e sparare a comando richiedeva movimenti, gesti che dovevano essere sincronizzati tra tutti gli uomini interessati all’azione. Non c’era spazio per iniziative individuali. Il moschettiere doveva essere addestrato a svolgere un lavoro ripetitivo in condizioni di paura, disagio fisico, pressione emotiva. Il moschetto ad avancarica, dalla canna lunga circa un metro, doveva essere caricato stando in piedi per ottenere rapidità nella manovra. Se gli uomini si gettavano a terra, per offrire un bersaglio più ridotto al nemico, era per loro impossibile ricaricare e sparare in sequenza ordinata. Inoltre, diventava molto difficile convincere il soldato, una volta coricato, ad alzarsi e sparare.
I moschettieri caricavano e sparavano in piedi cercando di essere veloci e di ottenere salve simultanee e ripetute sul nemico che a propria volta sparava oppure avanzava con le picche livellate. L’addestramento era la chiave per indurre un comportamento da ‘automa’ nei soldati. Infatti, stare in piedi mentre il nemico spara richiede o un totale disprezzo della morte o un comportamento basato sull’automatica ripetizione del gesto appreso in esercitazione e, tutto sommato, semplice. Il moschettiere inquadrato in un reparto doveva perdere l’autonomia individuale se si voleva ottenere una scarica sincrona. Si doveva inculcare nel soldato l’idea che non doveva puntare a un bersaglio di suo gusto, ma semplicemente sparare al nemico dritto di fronte.
I movimenti necessari a ricaricare l’archibugio erano numerosi. I trattati dell’epoca arrivano a individuarne fino a una quarantina. In realtà, però, questi movimenti non erano che la scomposizione alla moviola di poche, essenziali manovre; a ciascuna di queste manovre corrispondeva un comando. Il soldato veniva addestrato ad avere una memoria muscolare che in presenza di un ordine come «puntare» lo facesse agire in modo automatico. L’individualismo del combattente armato di alabarda o spada era destinato a essere sostituito dal sincronismo dei gesti di un intero reparto.
Ovviamente non sempre il processo di addestramento dette buoni frutti e, in parecchi casi, la disciplina di fuoco dopo le prime scariche collassò con esiti disastrosi. Inoltre, il numero delle scariche che potevano essere effettuate non era altissimo. Le caratteristiche della polvere nera erano tali che, dopo una ventina di colpi, le fecce, derivate dalla combustione, creavano difficoltà di caricamento. Le canne degli archibugi si surriscaldavano dopo pochi colpi rendendo il maneggio dell’arma problematico.
Per realizzare le scariche cadenzate fu necessario organizzare la produzione del fuoco in maniera da disporre gli uomini in figure geometriche ottimali. Dal guerriero si passò al soldato aumentando l’efficienza sul campo di battaglia.
Nella storia, ovviamente, si trovano esempi di soldati, come il fante romano, che per qualche verso anticipano il moschettiere. Il legionario era infatti allenato a combattere non singolarmente, ma sempre in un collettivo; l’addestramento cercava di renderlo una perfetta macchina per uccidere, ma sempre in vista di uno scontro in formazione. Nel moschettiere si ritrovano alcuni elementi del modo di combattere romano, ora interpretati però alla luce del peculiare rapporto uomo-moschetto e della tecnica costruttiva di quest’ultimo.
La standardizzazione dell’uomo e dell’arma non era però ancora sufficiente a ottenere il meglio dall’arma da fuoco. Era necessario anche creare un sofisticato sistema di comando e controllo. Un efficiente sistema di trasmissione degli ordini, ‘la catena di comando’, era necessaria per caricare, fare fuoco, eseguire manovre, mentre gli uomini erano esposti all’offesa nemica. I comandanti dovevano essere certi che, se ordinavano alla prima fila di moschettieri di inginocchiarsi e di trattenere il fuoco, il comando sarebbe stato immediatamente eseguito in qualunque circostanza, anche se le picche nemiche erano giunte a una decina di passi. Il comandante di un reggimento che avesse ricevuto l’ordine di ingaggiare il nemico solo dopo che la cavalleria avesse eseguito una carica doveva non frapporre impedimenti derivanti dal suo diritto di avere l’onore del ‘primo sangue’. Fu necessario realizzare una complessa gerarchia di poteri e responsabilità precisamente individuate, accuratamente definite e organizzate a piramide. Era così possibile trasmettere ordini dai livelli più elevati a quelli più bassi.
