Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La rivoluzione industriale, che prende avvio in Inghilterra nella seconda metà del Settecento, è un avvenimento di enorme portata, destinato a mutare le caratteristiche fondamentali della civiltà umana. All’origine di questo processo di sviluppo vi è sia un perfezionamento delle tradizionali forme economiche, in primo luogo quella agricola, sia l’utilizzo di nuove fonti di energia e nuove tecnologie che consentono di superare i vincoli di un’economia dipendente quasi esclusivamente dalla terra.
Una rivoluzione epocale
L’espressione “rivoluzione industriale” è certamente discutibile. Innanzitutto perché, pur riferendosi letteralmente a un mutamento tecnico e organizzativo della produzione di manufatti, viene utilizzata per riassumere una molteplicità di trasformazioni tecnologiche ed economiche che non riguardano solo la produzione industriale, ma investono tutti gli aspetti della vita economica: agricoltura, industria, trasporti e finanza. Allo stesso tempo la rivoluzione industrialeviene considerata parte di un più generale processo di modernizzazione che coinvolge la società nel suo complesso: l’organizzazione politica, i sistemi giuridici, i rapporti tra i gruppi sociali, i modelli di consumo, la scienza e la cultura. Così questi mutamenti sono stati interpretati come presupposti necessari all’avvio della rivoluzione industriale e insieme, sue conseguenze. Inoltre anche il carattere rivoluzionario di questo fenomeno è stato da più parti contestato, sottolineando come non si sia trattato di un evento repentino e di breve durata ma di un processo complesso, che nella sola Inghilterra si è dispiegato nel corso di molti decenni per poi estendersi all’Europa e al mondo nel corso dell’Otto e del Novecento.
Nonostante queste ambiguità, l’espressione è ormai entrata nell’uso corrente e la drammaticità dei cambiamenti che essa ha comportato nella storia umana è tale da giustificare l’uso del termine rivoluzione. L’aspetto decisivo di questa svolta radicale è l’avvio di quella che l’economista Simon Kuznets ha definito “crescita moderna”, ovvero l’aumento rapido e prolungato del reddito reale pro capite, vale a dire della quantità di beni e di servizi disponibili in media per ciascun abitante, che implica naturalmente un corrispettivo aumento della produttività.
Lo sviluppo e la crescita economica non sono certo una prerogativa del mondo moderno e contemporaneo, ma l’intensità, la durata e la rapidità della fase di sviluppo inaugurata con la rivoluzione industriale non hanno eguali e sono rese possibili solo da un profondo mutamento della relazione fra uomo e ambiente. Per questa ragione molti storici ritengono che la rivoluzione industriale sia un avvenimento d’importanza paragonabile solo alla cosiddetta rivoluzione neolitica che prese l’avvio a partire dall’VIII millennio a.C. e grazie alla quale l’umanità passò da un’economia basata sulla caccia e la raccolta a un’economia fondata sull’agricoltura e l’allevamento. Entrambi questi due momenti di svolta epocali comportano un salto di qualità nello sfruttamento delle risorse ambientali e un forte aumento della popolazione: prima dell’avvento dell’agricoltura gli uomini che vivevano sulla Terra non superavano i 15 milioni, mentre a metà del Settecento – alla vigilia della nuova svolta – salgono a più di mezzo miliardo e oggi la popolazione totale supera i sei miliardi.
I limiti dello sviluppo nelle economie organiche
Qual è la natura profonda di questa discontinuità storica? La sua assoluta novità è testimoniata dal fatto che gli economisti classici del Settecento, come Adam Smith, che pure descrivono in modo molto convincente le possibilità di sviluppo insite nell’ampliamento dei mercati e nella divisione del lavoro, rimangono fondamentalmente scettici sulle possibilità di un progresso esteso nel tempo. Le ragioni di questo scetticismo risiedono nella caratteristica fondamentale dell’economia del loro tempo: il fatto di essere fondata sulla terra e sull’agricoltura. Nelle economie preindustriali la terra è infatti la base di ogni tipo di produzione: dalla terra, attraverso gli organismi viventi, non si ricavano solo gli alimenti, ma anche gran parte delle materie prime industriali, come le fibre tessili, e delle fonti di energia, come il legname e la forza muscolare dell’uomo e degli animali. Per questa ragione questo tipo di economia è stato definito “organico”, fondato cioè sul ricorso ad organismo viventi, vegetali o animali. Fino alla seconda metà del XVIII secolo tutti i sistemi economici e sociali che si sono succeduti nel tempo e nello spazio, nonostante le grandi differenze esistenti fra loro, dalle comunità primitive di agricoltori neolitici ai grandi imperi urbani come quello di Roma o della Cina, sono stati accomunati da questa caratteristica di fondo. In questi tipi di sistemi è inevitabile che prima o poi qualsiasi sviluppo economico si arresti, bloccato dalla legge dei rendimenti decrescenti, dal fatto cioè che per ampliare la produzione è necessaria una quantità proporzionalmente superiore dei fattori di produzione.
