Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Una lunga crisi finanziaria che mette in discussione tutto il sistema di privilegi economici e di rappresentanza politica per ordini, tipico dell’antico regime, induce Luigi XVI alla convocazione degli Stati generali. La rivendicazione dei diritti del terzo stato e la conseguente proclamazione dei Diritti universali apre la strada alla prima fase della rivoluzione caratterizzata dall’obiettivo di fare della Francia una monarchia costituzionale.
Origini della rivoluzione
Cause economiche e finanziarie, politiche e sociali sono all’origine di quel prolungato processo che prende il nome di Rivoluzione francese. Le difficoltà finanziarie si possono far risalire già al regno di Luigi XIV (1638-1715) e alla sua politica di spese ed esenzioni fiscali a vantaggio degli aristocratici, attraverso la quale il sovrano sperava di mitigare il loro costante e pericoloso spirito di indipendenza. Durante il successivo regno di Luigi XV (1710-1774) si aggravano le condizioni di un bilancio che nel 1774 presenta un deficit davvero esorbitante per l’epoca: cinquanta milioni di franchi, causato anche dall’impegno militare nella guerra dei Sette anni. Solo apparentemente, l’ascesa al trono di Luigi XVI nel 1774 rappresenta un’opportunità per evitare la prevedibile catastrofe finanziaria.
Già nel 1776, infatti, si registra il fallimento della politica riformatrice di Turgot che il giovane sovrano, con gesto innovativo, aveva voluto come controllore generale delle finanze.
L’opposizione dei ceti privilegiati non consente la realizzazione di un piano ispirato ai princípi della fisiocrazia e fondato, quindi, sulla libera circolazione del grano, l’abolizione delle corporazioni di mestiere e soprattutto l’adozione di un’imposta unica anche sulle grandi proprietà possedute dall’aristocrazia e dal clero. Né miglior sorte è riservata ai tentativi del banchiere ginevrino Jacques Necker, che nel 1781 decide addirittura di rendere pubblici, in un celebre rendiconto, gli enormi sprechi della corte e del suo successore, Alexandre de Calonne, il quale preferisce rivolgersi a una spericolata politica di prestiti. Nel 1786 il bilancio ha un deficit di 200 milioni ed è sempre più evidente che una pressione fiscale esercitata quasi esclusivamente sulle classi produttive compromette la vita economica della nazione. Negli anni Ottanta la Francia conosce una forte crisi della sua struttura produttiva, sia agricola sia manifatturiera, con gravi ripercussioni sociali tra carestie e disoccupazione. Le condizioni del privilegio, come si legge in Che cos’è il terzo stato? di Emmanuel-Joseph Sieyès, “lungi dall’essere utili alla nazione non possono che indebolirla e nuocerle”. Viene così rivelandosi, dietro la questione finanziaria, una questione politica e istituzionale più radicale che mette in discussione la struttura per ordini della società francese, nel tentativo di aprirsi – come già ha chiesto la cultura politica dell’Illuminismo – a forme di rappresentanza fondata sui soggetti individuali e sulla nozione di contratto sociale. Contro ogni ipotesi di modificare la fisionomia tradizionale delle istituzioni, la reazione degli ordini privilegiati è forse ancor più perentoria che sul terreno economico. Nata contro la riforma fiscale di Calonne e del suo successore Loménie de Brienne, la rivolta nobiliare del 1787 si trasforma subito in una strenua difesa delle prerogative degli antichi parlamenti, giungendo a forme aperte di rivolta contro l’autorità regia.
Con il ritorno di Necker la mediazione viene trovata sull’idea di convocare gli Stati generali che, in quanto assemblea dei tre ordini del regno, dovrà sciogliere il nodo del debito pubblico.
