La Rivoluzione scientifica: i domini della conoscenza. Meccanica e scienza del moto
Meccanica e scienza del moto
Scrivere a proposito della meccanica e della scienza matematica del moto nell'età della Rivoluzione scientifica pone allo storico considerevoli problemi. Nel periodo che va dalla fine del Cinquecento fino al primo Settecento, la meccanica subì una metamorfosi talmente eccezionale che, se a uno studioso degli inizi di quel periodo ‒ diciamo pure uno dei maggiori esperti del campo ‒ come Guidobaldo Dal Monte (1545-1607), fosse stato possibile mostrare un lavoro scritto cento anni dopo (da Johann I Bernoulli, poniamo, o da Pierre Varignon), costui avrebbe incontrato enormi difficoltà nell'afferrarne i contenuti e soprattutto nel comprenderlo a fondo. In quell'arco di tempo, non soltanto la meccanica aumentò di complessità, in seguito all'introduzione di teoremi nuovi e più generali, ma estese il proprio dominio ad aree fino ad allora considerate al di là della portata della descrizione matematica.
Intorno al 1600, il concetto di moto, nell'accezione aristotelica di moto locale, si collocava nella migliore delle ipotesi ai margini della meccanica, mentre agli inizi del Settecento ne era ormai divenuto l'argomento centrale. Oltre a questioni come lo studio del moto di un punto materiale, nell'ipotesi in cui la resistenza del mezzo possa essere trascurata, divennero parte integrante della meccanica molti altri campi del sapere. Essi comprendevano sia materie tradizionalmente appartenenti ad altre discipline ‒ come l'astronomia, l'armonica o musica e l'ottica, note come matematiche miste ‒ sia nuovi settori di ricerca. Gli artigiani del Medioevo e del Rinascimento avevano realizzato talvolta veri e propri modelli che riproducevano in scala il movimento dei pianeti. Con il dissolversi delle sfere solide celesti, la meccanica si inserì nell'ambito astronomico in un modo nuovo, ossia attraverso l'analogia fra il moto dei corpi celesti e quello dei proiettili. Similmente, lo studio delle vibrazioni, che prima faceva parte dell'armonica, e i modelli di propagazione della luce, naturalmente associati all'ottica, furono legati alla meccanica. Anche i nuovi settori di ricerca, quali la scienza della resistenza dei materiali, il moto dell'acqua e più in generale dei fluidi, il moto dei corpi in un mezzo resistente e il moto dei corpi rigidi, divennero parte essenziale della meccanica. Gli scienziati della fine del Cinquecento e quelli del primo Settecento avrebbero, dunque, dato della meccanica definizioni piuttosto diverse e lo storico è obbligato a tener conto del mutato punto di vista.
Nel corso del secolo di cui ci occuperemo, inoltre, la considerazione di cui godevano le scienze meccaniche andò incontro a un mutamento radicale. Inizialmente, la meccanica, che fosse pratica oppure teorica o razionale, non era tenuta in gran conto nell'ambiente universitario e in società. I trattati di meccanica si aprivano spesso con una rivendicazione della dignità e utilità della materia, quasi che l'autore sentisse il bisogno di scusarsi per essersi immischiato con la 'vile arte meccanica'. Alla fine del Settecento, tuttavia, la meccanica era ormai assurta ad archetipo del potere della mente umana e il suo prestigio intellettuale si era straordinariamente accresciuto.
Questi notevoli sviluppi interessano molte questioni teoriche e pratiche. Sia la meccanica sia la scienza del moto, quest'ultima in quanto legata alla meccanica, erano discipline matematiche. La stessa matematica subì in questo periodo profonde trasformazioni, come la nascita dell'algebra moderna e l'invenzione della geometria analitica, la scoperta di nuove curve ‒ fra cui la cicloide ‒, la scoperta delle serie infinite, il calcolo e la teoria delle equazioni differenziali. Non è possibile parlare del moto e della meccanica senza far riferimento agli strumenti matematici usati, e spesso appositamente creati, per formulare tali discipline. La rappresentazione concettuale dei problemi come, per esempio, quelli legati ai centri di gravità, o al comportamento dei corpi nei primissimi istanti del moto, o alla definizione della velocità istantanea, si sviluppò parallelamente al concetto di infinitesimo, allo spinoso argomento della composizione del continuo, alle quadrature, all'integrazione. Il moto e la meccanica riflettevano, al tempo stesso plasmandolo, l'orizzonte matematico dell'epoca in cui erano concepiti e non sorprende il fatto che la definizione di strumenti matematici più potenti rese possibile lo sviluppo della meccanica e la sua estensione a nuovi settori. In molti casi, comunque, la meccanica si sviluppò utilizzando la matematica tradizionale, cioè quella degli antichi Greci. Questo fatto richiede di approfondire la riflessione anche su altri temi.
Uno di essi riguarda i metodi pratici e concettuali per fornire una spiegazione plausibile dei fenomeni naturali. Ciò significa affrontare da un lato un problema filosofico, ossia individuare per quali fenomeni, e in che misura, sia possibile concepire una descrizione matematica e, dall'altro, una questione pratica, e cioè come fare per ottenere simili descrizioni. Per esempio, una cosa è stabilire a priori, secondo una tradizione all'epoca spesso ricondotta a Platone, che la Natura è geometrica, tutt'altra cosa è produrre una valida descrizione quantitativa del moto di una palla di cannone o del flusso dell'acqua in un fiume. Un argomento spesso oggetto di dibattito fra i protagonisti della storia della scienza è il rapporto fra rigore matematico e rigore fisico. Da nessuna descrizione del mondo fisico ci si può aspettare una precisione assoluta, ma ci si interroga su quale sia il livello di precisione accettabile. Nel caso del moto di un proiettile, per esempio, ci si potrebbe chiedere se sia corretto assumere che la gravità agisca lungo linee fra loro parallele e in che modo si debba tener conto dell'influenza dell'aria.
Un tema legato a queste ultime considerazioni è il ruolo dell'esperienza e degli esperimenti. Le dispute sull'argomento erano patrimonio comune agli studiosi della scuola galileiana, ma, in una forma o nell'altra, furono affrontate dalla maggior parte di coloro che si dedicavano alla pratica della meccanica. Senza dubbio esisteva una relazione fra la meccanica razionale e la meccanica pratica, e l''esperienza' serviva non soltanto come verifica delle previsioni teoriche e dei calcoli, ma anche come fonte d'ispirazione per altre più astratte speculazioni. In assenza di regole precise riguardo alla trattazione degli errori sperimentali e mancando in questo campo persino un punto di vista comunemente accettato, poteva accadere, e di fatto avveniva, che gli stessi dati sperimentali fossero interpretati da alcuni come conferma di una teoria e da altri come smentita. Nel Seicento si assiste a una profonda trasformazione nel modo di ideare, realizzare e descrivere gli esperimenti nei lavori scientifici a stampa. Leggendo un testo a stampa dell'epoca, lo storico incontra quindi enormi difficoltà a stabilire come, e addirittura se, un dato esperimento sia stato effettivamente portato a termine.
Abbiamo menzionato in diverse occasioni coloro che praticavano la meccanica e la scienza del moto. Perlopiù, si trattava di professori universitari di matematica, uomini di corte e aristocratici, membri di ordini religiosi (molti di essi appartenevano a più di una categoria). Galilei e Newton cominciarono la carriera come professori di matematica all'università, ma in seguito occuparono rispettivamente i ruoli di matematico e filosofo di corte e di direttore della zecca inglese. Benedetto Castelli fu professore di matematica, a Pisa e a Roma, monaco benedettino, e dipendente del papa, che lo chiamò a occuparsi della gestione delle acque dello Stato Pontificio. Evangelista Torricelli era matematico alla corte del granduca di Toscana. Giovanni Alfonso Borelli fu professore di matematica a Pisa e membro dell'Accademia del Cimento alla corte di Toscana, mentre Guidobaldo Dal Monte e Christiaan Huygens erano facoltosi aristocratici che vivevano di mezzi propri, ma il secondo divenne anche un membro stipendiato della Académie des Sciences. Descartes era sufficientemente agiato da potersi dedicare alla ricerca della conoscenza e finì come filosofo di corte presso la regina Cristina di Svezia. Nonostante provenissero da ambienti professionali diversi, questi studiosi riuscivano a interagire fra di loro e a scambiarsi opinioni e punti di vista.