Eppure quello che si verifica a partire dalla metà del Settecento circa, con epicentro in Inghilterra e sotto gli occhi di Smith e Malthus, è proprio l’avvio di un processo di sviluppo economico continuo. La soluzione per sfuggire allo “stato stazionario” preconizzato dagli economisti classici sta nel ricorso a nuove risorse – materie prime e fonti di energia – che non provengono dalla terra e dall’agricoltura, e a nuove tecnologie. Un posto di primo piano ha il ricorso a forme di energia inanimate, cioè non ricavate da organismi viventi. Le economie preindustriali, infatti, conoscevano e sfruttavano da tempo alcune forme di energia inanimata, come l’energia idrica per far muovere i mulini o l’energia del vento per la navigazione. Il contributo di questo tipo di energia era però molto limitato: si calcola che i mulini fornissero nel 1750 solo lo 0,7 percento dell’energia utilizzata dagli Europei.
Verso un’economia fossile: il ruolo del carbone
Nel Settecento non sono tuttavia acqua e vento a fornire una via d’uscita. La risposta viene invece dall’uso sempre più intenso di una risorsa conosciuta da tempo ma a lungo sottoutilizzata: il carbone.
Per comprendere adeguatamente l’importanza del ricorso a forme di energia come il carbone fossile bisogna tener presente che alla metà del Settecento il legname fornisce più del 50 percento del fabbisogno energetico pro capite, ovvero circa 7000 calorie: ciò vuol dire che è all’origine della quasi totalità dell’energia termica utilizzata per il riscaldamento delle case, la cottura dei cibi e in una quantità di lavorazioni industriali, prima fra tutte quella del ferro e degli altri metalli, ma anche per la distillazione, la produzione di ceramica, vetro, mattoni. Ma in una “civiltà del legno” quale quella dell’Europa preindustriale questo materiale è anche impiegato nell’edilizia e nella costruzione di utensili, navi, carri e altro. La produzione di legname, però, è in concorrenza con quella del cibo: ampliare la superficie coltivata a cereali significa necessariamente ridurre l’area occupata dai boschi e dalle foreste. Il ricorso sempre più intenso all’uso del carbone fossile modifica radicalmente questa situazione, eliminando una gravissima strozzatura energetica e aprendo nuove prospettive di crescita, poiché il carbone fossile non è ricavato dal suolo e quindi un aumento della sua produzione non esige un aumento dell’impiego della terra come fattore di produzione. I dati sono eloquenti: tra il 1700 e il 1800 l’estrazione di carbone inGran Bretagna passa da tre a quindici milioni di tonnellate. Se si considera che un milione di tonnellate di carbone produce una quantità di energia pari a quella ottenibile da 400 mila ettari di foresta, per ottenere un simile aumento di energia disponibile ricorrendo solo al legname sarebbero occorsi circa 5 mila chilometri in più di foreste, ovvero 5 milioni di ettari, una superficie enorme, approssimativamente pari al 10 percento della terra arabile dell’intera Europa all’inizio dell’Ottocento. Durante il Settecento quindi viene immessa nel sistema economico inglese, e in misura molto minore in quello di altri Paesi, un’enorme quantità di energia che non dipende più dall’agricoltura. La disponibilità di grandi giacimenti, relativamente accessibili, di carbone è una delle ragioni che spiegano la primogenitura inglese nel nuovo mondo industriale.
La disponibilità di questa fonte di energia acquista un rilievo ancora maggiore grazie alla messa a punto della macchina a vapore, con cui l’energia termica può essere convertita in energia cinetica. Il primo tipo di macchina a vapore viene costruito da Thomas Savery nel 1698 e nel primo decennio del Settecento Thomas Newcomen ne presenta una versione perfezionata. La macchina a vapore si afferma però definitivamente con James Watt che separa il condensatore dal cilindro: durante il Settecento inInghilterra ne vengono costruite circa 2500, un terzo delle quali viene impiegata proprio per il drenaggio delle miniere di carbone.
