La Rivoluzione scientifica: i domini della conoscenza. Il problema della generazione
Il problema della generazione
Il problema dell'origine e dello sviluppo della vita è stato oggetto fin dall'Antichità greca, e poi anche nel periodo medievale e rinascimentale, dell'attenzione di filosofi, medici e scienziati. In questo modo, con il passare dei secoli, si è andata delineando una controversia non meno impegnativa e scottante di quella sull'origine e sulla struttura dell'Universo. Nel periodo della Rivoluzione scientifica intorno a questo tema si trovarono a convergere e a scontrarsi teorie scientifiche, imperativi religiosi e sistemi filosofici muniti di temibili tradizioni storiche e di massicci apparati teorico-sperimentali. Su questo specifico terreno, ma con implicazioni culturali di vasta portata, si misurarono con alterna fortuna, tra Seicento e Settecento, naturalisti e filosofi, microscopisti e metafisici.
L'intreccio tra scienza e filosofia che alle origini della scienza moderna caratterizzò la controversia sulla generazione animale impone a storici ed epistemologi un'attenta considerazione della coeva riflessione filosofica, i cui veti costituirono non di rado seri intralci allo sviluppo della pratica sperimentale, ma le cui aperture teoriche furono spesso determinanti per liberare gli scienziati dai condizionamenti storici di tradizioni scientifiche obsolete. Furono i paradigmi generali di interpretazione del mondo e di organizzazione del discorso scientifico elaborati da scienziati come Galileo Galilei, da filosofi come René Descartes, Pierre Gassendi, Nicolas Malebranche e Gottfried Wilhelm Leibniz, o da filosofi-scienziati come Isaac Newton, che, dando senso alle scoperte anatomiche e fisiologiche, permisero ‒ anche se non sempre e necessariamente ‒ di comprendere i risultati di indagini sul campo che non di rado rispondevano a curiosità dilettantesche. In altri casi, come quelli dell'osservazione di 'cose mai viste prima' ‒ la cellula, gli spermatozoi e i Protozoi ‒ nemmeno lo sguardo penetrante delle filosofie riuscì a sondare la misteriosa profondità di aspetti della realtà che nessuna mente aveva osato fino a quel momento neanche immaginare. Ma nello stesso tempo furono le straordinarie scoperte microscopiche di Robert Hooke, Antoni van Leeuwenhoek, Marcello Malpighi, Abraham Trembley, John Turberville Needham e Lazzaro Spallanzani che, rivoluzionando le immagini tradizionali della Natura e definendo un nuovo modo di essere dell'uomo nel mondo, misero a dura prova i grandi sistemi metafisici e stimolarono prepotentemente la discussione intorno alla vita e alla sua organizzazione.
Intorno alla metà del XVII sec. quasi tutte le conoscenze anatomiche e fisiologiche relative alla generazione animale, agli organi genitali maschili e femminili, alla fecondazione e allo sviluppo embrionale risalivano ancora all'Antichità greca. Né si poteva dire che i punti sui quali c'era accordo fossero molti: anzi, quasi tutto era oggetto di dispute e accese battaglie tra medici e filosofi. Due paradigmi teorici dominavano il panorama delle scienze embriologiche all'inizio dell'Età moderna, dividendosi i consensi e dando luogo, pur nel contesto di un radicale antagonismo, a numerosi tentativi di mediazione e di sincretismo. Nel modello di Aristotele la formazione dell'embrione era il risultato dell'azione dello sperma, o meglio della sua parte dinamica e incorporea, sul sangue mestruale femminile. Lo sperma rappresentava il principio del movimento e della vita: esso infondeva l'anima nella materia inerte del sangue, alla quale era riservato unicamente il compito di nutrire l'embrione. Nel sistema di Galeno, invece, entrambi i sessi partecipavano attivamente alla generazione: l'embrione si formava attraverso la fusione del seme maschile e di quello femminile, che erano prodotti dai rispettivi testicoli. Fino alla scoperta delle uova dei vivipari, infatti, si continuò a pensare che, per analogia con il maschio, le ovaie delle femmine non fossero altro che 'testicoli' con la funzione di secernere un liquido simile allo sperma.
In realtà, oltre a quella aristotelica e a quella galenica esisteva, anche se in posizione del tutto minoritaria, una terza teoria risalente alla tradizione atomistica antica, che conobbe nel corso della prima metà del Seicento una significativa rinascita in tutta Europa, soprattutto per merito di Gassendi. L'atomismo si distingueva per una marcata insofferenza verso ogni specie di qualità e forza vitale, e per un'impostazione spiccatamente meccanicistica. Sul piano embriologico questa corrente, che risaliva a Democrito e al corpus degli scritti medici di Ippocrate, proponeva una diversa versione della teoria della 'doppia semenza' (la pangenesi), secondo la quale il fluido seminale proveniva da tutte le parti del corpo dei due genitori e solamente in seguito era convogliato nei testicoli per dare luogo, con la combinazione meccanica delle particelle omogenee, alla formazione simultanea dell'embrione.
Fu un medico inglese di dichiarate simpatie aristoteliche e vitalistiche, William Harvey (1578-1657), a riproporre in termini moderni e sperimentali, intorno alla metà del XVII sec., la vexata quaestio della generazione animale. Dopo essersi laureato in medicina a Padova con Girolamo Fabrici d'Acquapendente (1533 ca.-1619), Harvey era tornato in patria assumendo l'incarico di medico personale del re Carlo I Stuart. Nel 1628 aveva provocato un vero e proprio scandalo scientifico all'interno della comunità medica dimostrando, nella Exercitatio anatomica de motu cordis et sanguinis in animalibus, la realtà della circolazione sanguigna: un'idea che contraddiceva in toto il modello fisiologico galenico basato sulla distribuzione centrifuga e il consumo continuo del sangue prodotto dal fegato. Negli anni seguenti il medico inglese aveva affrontato direttamente il problema della generazione, pubblicando nel 1651 un trattato organico, intitolato Exercitationes de generatione animalium, che segnò un'altra data significativa nella storia delle scienze della vita del XVII secolo. Pur restando all'interno di una prospettiva teorica di tipo aristotelico, le Exercitationes rappresentavano infatti una svolta rispetto alla tradizione ‒ basti pensare che Harvey introdusse per la prima volta l'uso della lente d'ingrandimento nell'osservazione dello sviluppo embrionale ‒, i cui frutti avrebbero visto la luce nei decenni successivi.