Per di più, molti di essi facevano affidamento su collaboratori, tecnici e fabbricanti di strumenti dai nomi meno noti, di rado menzionati nei lavori scientifici. Dal Monte, Robert Hooke e Huygens, per esempio, si avvalevano della collaborazione di fabbricanti di orologi e di strumenti di precisione. In alcuni casi, i tecnici e gli ingegneri giocarono un ruolo importante nello sviluppo dei concetti della meccanica, come suggerisce Galilei nell'apertura dei Discorsi, in cui tesse le lodi dell'Arsenale di Venezia come sede privilegiata di speculazioni filosofiche, ed elogia il sapere dei tecnici che vi lavorano. Galilei e Castelli collaborarono anche con ingegneri idraulici per i loro lavori sul controllo delle acque.
È importante domandarsi quali fossero i luoghi in cui la meccanica era studiata e messa in pratica. Lo spazio più naturale era il gabinetto degli studiosi, i quali, tuttavia, non si affidavano solamente alla carta e all'inchiostro, ma si servivano spesso di strumenti e modelli, costruiti allo scopo di sperimentarne il funzionamento. Il pendolo, le sfere rotanti e il piano inclinato di Galilei, i rubinetti e i canali di Castelli, le corde vibranti di Marin Mersenne (1588-1648), le fontane di Torricelli, le navi in moto di Pierre Gassendi (1592-1655), le ganasce cicloidali di Huygens per i suoi orologi, le molle di Hooke, le sfere di lana, di vetro, di sughero e di acciaio che Newton usava negli esperimenti sugli urti, sono soltanto alcuni notevoli esempi che testimoniano quanto le loro ricerche fossero effettivamente radicate nel mondo materiale che li circondava. Nelle università, la meccanica entrò a far parte nel XVI sec. dei corsi impartiti nelle 'letture' di matematica, con la pubblicazione delle Quaestiones mechanicae di Aristotele e con l'introduzione di nozioni di topografia e di fortificazione. Tutte queste discipline, il cui interesse ‒ nell'età della polvere da sparo ‒ stava diventando sempre più cruciale ai fini dell'arte militare, furono affrontate da Galilei nelle sue lezioni all'Università di Padova. Probabilmente, i congegni ideati per il diletto delle corti furono meno diffusi e importanti nel Seicento che nel Cinquecento. Le corti erano coinvolte in ricerche di meccanica pratica, connesse alle fortificazioni, all'arte della guerra e alla gestione delle acque: in conclusione, si potevano incontrare gli esperti di meccanica, sia teorica sia pratica, intorno a un bastione, all'arsenale, o alla confluenza di due fiumi.
Il XVII sec. vide l'affermarsi delle prime riviste scientifiche, come le "Philosophical Transactions" a Londra, il "Journal des Sçavans" a Parigi e ad Amsterdam e gli "Acta Eruditorum" a Lipsia, sebbene tali pubblicazioni fossero concepite secondo un modello notevolmente diverso da quello familiare al lettore moderno. Talvolta, studiosi eccezionalmente profondi, come Isaac Beeckman nei Paesi Bassi, esercitarono un'enorme influenza sull'ambiente scientifico, per lo più attraverso contatti personali e comunicazioni verbali, soprattutto con Descartes, Mersenne e Gassendi. La forma di comunicazione più comune fu, probabilmente quella epistolare, che aveva uno status intermedio fra la comunicazione privata e la relazione pubblicata. Le lettere indirizzate a Mersenne, per esempio, appartenevano decisamente alla seconda categoria. Anche i libri dell'epoca andrebbero considerati tenendo conto del singolare contesto in cui erano pubblicati, diffusi e letti. Chiedersi, per esempio, quali fossero nell'intenzione dell'autore, e quali in realtà furono, i lettori del Mechanicorum liber di Dal Monte, o dei Discorsi di Galilei, o dello Horologium oscillatorium di Huygens, è importante per valutare la posizione intellettuale e sociale della meccanica e della scienza del moto, a metà strada fra la filosofia naturale e le arti pratiche.
Nel 1580 il marchese Guidobaldo Dal Monte, futuro protettore e corrispondente di Galilei, fu in contatto epistolare con Giacomo Contarini e, indirettamente, con il conte Giulio Savorgnan. Dal Monte, un matematico del Ducato di Urbino innamorato della cultura greca, aveva pubblicato nel 1577 il Mechanicorum liber, un classico dell'epoca nel campo della meccanica, in cui aveva cercato di ridurre tutte le macchine semplici al principio della leva, secondo un ordine assiomatico. Contarini era un aristocratico veneto, un militare addetto alle fortificazioni della Repubblica veneta, nonché un collezionista di arte, di libri di storia e di strumenti matematici. Anche Savorgnan era un militare interessato all'arte della fortificazione; era inoltre il committente della traduzione italiana del trattato di Dal Monte, Le mechaniche (1581), a lui dedicato. L'esistenza di una traduzione italiana, supervisionata dall'autore stesso, è indicativa di quanto questo trattato fosse considerato importante, non soltanto per i matematici, ma anche per gli uomini che si occupavano di arti pratiche.
Argomento della corrispondenza tra Dal Monte e Contarini erano le carrucole, considerate però in un modo piuttosto diverso da quello moderno; l'analisi del loro carteggio può essere utile a caratterizzare l'orizzonte della scienza meccanica dell'epoca. Contarini e Savorgnan portarono a termine 'esperienze' basate sulle conclusioni di Dal Monte e trovarono risultati diversi da quelli riportati nel Mechanicorum liber. Per esempio, la teoria prevedeva che fosse possibile controbilanciare il peso di un dato corpo sospendendo a un sistema di carrucole un peso pari a un sesto di quello dato: Contarini e Savorgnan trovarono sperimentalmente che il rapporto corretto fra i due pesi era invece di uno a quattro. Nonostante cercassero di trovare una conferma sperimentale alle previsioni di Dal Monte, i due studiosi non utilizzavano strumenti di precisione, ma corde e carrucole ordinarie, come si ricava dalla corrispondenza. La replica di Dal Monte evidenzia molti aspetti importanti; sorprendentemente, egli non stabilisce una distinzione fra teoria e pratica, ma fra differenti tipi di pratica.
Le carrucole dovevano essere piccole, meglio se realizzate in ottone, e i loro assi dovevano essere di acciaio e molto sottili, per evitare lo sfarfallamento. Istituendo un paragone con le bilance, Dal Monte spiega che le carrucole dovevano essere simili alle 'bilancette', usate per pesare le monete, piuttosto che alle grandi bilance di legno utilizzate per la carne. Dunque, a patto di servirsi della strumentazione opportuna, la teoria sarebbe stata in accordo con l'esperienza, perché ‒ ed è un punto cruciale ‒ la questione in esame era un problema di equilibrio, e non di moto. Egli afferma inoltre di aver eseguito personalmente tutte le 'esperienze' e di aver trovato che esse concordavano invariabilmente con la teoria.
