La Rivoluzione scientifica: i domini della conoscenza. I nuovi mondi della microscopia
I nuovi mondi della microscopia
Viaggi lunghi, estenuanti e pericolosi permisero ad alcuni europei di scoprire e visitare nuove terre popolate da piante e animali a loro prima ignoti. Viaggiare fu il mezzo principale per conoscere realtà ignote e lontane attraverso la diretta evidenza visiva. Descrivere oralmente o per iscritto, illustrare con disegni e raccogliere selezionati esemplari dei tre regni da riportare in Europa, e quindi collocarli in apposite collezioni, furono i modi più consueti per darne testimonianza ai contemporanei e fugare la loro incredulità. Nel XVII sec., però, la scoperta di nuovi mondi si realizzò anche senza viaggiare, osservando oggetti lontani e vicini con strumenti che ne fornivano un ingrandimento ottico. Si trattasse dei satelliti di Giove o degli infusori, il telescopio e il microscopio dischiusero dimensioni impensate del mondo fenomenico, fornendo l'evidenza visiva di entità precedentemente sconosciute. Per darne testimonianza e comunicare ai contemporanei quanto avevano visto, oltre a invitarli a guardare personalmente attraverso i nuovi strumenti ottici, gli studiosi e i viaggiatori del tempo si servirono di descrizioni e di illustrazioni; in questo caso, però, si rivelò più difficile fugare l'incredulità e i sospetti sulla veridicità di quelle immagini.
Come il telescopio, anche il microscopio costituisce una delle invenzioni strumentali più emblematiche della Rivoluzione scientifica. Per suo mezzo l'arte dell'osservazione naturalistica e anatomica, già molto coltivata durante tutto il XVI sec., varcò i confini naturali dell'occhio umano. Mentre il telescopio consentì di ampliare l'osservazione del Cosmo, fu il microscopio a permettere l'accesso ai micromondi e all'indagine della fine struttura dei corpi imponendosi, nel corso dei secoli successivi e nonostante considerevoli opposizioni, come uno strumento fondamentale nell'indagine medica e naturalistica.
Nel 1538 il medico Girolamo Fracastoro notò che due lenti di occhiali sovrapposte avevano la proprietà di fornire un'immagine ingrandita degli oggetti osservati. Successivamente, Giambattista Della Porta scrisse nei Magiae naturalis libri XX (1589): "se voi sapete unire giustamente insieme due vetri, il concavo e il convesso, vedrete gli oggetti lontani e vicini molto più grandi che non appaiano altrimenti, e oltre assai distinti" (p. 269). Queste sono alcune delle osservazioni e ideazioni che precedettero l'effettiva realizzazione del microscopio, la cui origine è connessa a quella del telescopio e risale al primo decennio del Seicento.
I primi strumenti realizzati in Olanda e in Italia furono microscopi composti, costituiti cioè da due lenti ‒ una convessa e una concava ‒ inserite a distanza appropriata in un tubo rigido. Il microscopio semplice, formato da una sola lente, fu invece concepito alla metà del secolo.
Tale strumento fu utilizzato nella pratica scientifica soprattutto negli ultimi decenni del Seicento.
Nel 1610 uno studente scozzese di Galileo Galilei, John Wedderburn, nel Quatuor problematum quae Martinus Horky contra Nuntium sidereum de quatuor planetis novis disputanda proposuit confutatio, riferì che il maestro poteva distinguere per mezzo di un 'perspicillo' gli organi di moto e di senso degli animali più minuti. Per questo Galilei è spesso considerato l'inventore del microscopio composto, avendo utilizzato canocchiali adattati alla visione microscopica (Covi 1888). Nel Saggiatore, scritto tra il 1619 e il 1622 e pubblicato nel 1623, egli accenna a un "telescopio accomodato per vedere gli oggetti vicinissimi" (EN, VI, p. 290). Questo primo tipo di microscopio galileiano sembra dunque essere stato costituito dal tubo di un telescopio a due lenti. In Inghilterra, tra il 1619 e il 1623, l'artigiano olandese Cornelis Drebbel costruì microscopi kepleriani, cioè a due lenti convesse e a visione rovesciata, di cui non risulta sia sopravvissuto alcun esemplare. Uno di essi fu portato a Roma nel dicembre del 1623 e Galilei ne prese visione nel 1624. Nello stesso anno egli costruì alcuni microscopi o, come li chiamava, 'occhialini', facendone dono a diverse personalità tra cui Federico Cesi, il fondatore e promotore dell'Accademia dei Lincei. Anche di questi microscopi, di dimensioni molto più ridotte, non resta alcun esemplare. Nella lettera di accompagnamento allo strumento donato a Cesi, datata 23 settembre 1624, Galilei fornì dettagli sul modo di metterlo a fuoco e su come disporre l'oggetto da osservare. Riferendosi ad alcuni insetti visti con il nuovo strumento, dichiarò che con esso "ci è da contemplare infinitamente la grandezza della natura, e quanto sottilmente ella lavora, e con quanta indicibil diligenza" (ibidem, XIII, p. 209). Più tardi Galilei fece costruire altri microscopi che donò, nel 1628, al langravio Filippo d'Assia e, nel 1630, al re di Spagna.
Non appena alcuni studiosi ebbero modo di usare l'occhialino galileiano ne predissero immediatamente l'importanza per l'indagine medica. Così, per esempio, in una lettera a Galilei del 4 ottobre 1624 il medico genovese Bartolomeo Imperiali affermò che esso sarebbe riuscito "cosa di molta conseguenza per la medicina" (ibidem, p. 214). Fu tuttavia nell'ambito delle ricerche naturalistiche intraprese dai membri dell'Accademia dei Lincei che esso venne più utilizzato. Nel 1625 Giovanni Faber, amico di Galilei e come lui membro dell'Accademia dei Lincei, suggerì che il nuovo strumento, fino allora chiamato variamente con i nomi di 'occhialino', 'cannoncino', 'perspicillo' e 'occhiale', venisse denominato 'microscopio'. Tale termine si affermò rapidamente, nonostante altri autori suggerissero, anche successivamente, nuove denominazioni. Sempre nel 1625 venne stampata a Roma la Melissographia, un omaggio offerto dall'Accademia dei Lincei al nuovo papa Urbano VIII (Maffeo Barberini, 1568-1644), sul cui stemma di famiglia figuravano tre api. Si tratta del primo documento iconografico prodotto con l'ausilio del microscopio e, probabilmente, con quello stesso 'occhialino' inviato un anno prima da Galilei a Cesi. Le osservazioni furono eseguite da Francesco Stelluti, anch'egli accademico linceo, ed ebbero per oggetto l'ape vista supina, di profilo, sul dorso e in alcuni particolari. Cesi stesso utilizzò nelle sue indagini botaniche sia l''occhialino' galileiano sia, probabilmente, i microscopi costruiti dai fratelli Kuffler, parenti di Drebbel trasferitisi a Roma.