Anche nell'ambito delle questioni embriologiche il metodo di ricerca harveiano si fondava su una solida base sperimentale. Riprendendo una tecnica che risaliva alla Historia animalium aristotelica, e perfezionando con il ricorso all'ingrandimento ottico precedenti ricerche di Ulisse Aldrovandi (1522-1605), di Volcher Coïter (1534-1600) e del proprio maestro Fabrici d'Acquapendente, Harvey aveva infatti impostato due serie parallele di osservazioni sullo sviluppo progressivo dell'embrione nell'utero dei mammiferi e nelle uova incubate di gallina. In questo modo aveva potuto riscontrare l'esistenza di una sostanziale uniformità nei processi riproduttivi di tutti gli esseri viventi. Questa legge universale della trasmissione della vita attraverso le generazioni, che fu salutata dagli scienziati del XVII e del XVIII sec. come un evento epocale e fece di Harvey il padre dell'ovismo, appariva mirabilmente sintetizzata dal motto ex ovo omnia che fregia il frontespizio del De generatione animalium. Tuttavia, nonostante le analogie esperite, Harvey aveva un'idea piuttosto confusa dell'uovo, che definiva come "qualunque principio" che avesse "vita in potenza". Fu proprio a causa di questa concezione che egli poté accettare, per esempio, la generazione spontanea dei vermi e delle galle delle piante dalla sostanza organica putrefatta, o soprattutto, negare la presenza delle ovaie nelle femmine vivipare, attribuendo la funzione di produrre le uova direttamente all'utero.
Un altro punto che, in merito all'ovismo, distingueva Harvey dagli autori che in seguito si sarebbero richiamati al suo sistema embriologico era la spiegazione della fecondazione. Non essendo riuscito a trovare traccia di sperma nell'utero di cerve anatomizzate subito dopo il coito, Harvey si vide costretto, dalla sua stessa impostazione metodologica empiristica, a negare che lo sperma maschile penetrasse dentro l'utero e svolgesse un'azione di tipo fisico. Attribuì perciò la funzione fecondatrice a uno spirito volatile emesso dallo sperma che, come una sorta di 'contagio', analogo a quello delle malattie o all'azione della calamita sul ferro, operava a distanza. La formazione dell'embrione avveniva, secondo Harvey, per un processo di epigenesi, cioè attraverso la progressiva organizzazione di una sostanza omogenea iniziale e l'aggiunta successiva di organi a partire dal sangue e dal cuore. Il De generatione animalium si configurava così come un caso piuttosto raro di ovismo epigenetico destinato ad avere scarsa fortuna dopo Harvey, perché la teoria ovista finirà nel corso del Seicento e del Settecento per identificarsi in modo indissolubile con il sistema preformista.
Anche un grande filosofo come Descartes, che ha segnato in modo decisivo la storia della modernità, si è interessato a più riprese, a partire dal 1629 fino al 1649, al problema della generazione animale. Per quanto non siano certo rari gli spunti di argomento fisiologico nel Discours de la méthode e nei Principia philosophiae, gli scritti embriologici cartesiani ci sono pervenuti solo attraverso raccolte postume, di data incerta e redazione non definitiva. Si allude, in particolare, al De la formation de l'animal, pubblicato postumo nel 1664 e scritto probabilmente nel 1647-1648, e a una raccolta di note risalenti a un periodo anteriore, pubblicate soltanto nel 1701 con il titolo di Primae cogitationes circa generationem animalium.
Fedele alla sua impostazione riduzionista e meccanicista, Descartes aveva tentato di spiegare anche la vita secondo la prospettiva di una scienza universale, cioè secondo un unico modello interpretativo dei fenomeni naturali che potesse essere applicato con lo stesso rigore tanto alla fisica e alla biologia, quanto alla storia del mondo e della vita. Pur essendosi dedicato a osservare lo sviluppo del pulcino e l'anatomia degli esseri viventi, infatti, Descartes non attribuiva all'esperimento e all'osservazione un valore assoluto, quanto piuttosto il valore di conferma dell'esattezza delle deduzioni tratte dai principî universali.
Per il filosofo del cogito l'origine della vita non sembrava costituire un problema rilevante: era sufficiente che il calore agisse sulla materia in putrefazione perché la vita cominciasse a pulsare da sola; la generazione degli animali superiori avveniva invece attraverso la mescolanza dei fluidi seminali del maschio e della femmina. La forza che organizzava la materia e dirigeva lo sviluppo embrionale non poteva essere, per Descartes, né l'anima corporea aristotelica, né l'anima spirituale cristiana, né gli altri incerti principî vitali cui avevano fatto ricorso in passato maghi e occultisti, bensì unicamente il calore che agiva attraverso la rarefazione e la fermentazione delle particelle, così come faceva il lievito del pane o il mosto del vino. La crescita del feto era dunque un processo puramente meccanico, che si snodava attraverso una successiva formazione e aggiunta di parti. La simmetria tra formazione del mondo e formazione dell'embrione sembrava perfetta. L'embriologia si configurava, nel modello cartesiano, come lo specchio della cosmologia: un unico, identico apparato di leggi e di meccanismi regolava tutti i fenomeni del mondo fisico e del mondo vivente.
Prima di essere dimostrata dall'anatomia, l'idea che anche gli animali vivipari si riproducessero attraverso uova, era, intorno alla metà del XVII sec., una convinzione abbastanza diffusa tra filosofi e scienziati; essa traeva la propria forza dal principio dell'uniformità delle leggi naturali e dell'analogia tra i meccanismi riproduttivi degli ovipari e dei vivipari. Un contributo decisivo a favore dell'ovismo fu apportato dal medico e naturalista aretino Francesco Redi (1626-1697), che divide con Harvey il merito di essere stato uno dei fondatori della moderna biologia sperimentale. Redi dimostrò infatti che anche gli insetti nascevano da uova e che la putrefazione della materia organica costituiva solo l'ambiente favorevole, e non la causa, della loro generazione. Le sue Esperienze intorno alla generazione degl'insetti (1668) diedero un colpo decisivo all'antica teoria della generazione spontanea, divenendo una pietra miliare nella storia della biologia e del metodo sperimentale: a partire dal 1668, e almeno fino alla metà del Settecento, il principio della continuità vitale, riassunto nel motto omne vivum e vivo, rimarrà il nuovo credo della biologia moderna.