Questa corrispondenza mostra fino a che punto la meccanica fosse una scienza delle macchine, attinente sia alla teoria e alla matematica, sia alla pratica. Piuttosto che scegliere una chiave di lettura basata sulla semplice dicotomia teoria-pratica, risulta più utile adottare una suddivisione a tre livelli, che tenga conto della teoria matematica, degli strumenti e utensili dell'esperienza quotidiana e infine degli strumenti di precisione, concepiti per ridurre al minimo le imperfezioni della materia. Dal Monte poteva avvalersi della collaborazione di Simone Barocci, fabbricante di strumenti matematici, e fratello di Federico, famoso pittore. Barocci, già allievo di Federico Commandino (1509-1575), uno dei restauratores della matematica rinascimentale, era specializzato nella produzione di compassi, squadre e strumenti per il disegno, astrolabi e altri congegni, spesso realizzati su specifica indicazione di Dal Monte. Tuttavia, anche nell'ottica di questo schema a tre livelli, per Dal Monte esisteva comunque una differenza cruciale fra problemi di moto e problemi di statica: per quanto ci si affidasse agli strumenti di precisione, infatti, l'accordo fra teoria ed 'esperienza' veniva meno a causa delle imperfezioni della materia, che impedivano di considerare il moto matematicamente. In una lettera a Galilei, Dal Monte fece notare che il matematico era dispensato dall'obbligo di studiare il problema ogniqualvolta fosse entrata in gioco la materia, per via delle perturbazioni a essa collegate; perturbazioni che, comunque, costituivano un ostacolo più grave nel caso del moto che nel caso della statica.
Altre sorprendenti questioni emergono, nel Mechanicorum liber, dalla discussione sull'equilibrio della leva. L'autore sosteneva giustamente che, allontanando dalla posizione di equilibrio una bilancia con i bracci della stessa lunghezza e recanti alle estremità due pesi uguali, essa ritorna all'equilibrio solo nel caso in cui il centro di sospensione si trovi al di sopra del centro di equilibrio; nel caso contrario, la bilancia si sposterà verso la parte più bassa; infine, qualora i due centri coincidano, essa rimarrà stabile in ogni posizione in cui verrà portata. Nel dimostrare tale affermazione, Dal Monte si addentra in infiniti dettagli per oltre cinquanta pagine e critica gli studiosi precedenti, come Giordano Nemorario, Gerolamo Cardano e Niccolò Tartaglia, secondo cui la bilancia ritornava in ogni caso nella posizione di equilibrio. Il loro ragionamento si basava sulla misura dell''angolo di contatto', ossia l'angolo fra una circonferenza e la sua tangente. Essi ritenevano che questo angolo fosse minore di ogni dato angolo. Dal Monte li contraddisse, osservando che le linee lungo le quali i pesi della bilancia si dispongono non sono parallele, come affermato da Tartaglia, ma convergenti verso il centro S della Terra; ipotesi sostenuta con un ragionamento per assurdo. Nel Diversarum speculationum liber (1585), il veneziano Giovanni Battista Benedetti, matematico di corte a Parma e poi a Torino, avanzò le stesse critiche nei confronti di Tartaglia e Nemorario. È degno di nota il fatto che tutti i protagonisti del dibattito avessero scelto di trattare un problema fisico riguardante il comportamento di una bilancia reale, prendendo in considerazione angoli così piccoli. Inoltre, come nel caso già menzionato delle carrucole, Dal Monte afferma di essere riuscito a farsi costruire una bilancia per dimostrare la sua tesi. Molte fonti (Bertoloni Meli 1992) testimoniano l'esistenza di tali strumenti, forse opera di Simone Barocci, che servivano a verificare le condizioni di equilibrio indifferente delle bilance. Sembra che tanto Dal Monte, quanto la sua cerchia di amici e corrispondenti, attribuissero una grande importanza agli strumenti di precisione: la meccanica era per costoro una scienza matematica che doveva funzionare nel mondo reale. I casi appena discussi mettono in risalto il profondo divario esistente fra la moderna concezione di sperimentazione quantitativa e l'idea cinquecentesca di 'esperienza'. Ciò che colpisce è l'assenza di una qualunque nozione di errore sperimentale, come pure della consapevolezza che fosse in realtà impossibile ottenere il grado di conferma alle previsioni teoriche, immaginato da Dal Monte, da Benedetti e dai loro contemporanei. L'approccio che essi adottavano non lasciava molto spazio all'approssimazione, alle imperfezioni e al caso. Da questo punto di vista, non stupisce che il moto non fosse, secondo Dal Monte, un settore di indagine adatto alla costruzione di una scienza matematica: l'assoluta precisione alla quale, nel campo della statica, Dal Monte e altri aspiravano, non poteva essere raggiunta nel caso dei fenomeni di moto, che rimasero perciò ai margini del lavoro di ricerca ufficiale.
L'ultima macchina semplice di cui tratteremo è il piano inclinato. Pappo di Alessandria e gli studiosi medievali ne fornirono due diverse soluzioni. Non sorprende che Dal Monte, nel Mechanicorum liber, facesse riferimento a quella di Pappo, avendola a portata di mano sotto forma di manoscritto; Tartaglia, viceversa, seguì e perfezionò la soluzione proposta da Giordano Nemorario. Un rapido esame dei rispettivi approcci mette in luce importanti caratteristiche della meccanica teorica dell'epoca. Dal Monte stava cercando di ricondurre al principio della leva tutte le macchine semplici ed era anche desideroso di promuovere un nuovo modo di 'fare matematica' e di 'fare meccanica', in cui si riservasse la dovuta attenzione tanto alle dimostrazioni, quanto ai risultati. Il suo studio del piano inclinato è spesso definito inattendibile, in quanto condurrebbe a conclusioni scorrette; tuttavia, un'analisi approfondita mostra che Dal Monte considerò il caso particolare di una sfera su un piano inclinato, deducendo rigorose conclusioni dalle ipotesi di partenza. Seguendo Pappo (fig. 4), Dal Monte afferma che per spostare un peso A su di un piano orizzontale è necessaria una certa forza C: si richiede di determinare la forza che occorre a una sfera di peso A per risalire lungo un piano inclinato MK. L'idea è quella di considerare una bilancia EG, parallela all'orizzonte, il cui fulcro F si trovi sulla perpendicolare condotta dal punto L di contatto fra la sfera e il piano inclinato, basando tutto il ragionamento sull'ipotesi che la sfera rotoli senza slittare. La forza D necessaria a mantenere la sfera in equilibrio tende all'infinito man mano che il piano inclinato tende verso il piano verticale. Per risalire il piano, alla sfera occorre una forza pari alla somma di C e di D, e cioè la forza necessaria per spostare la sfera lungo la direzione orizzontale, più la forza che la mantiene in equilibrio controbilanciandone il peso. Si noti che in un simile quadro descrittivo il moto interviene piuttosto nominalmente. Dal Monte preferì questa soluzione a quella corretta ‒ formulata da Giordano Nemorario e adottata da Tartaglia con qualche perfezionamento nella dimostrazione ‒ secondo la quale due pesi, posti su piani di inclinazione diversa, ma di uguale altezza, hanno la stessa virtus di discesa se sono proporzionali alle lunghezze dei rispettivi piani.
Fu un matematico e ingegnere a proporre la soluzione più originale e famosa del secolo alla questione del piano inclinato: nel 1586, l'olandese Simon Stevin sostenne che una catena avvolta intorno a un piano inclinato rimane in equilibrio. Dato che la porzione inferiore poteva essere eliminata grazie a considerazioni di simmetria, le due porzioni in alto dovevano essere anch'esse in equilibrio, quindi i pesi dovevano essere proporzionali alla lunghezza del piano inclinato, come sosteneva Tartaglia. Questa conclusione può essere estesa al caso in cui uno dei piani sia verticale.