Nel 1630 apparve quello che può essere considerato come il secondo documento dell'iconografia microscopica: l'illustrazione del 'gorgoglione' o punteruolo del grano, che Francesco Stelluti rappresentò sia a ingrandimento microscopico sia a dimensioni naturali, inaugurando in tal modo una pratica rappresentativa poi imitata da numerosi microscopisti per almeno due secoli. Nello stesso periodo altre indagini microscopiche, condotte soprattutto sull'ape, vennero intraprese da alcuni accademici lincei napoletani come Nicolò Antonio Stelliola e Fabio Colonna che si avvalse della collaborazione tecnica di Francesco Fontana, disegnatore e costruttore di telescopi e microscopi.
Parallelamente allo sviluppo tecnico del microscopio si andò formando una mentalità microscopica volta a scoprire, per usare l'espressione baconiana, gli schematismi latenti dei corpi. In un lavoro del 1644, per esempio, l'astronomo siciliano Giovanni Battista Odierna (Hodierna), studiando la fine struttura dell'occhio della mosca, combinò l'artificio anatomico della scomposizione con l'osservazione microscopica e suggerì analogie tra la struttura animale rivelata dal microscopio e quella vegetale. Il nuovo strumento favorì anche il rinnovamento di una concezione atomistico-democritea della costituzione dei corpi animati. In tale concezione l'anatomia, intesa come resolutio ad minimum, acquisì una nuova funzione dimostrativa e si estese indistintamente all'analisi di tutti gli esseri viventi sia animali sia vegetali. L'espressione programmatica più significativa di questa nuova concezione fu la Zootomia Democritaea di Marco Aurelio Severino, pubblicata nel 1645.
Con l'affermarsi del microscopio come nuovo strumento di indagine scientifica, la sua invenzione, al pari di quella del telescopio, divenne oggetto di numerose rivendicazioni. Francesco Fontana, per esempio, dichiarò nelle Novae coelestium terrestriumque rerum observationes, et fortasse hactenus non vulgatae di avere inventato il microscopio nel 1618, mentre altri autori ne attribuirono il merito a Giambattista Della Porta, che invero ne concepì l'idea nel 1589, ma che non sembra lo abbia mai effettivamente costruito.
Nel 1655 Pierre Borel nel De vero telescopii inventore, cum brevi omnium conspicillorum historia pubblicò alcune testimonianze nelle quali si attribuiva l'invenzione così del telescopio come del microscopio all'ottico olandese Hans Janssen e al figlio Zacharias (1588-1628/1631). Sebbene contraddittoria e fonte fino a oggi di numerose controversie nazionalistiche, la documentazione fornita da Borel e da qualche altro autore mostra chiaramente come alla fine del XVI sec. e all'inizio del XVII vi fosse una spiccata creatività tra i costruttori olandesi di occhiali. La medesima documentazione, però, induce anche a ritenere che essi non abbiano pensato al microscopio come a uno strumento dalla possibile applicazione scientifica, ma solo come a un oggetto raffinato e curioso da vendere a principi e notabili. La polemica sull'invenzione del telescopio e del microscopio investì ben presto un altro argomento, gli occhiali. Nella Lettera intorno all'invenzione degli occhiali, un breve saggio storico del 1678, Francesco Redi rivendicò alla Toscana il merito per l'invenzione degli occhiali asserendo che "l'Arte di far gli Occhiali è invenzione moderna, e ritrovata in Toscana in quegli anni, che corsero, a pigliarla ben larga, dal 1280 fino al 1311" (p. 10).
Costruttori di microscopi nella seconda metà del XVII secolo
La seconda metà del XVII sec. fu il periodo di maggior splendore nella produzione di strumenti ottici in Italia e fu contrassegnata dall'opera di due alacri artefici: Eustachio Divini e Giuseppe Campani. Entrambi furono attivi a Roma, produssero un gran numero di strumenti, protessero gelosamente le rispettive tecniche di lavorazione delle lenti e furono divisi da una rivalità accanita. Divini costruì microscopi a treppiedi con una serie di tubi telescopici per la messa a fuoco. A lui è anche attribuita l'introduzione dello specchio riflettente per l'illuminazione degli oggetti da osservare. Campani produsse sia microscopi a treppiedi sia microscopi con tubi filettati per permettere la messa a fuoco, e con un portaoggetti dotato di ganci a molla. La superiorità degli strumenti di Campani fu riconosciuta più che per il loro disegno, per le prestazioni delle lenti da lui lavorate.
Il prototipo di numerosi microscopi britannici e, successivamente, continentali fu quello costruito da Robert Hooke e illustrato nella sua celebre Micrographia del 1665. Rispetto ai microscopi coevi esso presenta varie innovazioni nel sistema ottico, nel più sofisticato apparato di illuminazione e nello stativo. A Roma il gesuita Filippo Buonanni (1638-1725) utilizzò un microscopio di Campani in maniera del tutto nuova, collocandolo cioè orizzontalmente e abbinandolo a una fonte luminosa artificiale e a un condensatore mobile.
Gli strumenti fin qui segnalati sono tutti microscopi composti. Sembra invece che il primo microscopio semplice ‒ detto 'a perlina' ‒ sia stato realizzato da Evangelista Torricelli (1608-1647), ma il merito di un suo uso esteso nell'indagine scientifica è attribuito soprattutto all'olandese Antoni van Leeuwenhoek (1632-1723). I microscopi di questo osservatore eccezionale sono costituiti da una lente biconvessa inserita tra due lastrine metalliche all'altezza di un pertugio da cui traguardare. Leeuwenhoek costruì per proprio uso oltre 500 esemplari, alcuni dei quali potevano fornire un ingrandimento fino a 266 volte. Nonostante la sua costruzione elementare, questo tipo di microscopio si rivelò il più efficace e affidabile per l'osservazione consentendo al suo autore di compiere innumerevoli e straordinarie scoperte.