La generazione spontanea degli insetti, dei molluschi, di piccoli vertebrati come rane e topi e perfino, in alcuni casi, dell'uomo, era stata accettata come un fatto indiscusso fino alla metà del Seicento. Proposta da Empedocle, Ippocrate e Aristotele, accettata da Democrito, era stata ripresa da Lucrezio e da Galeno, prima di essere trasmessa al Medioevo e al mondo moderno da Alberto Magno e Tommaso d'Aquino. Per la sua capacità di essere funzionale all'interno dei più diversi sistemi di pensiero, a tal punto da consentire il superamento della contrapposizione tra vitalismo e meccanicismo, la cosidetta generatio aequivoca poteva essere difesa con la stessa convinzione da aristotelici ortodossi come Athanasius Kircher (1602-1680) e Filippo Buonanni (1638-1725), da figure sfuggenti di novatores come Gerolamo Cardano (1501-1576) e Paracelso (1493-1541), da philosophi novi come Giordano Bruno (1548-1600), Francis Bacon (1561-1626), Descartes e Gassendi, e perfino da protagonisti della Rivoluzione scientifica come Harvey, Galileo Galilei e Robert Boyle.
Nella controversia sulla generazione spontanea si intrecciavano due aspetti del problema dell'origine della vita che solo nell'Ottocento vennero distinti e connotati con specifiche definizioni: l'abiogenesi e l'eterogenesi, cioè il problema dell'origine prima della vita dalla materia inorganica e quello della generazione di nuovi organismi viventi da sostanze organiche morte e putrefatte. Per Aristotele e per tutti i pensatori cristiani il problema dell'abiogenesi non poteva rientrare nell'ambito delle questioni scientifiche: nella filosofia aristotelica la vita era infatti eterna come il mondo, mentre nella visione cristiana essa era stata creata da Dio, direttamente all'atto della creazione o indirettamente, tramite forze naturali dotate fin dall'inizio di speciali poteri vitali. L'eterogenesi, per parte sua, era sentita come un fatto assolutamente normale e diffuso, esperibile da chiunque si trovasse a osservare sostanze organiche in putrefazione.
Redi ebbe il coraggio, davvero rivoluzionario, di mettere in discussione non tanto le teorie esplicative ma il fenomeno stesso della generazione spontanea e di affermare, almeno in linea generale, il principio dell'universalità della generazione parentale, cioè, come si diceva allora, della generazione ex semine o ex ovo. Soprattutto, egli pervenne a questa conclusione basandosi su un'innovazione metodologica destinata a fare epoca nella storia della cultura occidentale, perché per la prima volta il compito di dirimere controversie teoriche fu sottratto alle dispute filosofiche e demandato esclusivamente al procedimento delle esperienze "iterate e reiterate". Il medico e letterato aretino, infatti, giunse a confutare la generazione spontanea mediante un esperimento rivoluzionario che introduceva nella storia del metodo scientifico la procedura seriale e il confronto tra esperimenti di ricerca ed esperimenti di controllo. Si trattava di una prassi assolutamente inedita che, utilizzando nei diversi esperimenti gli stessi componenti e variando un unico parametro (il contatto con l'aria esterna), consentiva di valutarne in modo assolutamente conclusivo l'incidenza nella genesi del fenomeno. Redi riempì una serie di otto recipienti con vari tipi di carne, quindi ne lasciò quattro all'aria aperta, sigillando accuratamente gli altri quattro. Il risultato si dimostrò subito inequivocabile: solo i primi campioni, nei quali le mosche avevano potuto posarsi sulla carne e deporvi le uova, avevano dato origine a larve che poi si erano sviluppate in mosche identiche alle prime. La carne dei recipienti sigillati, invece, era diventata anch'essa putrida e si era decomposta, ma senza dar luogo a nessuna forma di vita.
Tuttavia, l'esperimento dei recipienti aperti o sigillati, pur nella sua semplice e straordinaria perfezione, non poteva essere considerato conclusivo, dal momento che non chiariva se la causa effettiva della nascita delle larve fossero davvero le mosche o qualcos'altro, penetrato con l'aria insieme alle mosche dentro i recipienti aperti. Qualcuno poteva infatti obiettare che la chiusura ermetica dei recipienti, impedendo l'afflusso d'aria, potesse aver alterato le normali condizioni che garantivano il ciclo vitale delle larve. Pertanto, allo scopo di ristabilire le medesime condizioni ambientali nell'esperimento di ricerca e nell'esperimento di controllo, Redi ideò una variante di assoluta genialità. Rifece l'esperimento utilizzando altre due serie identiche di recipienti, ma nei campioni di controllo adottò un accorgimento tecnico semplicissimo affinché l'accesso ai recipienti fosse consentito solamente ad aria pura e sprovvista di ogni elemento contaminante prodotto da insetti volanti: chiuse i recipienti con un filtro di sottilissimo velo. In questo modo l'aria poteva arrivare a contatto della carne, ma non le mosche che continuavano ad aggirarsi affannosamente intorno al recipiente. E questo fu davvero l'esperimento cruciale che, stabilendo in modo assolutamente certo che niente nasceva dalla corruzione di sostanze organiche, assurse a pietra miliare nella storia della biologia.