L’avvio della grande trasformazione: cotone e ferro
La messa a punto di una macchina a vapore economicamente oltre che tecnicamente efficiente è possibile anche grazie ai contemporanei miglioramenti nel settore della metallurgia. Sono infatti le nuove alesatrici messe a punto da John Wilkinson, inizialmente per produrre canne di cannone, che consentono a Watt di costruire con la dovuta precisione i cilindri per le sue macchine a vapore. Un’altra innovazione decisiva nel campo metallurgico è quella di Henry Cort, che nel 1784 mette a punto un sistema di puddellaggio e laminazione per produrre ferro a partire dalla ghisa. Di enorme impatto è, inoltre, il contributo del quacchero Abraham Darby, che nel 1709 utilizza il carbone fossile negli altiforni, sostituendo il prezioso carbone di legna. Anche nella produzione dell’acciaio vengono fatti progressi, in particolare grazie a Benjamin Huntsman.
Queste innovazioni e altri innumerevoli perfezionamenti determinano una crescita spettacolare della produzione metallurgica inglese, che tra i primi decenni del Settecento e l’inizio dell’Ottocento passa da 20 mila a un milione di tonnellate annue. Il dato fondamentale è la continua sinergia che si viene a creare fra le diverse innovazioni nel settore dell’energia e in quello metallurgico. Ogni innovazione si ripercuote infatti sull’intero sistema e rende a sua volta possibili nuovi miglioramenti, risolvendo problemi tecnici e abbassando i costi.
L’altro settore all’avanguardia della grande trasformazione industriale è quello tessile, solitamente il più importante nelle economie tradizionali. Nel settore tessile il problema tecnico fondamentale è costituito dalla filatura; questa fase infatti è quella che richiede la maggior quantità di lavoro, circa la metà dell’intero tempo richiesto per la fabbricazione di un tessuto. Il primo passo è compiuto da Richard Arkwright nel 1769 con una filatrice mossa dall’energia idraulica. Più o meno negli stessi anni James Hargraves mette a punto il filatoio dettojenny, che consente la torsione del filo. Le due innovazioni vengono successivamente integrate in un’unica macchina, la cosiddetta mule o filatoio intermittente, da Samuel Crompton, nel 1778 e negli ultimi due decenni del Settecento l’energia erogata dalla macchina a vapore comincia a sostituire l’energia idraulica come forza motrice dei filatoi meccanici. Anche in questo caso l’incremento di produttività è enorme: per filare a mano circa 50 chilogrammi di cotone sono necessarie 50 mila ore di lavoro, mentre con un filatoio intermittente ne bastano circa trecento. Miglioramenti si hanno però anche in altre fasi della lavorazione tessile: nel 1793, per esempio, Eli Whitney inventa una sgranatrice di cotone e nel 1783 Thomas Bell mette a punto un sistema per la stampa dei tessuti. Anche nel campo della tessitura nel 1785 si giunge alla meccanizzazione grazie a Edmund Cartwright. La tessitura meccanica però non si imporrà definitivamente fino alla metà dell’Ottocento.
Il sistema di fabbrica e l’urbanizzazione
L’uso congiunto di nuove forme di energia e nuove tecnologie determina profondi cambiamenti nell’organizzazione del lavoro. Nell’Europa preindustriale la produzione di manufatti avviene principalmente in piccoli laboratori presso le abitazioni stesse dei lavoratori (industria a domicilio). Le nuove esigenze tecniche impongono invece una concentrazione di operai in edifici di grandi dimensioni dove operano numerose macchine – per esempio filatoi – collegate a un’unica fonte di energia, quale una macchina a vapore o anche una ruota idraulica: è quello che è stato definito il sistema di fabbrica. Non bisogna però sopravvalutare la rapidità e la portata di questa trasformazione anche nei settori di punta, e la sua estensione al complesso dell’economia nel corso del Settecento. La maggior parte degli opifici industriali – filatoi, fucine, fonderie – impiega poche decine di lavoratori e quasi sempre si tratta di edifici riadattati alle nuove esigenze.
La geografia economica e urbana dell’Inghilterra comincia però a cambiare in profondità a causa dell’importanza delle fonti di energia nella localizzazione delle attività. Corsi d’acqua adatti all’installazione di ruote idrauliche e bacini carboniferi diventano requisiti sempre più importanti e spostano il baricentro dell’Inghilterra manifatturiera verso il nord e l’ovest. Nella seconda metà del secolo quelle che erano trascurabili borgate diventano protagoniste di un nuovo tipo di urbanizzazione fondato sulle attività industriali. Manchester, capoluogo dell’industria cotoniera, passa da 18 a 70 mila abitanti, Sheffield da 12 a 46 mila, Birmingham da 24 a 69 mila. Anche le Lowlands scozzesi vivono una fase di forte espansione. Glasgow, che all’inizio del secolo aveva solo 13 mila abitanti, alla fine ne conta quasi 80 mila, e raggiunge la storica capitale Edimburgo, che pure ha raddoppiato nel corso del Settecento la sua popolazione.