La necessità della catena di comando veniva sottolineata dall’affermarsi di eserciti sempre più grandi. Ovviamente non si trattava di un sistema del tutto nuovo di comando. Tracce e anticipazioni se ne trovano, in campo militare, sempre nei Romani. La legione possedeva una struttura di comando ben definita per i gradi bassi e intermedi, mentre così non era al livello superiore per la presenza, accanto a ufficiali tecnici che conoscevano il mestiere, di ufficiali ‘politici’ senza competenze specifiche, ma di rango elevato. In altri termini, non era sempre chiaro chi comandasse effettivamente la legione sul campo.
Gli eserciti medievali erano invece caratterizzati da confusioni di funzioni, gradi, rango, precedenze che trasformavano anche il semplice schieramento dell’armata sul campo in un’operazione ‘politica’. Diventavano importanti problemi di etichetta, relazioni feudali o strettamente personali. In queste condizioni era estremamente difficile trasmettere ordini o semplicemente decidere chi doveva stare nell’avanguardia o nella retroguardia. I risultati, a volte, oscillavano tra il comico e il disastroso come avvenne nel 1415 a Agincourt dove i comandanti francesi si scontrarono più tra di loro che con il nemico inglese.
Il problema principale nelle catene di comando, o meglio negli abbozzi di catena di comando degli eserciti medievali, era l’esistenza di un intreccio di vincoli feudali e moderni rapporti contrattuali. Le armate medievali erano un insieme di soldati arruolati per ottemperare ai vincoli feudali e di truppe mercenarie legate da complessi contratti che specificavano impieghi e doveri dei contraenti anche sul campo di battaglia. La fedeltà feudale imponeva l’obbedienza al proprio signore con la conseguenza che, anche in combattimento, molti cavalieri si rifiutavano di obbedire a ordini che non provenissero dal loro naturale signore. Il rango predominava sulla funzione. Se l’armata vedeva la presenza di nobili di eguale rango, le cose si complicavano fino all’inverosimile dal momento che non era chiaro chi dovesse comandare. La non chiarezza su chi ci fosse davvero alla testa dell’armata era drammaticamente presente negli eserciti regi in assenza di una specifica e dettagliata disposizione del sovrano.
Il caos medievale non era compatibile con la produzione e l’organizzazione, coordinata e sistematica, del fuoco sul campo di battaglia. La tecnica costruttiva delle armi imponeva un’organizzazione ben strutturata del fuoco, ma per ottenerla era necessario che gli ordini fluissero senza intoppi. Si creò così un sistema di gradi a cui corrispondeva una funzione precisa e gli ordini e le disposizioni iniziarono, in tal modo, a essere dati in maniera univoca. Il colonnello ordinava di eseguire una manovra, gli ufficiali subalterni ne curavano l’attuazione, sapendo che, in virtù del loro grado, dovevano ubbidire. I soldati identificarono il rango con la funzione e impararono a obbedire a superiori che erano di nomina burocratica. Il vecchio rapporto personale di fedeltà al signore feudale fu sostituito dall’obbedienza al superiore gerarchico. Il comandante di un reparto fu così sicuro che i suoi ordini sarebbero stati eseguiti con prontezza ed efficacia. Sparare singolarmente era un atto relativamente semplice, ma effettuare una o più scariche di centinaia di moschetti, in maniera sincrona e cadenzata, richiedeva una ferrea disciplina e un’organizzazione piramidale.
Ancora una volta mutamenti fondamentali in una struttura sociale derivarono da necessità di ottimizzare la tecnica delle armi per condurre la battaglia. La catena di comando impose anche una revisione nel modello ideale di ufficiale. Si iniziò a prediligere la professionalità rispetto alle usuali caratteristiche di coraggio e sprezzo del pericolo, ma organizzare la produzione del fuoco sul campo di battaglia era un esercizio di calcolo matematico e di geometria e gli ufficiali incominciarono ad adeguarsi a un modello che privilegiava le competenze tecniche rispetto al semplice coraggio.