L'atto di nascita ufficiale della teoria ovista vera e propria può essere considerato il 1667, e fu sancito a Firenze, alla corte del granduca di Toscana. Il merito spetta a Niels Steensen, il celebre anatomista danese che, dopo aver italianizzato il proprio nome in Stenone ed essersi convertito al cattolicesimo, finì i propri giorni come vescovo di Santa Romana Chiesa. Fu in quell'anno, infatti, che Stenone, in appendice al suo Elementorum myologiae specimen, dette notizia dei risultati di una dissezione compiuta su un esemplare di pescecane femmina che i pescatori livornesi avevano donato al granduca Ferdinando II. In base a un'accurata indagine, egli stabilì che esisteva un'analogia tra i 'testicoli' femminili dei vivipari e le ovaie degli ovipari, e attribuì loro il compito della formazione delle uova (ma, in realtà, si trattava dei follicoli ovarici) che erano reperibili all'interno della struttura compatta dell'ovaia e, dopo la fecondazione, scivolavano nell'utero e davano vita all'embrione.
Nel decennio 1660-1670 molti naturalisti condussero ricerche, soprattutto in Italia e in Olanda, sull'anatomia dei genitali dei mammiferi, e le scoperte si susseguirono con ritmo serrato nell'arco di pochi anni. Alle stesse conclusioni di Stenone, ma per via autonoma, giunse nel 1668 anche l'olandese Johannes van Horne, il quale rivendicò ‒ con una breve nota intitolata Observationum suarum circa partes genitales in utroque sexu prodromus ‒ la priorità delle sue ricerche sull'apparato genitale femminile. Il contributo scientificamente decisivo per l'affermazione dell'ovismo fu tuttavia pubblicato nel 1672, con il titolo De mulierum organis generationi inservientibus: ne era autore un altro olandese, il naturalista Regnier de Graaf.
Attraverso ripetute dissezioni di coniglie, effettuate subito dopo l'accoppiamento, Graaf aveva osservato la trasformazione delle vescicole ovariche (in seguito denominate 'follicoli grafiani') in 'corpi lutei' (come saranno chiamati da Malpighi); ma soprattutto aveva scoperto una corrispondenza tra il numero dei feti presenti nell'utero e quello dei corpi lutei nel relativo 'testicolo', i quali, giunti a maturazione, erano scoppiati lasciando una piccola lacerazione sul tessuto ovarico. Non essendo riuscito a isolare sperimentalmente il distacco dell'uovo dall'ovaia, Graaf immaginò, facendo un calcolo del numero dei feti e dei follicoli, che dopo essersi sviluppati essi lasciassero cadere l'uovo nell'utero. In questo modo poté affermare che i 'testicoli' dei vivipari erano effettivamente ovaie e le vescichette-follicoli uova.
Le scoperte e le deduzioni di Stenone, Horne e Graaf si rivelarono un colpo mortale per la teoria galenica della 'doppia semenza' e aprirono un nuovo capitolo nella storia dell'embriologia moderna. Il presunto seme femminile appariva ormai solo un parto della fantasia e il suo ruolo nel processo riproduttivo veniva assunto, come aveva anticipato Harvey, dall'uovo. A partire dal 1672 la teoria ovista conquistò rapidamente il mondo scientifico, finendo per configurarsi, attraverso progressivi aggiustamenti e rettifiche, come la teoria ufficiale della comunità scientifica. Nello stesso arco di tempo si fece gradualmente strada l'idea che, al pari degli animali, anche le piante fossero provviste di uova, e che il polline assolvesse alla stessa funzione fecondatrice dello sperma. Misconosciuta da Malpighi, avanzata cautamente da John Ray (1627-1705) e Nehemiah Grew (1641-1712), la teoria del sessualismo vegetale fu affermata per la prima volta in modo esplicito da Rudolph Jacob Camerarius nella De sexu plantarum epistola (1694).
Nonostante il suo immediato successo, l'ovismo presentava non poche difficoltà, come si affrettarono a rilevare anatomisti e medici contrari alla nuova idea: prima fra tutte, l'individuazione sperimentale dello stesso fondamento della teoria, cioè le uova dei vivipari. Nonostante la versione di Graaf risultasse prevalente tra gli scienziati ovisti, non mancarono infatti coloro che riconobbero, soprattutto dopo l'Epistola ad Sponium (1684) di Malpighi, che i follicoli grafiani non erano affatto le vere uova, anche se ne costituivano certamente il luogo di maturazione e di espulsione. La 'caccia all'uovo' continuò ininterrotta per tutto il XVII e il XVIII sec., ma nessuno riuscì a isolare l'ovocita dei mammiferi, che per le sue dimensioni molto ridotte era destinato a sfuggire ancora per parecchi decenni ai microscopi dei naturalisti; l'impresa riuscirà, com'è noto, solo nel 1827 al biologo tedesco Karl Ernst von Baer. Infine, dopo tante ricerche e delusioni, sembrò prevalere l'orientamento assunto nel 1721 da Antonio Vallisnieri: l'uovo dei vivipari doveva necessariamente esistere nel corpo luteo, ma per le sue dimensioni ultramicroscopiche e la trasparenza della sua composizione risultava invisibile.
Graaf e gli altri ovisti non erano riusciti a spiegare in modo convincente nemmeno un altro problema rilevante: il meccanismo di espulsione delle uova dall'ovaia e il loro passaggio nell'utero attraverso le trombe di Falloppia o 'ovidotti', com'erano state ben presto rinominate. Infatti, non solo permaneva la difficoltà rappresentata dalla separazione fisica tra le trombe e le ovaie, sulla quale avevano insistito tanti anatomisti, ma riusciva impossibile pensare che le vescicole-follicoli, date le loro cospicue dimensioni, potessero passare attraverso lo stretto canale delle trombe. Graaf fu così obbligato a elaborare una complicata ipotesi ‒ che non riscosse però grande successo ‒, secondo la quale le uova fecondate in un primo momento rimpicciolivano di almeno dieci volte e poi, una volta passate attraverso le trombe, tornavano a svilupparsi dentro l'utero.
Un altro problema, non certo marginale, della teoria ovista era rappresentato dalla difficoltà di spiegare come, per effetto della fecondazione, le uova riuscissero a lacerare una parete spessa e resistente come quella dell'ovaia. Anche il destino delle uova non fecondate creava notevoli perplessità: se infatti si presumeva, secondo il canone preformista, che nell'uovo fosse presente un individuo adulto miniaturizzato, si rendeva necessario ammettere che alcuni esseri viventi, già perfetti sotto tutti gli aspetti, erano inspiegabilmente destinati a non svilupparsi. Graaf risolse il problema generalizzando a tutti i mammiferi le sue osservazioni sulle coniglie, nelle quali l'ovulazione non è periodica ma indotta dall'accoppiamento. In questo modo l'espulsione delle uova sarebbe avvenuta dopo la fecondazione, e non prima: si arrivava così a ritenere che in nessuna specie potevano esistere uova non fecondate.