Gli Stati generali e la Costituente
Voluta dalla nobiltà per ribadire la preminenza dei corpi politici tradizionali, la convocazione degli Stati generali non tarda a diventare l’occasione che il terzo stato cerca per far valere esigenze di rinnovamento. La rivolta nobiliare genera la “rivoluzione giuridica” condotta dal terzo stato nel nome dell’eguaglianza civile e fiscale. Primo strumento di questa battaglia sono i cahiers de doléances, redatti nel corso delle assemblee elettorali preparatorie. In essi non si esprimono solo generiche rivendicazioni di libertà contro l’assolutismo regio, ma si chiede apertamente un’equa ripartizione del carico tributario, l’abolizione dei privilegi feudali e dei diritti di nascita e una diversa rappresentanza politica. L’adozione, voluta da Necker, di un sistema elettorale tale da consentire al terzo stato una forza numerica pari a quella degli altri due ordini uniti è un passo rilevante nella trasformazione degli Stati generali da assemblea di ancien régime a moderna istituzione rappresentativa. Irrisolto rimane invece l’ancora più decisivo problema del voto per ordini, che avrebbe conservato il dominio dei ceti privilegiati, o per testa, che, al contrario, avrebbe sancito la superiorità del terzo stato.
La questione condiziona i lavori degli Stati generali sin dalla loro apertura il 5 maggio 1789, tanto più che Luigi XVI appare orientato a circoscrivere la discussione ai soli problemi finanziari, senza affrontare i temi civili e politici emersi nel dibattito dei mesi precedenti. Contro la resistenza degli ordini privilegiati e del sovrano i rappresentanti del terzo stato, riuniti il 20 giugno nella sala della Pallacorda, con un gesto ormai esplicitamente rivoluzionario, si proclamano assemblea nazionale costituente e si impegnano a dare una costituzione alla Francia.
La Costituente
Mediante questa risoluzione, subita da Luigi XVI con l’idea di una pronta rivincita, l’universo politico dell’antico regime è già definitivamente oltrepassato. Il 14 luglio l’insurrezione di Parigi, simboleggiata dalla presa della Bastiglia, imprime però agli eventi una velocità e un senso del tutto nuovi. L’Assemblea costituente trova adesso nella mobilitazione popolare – soprattutto della capitale – un appoggio determinante, ma ne riceve anche un problematico allargamento di orizzonti, nella misura in cui il processo rivoluzionario dovrà tener conto delle attese – spesso impazienti – di strati diversificati della società francese. Nella notte del 4 agosto viene così decretata l’abolizione della servitù e dei privilegi fiscali. Il 26 agosto è approvata dalla Costituente la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, carta fondamentale per le garanzie di libertà individuale e di eguaglianza formale, come recita il suo celebre inizio: “Gli uomini nascono e restano liberi e uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sulla comune utilità”.
La resistenza del re a sanzionare queste decisioni è vinta da un nuovo episodio di agitazione popolare: la marcia di 10 mila donne che il 6 ottobre obbligano il sovrano ad abbandonare Versailles e tornare a Parigi. Si apre quindi una nuova fase, caratterizzata dall’apparente adesione di Luigi XVI agli indirizzi costituzionali dell’Assemblea. Una vivace vita politica anima la capitale e le province, via via che alla Costituente vengono discussi i principali punti della Carta: poteri del re e dell’esecutivo, limiti del suffragio elettorale, organizzazione amministrativa dello Stato. Nascono giornali (250 fino al dicembre 1789, 350 nel 1790) sulle cui pagine si impongono già alcuni dei protagonisti della Rivoluzione: Camille Desmoulins, Gabriel-Honoré de Mirabeau, Jacques-René Hébert, Jean-Paul Marat. Sorgono club che raccolgono le differenti concezioni ideologiche e politiche: i monarchici moderati del club del 1789 con Sieyès, La Fayette, Mirabeau, cui si oppone il più intransigente club dei giacobini – dove si impone presto la personalità di Robespierre – e quello dei cordiglieri, animato da Georges-Jacques Danton e da Marat. L’abolizione delle antiche divisioni amministrative con l’organizzazione del territorio in 83 dipartimenti e la nazionalizzazione dei beni ecclesiastici sono tra i primi provvedimenti della Costituente.
Quest’ultima misura mira a risolvere il problema del debito pubblico, che nel 1790 arriva a più di quattro miliardi, con l’emissione di carta moneta a circolazione forzosa, ma garantita appunto dai beni espropriati. Questo esproprio porta con sé anche la cosiddetta Costituzione civile del clero, approvata il 12 luglio 1790, con la quale si riorganizza la struttura ecclesiastica assicurando fondi per il culto ai religiosi che giureranno fedeltà alla nazione. Si entra così nei delicati rapporti Stato-Chiesa con una soluzione che in parte ricorda le autonomie gallicane della tradizione francese, ma che è destinata a conservarsi come rottura lacerante durante tutto il processo rivoluzionario.