Il cambiamento più evidente introdotto dalla tecnica delle armi avvenne proprio quando si affermò compiutamente il moschettiere come signore della battaglia. L’evidenza di questa evoluzione si evince da un confronto tra la figura tipo del moschettiere del 17° sec. con il lanzichenecco, che tanta parte ebbe nei due secoli precedenti nel determinare l’esito delle battaglie.
Il lanzichenecco era arruolato, su base strettamente territoriale, da un ‘imprenditore militare’ che in molti casi coincideva con la figura del colonnello comandante. L’imprenditore poi avrebbe fornito il reparto al committente (in genere l’imperatore). Il salario era codificato e variava a seconda dell’anzianità e del ruolo da svolgere in azione. Al momento dell’arruolamento, di durata limitata, il lanzichenecco sottoscriveva un contratto con cui si impegnava a determinate attività, accuratamente dettagliate e codificate. Era protetto da una ‘commissione interna’ elettiva, che agiva da interfaccia tra la truppa e il comandante. Il potere di questo ‘soviet’ dei soldati era molto forte e, in alcuni casi, delegittimò nei fatti il comandante del reparto.
Il lanzichenecco era responsabile dell’armamento, equipaggiamento e vestiario personale e doveva, con la paga, provvedere al proprio mantenimento. L’estrosità e la difformità dell’abbigliamento erano predilette dai lanzichenecchi. Un complesso di norme dettagliate, concordate tra le parti contraenti all’atto dell’arruolamento, regolava il lavoro, la disciplina e i premi di produzione. Il problema della disciplina era comunque grave e casi di ammutinamenti o scioperi non erano infrequenti, soprattutto quando mancava il pagamento regolare del soldo. Gli eserciti spagnoli nelle Fiandre videro numerosi episodi di scioperi militari che ne indebolirono la capacità di combattimento. Non era inconsueto anche che, nel pieno della battaglia, i lanzichenecchi contestassero gli ordini che apparivano loro non conformi al capitolato di arruolamento. La disciplina, poi, era praticamente impossibile da mantenere dopo una battaglia vinta. Il saccheggio era infatti considerato una legittima integrazione del salario. Le problematiche relative alla disciplina fecero sì che praticamente tutti i riformatori militari del Cinquecento e Seicento affrontassero il problema di come mantenere l’ordine dei reparti militari nelle varie fasi della guerra.
Il moschettiere del 17° sec. non apparteneva ad alcuna corporazione speciale; poteva anche essere arruolato tra i sudditi del Paese con cui si era in guerra. Distintivi come sciarpe, coccarde e altri segni lo identificavano come appartenente all’armata di un particolare sovrano perché l’abbigliamento non era ancora standardizzato. Le uniformi incominciarono ad apparire sistematicamente negli anni centrali del 17° sec. e sarebbero state poi adottate da tutti gli eserciti.
Il mestiere del moschettiere non era ereditario e il suo arruolamento, per lo più, non era legato ad aspetti territoriali o etnico-religiosi. In Germania, durante la guerra dei Trent’anni, cattolici e protestanti combatterono spesso per la parte di religione avversa. L’addestramento era intenso, ma concentrato in un tempo relativamente ridotto. Lo strumento di lavoro, cioè il moschetto, era uguale per tutti gli uomini del reparto. Lo Stato o chi arruolava il moschettiere lo forniva assieme alle munizioni. La paga variava in base alle leggi del mercato. L’individualità non veniva incoraggiata e il moschettiere finiva per identificarsi con il reggimento in cui si era arruolato. Al moschettiere era chiesto di svolgere il proprio lavoro ubbidendo a superiori con i quali non aveva nessun rapporto di dipendenza personale e che molte volte parlavano una lingua diversa ed erano di fedi differenti.
Si può tentare di stabilire un confronto tra questi due tipi di soldati con delle figure sociali appartenenti al mondo del lavoro. Il lanzichenecco, che si doveva presentare al lavoro munito dei propri strumenti, può essere paragonato a un artigiano protetto da una potente corporazione, che gli assicurava salario e forme di tutela giuridica.