Il problema del meccanismo di fecondazione dell'uovo attraverso lo sperma suscitò difficoltà ancora maggiori. Graaf aveva sostenuto che la fecondazione avveniva nell'ovaia, ed era anzi la forza fecondatrice dello sperma a provocare il distacco del follicolo-uovo dalla parete ovarica. Tuttavia, l'osservazione di Harvey riguardo al fatto che lo sperma non era rintracciabile dentro l'utero, e non poteva materialmente penetrarvi a causa della mancanza di qualsiasi orifizio, costrinse gli anatomisti a ricorrere a ipotesi più o meno improbabili. Secondo una di esse, soltanto la cosiddetta 'aura spermatica', in quanto parte volatile e 'spiritosa' dello sperma, raggiungeva l'ovaia e fecondava le uova. L'ipotesi non riscosse molti consensi nemmeno tra gli ovisti e fu confutata in modo definitivo nel 1780 da Spallanzani. L'altra ipotesi, formulata da Thomas Bartholin (1616-1680), pretendeva di individuare nel circuito sanguigno una possibile via per consentire al seme di risalire dall'utero alle ovaie e permettere la fecondazione in loco delle uova.
Comunque, nonostante le numerose difficoltà anatomiche sollevate, il sistema ovista continuò a raccogliere adesioni prestigiose nel mondo scientifico e filosofico sei-settecentesco. Un contributo non indifferente alla sua fortuna venne dato, ormai in pieno Settecento, dal naturalista svizzero Charles Bonnet con la dimostrazione della partenogenesi degli afidi delle piante. Riproducendosi virginalmente, senza dover ricorrere all'accoppiamento, questi piccoli parassiti sembravano infatti confermare in modo inequivocabile che l'embrione proveniva esclusivamente dalla madre.
Cinque anni dopo il reperimento da parte di Graaf delle mitiche ova viviparorum, un'altra eccezionale scoperta sconvolse tutte le idee acquisite sulla fisiologia della generazione. Fino alla seconda metà del XVII sec. le conoscenze relative all'origine, alla composizione e alla funzione dello sperma non avevano registrato progressi rispetto all'Antichità greca; quando poi lo sperma venne sottoposto ad analisi microscopica, tutto il quadro della riproduzione animale mutò radicalmente aspetto. La storia di questo capitolo cruciale della biologia moderna ebbe inizio nell'autunno del 1677 a Delft, in Olanda, quando Jan Ham, un giovane studente di Leida, si recò a far visita al grande miscroscopista Leeuwenhoek con un'ampolla di sperma umano, nel quale aveva scoperto casualmente alcune strane creature viventi. La sensazionale scoperta rimase sconosciuta per altri due anni al mondo scientifico internazionale. La lettera indirizzata da Leeuwenhoek a lord William Brouncker, segretario della Royal Society di Londra, nella quale erano riassunte le sue prime osservazioni, fu infatti pubblicata solo nel 1679, nel numero CXLII delle "Philosophical Transactions".
Fin dall'inizio, e poi sempre più chiaramente nel corso delle successive indagini su sperma di diverse specie animali, che lo tennero impegnato fino alla morte, Leeuwenhoek era riuscito a risolvere molti dei problemi relativi alla natura, alla morfologia e al ciclo vitale degli spermatozoi. Accostando l'occhio a una delle sue straordinarie 'perline' di vetro che ingrandivano gli oggetti trecento volte, egli aveva osservato che in una sola goccia di sperma formicolava un numero impressionante di 'animalculi' microscopici. Questi singolari esseri viventi erano dotati di un corpo rotondo e di una lunga coda sottile per mezzo della quale si muovevano con estrema agilità nella parte più fluida del liquido; le loro dimensioni apparivano solo di poco inferiori a quelle dei globuli rossi del sangue. Sul loro carattere di animali (cioè esseri dotati della stessa organizzazione vitale dei Metazoi) non parevano sussistere dubbi: avevano infatti un ciclo fisiologico ben definito, si muovevano in modo spontaneo e sembravano abbastanza simili ai Protozoi, che lo stesso Leeuwenhoek aveva scoperto appena tre anni prima nell'acqua piovana. Egli riuscì a stabilire il loro tempo di sopravvivenza al di fuori dell'organismo, constatò sperimentalmente la loro penetrazione dentro l'utero e la loro elevata capacità di sopravvivenza e di motilità all'interno dell'apparato genitale femminile, e verificò l'effetto spermicida di determinate sostanze come l'acqua e l'orina. Infine appurò facilmente che il luogo d'origine degli 'animalculi' era nei testicoli e li mise immediatamente in relazione con le funzioni riproduttive.
L'animalculismo non fu affatto, come si potrebbe pensare, una conseguenza immediata e naturale della scoperta degli 'animalculi spermatici', ma si andò faticosamente elaborando e correggendo attraverso le osservazioni di Leeuwenhoek, le discussioni con altri sostenitori dello stesso sistema e le polemiche con gli avversari che patrocinavano la causa dell'ovismo. Intorno agli anni 1683-1685, comunque, la teoria animalculista aveva raggiunto una sua precisa formulazione e poteva vantare alcuni significativi riscontri sperimentali. Essa si può riassumere così: gli animalculi si sviluppano nei testicoli e contengono, preformato, l'embrione dell'individuo adulto; attraverso il coito essi vengono introdotti nell'utero, ma solo uno ha la possibilità di annidarsi nella parete uterina e ricevere il nutrimento indispensabile per la crescita del feto. Leeuwenhoek era giunto a questa conclusione per un saldo pregiudizio anti ovista; egli non accettò mai, infatti, l'idea dell'esistenza di uova nei vivipari e sottopose a una critica spietata il sistema elaborato dal connazionale Graaf. Non solo rifiutò di credere che i 'testicoli' femminili fossero ovaie e i follicoli uova, ma mise ripetutamente in dubbio la possibilità di un loro passaggio attraverso le trombe fino all'utero. Infine, egli dichiarava di non essere mai riuscito a rinvenire nell'utero di vari animali le mitiche uova, mentre aveva sempre visto un gran brulicare di animalculi perfino dentro le trombe. Sulla base di questi argomenti Leeuwenhoek distinse il meccanismo della fecondazione negli animali ovipari e nei vivipari: se da un lato egli riteneva che nei primi la fecondazione avvenisse mediante la fusione di uovo e animalculo, dall'altro era convinto che nei secondi ciò non fosse possibile, nonostante le molteplici analogie, e che l'animalculo s'impiantasse direttamente nella parete uterina.