Nella seconda metà del XVII sec. ebbe inizio la produzione di un'importante trattatistica dedicata alla costruzione dei microscopi, di cui la Dioptrique oculaire, apparsa nel 1671 ad opera del padre cappuccino Chérubin d'Orléans, costituisce un esempio significativo. Spesso, come negli scritti di Athanasius Kircher, Nicolas Hartsoeker, Christiaan Huygens, Johann Christoph Sturm e Johannes Zahn, la problematica costruttiva dei microscopi era affiancata da esposizioni relative alla teoria della visione e da osservazioni astronomiche e microscopiche.
Un sostenitore della tesi della pluralità dei mondi, il medico, collezionista ed erudito francese Pierre Borel, che fu anche il primo biografo di Descartes, pubblicò nel 1656 quella che è considerata la prima monografia interamente dedicata alla descrizione di osservazioni microscopiche, la Observationum microcospicarum centuria. Sotto la sua lente gli oggetti della vita quotidiana appaiono rari e singolari. I grani di sabbia luccicano come pietre preziose, gli insetti quasi impercettibili assumono le sembianze di mostri e il sangue sembra popolato da balene. La meraviglia suscitata da tale animazione presente in spazi ridotti sospinse lui ed altri osservatori dei micromondi a ritenere che il microscopio sarebbe divenuto uno strumento atto a refutare gli atei più accaniti poiché, come disse nella dedica della Observationum microcospicarum centuria, esso "li conduce alla consapevolezza, ammirazione e venerazione del loro supremo Architetto". Descartes aveva definito l'ottica 'scienza dei miracoli' e, infatti, miracolosi apparivano ai più gli abissi contrapposti dell'infinitamente grande e dell'infinitamente piccolo. Quest'ultimo, in particolare, sembrava compensare per la sua animazione e incredibile strutturazione la perdita di significato che aveva subito il Cosmo, fino ad allora concepito come immagine di un ordine spirituale.
Già a partire dalle prime descrizioni di osservazioni microscopiche, quindi, i filosofi naturali furono consapevoli che, come il telescopio, anche il microscopio forniva l'accesso a nuovi mondi, cioè a nuovi spazi in cui ‒ nonostante la meraviglia ‒ si potevano esercitare congiuntamente la visione e la ragione. Nella prefazione alla Micrographia del 1665, Robert Hooke ebbe a scrivere che "con l'aiuto di microscopi, non vi è nulla di così piccolo da sfuggire alla nostra indagine. Quindi vi è un nuovo mondo visibile scoperto alla nostra comprensione".
Tra i mondi dischiusi alla vista dal telescopio e quelli rivelati dal microscopio v'era una differenza significativa: questi ultimi, infatti, erano spesso abitati. In un libro pubblicato a Roma nel 1652, intitolato Iatrologismorum, seu medicinalium observationum pentecostae quinque, il medico Domenico Panarolo riferì di avere osservato in una goccia di aceto esaminata al microscopio un gran numero di minuscole anguille. Nel 1656 Borel, riportando osservazioni simili, annotò nella Observationum microcospicarum centuria che la vita era dunque possibile anche in un ambiente inospitale come l'aceto e che le persone a cui ne aveva mostrato gli abitatori ne erano rimaste così colpite da decidere di smettere di farne uso. Tuttavia le reazioni più comuni tra quanti leggevano opere come quelle di Panarolo e Borel erano incredulità e derisione. Nel 1664, assieme ad alcuni colleghi, Robert Boyle cercò di ripetere le osservazioni di Panarolo e, non riuscendovi, ritenne che questi fosse stato soggetto a un'illusione. Tuttavia, egli persistette nelle sue indagini microscopiche fino a giungere a vedere le anguilline dell'aceto e a convincere quanti avevano in precedenza deriso tali osservazioni.
La goccia di aceto abitata da minuscole anguille divenne un topos della letteratura scientifica e il prototipo di un micromondo abitato. Non occorrevano grandi viaggi per visitarlo o per scoprirne di nuovi. Erano sufficienti infatti un microscopio semplice o composto e alcuni granuli di sabbia, le infusioni di varie sostanze, sperma, sangue, gli insetti, i detriti depositatisi in una grondaia, un pesciolino trasparente, l'acqua stagnante perché mondi finemente strutturati e spesso abitati da creature che possedevano un intero ciclo vitale si svelassero all'osservatore paziente. La goccia di aceto divenne anche parte integrante dell'argomentazione secondo cui, così come i micromondi terrestri erano fittamente abitati, necessariamente dovevano esserlo anche i pianeti. Infatti, negli Entretiens sur la pluralité des mondes (1686), Bernard Le Bovier de Fontenelle si chiedeva: "credete voi che la natura che ha spinto in questo caso la propria fecondità fino all'eccesso, sia stata di una tale sterilità per tutti gli altri pianeti da non produrre nulla di vivente?" (Oeuvres, II, p. 70).
Le spiegazioni che accompagnavano tali osservazioni, come quella secondo cui il sapore aspro dell'aceto era dovuto agli aculei inseriti nelle code delle anguille che battevano sulla lingua di chi lo degustava, divennero anche argomento di satira mordace nelle divertite e curiose conversazioni ricreate nelle commedie dell'epoca.
Microscopisti inglesi
In Inghilterra i membri della Royal Society riconobbero nelle potenzialità offerte dal microscopio lo spartiacque tra gli Antichi e i Moderni nell'osservazione della Natura. Nel 1664 il medico e naturalista Henry Power, da poco aggregato alla società londinese, pubblicò un testo dal titolo Experimental philosophy che, oltre a contenere due saggi sul magnetismo e sul vuoto, riportava i risultati di una serie di osservazioni microscopiche relative a insetti, anguille dell'aceto, lumache, semi, foglie, polline di varie piante e cristalli dello zucchero, della sabbia e del sale.
Corpuscolarista convinto, Power era fiducioso che i miglioramenti tecnici del microscopio avrebbero consentito in futuro di rivelare "i fluidi magnetici della calamita, gli atomi solari della luce […] e le particelle elastiche dell'aria" (Experimental philosophy, p. 6). Per il momento, comunque, si accontentava di riferire il 'miracolo' per cui gli animali imperfetti, cioè gli insetti, erano dotati come quelli maggiori di organi minuti che non si intralciavano reciprocamente nel loro funzionamento. Negli insetti osservò e descrisse un cuore pulsante e postulò l'esistenza di un sistema circolatorio. Sebbene non fosse in grado di fornire prove a sostegno della propria ipotesi corpuscolare, dimostrò che gli insetti possedevano una fine struttura anatomica simile a quella riscontrabile a livello macroscopico negli animali maggiori.