La crescita di porti come Bristol, Plymouth, Portsmouth e soprattutto Liverpool, che alla fine del Settecento ha quasi raggiunto gli 80 mila abitanti, è il sintomo dello stretto rapporto che esiste fra lo sviluppo industriale e l’espansione del commercio internazionale e intercontinentale, del quale la Gran Bretagna è indiscussa protagonista. Viceversa, in antichi e prestigiosi centri come Exeter, York, Norwich, ai margini delle nuove correnti della vita economica, la popolazione rimane stazionaria.
La rivoluzione industriale e l’impero
Accanto al vantaggio rappresentato dall’ampia disponibilità di carbone, la posizione egemonica che l’Inghilterra ha saputo conquistarsi nel sistema intercontinentale di scambi ha certo avuto un ruolo determinante nell’avvio dell’industrializzazione. Il grande storico vittoriano John Seeley, a questo proposito, ha affermato che “la storia dell’Inghilterra non si svolse in Inghilterra ma in America e in Asia”. La supremazia navale inglese, militare e mercantile, si traduce nella facilità di accesso ai prodotti finiti dell’industria inglese e nella disponibilità di materie prime industriali e prodotti agricoli a costi più bassi.
Il caso dell’industria del cotone è forse il più significativo per illustrare l’impatto che la creazione di un impero di dimensioni planetarie ha sull’economia britannica. Tra il 1784-86 e il 1794-96 le esportazioni inglesi di tessuti di cotone quadruplicano e nei dieci anni successivi si moltiplicano ulteriormente per cinque. Gran parte di questo aumento è dovuto alle esportazioni oltreoceano, in particolare nelle Americhe, da dove peraltro proviene anche una percentuale sempre maggiore di cotone grezzo. La conquista inglese dell’India, regione tradizionalmente esportatrice di grandi quantità di tessuti di cotone, si traduce in una deindustrializzazione dell’India stessa, che diviene a sua volta importatrice di tessuti di cotone britannici. Anche le importazioni crescono notevolmente negli ultimi decenni del Settecento e riguardano soprattutto materie prime industriali, come il cotone, e prodotti alimentari, come lo zucchero e il tè. Senza la domanda estera e l’apporto di risorse land intensive provenienti da oltreoceano è difficile pensare che lo sviluppo industriale inglese sarebbe stato ugualmente rapido e sostenibile sul lungo periodo.
Inoltre il ruolo prima del 1760 ragguardevole e poi dominante della Gran Bretagna nel contesto dell’economia mondiale crea un’economia caratterizzata da un alto costo del lavoro che costituisce uno stimolo importante all’introduzione di innovazioni tecnologiche miranti ad aumentare la produttività del lavoro.
Mani visibili e invisibili
Il contributo che l’impero e l’egemonia marittima danno allo sviluppo economico e in particolare industriale della Gran Bretagna ci conduce necessariamente allo Stato. È infatti evidente che l’egemonia inglese in questo campo, esito della vittoriosa “seconda guerra dei cent’anni” contro la Francia, è la conseguenza della forza finanziaria prima ancora che militare dello Stato britannico e della sua determinazione nel perseguire il disegno del dominio marittimo, laddove invece la Francia sembra esitare fra questa prospettiva e la tradizionale direttrice dinastica e continentale. Quello che è stato definito lo stato “fiscal-militare” britannico è in grado di sottoporre i suoi sudditi a un prelievo fiscale pro capite doppio rispetto a quello cui erano sottoposti i cittadini francesi. Questa solida base fiscale consente alla Gran Bretagna di ottenere prestiti a un tasso molto più basso di quello che deve pagare il governo della Francia o di altri Stati europei. La solidità della Banca d’Inghilterra e delle altre banche britanniche permette di espandere la circolazione di moneta fiduciaria; inoltre, le garanzie offerte dal mercato finanziario inglese attraggono i capitali stranieri e soprattutto quelli olandesi. Nel complesso questa maggiore efficienza si traduce in un minor costo del denaro per gli imprenditori inglesi, un fattore che certo può aver stimolato la crescita industriale, anche se occorre tenere presente che nelle prime fasi dell’industrializzazione, date le dimensioni relativamente modeste degli impianti, l’autofinanziamento resta predominante.
Le scelte politiche del governo inglese hanno altri importanti effetti, diretti e indiretti, sullo sviluppo economico. L’abolizione di gran parte della legislazione protezionistica e corporativa risalente al Medioevo – anche se in gran parte nel Settecento è di fatto inapplicata – è infatti il risultato di una politica ispirata da precisi intenti, così come il sostegno dato dal parlamento alle recinzioni e alla ristrutturazione dei diritti di proprietà sulla terra. In generale si può dire che il governo inglese sia molto più sensibile dei governi contemporanei dell’Europa continentale alle esigenze commerciali ed economiche.