Dalla festa della Federazione alla fuga di Varennes
Il giuramento di fedeltà alla Costituzione prestato da Luigi XVI durante la festa della Federazione il 14 luglio 1790 pare suggellare la fine della rivoluzione.
In realtà, la corte mantiene da tempo legami con l’aristocrazia emigrata nella speranza di un intervento delle potenze europee in grado di restituire la Francia e il suo re all’antico ordine di cose.
La sorda opposizione del pontefice Pio VI e il rifiuto di larga parte del clero al giuramento voluto dalla Costituzione civile accrescono nel sovrano gli scrupoli religiosi e il desiderio di porre fine al sistema sorto dalla rivoluzione. La crisi sociale ed economica dovuta all’inflazione esaspera inoltre la precarietà di un’autorità il cui principio è ormai visibilmente sospeso tra vecchio e nuovo. In questo clima, nonostante i consigli alla prudenza che vengono da chi vede nella monarchia costituzionale il felice esito della rivoluzione, matura la decisione di Luigi XVI di fuggire all’estero. Compiuto nella notte tra il 20 e il 21 giugno 1791, il tentativo è bloccato a Varennes, non lontano dalla frontiera orientale.
“Vecchi, donne e bambini, gli uni armati di spiedi, di falci, gli altri di bastoni, di sciabole, di cattivi fucili” assistono ostili al ritorno nella capitale di un re che ha perso la fiducia del suo popolo. In agosto, a Pillnitz, Austria e Prussia minacciano di intervenire militarmente se non verrà garantita la stabilità dell’ordine monarchico, avvalorando così i sospetti di relazioni complici tra la corte e lo straniero. A poco vale, quindi, il giuramento di Luigi XVI alla nuova Costituzione (13 settembre 1791) che disegna i contorni di una monarchia costituzionale con base elettorale fortemente censitaria e rigida divisione tra i poteri. Dopo Varennes e dopo Pillnitz comincia a farsi strada l’idea di repubblica, circoscritta fino ad allora a pochi intellettuali illuministi.
L’Assemblea legislativa
Prima di sciogliersi, la Costituente decreta che i suoi membri non potranno venir eletti nella nuova Assemblea legislativa. È una misura drastica, che ha come conseguenza l’immediata dissoluzione del ceto politico legato alla prima fase della rivoluzione e l’emergere di figure e gruppi sensibili al clima di rottura e sfiducia determinato dalla fuga di Varennes. Nell’Assemblea legislativa sono gli appartenenti al club dei foglianti (circa 260 deputati) a rappresentare una continuità con gli orientamenti moderati della Costituente. Vi si oppongono i giacobini (130 deputati), tra i quali va emergendo una sempre più decisa tendenza repubblicana. A dominare i primi mesi dell’Assemblea legislativa è la questione degli emigrati, contro i quali viene decretata la confisca dei beni e la condanna a morte in contumacia. Agli inizi del 1792, d’altronde, la guerra sembra sempre più vicina: la vogliono i girondini (così vengono definiti quei giacobini eletti perlopiù nelle regioni del sud-ovest) e la vuole anche il re, convinto che una quasi sicura sconfitta avrebbe ripristinato il suo antico potere e una vittoria ne avrebbe consolidato il nuovo.
Dichiarata il 20 aprile 1792 contro Austria e Prussia, la guerra è subito segnata da gravi rovesci, che confermano i timori dei giacobini più estremi sull’impreparazione militare e morale della fragile Francia rivoluzionaria. La decadenza del re, accusato di tradimento e la caduta del governo girondino, al quale si rimprovera una debole condotta della guerra, sono richieste che circolano sempre più apertamente portando all’insurrezione del 20 giugno, durante la quale per la prima volta la folla invade il palazzo reale delle Tuileries. La situazione precipita dopo il proclama col quale il duca di Brunswick, comandante delle forze alleate nemiche, minaccia di distruggere Parigi se non verrà assicurata l’incolumità del re. Il 10 agosto, guidata da Danton, la popolazione della capitale assale di nuovo le Tuileries. Posto sotto la tutela della Comune, il re e la sua famiglia vengono allora rinchiusi nella prigione del Tempio, in attesa che una Convenzione nazionale decida della loro sorte: è l’atto conclusivo della prima fase della Rivoluzione.