Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
I principi universali proclamati dalla rivoluzione al suo nascere si devono misurare con le necessità imposte dal lungo periodo di conflitti militari e con il riemergere degli antichi disegni espansionisti della monarchia francese. Il raggiungimento dei confini naturali e in seguito la creazione delle “repubbliche sorelle” sono le tappe che scandiscono il passaggio della rivoluzione dalla difesa contro l’invasione nemica alle conquiste napoleoniche.
I Diritti universali
La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 è il documento esemplare dell’ispirazione universalistica da cui prende avvio il processo rivoluzionario. Con essa siamo di fronte alla naturale prosecuzione degli ideali cosmopoliti tipici della cultura illuminista, trasferiti ora – al di là della sola circolazione intellettuale – a un progetto di emancipazione dei popoli. Così la Dichiarazione viene accolta nella cultura europea (particolarmente in Germania), che per un verso ne coglie la continuità con le aspirazioni di libertà cresciute all’interno del riformismo illuminato e per l’altro ne intuisce – con speranza o con preoccupazione – l’implicita rottura con il passato e l’apertura verso inedite prospettive democratiche. Già nel 1790, rifacendosi a una tradizione nazionale che con la Gloriosa Rivoluzione del 1688 aveva offerto l’esempio di un passaggio indolore a forme di governo fondate sui diritti individuali, l’inglese Edmund Burke (1729-1797) nelle sue Riflessioni sulla Rivoluzione francese (1790) sviluppa una penetrante critica sui rischi di involuzione autoritaria insiti nell’esperienza francese. Del resto il procedere degli eventi sembra confermare i principali timori di Burke, raffreddando gli entusiasmi di chi, come Kant, Hegel o Goethe, saluta nella rivoluzione un giorno nuovo e liberatorio della storia umana. A partire da Burke si fissa anzi un paradigma che a lungo attraverserà la cultura europea, divisa tra un’accettazione integrale della rottura rivoluzionaria e una distinzione tra la prima, virtuosa fase della conquista delle libertà costituzionali e la seconda, violenta ed estremista fase del Terrore. Questa divisione, per il corso assunto dagli avvenimenti di Francia, finirà poi con il corrispondere quasi esattamente alla divisione tra un’interpretazione del processo rivoluzionario strettamente liberale e una democratica. Vi corrisponde inoltre una divisione tra un’interpretazione dei diritti universali che oltrepassa ogni limite formale e va alla sostanza del godimento effettivo di essi nell’ambito sia politico sia economico, e una che rimane invece legata all’insuperabile premessa del rapporto stretto tra diritti politici e diritti di proprietà.
I confini naturali
Con la rinuncia assunta il 22 maggio 1790 nella Dichiarazione di pace nel mondo a intraprendere qualsiasi guerra avente lo scopo di fare conquiste, l’Assemblea nazionale francese sembra fissare i termini della rottura con il passato espansionista della monarchia. Si tratta, in realtà, di termini alquanto formali, dal momento che non impegnano la Francia rivoluzionaria nel caso le giunga una richiesta di aiuto da parte di popoli insorti in nome dei suoi stessi ideali di libertà. È quanto accade per il contado venassino, che nel giugno del 1790 vota la propria annessione alla Francia e poi nella primavera del 1792 con l’insurrezione nel vescovado di Basilea e la nascita di una repubblica rauracica, in seguito annessa alla Francia. Un ulteriore elemento di ambiguità dopo la dichiarazione del maggio del 1790 sta nella distinzione tra le conquiste e il raggiungimento delle frontiere naturali, solo al di là delle quali la Francia rivoluzionaria si muoverebbe come un tradizionale Paese invasore. Il problema si pone in tutta la sua concretezza storica a partire dallo scoppio della guerra. Con l’occupazione del Belgio, di Nizza e della Savoia tra il 1792 e il 1793, appare evidente come all’ideologia della rivoluzione, che si distende nei suoi naturali confini, si sovrapponga una vera e propria conquista territoriale. Lo dimostrano, d’altronde, i comportamenti spesso brutali delle armate rivoluzionarie che pure le popolazioni locali salutano inizialmente come liberatrici. Infatti, superando i confini del 1789, è solo parlando – come fa Lazare-Nicolas Carnot nel gennaio del 1793 – del Reno, delle Alpi e dei Pirenei come dei “confini antichi e naturali della Francia” che appare giustificabile l’annessione dei territori del Belgio e dell’Olanda in contrasto con la volontà delle forze liberali di quei Paesi.
La Grande Nazione
Il radicalizzarsi dei conflitti interni e internazionali porta presto ad andare anche oltre la teoria delle “frontiere naturali”. Già nel novembre del 1792, infatti, il girondino Brissot dichiara con convinzione “noi non potremo essere al sicuro se non quando l’Europa, e tutta l’Europa, sarà in fiamme”. I trattati conclusi nel 1795 con la definitiva annessione del Belgio, Nizza e Savoia e la creazione di un’autonoma Repubblica batava in Olanda appaiono un’equilibrata soluzione del problema delle frontiere naturali, resa tuttavia precaria dal perdurare del conflitto con le potenze – Austria e Gran Bretagna – più forti e più risolutamente ostili alla Francia rivoluzionaria.