Un ostacolo fondamentale all'affermarsi di una scienza matematica del moto è che il moto dipende generalmente da così tante perturbazioni e circostanze casuali che difficilmente si riesce a concepirlo come materia di una scienza esatta. Una disciplina matematica richiede una regolarità che nei fenomeni del moto, di cui facciamo esperienza quotidianamente, semplicemente non si trova, eccezion fatta, forse, per i moti celesti descritti dagli astronomi. Anch'essi, tuttavia, erano ricorsi ad altre scienze per dare un senso alle loro osservazioni; per esempio, poiché la posizione delle stelle in prossimità dell'orizzonte si discosta dal valore previsto dalla teoria, era necessario correggerla con l'aiuto della teoria della rifrazione atmosferica, cioè con l'ottica. Simili tecniche di separazione del fenomeno principale da quello secondario, o perturbativo, e poi l'uso di un certo numero di discipline matematiche, costituiscono la base dei tentativi che, a partire dalla fine del XVI sec., portarono alla formulazione di una scienza matematica del moto.
Grande influenza ebbe da questo punto di vista il lavoro di Tartaglia, a cui si devono diversi tentativi di trattazione del moto in qualche forma matematica, per esempio studiando la traiettoria delle palle di cannone mediante una peculiare combinazione di fisica aristotelica, geometria ed esperienza militare. Nel Cinquecento, lo schema concettuale all'interno del quale si svolgevano le dispute sul moto era la dicotomia aristotelica, costituita dai due concetti di 'naturale' e di 'violento'. Il moto naturale era proprio dei corpi che si muovevano verso il basso, se pesanti, oppure verso l'alto, se leggeri; viceversa, il moto violento era, per esempio, quello dei proiettili. Tartaglia scompose il moto della palla di cannone nelle sue componenti naturali o violente e, pur arrivando ad affermare correttamente che la gittata massima si otteneva per un angolo di elevazione di 45°, fu tutt'altro che rigoroso nelle dimostrazioni. La sua figura di matematico è cruciale anche per altre ragioni. A Tartaglia si deve la prima pubblicazione di un'opera di Archimede, i Galleggianti. Nel 1543, utilizzando un manoscritto contenente la traduzione medievale di Guglielmo di Moerbeke, pubblicò il testo latino del primo libro; nel 1551, poi, ne pubblicò una traduzione italiana commentata che accompagnava un suo trattato sul recupero delle navi affondate. Egli fu inoltre maestro di Benedetti e probabilmente di Ostilio Ricci, matematico del granduca di Firenze, che ebbe fra i suoi allievi Galilei. Le pubblicazioni di Tartaglia in campo idrostatico spinsero Benedetti (e, probabilmente, anche il giovane Galilei) a tentare di usare l'idrostatica di Archimede per formulare una scienza matematica del moto che si opponesse alla concezione aristotelica in cui la velocità dei corpi in caduta libera era proporzionale ai loro pesi. Aristotele sosteneva che la resistenza del mezzo andava scritta al denominatore e che nel vuoto il moto era impossibile, perché la velocità sarebbe diventata infinita. Al contrario, Benedetti e Galilei, seguendo l'opinione di vari commentatori, affermarono che non bisognava dividere per la resistenza del mezzo, ma piuttosto sottrarre tale quantità, e che la velocità nel vuoto non era impossibile. In una serie di speculazioni che culminarono con il Diversarum speculationum liber (1585), Benedetti affermò che corpi di forma uguale, ma di diversa sostanza, che cadono in un mezzo hanno una velocità che dipende dalla differenza fra i rispettivi pesi specifici e dal peso specifico del fluido in cui sono immersi. Inizialmente, sostenne anche che corpi della stessa sostanza e forma, ma di diversa grandezza, cadono in un mezzo con uguali velocità. Tuttavia, in seguito, perfezionò la sua analisi stabilendo che il mezzo oppone una resistenza proporzionale alla superficie offerta dal corpo alla direzione del moto. Trovò inoltre che la velocità dei corpi in caduta libera cresce indefinitamente. Non è certo che Galilei, quando compose verso il 1590 i De motu antiquiora (un manoscritto destinato a rimanere inedito) conoscesse i lavori di Benedetti, anche se essi sono discussi in un testo pubblicato nel 1597 da Jacopo Mazzoni, suo amico ed ex collega a Pisa.
Anche Galilei, comunque, si rifece ad Archimede e affermò che per un corpo la velocità di caduta in un fluido dipende dalla differenza fra i pesi specifici del corpo e del mezzo. Nello sforzo d'individuare in natura comportamenti regolari, Galilei considerò la velocità come la caratteristica fondamentale dei fenomeni di caduta libera e assunse l'accelerazione come una perturbazione transitoria. Forse Galilei trovava questo approccio più plausibile di quanto potremmo pensare, perché il mezzo da lui preferito per lo studio della caduta dei gravi era probabilmente l'acqua. Tuttavia, fece anche alcuni esperimenti di caduta libera nell'aria, lasciando cadere sfere di piombo e di legno dall'alto di un edificio, con ogni probabilità la torre pendente di Pisa, come da lui esplicitamente dichiarato nei De motu antiquiora. Non è sorprendente il fatto che Galilei, un matematico, si cimentasse con la sperimentazione. Come si è visto sopra, i matematici del Cinquecento, da Tartaglia e Benedetti a Dal Monte e Ricci non erano tipicamente ‒ o per lo meno non erano semplicemente ‒ dei teorici, ma uomini impegnati in ricerche pratiche, che andavano dall'ingegneria militare alla sperimentazione delle macchine semplici: era questa la tradizione cui Galilei apparteneva. Allo stesso tempo, bisogna fare attenzione a non confondere lo sperimentalismo moderno con la cultura e la tradizione dei matematici del XVI sec., che non disponevano di criteri comuni e codificati per la trattazione di complessi dati sperimentali. Dunque, se è difficile dubitare della circostanza che Galilei, al pari di molti suoi contemporanei, abbia effettivamente fatto diversi esperimenti, più difficile è accertare l'esatto ruolo e significato di tale attività sperimentale.
Nei De motu antiquiora, Galilei è prigioniero di una sorta di labirinto concettuale e terminologico, a metà fra aristotelismo e nuova scienza; per esempio, usa ancora il termine aristotelico levitas, intesa come leggerezza assoluta di un corpo, nonostante considerasse, seguendo l'impostazione di Archimede, che tutti i corpi fossero pesanti, e la levitas fosse solo la conseguenza di un peso specifico minore di quello del mezzo. È probabile che contraddizioni e problemi di questo tipo, uniti alla mancanza di conferme sperimentali, abbiano convinto Galilei a lasciare inedita la sua opera. Le analogie con il lavoro di Benedetti, comunque, testimoniano il ruolo cruciale svolto dalla tradizione ispirata ad Archimede nella nascita di una scienza matematica del moto nell'Europa occidentale. Nelle opere dell'epoca, i disegni sono chiaramente modellati sull'esempio di quelli dei Galleggianti di Archimede, come dimostra l'attenzione con cui sono disegnate le linee di caduta dei corpi, non parallele fra loro, ma dirette verso il centro dell'Universo.
All'inizio del secondo decennio del Seicento, Galilei fu coinvolto in una disputa sul galleggiamento dei corpi. Non è sorprendente che egli conservasse gli appunti relativi a tale dibattito insieme ai De motu antiquiora, dato che persino nei Discorsi del 1638 Galilei riteneva ancora che le perturbazioni del moto dei corpi in caduta fossero dovute a effetti idrostatici. Non appare dunque inappropriato discutere qui un aspetto del suo lavoro sull'idrostatica. Ancora una volta, Galilei si trovava a dover affrontare la distinzione fra le caratteristiche principali del fenomeno, vale a dire il comportamento di un corpo in acqua, dipendente dalle rispettive densità, e ciò che egli riteneva essere le perturbazioni, o gli eventi casuali, ossia il particolare comportamento di lamine d'oro o di altri materiali pesanti adagiati sulla superficie dell'acqua. I corpi di questo tipo galleggiano, nonostante siano più pesanti in specie o più densi. Gli aristotelici credevano che fosse la forma dei corpi la caratteristica determinante per il loro comportamento in acqua; Galilei, al contrario, cercò di elaborare una spiegazione fondata sui principî idrostatici archimedei. Dato che all'epoca la tensione superficiale non era ben nota, la questione non era così semplice come Galilei avrebbe desiderato.