Anche nel caso delle uova di gallina, dove pure le dimensioni dei reperti agevolavano la ricerca, Leeuwenhoek non era riuscito a osservare direttamente al microscopio la penetrazione dell'animalculo. Per questa ragione l'aspetto centrale della teoria animalculista rimase, ancora per molto tempo, un'ipotesi piuttosto incerta. Soltanto nel 1824, infatti, Jean-Louis Prévost e Jean-Baptiste-André Dumas riuscirono a dimostrare sperimentalmente la necessità dell'intervento degli spermatozoi nella generazione, mentre la loro penetrazione nell'ovulo sarà osservata nel 1875 da Oscar Hertwig. In questo modo, lo scopritore degli animalculi spermatici e il maggiore artefice della teoria animalculista si venne a trovare pressoché isolato anche tra coloro che avevano accolto le sue idee. Tra gli animalculisti finì per prevalere la teoria dell'ovovermismo elaborata dall'inglese George Garden, dall'olandese Nicolaas Hartsoeker e dal francese Nicolas Andry. Hartsoeker tentò anche di contendere a Leeuwenhoek il merito della scoperta degli spermatozoi. Secondo la variante ovovermista, l'embrione era sì preformato nell'animalculo, ma anche nei vivipari esso si incontrava con l'uovo femminile, all'interno del quale trovava le sostanze che gli erano necessarie per svilupparsi. Tuttavia, anche questa soluzione, che cercava di superare le difficoltà sollevate dai due sistemi e di offrire una ragione plausibile al problema della somiglianza dei figli a entrambi i genitori, non ebbe molta fortuna.
L'animalculismo produceva una rottura stridente con i paradigmi teorici ed embriologici più diffusi nel XVII e nel XVIII secolo. L'ovismo aveva incontrato un rapido successo perché consentiva di conciliare senza eccessive difficoltà i dati dell'esperienza con un quadro teorico funzionale alle esigenze della scienza seicentesca. L'idea invece che l'uomo provenisse da un 'verme' microscopico vagante nel suo sperma, per di più molto difficile da osservare con i microscopi dell'epoca, pareva un'assurdità alla grande maggioranza degli scienziati. Perfino uno sperimentalista convinto come Redi trovava inverosimile che "la gran faccenda dell'umana generazione" fosse "architettata da' vermi" di cui sarebbe stato "pieno il seme umano". In questo caso gli pareva proprio che i microscopi, che pure avevano scoperto molte "belle cose", avessero "fatto travedere" gli scienziati (Redi a Lanzoni, 7 ottobre 1694, in Opere, II, p. 246).
A parte la osservabilità degli spermatozoi, c'erano molti altri dubbi e incertezze che gravavano sulla credibilità scientifica dell'animalculismo. In primo luogo, appariva difficile spiegare come mai gli animalculi fossero pressappoco uguali nelle varie specie, nonostante gli adulti avessero dimensioni sensibilmente diverse, mentre invece tra gli ovipari esisteva una certa proporzionalità tra le dimensioni dell'uovo e dell'animale. Inoltre, il loro numero doveva essere almeno proporzionale a quello dei feti di una determinata specie, mentre appariva pressappoco uguale sia nelle specie che partorivano un solo feto alla volta, sia in quelle che ne partorivano molti.
Il problema cruciale era però rappresentato dalla natura stessa degli animalculi e dal meccanismo della loro trasformazione in feti. Ammesso che gli spermatozoi fossero 'animalculi', com'era possibile spiegare la loro origine e, attraverso questa, la generazione dell'uomo? Gli animalculi spermatici non erano infatti uomini, erano una specie particolare di 'vermi', eppure avrebbero dovuto essere portatori dell'embrione dell'uomo e degli altri animali. La soluzione pareva, oggettivamente, impossibile. Anche riconoscendo che gli animalculi spermatici provenissero dai testicoli dell'individuo adulto, rimaneva da spiegare come, sviluppandosi, diventassero feti. Leeuwenhoek non si rendeva conto di osservare, in realtà, semplici cellule viventi, e che ogni tentativo di assimilare gli spermatozoi ad 'animalculi', cioè ai Metazoi, portava necessariamente la scienza in un vicolo cieco. Il microscopista olandese tentò di superare la difficoltà paragonando lo sviluppo di questi singolari organismi viventi alla metamorfosi degli insetti e alla trasformazione dei girini in rane, ma non riuscì a conseguire apprezzabili consensi. L'impasse derivante dalla trasposizione del problema della generazione su una specie distinta di microrganismi, per i quali rimaneva problematico spiegare a loro volta la generazione, appariva insormontabile.