Il 25 marzo 1663, intanto, i membri della Royal Society sollecitarono il loro addetto all'esecuzione degli esperimenti, cioè Robert Hooke, perché proseguisse nelle proprie osservazioni microscopiche e quindi le rendesse note dandole alle stampe. Ogni settimana, per oltre un anno, Hooke mostrò alle riunioni della società i disegni dei suoi preparati microscopici, commentandoli a voce. Negli ultimi mesi del 1664 il volume da lui scrupolosamente curato era già stampato e nel gennaio 1665 era in vendita nelle librerie. Pubblicato con le insegne della Royal Society, recava il titolo Micrographia e conteneva un'ampia prefazione seguita da 60 osservazioni analitiche e 38 pagine di incisioni spettacolari. L'opera ebbe tale fortuna da richiedere una ristampa nel 1667.
Considerato come il maggiore successo editoriale nella carriera di Hooke, Micrographia ha avuto per la storia della microscopia una rilevanza del tutto particolare. Infatti, sia per la sistematicità con cui Hooke divulgò e discusse le procedure seguite nella sua indagine microscopica, sia per le problematiche affrontate e per l'equilibrata integrazione tra testo scritto e apparato illustrativo, egli elevò la microscopia al rango di disciplina scientifica riuscendo inoltre a comunicare a un pubblico più vasto la sensazione di come potesse apparire il nuovo mondo visivo svelato dal microscopio. Opera non solo di uno studioso, ma anche di un tecnico ingegnoso e capace di risolvere con la manualità una serie di problemi considerevoli, Micrographia propagandava una particolare filosofia della Natura fondata sull'unione della mente e delle arti meccaniche. Convinto che i sensi potessero fornire una spiegazione dei fenomeni naturali e che gli strumenti scientifici sopperissero ai loro limiti, Hooke affermò che l'analisi microscopica richiedeva "una mano sincera e un occhio fedele per esaminare e registrare le cose stesse così come appaiono" e si muoveva quindi attraverso la memorizzazione e la ragione per trasferirsi nuovamente alle mani e agli occhi (Micrographia, pp. IV-V).
Nell'esame delle singole parti di un oggetto Hooke suggerì di osservarle prima a lievi ingrandimenti e, successivamente, a ingrandimenti maggiori. Avvertì che l'illuminazione della superficie degli oggetti poteva distorcerne l'aspetto con il gioco delle ombre. I reperti esaminati riguardavano tutti e tre i regni della Natura, ma le illustrazioni più spettacolari da lui prodotte raffiguravano insetti come la pulce o singoli dettagli come gli occhi composti di un insetto, i peli dell'ortica o il pungiglione di un'ape. Nelle sezioni longitudinali e trasversali di un pezzo di sughero osservò e descrisse le cellule morte denominandole 'pori' o 'celle' in analogia alle celle dei favi delle arnie. Esaminando granelli di sabbia individuò tra loro i resti fossili di un minuscolo animale microscopico (un foraminifero). Investigando la muffa formatasi sulla rilegatura in pelle di un libro scoprì che si trattava di 'un corpo vegetante' con pedicelli (sporangiofori) che terminavano in un cappuccio (sporangio). Speculò sulla natura di quest'ultima struttura chiedendosi se si trattasse di un calice o di un involucro ripieno di semi, ma ritenne comunque che tutta la muffa fosse costituita da funghi microscopici. Analizzando poi la ruggine delle rose si chiese se si trattasse di uova di insetto o di piccole piantine. Osservando che i pedicelli terminavano in baccelli a diversi stadi di sviluppo optò correttamente per la loro identificazione in minute piantine. È interessante notare che Robert Hooke attribuiva l'origine di tali microrganismi alla decomposizione della sostanza organica che, a sua volta, si riorganizzava in pianticelle microscopiche, attraverso una loro generazione spontanea.
Nel 1672 la Royal Society nominò Nehemiah Grew curatore dell'anatomia delle piante presso la società conferendogli un salario considerevole. Grew si era formato a Cambridge e poi a Leida e si era quindi trasferito a Londra per esercitarvi la professione medica. All'epoca della sua nomina aveva pubblicato un lavoro dedicato alla morfologia botanica in cui aveva utilizzato, sia pure in modo limitato, l'ingrandimento ottico nell'analisi, per esempio, di una sezione trasversale di lappola. Alla Royal Society frequentò Hooke che lo familiarizzò con la tecnica microscopica e gli diede in prestito strumenti ottici per le sue indagini. Diversamente dai microscopisti che lo avevano preceduto, Grew delimitò intenzionalmente la propria indagine al solo studio delle forme e delle strutture delle piante e dei loro organi. Nei dieci anni successivi alla sua nomina pubblicò diversi lavori contenenti la descrizione di numerose osservazioni originali. Questi confluirono, nel 1682, nell'opera The anatomy of plants, un testo generalmente considerato come il primo manuale sistematico di anatomia vegetale.
Partendo dalle descrizioni della forma, struttura e germinazione dei semi, Grew analizzò, nell'ordine, la radice, il fusto, la gemma, il fiore, il frutto e, nuovamente, il seme. Esaminando prima a occhio nudo, poi con il microscopio, sezioni trasversali e verticali di fusti e radici, egli registrò osservazioni fattuali fornendo solo successivamente interpretazioni delle funzioni delle strutture da lui evidenziate. In tali interpretazioni si servì di analogie meccaniche, di paragoni con l'anatomia e la fisiologia animale e di metafore tratte dalla vita comune. Il risultato di tutto ciò è costituito dalla dimostrazione dell'esistenza ‒ prima completamente ignorata ‒ di una complessa anatomia e fisiologia delle piante. Nell'uso euristico delle analogie, Grew si lasciò a volte prendere la mano, come quando ipotizzò l'esistenza nelle piante di una circolazione chiusa, oppure quando interpretò la loro fine struttura compositiva alla luce delle tecniche usate nella fabbricazione dei cestelli di vimini. Tuttavia la massa dei dati da lui forniti rivelò che le piante erano dotate di un'anatomia interna totalmente sconosciuta. Tra le distinzioni durature stabilite da Grew merita di essere ricordata quella tra parenchima (un termine da lui introdotto in botanica) e legno. Egli paragonò la struttura a celle del parenchima alla schiuma della birra e al bianco dell'uovo sbattuto, mentre descrisse i vasi e i tubuli legnosi come un insieme di lunghe fibre a decorso parallelo. Originale fu anche il suo resoconto relativo alla diversa disposizione del legno al centro della radice e nel fusto verso la periferia, da lui giustificata in relazione alle diverse esigenze meccaniche e funzionali di queste parti della pianta.