Nel 1592, Galilei abbandonò la cattedra di matematica a Pisa, che aveva occupato per tre anni, e si trasferì a Padova, dove insegnò matematica fino al suo ritorno a Firenze, avvenuto nel 1610. Doveva entrambi gli incarichi all'interessamento di Dal Monte. Nel corso di quei diciott'anni, dedicò un impegno notevole allo studio della meccanica e alla formulazione di una scienza del moto, come testimoniano le lettere e i manoscritti privati. Nei primi anni di insegnamento a Padova, portò a termine Le meccaniche, pubblicato per la prima volta da Mersenne in Francia (Les mechaniques, 1634). Questo trattato, che Galilei utilizzò nelle sue lezioni universitarie, conteneva una trattazione sulle macchine semplici, come il piano inclinato, e sulla forza della percossa, per esempio la forza di un martello che colpisce un chiodo.
Nel lavoro sul piano inclinato (che riprende e precisa un capitolo dei De motu antiquiora), Galilei muove una duplice critica alla soluzione di Pappo; una volta eliminati gli ostacoli casuali ‒ che al teorico non devono interessare ‒ non è necessaria alcuna forza sensibile per spostare un peso lungo un piano orizzontale, cioè parallelo all'orizzonte. Galilei, a differenza di Dal Monte, mostra un atteggiamento positivo nei confronti della rimozione degli impedimenti, dovuti alla materia in un caso di moto e parla di superfici lisce come uno specchio o un lago ghiacciato, e di sfere rigide, ben levigate, fatte per esempio di marmo o di vetro. Egli fornisce una formulazione di quello che fu poi detto principio protoinerziale, diverso da ciò che chiamiamo principio di inerzia, perché, sebbene Galilei accetti che ‒ se non si tiene conto degli impedimenti della materia ‒ un corpo persiste nel suo stato di moto, tuttavia sottintende che questo moto sia in effetti circolare, invece che rettilineo. L'altra critica riguardava il modo particolare in cui Pappo aveva impostato il problema.
Il piano inclinato era cruciale per due aspetti, fra loro legati, del programma di ricerca galileiano. In primo luogo, sebbene i dettagli e il significato dei suoi esperimenti non siano chiari, non c'è dubbio che Galilei abbia fatto esperimenti sulla caduta dei gravi e sulle traiettorie paraboliche. Il piano inclinato gli permetteva di rallentare la velocità di caduta dei corpi e studiare così la relazione fra tempo di caduta e spazio percorso. Inoltre, a partire dai De motu antiquiora, il piano inclinato fornì a Galilei uno strumento concettuale per collegare i suoi studi di meccanica con le ricerche sul moto. Per esempio, come vedremo, Galilei in una lettera del 1602 indirizzata a Dal Monte, sottolineò che una delle sue dimostrazioni, riguardante l'uguaglianza dei tempi impiegati dai corpi a cadere lungo le corde inscritte in un cerchio, era basata su principî meccanici; è poi logico ritenere che anche il ragionamento scorretto da lui sviluppato nella lettera a Paolo Sarpi del 1604 fosse indotto da un'analogia con il piano inclinato. Da questo punto di vista, l'uso galileiano del termine 'momento', inteso a volte come il prodotto del peso per la distanza e altre volte come il prodotto del peso per la velocità, è indicativo del suo tentativo di trattare il moto per mezzo di strumenti concettuali derivati dalla statica.
Le ricerche galileiane sulla scienza del moto videro la pubblicazione soltanto nel 1638. Tuttavia fu a Padova che lo scienziato mosse passi veramente decisivi in questa direzione. Secondo le leggi 'galileiane' della caduta dei gravi, nel vuoto tutti i corpi cadono con accelerazione g costante, lo spazio percorso è s=1/2 gt2 e la velocità è v=gt, dove t indica il tempo. Scrivere i risultati di Galilei in questa forma, però, nasconde i metodi da lui adottati e le difficoltà incontrate. Galilei non usò equazioni algebriche in questa forma, ma piuttosto proporzioni fra grandezze omogenee che richiedevano procedimenti diversi e comportavano specifici problemi di formulazione.
Gli storici hanno discusso per capire quale fosse il fattore determinante nei successi di Galilei. Secondo alcuni, la matematica e l'attitudine galileiana al ragionamento analitico giocarono un ruolo cruciale, secondo altri andrebbe attribuito un valore decisivo agli esperimenti, altri ancora hanno persino sottolineato il legame con i suoi predecessori medievali a Parigi, Oxford e altrove. La terminologia ha spesso svolto in questi dibattiti una parte importante, come per esempio riguardo all'uso e al significato preciso del termine medievale impetus. Senza volere sminuire la portata di tali contributi, va ricordato che la combinazione, nello studio del moto, di leggi matematiche e di un'accurata sperimentazione con risultati come la scoperta delle traiettorie paraboliche, sono frutti autenticamente originali del primo periodo moderno.
Malgrado i suoi proclami sull'impossibilità di una trattazione matematica del mondo materiale, anche Dal Monte si cimentò con la sperimentazione sul moto e sulle traiettorie dei proiettili. Insieme a Galilei ‒ probabilmente fra il 1590 e il 1600 ‒ portò a termine diversi esperimenti con balestre e fucili. Facendo rotolare su un piano inclinato una sfera intinta nell'inchiostro, si convinse che la curva descritta era simmetrica e simile a una parabola o a un'iperbole e aggiunse che in ogni punto della traiettoria il moto era sempre composto da un moto violento e da uno naturale. Inoltre, paragonò la traiettoria della sfera alla curva secondo cui si dispone una catena, sospesa alle estremità per mezzo di due chiodi piantati nel muro, simile a una sezione conica, ma non esattamente uguale. Dal punto di vista di Dal Monte, comunque, queste speculazioni e sperimentazioni non costituivano una scienza; all'epoca rimasero inedite e furono rese note per la prima volta nel XIX sec. da Guglielmo Libri, nella versione originale delle memorie di Dal Monte.
I frammenti manoscritti di Galilei sono difficili da datare e talvolta anche da interpretare e il testo dei Discorsi è strutturato in un modo rigoroso che non permette di ricostruire il percorso intellettuale dell'autore. In questo caso, come strumento attendibile di analisi storiografica, non restano che le corrispondenze epistolari, in particolare, la lettera a Dal Monte del 29 novembre 1602 (EN, X) e quella indirizzata a Sarpi del 16 ottobre 1604 (ibidem). Scrivendo al primo, Galilei annuncia di avere scoperto, sulla base di una 'esperienza', l'isocronismo delle oscillazioni del pendolo e prosegue spiegando al suo scettico corrispondente come dovessero essere svolti gli esperimenti con il pendolo. Galilei annuncia poi un'ulteriore scoperta: il tempo impiegato da un grave a cadere verticalmente lungo il diametro di una circonferenza è uguale a quello impiegato a cadere lungo le corde CA, DA, EA, FA (fig. 6). Qui Galilei sembra aver implicitamente abbandonato l'idea che la velocità di caduta sia costante, sebbene non sia chiaro quale fosse secondo lui la legge di accelerazione seguita dai corpi.
Nella lettera a Sarpi, egli affronta proprio questo argomento, sostenendo che lo spazio percorso da un grave è proporzionale al quadrato del tempo e che la velocità aumenta in ragione dello spazio attraversato. La seconda affermazione è ingannevolmente intuitiva, ma sbagliata, dato che la velocità cresce in proporzione al tempo e non allo spazio. Come testimoniano alcuni frammenti manoscritti, databili intorno allo stesso periodo, tale deduzione non deve essere considerata un lapsus calami, ma una tappa di un percorso di ricerca che tenne occupato Galilei per qualche tempo. È ragionevole pensare che l'analogia fra la caduta dei gravi lungo la verticale e lungo un piano inclinato (fig. 7) lo avesse indotto ad assumere come fattore chiave lo spazio attraversato. Egli riuscì a dimostrare che la velocità di caduta era la stessa per uguali valori della distanza verticale dal punto di caduta A, sia che l'oggetto cadesse lungo la verticale AB, oppure lungo un piano inclinato AC. Questa considerazione trae in inganno, suggerendo l'errata proporzionalità fra velocità e distanza.