Ancor più gravi erano le difficoltà poste dall'animalculismo alla teologia. Di fronte all'impossibilità di spiegare la metamorfosi dell'animalculo in feto, aveva finito per prevalere, anche all'interno di questo sistema embriologico, la soluzione della preesistenza dei germi. Questo significava che l'uomo non era generato per effetto delle trasformazioni di un verme, ma preesisteva fin dalla creazione divina, già formato in tutti i suoi organi, all'interno dell'embrione-animalculo. In questa prospettiva non mancò neppure qualche fantasioso naturalista, come il francese François de Plantade (1670-1741), il quale sostenne di aver visto chiaramente al microscopio la figura di un 'omuncolo' liberarsi dagli involucri membranosi dello spermatozoo. Tuttavia, anche questo sistema incontrava insuperabili difficoltà, perché non riusciva a dare una spiegazione plausibile alla realtà di un enorme spreco di animalculi, cioè di potenziali individui adulti già perfetti, per assicurare la continuità della specie. L'argomento avanzato da Leeuwenhoek dell'analogia con i semi delle piante era troppo debole di fronte a interrogativi che sembravano mettere in dubbio la saggezza di Dio e l'ordine della Natura. In questo modo, sotto il peso di molteplici obiezioni scientifiche e teologiche, all'inizio del Settecento l'animalculismo venne praticamente eliminato dalla scienza ufficiale e considerato nulla più di una fantasia o di un 'romanzo filosofico'.
Questa situazione si ripercosse negativamente sulle ricerche relative alla morfologia degli spermatozoi, che non a caso registrarono dopo Leeuwenhoek una sensibile caduta di interesse; un fenomeno che non sembrerebbe motivato da alcuna valida ragione di carattere scientifico, tecnico e morale. Interessarsi agli animalculi spermatici voleva dire muoversi all'interno dell'animalculismo e operare una precisa scelta di campo sul problema della generazione animale. E l'animalculismo era storicamente una teoria perdente. Per questo gli studi sulla morfologia degli spermatozoi non rivestivano agli occhi della maggioranza degli scienziati un vero interesse scientifico, ma apparivano tutt'al più curiosità da lasciare ai dilettanti. Non saranno pochi, del resto, coloro che anche in pieno Settecento continueranno a negarne l'esistenza. La teoria che finì per prevalere, soprattutto per opera di Vallisnieri e Spallanzani, attribuiva agli spermatozoi una mera funzione parassitaria che eliminava ogni rapporto tra la loro presenza nello sperma e un qualsiasi ruolo nel processo riproduttivo.
In merito al problema specifico di come spiegare lo sviluppo embrionale, i due grandi modelli che, a partire dalla metà del Seicento e fino alla fine del Settecento, si contesero i favori di scienziati, filosofi e teologi erano da un lato l'epigenesi, dall'altro il sistema del preformismo e della preesistenza dei germi. Fino alla metà del Seicento l'embriologia epigenetica, che risaliva alla tradizione di Aristotele e di Galeno ed era stata autorevolmente ripresa da Harvey, non aveva incontrato pressoché alcuna opposizione. L'epigenesi spiegava il fenomeno della generazione attraverso una successione di neoformazioni organiche derivanti da una materia indifferenziata (cioè le sostanze seminali fornite dai due sessi) in virtù dell'azione di determinati principî vitali di carattere naturale. L'altra prospettiva epigenetica seicentesca, quella meccanicistica elaborata da Descartes, rifiutava ogni forza vitale e attribuiva esclusivamente alle leggi universali del moto il compito di controllare lo sviluppo del feto.
Il sistema preformistico risaliva, invece, al Corpus Ippocraticum e alle idee dei filosofi presocratici. A differenza dell'epigenesi, esso spiegava il problema della formazione di un organismo nel tempo, supponendo che esso esistesse già delineato, prima di rendersi visibile, sotto forma di rudimento o, come si sarebbe detto nel corso del XVII sec., di 'germe'. Il suo sviluppo, innescato dalla fecondazione, era solo un accrescimento quantitativo e una progressiva comparsa di organi. L'embriogenesi si presentava cioè ‒ secondo Bonnet che introdusse un altro termine destinato ad assumere un significato del tutto diverso ‒ come un processo di 'evoluzione'. Indipendentemente però dalla localizzazione del germe nell'uovo o nell'animalculo spermatico, restava pur sempre da spiegarne l'origine. Per rispondere a questa esigenza nacque la teoria della preesistenza dei germi, secondo la quale l'embrione non veniva prodotto nel corso del tempo dai genitori ma era stato creato fin dall'origine del mondo direttamente da Dio, insieme ai germi di tutti gli esseri viventi che avevano popolato e avrebbero popolato la Terra fino alla fine dei tempi. All'interno di questo nuovo orizzonte concettuale, il termine 'generazione' appariva improprio: esso non designava in realtà una nuova produzione di vita nel tempo, ma solo l'inizio dello sviluppo embrionale. In questo modo la preesistenza dei germi estendeva il valore scientifico del preformismo (anche se in alcuni casi preformismo e preesistenza si troveranno in contrasto), e risolveva all'interno di un sistema metafisico organico tutti i problemi inerenti all'origine, allo sviluppo e alla trasmissione della vita.
Il preformismo era stato riproposto nel Seicento dal medico italiano Giuseppe degli Aromatari con una breve Epistola de generatione plantarum ex seminibus (1625). L'atto di nascita ufficiale del sistema della preesistenza dei germi viene invece comunemente individuato nella pubblicazione dell'edizione olandese della Historia insectorum generalis (1669) del celebre naturalista Jan Swammerdam. La teoria sembrò ricevere una verifica sperimentale qualche anno dopo nel trattato De formatione pulli in ovo (1673) di Malpighi, mentre la sua consacrazione come sistema teologico fu operata dal filosofo francese Nicolas Malebranche, che la divulgò anche presso il grande pubblico con l'opera De la recherche de la vérité (1674).
Benché Malpighi non andasse al di là di una presa di posizione preformistica e lasciasse imprecisato il problema dell'origine del germe, la sua scoperta venne spesso citata durante il XVIII sec. come la prova decisiva della verità della preesistenza dei germi. L'anatomista bolognese riferì di avere osservato in uova fecondate di gallina che non erano state ancora incubate la presenza dell'embrione già formato nei suoi organi fondamentali. Quando poi era passato, al contrario, all'osservazione di uova vergini, non aveva individuato nessuna struttura organizzata e, in mancanza di un responso sperimentale altrettanto esplicito, si era astenuto dall'avanzare qualsiasi interpretazione dei fatti. In questo modo all'autorità di Malpighi poterono rifarsi nei decenni successivi sia i preformisti, per sostenere che l'embrione era già formato nell'uovo vergine anche se non risultava visibile, sia gli epigenisti, per affermare che, proprio in quanto invisibile, non poteva che essere prodotto in seguito alla fecondazione.