Microscopisti italiani
In Italia lo sviluppo della microscopia durante la seconda metà del XVII sec. è legato soprattutto alla cerchia dei discepoli e degli amici di due studiosi operanti in Toscana, Giovanni Alfonso Borelli e Francesco Redi, ad alcuni padri gesuiti attivi a Roma presso il Collegio Romano, nonché all'opera del bolognese Marcello Malpighi.
Sebbene Borelli non sia stato un anatomista e microscopista di rilievo, utilizzò nelle sue indagini un microscopio di Divini e, durante il decennio che trascorse in Toscana (1656-1666), stimolò alcuni studiosi a compiere indagini complesse servendosi dell'ingrandimento ottico, influenzandone la visione della Natura con la sua concezione iatromeccanica e corpuscolare. Nella sua casa a Pisa si compivano zootomie e una di queste, cui poté assistere Malpighi, ebbe un significato paradigmatico. Fu eseguita dal lorenese Claude Aubry che, pur non utilizzando l'ingrandimento ottico, ma la sola anatomia artificiosa et subtilis, fu in grado di porre in evidenza i tubuli seminiferi nel testicolo dell'uomo e del cinghiale. L'artificio utilizzato in tale zootomia è sostanzialmente duplice. Per prima cosa, infatti, ci si servì della preparazione dei testicoli che consentiva di mettere in evidenza la presenza di lunghi filamenti bianchi. Attraverso la pressione di tali filamenti e la fuoriuscita di gocce di seme si riuscì a stabilire che si trattava di canalicoli adibiti appunto al flusso seminale. In secondo luogo, per interpretare le strutture presenti nel testicolo dell'uomo, che apparivano molto minute, le si paragonò a quelle di dimensioni assai più rilevanti presenti nel testicolo di un cinghiale ucciso nella stagione degli amori, quando cioè i testicoli erano più turgidi per la presenza di molto liquido seminale. L'importanza paradigmatica di questo tipo di zootomia consistette quindi nell'uso di artifici nella scomposizione delle parti e nella selezione di esempi in cui la Natura stessa rendeva più perspicuo il suo modo di operare. Ciò significa che anche senza l'ingrandimento ottico si andò diffondendo una mentalità tesa a rilevare gli schematismi latenti dei corpi, cioè una mentalità microscopica.
Medico, erudito, letterato e uomo di corte, Redi è stato anche un naturalista molto versatile per avere abbinato all'osservazione l'esperimento seriale reiterato e controllato, contribuendo in tal modo ad aprire nuovi settori d'indagine nello studio della generazione, dei veleni, dei parassiti e della patologia vegetale. Membro molto attivo dell'Accademia della Crusca a partire dal 1655 e tra i fondatori dell'Accademia del Cimento, fu nominato nel 1666 protomedico del granduca di Toscana con l'incarico di sovrintendere alla spezieria e alla fonderia granducali. La sua posizione sociale gli consentì da un lato di avere accesso a molto materiale di ricerca e dall'altro di esercitare un'influenza determinante nelle nomine di alcuni professori presso l'Università di Pisa, divenendo così, in ambito medico e naturalistico, un riferimento obbligato per molti studiosi toscani. Redi espose i risultati delle sue ricerche in numerose opere come, per esempio, le Esperienze intorno alla generazione degl'insetti del 1668 e le Osservazioni intorno agli animali viventi che si trovano negli animali viventi del 1684.
Le Esperienze contengono le celebri dimostrazioni sperimentali che stabilivano come il fenomeno della generazione degli insetti non fosse dovuto alla putrefazione di sostanza organica, ma alla deposizione di uova da parte degli insetti. In quest'opera Redi utilizzò l'ingrandimento ottico principalmente per meglio delineare la morfologia esterna degli insetti, le loro uova, e per identificare la collocazione degli organi riproduttivi nell'insetto femmina. Nelle Osservazioni egli descrisse numerosi endoparassiti ed ectoparassiti di molte specie di animali, come i pidocchi degli uccelli, le idatidi delle lepri e i vermi dei castrati. Non accontentandosi di descrivere e fare raffigurare da un artista la sola morfologia esterna, Redi procedette, in alcuni casi, alla dissezione del parassita e a una sua disamina anche con l'ingrandimento ottico. Tra le ricerche condotte dagli allievi diretti di Redi in cui viene fatto uso del microscopio, meritano di essere ricordate quelle sull'anatomia della torpedine (Stefano Lorenzini, Osservazioni intorno alle torpedini, 1678), sulle tartarughe (Giovanni Caldesi, Osservazioni anatomiche […] intorno alle tartarughe marittime, d'acqua dolce, e terrestri. Scritte in una lettera all'illustrissimo signor Francesco Redi, 1687) e sul ciclo di sviluppo della zanzara (Pietro Paolo da Sangallo, Esperienze intorno alla generazione delle zanzare […] scritte in una lettera al sig. Francesco Redi, 1679), il cui autore così riassunse alcuni dei risultati raggiunti:
le zanzare non nascono spontaneamente dalla putredine, ma nascono dall'uova delle loro madri, e […] quest'uova sono minutissime, e di figura d'un seme di popone, e contenute dentro le cavità d'un certo invoglio, che rassomiglia una navicelletta. Non sono partorite, o gestate sopra la terra, o sopra le frondi degli alberi all'asciutto, ma bensì nell'acque stagnanti, e da quest'uova nascono altrettanti vermi, i quali dopo aver nuotato per alcuni giorni, e dopo esser cresciuti in quell'acque si mutano di figura, e dopo alcuni altri giorni squarciandosi la loro pelle ne scappono fuora le zanzare, le quali tutto il tempo del loro vivere conservano quella stessa grandezza, che sortirono nel nascere. (p. 21)
Tuttavia il principale contributo all'indagine microscopica da parte di studiosi appartenenti alla cerchia di Redi provenne da due personalità attive a Livorno: il medico Giovanni Cosimo Bonomo e lo speziale Giacinto Cestoni. Conosciuto da Redi a Livorno nel 1680, Cestoni non pubblicò mai nulla delle sue accurate osservazioni microscopiche descritte in lettere private a Redi e ad Antonio Vallisnieri; fu quest'ultimo a darne parziale notizia nelle sue pubblicazioni. Servendosi delle indagini microscopiche effettuate da Cestoni, Bonomo pubblicò nel 1687 le Osservazioni intorno a' pellicelli del corpo umano, in cui descrisse per la prima volta l'uovo dell'acaro della scabbia e il modo in cui gli acari si introducono sotto l'epidermide dopo averla ferita "con l'acuto della testa" (p. 4). Rilevante per stabilire definitivamente l'origine parassitaria della scabbia, quest'opera esercitò anche una notevole influenza nell'orientare gli studiosi ad affermare l'origine di tutti gli insetti ex ovo. Infatti ‒ sebbene vi fossero alcuni, come il gesuita Filippo Buonanni nelle Observationes circa viventia, quae in rebus non viventibus reperiuntur, che, in polemica con Redi, ancora sostenevano la generazione spontanea degli insetti dalla putredine ‒ altri, come Redi stesso nelle Esperienze intorno alla generazione degl'insetti, ritenevano che gli insetti che uscivano dalle galle fossero generati dall'anima vitale della pianta stessa e che quelli che si rinvenivano nelle viscere degli animali fossero prodotti dalla virtù zoogenetica di questi ultimi.