A partire dalla prima campagna d’Italia di Napoleone, quindi, lo schema del rapporto tra la rivoluzione e l’Europa muta radicalmente e non è forse un caso che un uomo come Carnot, fortemente legato alla “naturalità” del confine sul Reno segua con allarme il felice evolvere dell’impresa napoleonica. Con l’occupazione dell’Italia si afferma, infatti, il principio della rivoluzione che, superando i suoi confini, porta la libertà ai popoli oppressi che la attendono. Come era già accaduto in Belgio e in Olanda, anche in Italia la conquista francese suscita o rafforza processi di rinnovamento soffocati fino a quel momento nel chiuso quadro degli Stati di antico regime. “Era la resurrezione di un popolo dalla morte politica di tre secoli” scrive Giuseppe Pecchio ricordando il sentimento di novità che accompagnava il procedere delle armate francesi nella penisola. Anche in Italia, però, il “triennio giacobino” tra il 1796 e il 1799 fissa linee di demarcazione tra chi coglie essenzialmente nella rivoluzione i suoi esiti liberali e borghesi, facendosi paladino della Costituzione dell’anno III, e chi ne sollecita, invece, le più radicali e socialmente estese potenzialità eversive richiamandosi ai princípi della Costituzione del 1793. A ciò, per le particolari condizioni della penisola, deve aggiungersi l’affacciarsi di una questione nazionale con la quale, pur tra molte incertezze teoriche e operative, si pone il problema dell’unità territoriale e dell’indipendenza. Nell’intellettualità patriottica italiana la discussione di questi temi non può, ovviamente, non intrecciarsi con una difficoltà crescente a definire il rapporto con la Francia, Paese liberatore e conquistatore al tempo stesso.
Tanto più difficile è la definizione di questo rapporto in quanto esso è costantemente condizionato dai mutevoli disegni della politica estera francese, dall’evolvere della situazione militare e dalle oscillazioni interne del governo direttoriale.
Le repubbliche sorelle
La formula delle “repubbliche sorelle” definisce i modi in cui la Francia rivoluzionaria è presente al di fuori dei suoi confini negli anni del Direttorio. Essa interessa in modo particolare l’Italia, dal momento che dopo la Repubblica batava, riconosciuta dal trattato dell’Aja già nel maggio del 1795, e accanto a quella elvetica le altre quattro repubbliche di questo periodo – cisalpina, ligure, romana e partenopea – si impiantano nella nostra penisola. Soprattutto la Repubblica Cisalpina – che comprende la Lombardia e una parte cospicua dell’Emilia, inizialmente organizzata in Repubblica Cispadana– si presenta come il modello esemplare di “repubblica sorella” per l’estensione, la ricchezza economica, il numero degli abitanti e la vivacità intellettuale.
La Costituzione che vi viene approvata è ricalcata su quella dell’anno III, sia per quanto riguarda il diritto di voto sia per le forme e le funzioni del potere legislativo ed esecutivo. Così anche dall’esperienza francese vengono tratte le norme relative alla soppressione dei privilegi feudali ed ecclesiastici, come quelle delle antiche corporazioni di mestiere.
Ancor più delle repubbliche batava ed elvetica, però, la cisalpina risente del carattere di conquista militare che assume la presenza francese; ciò è evidente nell’obbligo imposto con il trattato del 21 febbraio 1798 di versare alla Francia 18 milioni e mantenere un’armata francese di 25 mila uomini. Tutte le repubbliche, comunque, sono condizionate al proprio interno dal succedersi degli orientamenti politici del governo direttoriale. Quindi, a una prima fase caratterizzata dal prevalere di indirizzi moderati, dopo il colpo di Stato di Fruttidoro – a Milano come in Belgio e in Olanda – succede una ripresa di iniziativa democratica, mentre il colpo di Stato di Fiorile (11 maggio 1798) porta a un ridimensionamento del giacobinismo locale e, nel caso della Repubblica Cisalpina, al varo di una costituzione fortemente restrittiva imposta con un colpo di Stato dall’ambasciatore francese Trouvé. Tutto questo non avviene, ovviamente, senza forti contrasti con i gruppi politicamente più attivi di queste nuove repubbliche e porta, di conseguenza, a un inaridirsi delle speranze e dei legami ideali con la Francia rivoluzionaria. Si tratta di un elemento di debolezza che certo contribuisce al rapido dissolversi delle tre grandi repubbliche italiane – cisalpina, romana e partenopea – quando nella disastrosa campagna della primavera del 1799 i Francesi sono costretti ad abbandonare la penisola. Particolarmente drammatica è la vicenda nel napoletano, dove le armate della Santa Fede guidate dal cardinale Ruffo riconducono sul trono Ferdinando IV di Borbone che procede poi alla sanguinosa eliminazione di quella classe dirigente liberale a cui rimarrà il nome di “martiri del ’99”. Partendo da questa esperienza il molisano Vincenzo Cuoco nel suo celebre Saggio storico sulla rivoluzione napoletana (apparso per la prima volta a Milano nel 1801) elabora il concetto di “rivoluzione passiva”, cioè di un’astratta accoglienza dei princípi e degli istituti della rivoluzione che spiega il fallimento finale dei giacobini, stretti tra il prepotere francese e la reazione popolare. L’esortazione di Cuoco è di recuperare la lezione che viene dalla Francia, partendo però dalle caratteristiche e dai bisogni specifici di luoghi e di popoli. Con il saggio di Cuoco può davvero dirsi aperta una pagina nuova nel rapporto tra la rivoluzione e l’Europa, dove – come accadrà nella cultura romantica – è destinata a giocare un ruolo determinante la riscoperta delle tradizioni storiche nazionali.