A partire dalle osservazioni di Malpighi, la teoria della preesistenza dei germi di fatto si confuse con l'ovismo, anche se non mancarono, come si è visto, tentativi di utilizzarla all'interno dell'animalculismo. La spiegazione tecnica che, nel contesto della teoria preformista, ebbe maggiore fortuna, relativamente al problema della trasmissione della vita, fu la teoria dell'incapsulamento dei germi (emboitement des germes in francese, 'sistema degl'inviluppi' in italiano). Secondo questa soluzione i germi di tutti gli individui sarebbero esistiti fin dalla creazione, miniaturizzati e incastrati uno dentro l'altro. In questo modo tutte le potenzialità di ciascuna specie si trovavano racchiuse dentro il primo prototipo plasmato direttamente da Dio. Ciò permetteva di evitare il ricorso a continue creazioni parziali da parte di Dio e sembrava, tra l'altro, accordarsi con i recenti studi matematici sul calcolo infinitesimale e con l'idea della divisibilità della materia all'infinito. Per quanto riguardava la specie umana, questa concezione implicava non solo che l'embrione preesistesse dentro l'uovo femminile, ma che preesistessero, già delineati nelle ovaie di Eva, anche gli embrioni di tutti gli individui che erano esistiti fino all'epoca attuale e che sarebbero esistiti fino alla fine del mondo. La vita si trasmetteva, in sostanza, esclusivamente per via materna, nel senso che gli ovuli maschili (quelli, cioè, destinati a svilupparsi in un individuo adulto maschio) contenevano preformato soltanto quell'individuo, mentre gli ovuli femminili ospitavano, all'interno delle ovaie dell'individuo adulto che doveva ancora svilupparsi, gli embrioni di tutte le generazioni successive, e così via fino all'esaurimento di tutta la vita possibile. Esisteva per la verità anche un'altra variante rispetto all'incapsulamento dei germi, la teoria della 'panspermia', secondo la quale i semi della vita si trovavano disseminati per tutta la Natura e penetravano negli organi genitali attraverso il cibo; essa però riscosse minor credito, soprattutto perché si conciliava difficilmente con l'ovismo e sembrava plausibile solo all'interno dell'animalculismo.
Secondo i preformisti lo sperma maschile non apportava nessun principio organizzativo al processo della riproduzione, ma partecipava soltanto con una funzione di stimolo allo sviluppo dell'embrione annidato nell'uovo. La preformazione implicava che il sistema cardiocircolatorio embrionale fosse completo e perfettamente funzionante, sia pure in modo estremamente ridotto, fin dalla creazione. Lo sperma agiva sul meccanismo vitale del germe determinando una rapida accelerazione della funzione circolatoria, che permetteva l'assunzione di sostanze nutritizie e innescava lo sviluppo. La fecondazione si riduceva quindi a una specie di 'carica' che consentiva alla 'macchinetta' vitale già preformata, ma ancora inattiva, di iniziare il suo sviluppo visibile. Questa impostazione embriologica non solo permetteva di spiegare come in alcuni casi (partenogenesi naturale, rigenerazioni animali) lo sviluppo embrionale fosse provocato senza l'intervento dello sperma, ma lasciava libero spazio a tutte le possibili esperienze di ibridazione tra specie anche molto diverse tra loro, e addirittura di partenogenesi artificiale attraverso l'utilizzazione di sostanze fisiche e chimiche sostitutive dello sperma.
Il punto debole dell'epigenesi era sempre stato il problema della regolarità del processo di organizzazione e di differenziazione organica degli esseri viventi. Negando ogni preesistenza germinativa a favore di una neoformazione di organi per aggiunta di particelle, l'epigenesi doveva infatti presupporre l'intervento di una forza o legge regolativa ‒ che però appariva quanto mai problematico definire nella sua natura e modalità di azione ‒ per evitare di affidare l'organizzazione della vita alla semplice regola del caso. In compenso essa appariva sufficientemente capace di rendere conto della partecipazione paritaria dei due sessi alla formazione della vita, della doppia somiglianza dei figli, della comparsa di feti mostruosi, della rigenerazione degli organi amputati e degli incroci tra specie diverse.
La teoria della preesistenza dei germi, dal canto suo, aveva risolto in anticipo il problema della vita spostandolo dal piano naturale a quello divino, dalla scienza alla metafisica. Per i preformisti non ci poteva essere spiegazione 'naturale' della generazione, perché in Natura non esisteva produzione ma solamente sviluppo di vita. La vita era infatti un miracolo operato direttamente da Dio all'atto della creazione del mondo. Di fronte al mistero della riproduzione di un nuovo essere vivente la Natura appariva impotente e la scienza non poteva che fare appello a Dio. Questa soluzione consentiva di superare la difficoltà rappresentata dalla spiegazione della regolarità dell'embriogenesi, ma, oltre ad arrendersi di fronte a fenomeni come quello dei mostri e della somiglianza dei figli ai rispettivi padri, finiva per consegnare la ricerca scientifica nelle mani della filosofia e della teologia.
Dopo secoli di discussioni e polemiche, lo scontro tra epigenesi e preesistenza finì per arenarsi, alla fine del Settecento, nelle secche di un dibattito libresco, senza che la ricerca sul campo apparisse in grado di spostare decisamente in avanti il livello delle conoscenze raggiunto alla metà del XVII secolo. L'esperienza e il microscopio sembravano favorire la soluzione epigenista di una progressiva formazione dell'organizzazione vivente. Ma il principio di un'organizzazione preliminare all'inizio del processo di differenziamento embrionale restava un'esigenza talmente imperativa da indurre i preformisti a difenderla a tutti i costi, anche facendo appello all'escamotage dell'invisibilità del germe preformato. Solo la rivoluzione concettuale della teoria cellulare avrebbe permesso di superare l'antagonismo tra epigenesi e preesistenza, grazie all'eliminazione dell'impasse costituita dall'impossibilità, per gli scienziati del Seicento e del Settecento, di concepire l'organizzazione vivente prescindendo dalla struttura visibile dell'organismo adulto.
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