Prima di lasciare Padova, comunque, Galilei si liberò di queste false convinzioni e arrivò a formulare correttamente la legge della caduta dei gravi. Altri importanti documenti risalgono al 1609. Il primo è una risposta del matematico romano Luca Valerio a una lettera perduta di Galilei che conteneva due principî riguardanti la caduta dei corpi. Valerio sembra fare una certa confusione con il primo dei due principî, ma, in base a una ricostruzione ragionevole, Galilei probabilmente gli aveva scritto che dati due piani inclinati di uguale altezza, lunghi l'uno il doppio dell'altro, con inclinazioni diverse rispetto all'orizzontale, in ogni istante l'impetus acquistato è inversamente proporzionale alla lunghezza del piano. Il secondo principio stabilisce invece che un corpo in moto lungo un piano inclinato acquista un impetus uguale a quello che avrebbe acquistato cadendo verticalmente dall'altezza massima del piano inclinato. L'altro documento è una lettera in cui Galilei riferisce ad Antonio de' Medici una sua recente scoperta: se un pezzo di artiglieria spara in direzione orizzontale da una posizione elevata, il tempo impiegato dal proiettile a toccare terra è lo stesso, sia nel caso di caduta perpendicolare sia nel caso in cui la gittata sia grande. Implicitamente, questa affermazione stabilisce l'indipendenza fra le componenti verticali e orizzontali del moto. In un manoscritto di argomento simile, Galilei disegna le traiettorie paraboliche e mette a confronto il valore sperimentale della posizione in cui la palla tocca terra, con il relativo valore teorico, ovvero con la posizione in cui la palla 'dovrebbe' atterrare. Galilei, a tale proposito, sottolinea questa differenza scrivendo: "doverìa". Tuttavia, non è semplice risalire alla data del manoscritto, né all'esatto significato che Galilei attribuiva a tali considerazioni.
Con l'ausilio del telescopio, Galilei studiò la composizione della Via Lattea e osservò le fasi di Venere. Altre osservazioni gli rivelarono l'esistenza di quattro satelliti gioviani ‒ da lui battezzati "astri medicei" ‒ e delle macchie solari. In seguito a queste spettacolari scoperte, fu chiamato a Firenze presso la corte dei Medici e nel 1610 lasciò la cattedra di matematica a Padova per ricoprire l'incarico di matematico e filosofo del granduca di Toscana.
È opportuno a questo punto riflettere sulle possibili connessioni fra le condizioni sociali e il livello culturale dei matematici. Nel XVI sec., gran parte del lavoro dei matematici universitari riguardava l'insegnamento dell'astronomia elementare agli studenti di medicina ‒ che se ne servivano per l'astrologia medica, un importante settore della loro formazione e professione ‒ e l'insegnamento della geometria euclidea. In genere, i professori di matematica erano pagati notevolmente meno di quelli di filosofia e medicina e in certi casi, soprattutto in Germania, i matematici consideravano la loro posizione come un gradino di una carriera diretta verso la più redditizia professione medica. Nelle università, così come a corte, i matematici si occupavano delle arti meccaniche e di un insieme di questioni che andavano dall'architettura civile e militare, alla gestione delle acque, alla gnomonica.
Durante il XVII sec., sembrano emergere diverse tendenze. Complessivamente, assistiamo a un mutamento della collocazione della matematica nella mappa delle conoscenze umane e a una trasformazione del suo rapporto con le scienze mediche. Mentre nel Cinquecento il principale punto di contatto fra le due discipline era rappresentato dall'astrologia, nel Seicento l'importanza di quest'ultima cominciò a declinare e contemporaneamente la meccanica conquistò maggiore spazio nei piani di studio universitari. Questioni filosofiche e anatomiche intorno alla comprensione del corpo umano dal punto di vista meccanico guadagnarono una posizione di primo piano, grazie al lavoro di Galilei e del professore di anatomia padovano Gerolamo Fabrici d'Acquapendente, di Descartes e Hendrik van Roy (Henricus Regius, 1598-1679), quest'ultimo professore di medicina a Utrecht, di Giovanni Alfonso Borelli e del medico e professore bolognese Marcello Malpighi, di Robert Hooke e dell'anatomista Richard Lower della Royal Society, tanto per citare alcuni casi notevoli.
In seguito alla scoperta dei pianeti medicei e alla pubblicazione del Sidereus nuncius (1610), il prestigio intellettuale e lo stipendio di Galilei crebbero notevolmente; inoltre, come si può facilmente immaginare, il trasferimento presso la corte di Toscana ne migliorò ulteriormente la posizione. Nel secondo decennio del secolo, per esempio, nei dibattiti con gli aristotelici sul galleggiamento dei corpi, Galilei godeva di una maggiore autorevolezza nella sua nuova posizione di filosofo e matematico di corte, cui corrispondeva uno stipendio di mille fiorini all'anno, rispetto a quando era stato professore di matematica a Pisa, pagato sessanta fiorini. Tutto ciò, se da un lato gli conferiva più forza nelle argomentazioni, dall'altro lo esponeva a pericolo nel caso di errori, dai quali il suo accresciuto prestigio non lo aveva automaticamente reso immune.
Non è certo se l'aver migliorato la propria posizione abbia significato per Galilei un considerevole vantaggio, almeno per ciò che riguarda la sua attività di ricerca nel settore del moto e della meccanica. Ricordiamo che il maggior trattato galileiano in questo campo fu pubblicato in Olanda soltanto nel 1638, cinque anni dopo la condanna da parte dell'Inquisizione e l'abiura, nel periodo in cui Galilei si trovava in isolamento ad Arcetri, con l'obbligo di non pubblicare più nulla. Se si considera il problema nel contesto europeo del XVII sec., sembra inoltre poco plausibile che un matematico impegnato nello studio del moto e della meccanica potesse sviluppare efficacemente la propria ricerca grazie a un semplice passaggio dall'università a corte. È vero, piuttosto, che l'ascesa della filosofia meccanica, la sempre più frequente applicazione della meccanica all'astronomia e alla cosmologia oltre all'aumento del livello di astrazione matematica nella meccanica razionale, avevano reso la matematica molto più vicina a ricerche intellettuali elevate e alla filosofia, che al mondo dei tecnici e degli ingegneri.