Imbevuto della nuova filosofia sperimentale, sorretto da una concezione corpuscolare e meccanica della realtà naturale, Marcello Malpighi applicò il microscopio all'osservazione dei corpi animali e vegetali svelando un'architettura latente nelle loro parti più minute, da lui considerate le vere responsabili dei processi fisiologici. Con Malpighi la costituzione del corpo assunse inedite dimensioni spaziali strutturandosi in complesse e articolate microstrutture funzionali. Apologeta del "senso aiutato dall'arte", cioè dallo strumento ottico, nessuno più di lui innovò, ai suoi tempi, le discipline biomediche infondendovi l'insegnamento iatromeccanico di Borelli e sostanziandole di nuove acquisizioni, originate da ampie indagini concernenti la fine anatomia animale, quella vegetale e l'embriologia. All'osservazione con il microscopio egli aggiunse l'arte della preparazione dei tessuti da esaminare. Scomponendo le parti per cozione, macerazione, essiccamento e slaminamento meccanico, e utilizzando iniezioni endovasali e, a volte, metodi rudimentali di colorazione con l'inchiostro, mise in evidenza un gran numero di strutture altrimenti invisibili a occhio nudo, anche se a volte si dichiarò sconfitto dalla bianchezza e trasparenza di alcuni preparati e desistette dalla prosecuzione dell'indagine per timore di soccombere a qualche artefatto o illusione ottica. Sfortunatamente non sempre corredò di illustrazioni i propri testi rendendoli così meno perspicui.
Nonostante alcuni studiosi abbiano ritenuto di poter identificare i microscopi con i quali Malpighi avrebbe lavorato, non possediamo, in effetti, alcuna certezza circa tali attribuzioni. Si sa soltanto che, dopo il 1671, utilizzò due microscopi di Divini, ma anche altri semplici e composti, di cui tuttavia non si conosce con esattezza il nome dell'artefice. Nell'osservazione microscopica di un preparato Malpighi consigliò che prima se ne facesse un esame a pochi ingrandimenti con un microscopio semplice e poi lo si indagasse a ingrandimenti maggiori con uno composto.
Immediata celebrità diedero a Malpighi le osservazioni contenute in due lettere scritte a Borelli e stampate nel 1661. Nella prima dimostrò che nel polmone estratto da un mammifero ancora vivente e quindi opportunamente lavato, gonfiato ed essiccato, la sostanza era costituita da quasi "infinite vescicole globose" (Opere scelte, p. 76), cioè da alveoli polmonari. Nella seconda, estendendo la propria ricerca al polmone di rana, che risultava molto più trasparente, dimostrò l'esistenza di una rete capillare anastomotica. Questa seconda scoperta ebbe conseguenze fisiologiche di grande importanza, poiché, illustrando appunto l'anastomosi di arteriole e venule, fornì la dimostrazione anatomica finale della circolazione sanguigna. La scelta del polmone di rana si rivelò particolarmente felice e fu dettata dalla convinzione che la Natura intraprendesse "le sue grandi opere soltanto dopo una serie di tentativi a più bassi livelli" ed abbozzasse "negli animali imperfetti il piano degli animali perfetti" (ibidem, p. 91).
Tra le altre scoperte di Malpighi effettuate con l'uso del microscopio meritano di essere segnalate le papille della lingua e le papille tattili, che interpretò come le estremità di fibre nervose e quindi come i ricettori del gusto e del tatto. Divise l'epidermide in strato corneo e strato mucoso o, come più tardi fu chiamato, strato malpighiano. Esaminando il meccanismo della secrezione, concepì un modello di ghiandola, strutturalmente fondato, in cui questa era intesa come una machinula deputata a filtrare determinate particelle del sangue arterioso essendo dotata di una cavità membranosa ‒ da lui denominata 'follicolo' ‒ provvista di arterie, vene, nervi e di un dotto escretore. Studiò anche il sistema nervoso centrale e periferico formulando una teoria sul suo funzionamento ed estese la sua indagine microscopica al sangue, in cui vide atomi rossi 'stipati' cioè globuli rossi, e allo sviluppo del baco da seta e dell'uovo di pollo incubato.
Le ricerche malpighiane di anatomia vegetale, apparse a Londra in due volumi editi a cura della Royal Society nel 1675 e nel 1679 con il titolo Anatome plantarum, furono coeve, ma indipendenti, a quelle eseguite da Grew e pervennero a numerosi risultati simili. Malpighi intraprese lo studio dell'anatomia microscopica delle piante augurandosi di meglio comprendere per analogia la fine strutturistica animale. Analizzando sezioni trasversali e longitudinali osservò una struttura di fondo costituita da aggregati di 'utricoli', ovvero di cellule, e la presenza di condotti che, in analogia a quelli respiratori presenti negli insetti, chiamò trachee. Vide anche vasi legnosi spiralati e osservò che le radici terminavano in una struttura rinforzata simile a un ditale: la cuffia o pilorizza. Come Grew, Malpighi estese la propria indagine alla struttura interna di bulbi, tuberi, rizomi, spine, viticci e gemme. Studiò la formazione di organi e tessuti durante il processo di crescita correlando struttura e sviluppo. Analizzando semi di varie specie vegetali in via di sviluppo, individuò diverse fasi della crescita dell'embrione. L'ingrandimento ottico gli consentì di identificare meglio le diverse parti di fiori minuti e di ricondurle a tipiche strutture floreali.