Il moschettiere assomigliava, forzando il concetto, al proletario iconizzato nella rivoluzione industriale. Non possedeva i mezzi di produzione, il suo lavoro era basato sulla ripetizione di gesti standard: ricaricare, puntare e sparare il moschetto, cioè gesti analoghi a quelli che un operaio avrebbe compiuto in una catena di montaggio. Nessuna corporazione lo proteggeva e il suo dissenso poteva manifestarsi unicamente con la diserzione. Non poteva agire in proprio, la sua bravura come soldato si basava sull’addestramento e sulla capacità di eseguire gli ordini a puntino. Limitandosi agli aspetti delineati si può sostenere che il moschettiere abbia anticipato quindi, in alcuni tratti salienti, la figura del proletario della rivoluzione industriale.
Il 18° sec. vide il trionfo definitivo del moschetto e la sparizione totale delle picche rimpiazzate dalla baionetta a calza. I moschettieri ora avevano a disposizione con la baionetta un’arma che poteva anche fungere da corta picca. Il sistema di accensione a pietra sostituì quello a miccia. Il meccanismo a pietra si era infatti evoluto, diventando più affidabile, grazie anche ai progressi fatti nelle tecniche di costruzione delle molle. Il nuovo congegno di accensione sfruttava le proprietà della pietra focaia e derivava concettualmente dagli acciarini a miccia. La serpe era sostituita dal cane che tratteneva una pietra focaia. Il cane si abbatteva su una piastrina mobile, la martellina, di acciaio, che chiudeva il bacinetto contenente la polvere di innesco. L’urto della pietra apriva la martellina provocando al contempo, per frizione, una pioggia di scintille che innescava la polvere nel bacinetto accendendo così la carica di lancio. Se ben progettato e costruito il congegno a pietra era semimpermeabile e poteva essere usato anche in condizioni di forte umidità. Con il moschetto a pietra e dotato di baionetta, era così possibile effettuare operazioni notturne e tenere l’arma carica pronta al fuoco.
Le formazioni di moschettieri divennero più sottili, perdendo di profondità, come conseguenza della maggiore velocità di ricarica consentita dal meccanismo a pietra. Si realizzò in tal modo la massima espressione del combattimento in linea, ma l’essenza del modo di combattere rimase immutata. Era necessario disporre gli uomini sul terreno, addestrarli in modo da fare scariche continue sul nemico, ora costituito unicamente da altri moschettieri o da cavalleria. Con il moschetto a pietra si raggiunsero elevati volumi di fuoco che a breve distanza avevano effetti spaventosi sulle truppe. L’essenza dello scontro tuttavia non cambiò. L’imperativo rimase quello di creare un continuo e sostenuto volume di fuoco.
Il combattimento basato sulle scariche coordinate rimase in auge anche in epoca napoleonica, nonostante si fosse passati da un esercito professionale alla leva in massa. Anche innovazioni tecniche come la capsula di fulminato che, attorno al 1830, fece sparire la pietra, non determinarono un sostanziale rinnovamento della modalità delle battaglie. La produzione industriale migliorò la standardizzazione e l’intercambiabilità dei moschetti. L’avvento delle palle a espansione, alla metà dell’Ottocento, consentì di dotare di rigatura le canne delle armi ad avancarica senza ridurre la velocità di caricamento. Le gittate crebbero così notevolmente, ma gli uomini continuarono a essere schierati in linea e a fare scariche alternandosi al fuoco.
L’innovazione che intaccò profondamente il vecchio modo di combattere risalente alla rivoluzione militare fu rappresentata, attorno agli anni Sessanta dell’Ottocento, dal fucile a retrocarica con bossolo metallico. Gli uomini adesso potevano sparare da coricati e ricaricare sempre da coricati. L’addestramento, dopo numerosi tentennamenti, si concentrò sull’insegnare al soldato a sparare singolarmente e autonomamente sul nemico. L’introduzione della polvere infume nel 1884 e l’adozione del fucile a ripetizione manuale cambiarono definitivamente il modo di combattere, facendo tramontare per sempre il fuoco di fila.
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