Pochi anni dopo il ritorno di Galilei a Firenze e agli sforzi da lui profusi, nel contesto di una disputa di corte, per articolare le proprie idee sul galleggiamento dei corpi, il suo allievo Benedetto Castelli diede un importante contributo all'affermazione di una nuova disciplina matematica: la scienza del moto delle acque. Fra il 1613 e il 1626, anno in cui si trasferì all'Università 'La Sapienza' di Roma, Castelli fu titolare della cattedra di matematica a Pisa, già di Galilei, e durante il soggiorno pisano sostenne il maestro nella disputa sull'idrostatica contro gli aristotelici. L'origine delle ricerche di Castelli si trova anch'essa in una controversia, che non ebbe luogo a corte fra scienziati e filosofi, ma sul campo fra ingegneri e 'periti'. Nel 1625, Castelli fu inviato, insieme a monsignor Ottavio Corsini, nella regione a nord di Bologna per studiare il corso dei fiumi Po e Reno e contemporaneamente avviò una lunga corrispondenza con Galilei su questioni di idraulica dei fiumi. Il problema aveva componenti non solo teoriche ‒ del tipo di quelle ben note a Galilei, come la relazione fra pendenza e velocità, che si ricollegava all'argomento del piano inclinato ‒ ma anche pratiche, per esempio gli effetti delle maree e dei venti; la complicavano infine alcuni aspetti teorico-pratici, quale il rapporto tra velocità e profondità del fiume. Con l'aiuto di Giovanni Ciampoli, Castelli portò a termine diversi esperimenti per studiare il flusso dell'acqua al variare della velocità e nel trattato del 1628, dal titolo Della misura dell'acque correnti, enunciò il principio per cui la portata di un fiume è proporzionale alla sezione e inversamente proporzionale alla velocità dell'acqua. Tale affermazione modificava la maniera abituale di trattare la questione, nel senso che non si teneva conto esclusivamente della sezione trasversale del letto del fiume ma si introduceva un nuovo fattore, la velocità dell'acqua attraverso la sezione. Si trattò di un passaggio importante per le dispute sugli effetti della deviazione del Reno nel Po e, in generale, della deviazione di un qualunque fiume o canale. Un'edizione successiva del lavoro di Castelli (1660) contiene un'appendice, in cui la teoria veniva ampliata e si riportavano nuovi esperimenti. Castelli cercò inutilmente di stabilire una relazione fra l'altezza dell'acqua in un fiume e la sua velocità, eseguendo alcune prove sperimentali che comportarono l'uso di cento sifoni. Gli esperimenti e i dibattiti fra teorici e ingegneri, come Giovanni Battista Barattieri, sulla gestione dei fiumi, dei canali, delle fontane e delle condotte idriche, caratterizzarono tutto il XVII sec., estendendosi ben oltre l'inizio del Settecento. Queste attività mettono in luce l'esistenza e l'importanza di un altro settore di ricerca, oltre quello della caduta dei gravi, che si collocava al confine tra moto e meccanica e toccava diversi argomenti, per esempio il rapporto fra matematica e Natura, fra teoria e sperimentazione, fra Natura e comportamento dei fluidi.
Il maggior tentativo di formulazione di una nuova scienza matematica è il trattato galileiano Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (1638). Sebbene il nucleo di alcuni risultati sia già presente nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632), è nei Discorsi che si trova la piena formulazione galileiana della scienza del moto. Nel Dialogo, Galilei cerca di mettere in relazione tale disciplina con le dottrine copernicane: per esempio, analizza il moto relativo e la caduta libera tenendo conto del movimento della Terra e prova a spiegare il fenomeno delle maree come il risultato della combinazione dei moti annuale e diurno della Terra, aiutandosi con alcune prove sperimentali sul comportamento di un fluido in un recipiente mobile. Come è superfluo ricordare, nei Discorsi Galilei evita di riprendere l'argomento dei moti terrestri, che era stato probabilmente il motivo dei suoi guai con l'Inquisizione.
I Discorsi di Galilei si svolgono nell'arco di quattro giornate, sotto forma di una discussione fra gli stessi tre personaggi che compaiono nel Dialogo: Salviati, che interpreta il pensiero di Galilei, Sagredo, che rappresenta l'uomo di mentalità aperta, e infine l'aristotelico Simplicio. Le prime due giornate sono dedicate alla scienza della resistenza dei materiali, destinata nelle intenzioni originali dell'autore a un trattato separato. Il libro si apre con un encomio all'Arsenale di Venezia, quale luogo di speculazioni filosofiche e al sapere dei tecnici, o 'proti', che vi lavorano. Galilei inizia con il mettere in dubbio l'idea che il funzionamento di una macchina reale possa essere verificato in maniera attendibile facendo le prove su un modello in scala che ne rispetti accuratamente le proporzioni. Si prenda per esempio un modello di ponte, argomenta Galilei: la struttura che si otterrebbe facendo crescere linearmente le dimensioni del modello riprodotto in scala non sarebbe in grado di sostenere il proprio peso, né tantomeno quello di eventuali oggetti poggiati sopra. È facile comprendere questo punto, sviluppato con maggior rigore nella Giornata Seconda, se si considera che il peso, che è solo una delle componenti, aumenta proporzionalmente a ciascuna delle tre dimensioni lineari, crescendo perciò in ragione del volume della trave. Il resto della Giornata Prima contiene molte digressioni per lo più legate ad argomenti come la composizione del continuo e la teoria dell'atomismo.
La Giornata Seconda si caratterizza come un capitolo dedicato alla statica del corpo rigido, nella quale travi e bilance non sono enti geometrici ideali, ma corpi reali, con una forma, una dimensione e un peso. Galilei si pone diversi interrogativi: per esempio, di quanto diminuisce la resistenza di una trave che sporge da un muro, all'aumentare della sua lunghezza? La risposta, tenendo conto dell'aumento del peso, è che la resistenza diminuisce come il quadrato della lunghezza. E ancora, come aumenta la resistenza di un cilindro al crescere del diametro? Senza considerare stavolta il peso, si ricava che essa aumenta come il cubo del diametro. Infine, in che modo è opportuno sagomare la superficie di un solido, così da renderne massima la resistenza? Nella Giornata Seconda, Galilei dimostra che i solidi parabolici presentano ovunque la stessa resistenza e che la sagoma parabolica permette di ottenere la massima efficienza, nel senso che il solido segato secondo una linea parabolica è quello più leggero e resistente, a parità di sezione e lunghezza iniziali. Galilei fornisce inoltre alcuni metodi pratici per disegnare tali linee: per esempio, una pallina lanciata su una superficie inclinata vi lascerà una traccia parabolica; oppure ‒ ma qui Galilei sbaglia ‒ una catenella sottile appesa per le estremità a due chiodi conficcati in un muro si disporrà secondo un arco di parabola. Si tratta di speculazioni ed esperimenti sviluppati in parte insieme a Dal Monte, che si caratterizzano come appartenenti a un campo di ricerca comune a due scienze, una riguardante la resistenza dei materiali, l'altra il moto dei corpi.
Le Giornate Terza e Quarta sono dedicate alla scienza del moto. Combinando ragionamento astratto e sperimentazione, Galilei aveva già da tempo stabilito le leggi della caduta dei gravi e l'esistenza delle traiettorie paraboliche. La difficoltà era però quella di formulare la nuova scienza in una forma assiomatica classica e cioè di scegliere alcuni principî convincenti attraverso i quali fosse possibile dimostrare tutti i teoremi che servivano e che si basavano su proporzioni. È per questo motivo che troviamo numerose pagine dedicate ad argomenti apparentemente elementari, come il moto rettilineo uniforme. I procedimenti di Galilei possono apparire inutilmente farraginosi al lettore moderno, abituato al formalismo algebrico e a un modo diverso di trattare i risultati sperimentali; d'altra parte, se non si comprende il modo galileiano di procedere, non si riesce neppure ad afferrare pienamente la bellezza e la complessità delle sue scoperte. L'approccio di Galilei alla sperimentazione era diverso dal nostro: il suo desiderio era quello di creare una scienza matematica basata su principî sicuri e supportati dall'esperienza, non certo quello di collezionare una serie di risultati sperimentali problematici che non avrebbero mai raggiunto lo status di scienza. Per quanto le sue carte dimostrino che egli abbia effettivamente portato a termine esperimenti quantitativi, nei Discorsi non troviamo le tabelle con i dati sperimentali che compaiono nei trattati di meccanica dei periodi successivi. Nella Giornata Terza del Dialogo, tuttavia, Galilei fornisce una raffinata analisi della teoria degli errori per i dati astronomici, completa di tavole nelle quali sono riportati i risultati di diverse osservazioni.