Si occupò anche di patologia vegetale dimostrando, tra l'altro, come la formazione di una galla fosse dovuta ad alterazioni strutturali della pianta successive alla deposizione di un uovo da parte di un insetto femmina e alla sua trasformazione in larva: un forte argomento contro la generazione spontanea degli insetti.
Malpighi fu spesso criticato dai suoi contemporanei per l'uso del microscopio con l'argomento che le sue indagini di anatomia sottile a nulla conducevano nella pratica medica. A Giovanni Girolamo Sbaraglia (1641-1709) che a più riprese lo attaccò, sebbene coperto dall'anonimato, Malpighi rispose con un lungo documento pubblicato postumo nel 1697 in cui scrisse tra l'altro:
La Natura, per esercitare le mirabili operazioni negli animali e nei vegetali, si è compiaciuta comporre il loro corpo organico con moltissime macchine, le quali, per necessità, sono fatte di parti minutissime, in tal maniera configurate e situate, che formano un mirabile organo, la di cui struttura e composizione con gli occhi nudi, e senza aiuto del microscopio, perlopiù non si arriva: anzi molte e molte di grande importanza sfuggono. Onde non è da sprezzarsi la diligenza dell'arte nel procurar instrumenti, e praticarli, per arrivare all'artificio mirabile delle parti che sono principio dell'operazione sana e morbosa. (Opere scelte, p. 504)
Microscopisti olandesi
I maggiori virtuosi nell'arte dell'osservazione al microscopio nell'Olanda della seconda metà del XVII sec. furono Jan Swammerdam e Antoni van Leeuwenhoek: due personalità diverse per formazione e temperamento che raggiunsero livelli inimitabili, il primo nella tecnica della microdissezione e il secondo nell'ampia e sistematica esplorazione del mondo microscopico.
Nato ad Amsterdam nel 1637, Swammerdam ereditò dal padre la passione per il collezionismo naturalistico. Nei primi anni Sessanta, un periodo caratterizzato da un fermento intellettuale straordinario, frequentò l'Università di Leida assieme a compagni di studio che avrebbero lasciato tracce profonde nella ricerca scientifica. Tra il settembre del 1664 e quello dell'anno successivo fu ospite a Parigi dell'accademia privata istituita dal mecenate Melchisédech Thévenot (1620-1692), con cui rimase successivamente in rapporto epistolare. Tornato nella casa paterna ad Amsterdam, ma soggiornando spesso anche a Leida per motivi di studio, ottenne il dottorato in Medicina nel 1667 e si dedicò a intense ricerche sia nel campo dell'anatomia e fisiologia umana sia in quello dell'entomologia. L'intima religiosità e un profondo senso di colpa per le proprie ambizioni mondane lo portarono a unirsi nel 1673 alla comunità religiosa retta da Antoinette Bourignon (1616-1680) e a trascurare i propri studi scientifici. Lasciata la comunità nel 1676, si trasferì nuovamente ad Amsterdam e, tra problemi finanziari e di salute, portò a compimento il manoscritto e le illustrazioni della sua opera maggiore che, per volontà testamentaria, trasmise all'amico Thévenot. Dopo molte vicissitudini, nel 1737-1738 l'opera fu edita a Leida in due volumi in folio con il titolo Biblia naturae, sive historia insectorum per le cure di Herman Boerhaave e con la traduzione latina dell'originale olandese eseguita da Hieronymus David Gaub (Gaubius, 1705-1780). A quell'edizione seguirono in un breve lasso di tempo le traduzioni in lingua tedesca, inglese e francese.
Come dimostrano le sue indagini anatomofisiologiche sulla respirazione, la digestione, gli organi della generazione e la contrazione muscolare, Swammerdam fu uno sperimentatore abile e inventivo. Tuttavia il settore in cui eccelse fu la microdissezione degli insetti. Il suo concittadino, il matematico e borgomastro di Amsterdam, Jan Hudde (1628-1704), lo consigliò di osservare gli insetti dopo averli immersi in alcune gocce d'acqua contenute in minute vaschette di vetro collocate sopra uno sfondo di carta bianca, gialla, verde o blu. Nell'osservazione si servì quasi esclusivamente di microscopi semplici dotati di lenti di sua fabbricazione con un diametro di un millimetro circa. Dall'ottico leidense Samuel van Musschenbroek (1639-1681) si fece costruire un microscopio da dissezione con due bracci mobili, dei quali l'uno recava la lente e l'altro il portaoggetti. Per eseguire le dissezioni sotto la lente costruì aghi minuti e microforbici. Generalmente deponeva su sottili vetrini colorati le parti anatomiche escisse dall'insetto e, dopo averle fatte asciugare o essiccare, le incollava su un sughero in cui inseriva un lungo ago in modo da poterlo accostare alla lente per la disamina. Provvide anche a sviluppare tecniche per fissare e conservare il materiale di studio. Per comune testimonianza di illustri microscopisti a lui posteriori, la sua destrezza rimase insuperata.
Nell'Historia insectorum generalis, pubblicata nel 1669, Swammerdam contestò l'antica nozione di metamorfosi sostenendo che era erroneo pensare che gli insetti si trasformassero da una creatura in un'altra completamente diversa. Egli sostenne che, viceversa, la larva e la ninfa erano stadi di sviluppo in cui si potevano riconoscere i rudimenti dell'insetto adulto. Nella Biblia naturae, invece, prese in esame altre due convinzioni ormai acquisite: quella secondo cui gli insetti non avrebbero un'anatomia interna e quella della loro origine per generazione spontanea. Da questo derivò la meticolosa attenzione posta a identificare gli organi della riproduzione e della ovideposizione. Per esempio, dissezionando l'ape regina mise in evidenza come essa fosse dotata di due grandi ovaie costituite da tubicini pieni di uova in via di maturazione che poi passavano attraverso gli ovidotti. Delineò anche la spermatoteca, la cui funzione fu riconosciuta solo molto più tardi. Nel fuco individuò due testicoli appiattiti, i vasi deferenti, le vescicole seminali sfocianti in due grandi ghiandole, il dotto eiaculatorio e un complesso organo intromittente.
Le descrizioni di Swammerdam relative all'anatomia degli insetti modificarono profondamente la concezione corrente della loro natura. Nel caso particolare dell'ape dimostrò che l'individuo che fin dall'Antichità era considerato l'ape re, era in realtà una femmina. Inoltre, contrariamente alla maggioranza dei suoi contemporanei, si astenne intenzionalmente dall'uso di una terminologia politica per descriverne l'ordine sociale sostenendo che le api, per una legge naturale stabilita da Dio, erano intente esclusivamente alla propagazione e alla cura della prole e non vi era tra loro "nessuna elezione o forma di governo, né alcuna disciplina o ordine politico o economico" (Biblia naturae, sive historia insectorum, I, p. 393).
Antoni van Leeuwenhoek nacque, visse e morì a Delft (1632-1723). Proveniente da un'umile famiglia di artigiani, ricevette un'educazione elementare e fu presto inserito nel mondo del lavoro come commesso di negozio. Più tardi fu impiegato dalla municipalità e gestì un negozio di stoffe di sua proprietà. Lavorando con i tessuti, di cui era consuetudine valutare la qualità dell'ordito usando lenti di ingrandimento, si appassionò alla microscopia e iniziò a fabbricare per proprio uso un tipo di microscopio elementare ma potente. I risultati delle indagini che andava compiendo suscitarono l'interesse di alcuni studiosi olandesi tra cui Regnier de Graaf che, nel 1673, lo raccomandò alla Royal Society scrivendo che sebbene non fosse un letterato era eccezionalmente curioso e industrioso. Da quell'anno Leeuwenhoek iniziò a inviare, con straordinaria regolarità, relazioni delle proprie osservazioni alla società londinese che le andò traducendo e pubblicando nelle "Philosophical Transactions" fino alla sua morte.
Leeuwenhoek è stato spesso descritto come un osservatore coscienzioso e industrioso, un fedele espositore di quanto aveva visto e un artigiano dotato di tali capacità tecniche da fare emergere in tutta la sua complessa varietà il mondo microbiologico. Meno frequentemente si ricorda, tuttavia, come egli sia spesso tornato a occuparsi a distanza di anni di argomenti già affrontati per approfondirli, o a correggere con nuove serie di osservazioni, ma anche con speculazioni coraggiose, conclusioni precedentemente espresse. D'altra parte sebbene non avesse ricevuto una formazione accademica, negli oltre cinquant'anni in cui condusse le sue indagini non operò isolatamente, ma ebbe numerosi rapporti con studiosi che lo misero al corrente di teorie antiche e recenti proponendogli problemi su cui lavorare. Generoso nel riferire le proprie osservazioni, fu invece avaro nel far conoscere le notizie relative alla fabbricazione delle sue lenti e alle metodiche impiegate nell'attività microscopica.
L'operosità di Leeuwenhoek fu davvero straordinaria. Descrisse gli animalcula, ovvero gli spermatozoi, presenti nel fluido seminale di numerose specie animali stabilendo che non si trattava di parassiti, ma di elementi essenziali al processo riproduttivo. Osservò e descrisse per la prima volta numerosi microrganismi presenti nell'acqua piovana e in quella stagnante, nelle infusioni, nelle proprie feci e in quelle di anatre, rane e piccioni. Secondo Francis Joseph Cole (1937), egli esaminò più o meno 214 tipi animali tra cui protozoi, poriferi, celenterati, platelminti, nematelminti, echinodermi, rotiferi, molluschi, miriapodi, aracnidi, crostacei e numerosissime specie di insetti. Studiò diverse specie di pesci, anfibi, rettili, uccelli e mammiferi.
Nella propria patina dentaria osservata a fortissimo ingrandimento, individuò 'animalucci' che oggi vengono riconosciuti come batteri. Osservò e descrisse i movimenti delle ciglia della vorticella e nei sedimenti essiccati e poi bagnati delle grondaie scoprì i rotiferi con la loro caratteristica corona o apparato rotatorio. Descrisse il ciclo vitale della pulce fornendone l'anatomia interna. A più riprese si occupò del sangue. Nella coda del girino di rana, seguendo il corso dei globuli rossi, riuscì a osservare il passaggio del sangue dalle arterie alle vene, ma speculò anche sulla morfologia dei globuli rossi, che credeva fossero costituiti da un raggruppamento di globuli.
Leeuwenhoek si occupò anche della fine struttura di alcuni organi e tessuti. Descrisse le striature della fibra muscolare mettendole in relazione alla loro funzione e indagò a più riprese la struttura dell'epidermide studiandone le scaglie superficiali e l'esistenza o meno di fori sudoripari che prima negò e successivamente riscontrò. Riconobbe la natura filamentosa del nervo ottico, ma credette che la fibra nervosa fosse canicolata e facesse passare un fluido costituito da microsfere. Studiò in diversi animali la struttura della lente cristallina sezionandola variamente e mostrando come le singole lamelle di cui era composta fossero costituite da numerosi filamenti sovrapposti, ma ipotizzò erroneamente che essa fosse di natura muscolare.
Nel 1692 Robert Hooke affermò che, con la grande eccezione di Leeuwenhoek, nessuno oramai praticava la microscopia "se non per divertimento e passatempo". Sebbene tale giudizio appaia eccessivamente perentorio, è pur vero che a partire dall'ultimo decennio del XVII sec. si assiste a un declino della microscopia, sia per l'assenza di cultori della statura della generazione attiva tra il 1660 e il 1690, sia per gli attacchi concentrici di medici e filosofi che non ne riconoscevano l'utilità e, in alcuni casi, attribuivano alla pratica microscopica uno statuto fantastico-illusorio, relegandola tra le attività ricreative e inutili. Tuttavia, gli ideali enunciati da Hooke e da Malpighi non tramontarono e, pur con minore ottimismo, l'indagine delle microstrutture e dei micromondi dischiusi all'osservazione dei microscopisti del Seicento fu proseguita, nel secolo successivo, da numerosi e pazienti scrutatori della Natura.
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