Tutta la sua costruzione nei Discorsi si basa interamente su una definizione e su un principio. La definizione stabilisce che il moto uniformemente accelerato è quel moto che, a partire dallo stato di quiete, acquista uguali momenti di velocità in uguali tempi. Il principio afferma che la velocità acquistata da un corpo che cade lungo piani di diversa inclinazione è la stessa, se le altezze sono uguali. Galilei aveva lottato anni per raggiungere una formulazione adeguata e, insieme ai seguaci del suo metodo, continuò a lottare fin dopo il 1638, come risulta dalla seconda edizione dei Discorsi (1656). Oltre alla questione di una formulazione assiomatica nell'ambito della teoria delle proporzioni, Galilei si trovò ad affrontare i problemi legati alla composizione del continuo. Nel diagramma velocità/tempo, ogni punto A, D, E, … sulla verticale rappresenta un istante di tempo e ogni segmento parallelo OD, PE, … rappresenta una velocità. Nelle dimostrazioni, Galilei fa ricorso all'area del triangolo, considerata come un insieme di infinite linee, fatto che pone serie difficoltà concettuali.
Di diversa natura sono invece le difficoltà che emergono, nella Giornata Quarta, dalla discussione delle traiettorie paraboliche. Tutto l'impianto dimostrativo è basato ex suppositione sull'idea che le due componenti del moto, quella rettilinea e uniforme parallela all'orizzonte e quella verticale uniformemente accelerata, non interferiscano l'una con l'altra. Inoltre, si assume che l'orizzonte sia piatto, mentre è in realtà curvo, e che le linee lungo cui agisce la gravità siano parallele fra loro, quando invece convergono verso un centro. È infine trascurata la resistenza del mezzo. Galilei affronta il fuoco di fila delle difficoltà, in parte appellandosi ad Archimede, in parte mediante altri ragionamenti. Lo stesso Archimede, ricorda Galilei, aveva considerato parallele fra loro le direzioni dei pesi di una bilancia; un'approssimazione che d'altronde non costituisce un serio problema, dato che gli errori introdotti in tal modo sono molto piccoli. Incontriamo qui la già citata questione sollevata da Tartaglia, Dal Monte e Benedetti. Anche il secondo argomento si ricollega al lavoro di Dal Monte: Galilei osserva che gli impedimenti del mezzo sono così variabili e imprevedibili che nessuna scienza può essere formulata in proposito. Guidobaldo Dal Monte aveva opinioni simili riguardo al moto e alla materia, ma Galilei riuscì a superare il 'maestro' e a formulare una scienza del moto. Più avanti nel secolo, grazie all'uso di strumenti matematici più potenti, anche la resistenza del mezzo trovò una formulazione matematica, a opera di Huygens, Newton e Leibniz. Alla fine della Giornata Quarta, Galilei aggiunge un'appendice sul centro di gravità dei solidi, un settore altamente matematico della meccanica, di cui si occuparono sia i Greci sia i matematici del Rinascimento, fra gli altri Federico Commandino e Luca Valerio.
I Discorsi sono considerati a buon diritto uno dei principali trattati di moto e meccanica del XVII secolo. All'epoca, tuttavia, suscitarono reazioni contrastanti e molti lettori li trovarono problematici. I sostenitori italiani di Galilei, come Torricelli, provarono una profonda ammirazione per quest'opera e cercarono di dare una formulazione sistematica alla scienza del moto che vi era enunciata. Torricelli si occupò anche del moto dei fluidi e, seguendo l'esempio della caduta dei gravi, formulò una legge per la velocità dell'acqua che fluisce da un foro praticato nel fondo di un recipiente: se h è il livello dell'acqua nel recipiente, il getto acquista una velocità ν che permette all'acqua di sollevarsi a un'altezza h ed è quindi proporzionale alla radice quadrata di h. Galilei lasciò incompiuta un'ulteriore giornata dei suoi Discorsi, dedicata alla forza della percossa, ovvero la forza di un grave lasciato cadere per un certo tempo, contrapposta a quella di un peso statico. La prosecuzione di questi sforzi da parte dei suoi seguaci culminò con il De vi percussionis (1667) di Borelli, in cui l'autore concludeva stabilendo l'impossibilità di un confronto tra la forza di percussione e il peso statico.
Descartes non apprezzava lo stile e le digressioni di Galilei, e ne riteneva l'impianto speculativo privo di solidi fondamenti, perché senza giustificazioni filosofiche. Secondo Descartes, la gravità era causata dalla rotazione di un vortice, dunque non aveva senso occuparsi della caduta dei gravi nel vuoto. Altri, come il genovese Giovanni Battista Baliani, Marin Mersenne, Pierre Gassendi, il gesuita Giovanni Battista Riccioli o gli studiosi dell'Accademia del Cimento, erano interessati all'aspetto sperimentale del lavoro di Galilei e avviarono un programma di ricerca con l'obiettivo di verificare le leggi che riguardavano la caduta dei gravi e le traiettorie paraboliche. È famoso l'esperimento in cui Gassendi fece cadere alcune palle dall'albero maestro di un'imbarcazione in navigazione nel porto di Marsiglia, verificando che esse toccavano terra ai piedi dell'albero. Il trattato di Galilei ebbe quindi l'effetto di stimolare ed estendere il programma di ricerche sperimentali sul moto.
Intorno alla metà del XVII sec., la filosofia meccanica si era guadagnata un ruolo di primo piano sulla scena intellettuale. In base ai principî che la caratterizzavano, le particelle di piccola dimensione ‒ che fossero atomiche e si muovessero nel vuoto come pensava Gassendi, o fossero divisibili all'infinito e si muovessero in un plenum come riteneva Descartes ‒ erano gli elementi costitutivi di un Universo dal quale l'azione a distanza era bandita e in cui tutti i fenomeni dovevano essere spiegati in base a contatti fra corpi. Analogie con le macchine, o comunque di natura meccanica, divennero il modo sempre più comune per spiegare tutti gli aspetti ‒ organici e inorganici ‒ dell'Universo, e si ipotizzò l'esistenza di sottili fluidi materiali per render conto degli effetti più strani. Particolarmente importanti furono i tentativi di interpretazione della gravità e del magnetismo.
Nei Principia philosophiae (1644), Descartes afferma che i corpi celesti sono trascinati da un vortice in rotazione attorno a un corpo centrale, il Sole nel nostro Sistema, o un'altra stella nell'Universo. Nella concezione cartesiana, il moto curvilineo deriva dalla combinazione dell'effetto di tale rotazione con la naturale tendenza dei corpi a sfuggire lungo la direzione della tangente. Non esiste dunque alcuna forza attrattiva e la gravità è invece una conseguenza del moto del vortice. Una spiegazione simile viene formulata da Descartes per il moto di una fionda, in cui la pietra tende a sfuggire, ma viene trattenuta dalla cinghia. Tale tendenza poteva essere quantificata misurando la distanza fra un punto della tangente e il corrispondente punto della curva. Questa interpretazione intuitiva, basata su uno squilibrio tra forze opposte, rappresentò per molti decenni il modello a cui si ispirarono i diversi schemi concettuali di moto curvilineo.
L'attenzione degli studiosi si concentrò poi sulle leggi che governavano gli urti fra corpi. Descartes formulò le sue leggi dell'impatto nei Principia, e ne chiarì il significato nella traduzione francese (1647) fatta da Claude Picot, in parte sotto la sua stessa supervisione. Oltre agli urti, Descartes affronta diversi temi riguardanti il moto e la meccanica. In particolare, discostandosi in modo importante dall'aristotelismo, enuncia le sue tre leggi di natura ‒ affermando che un corpo conserva, se indisturbato, il suo stato di quiete o di moto uniforme, che tale moto è rettilineo e che dunque i corpi dotati di moto circolare tendono ad allontanarsi dal centro ‒ e infine formula le leggi sugli urti. Le prime due leggi sono considerate tradizionalmente uno dei fondamenti della nuova scienza, poiché ridefiniscono il concetto di moto considerandolo come uno stato analogo ‒ anziché opposto ‒ alla quiete. Secondo Kepler, un corpo messo in moto tende naturalmente a fermarsi; secondo Galilei, continuerà a muoversi indefinitamente ‒ se si prescinde dalla resistenza del mezzo ‒ lungo una traiettoria circolare. Con Descartes e i suoi contemporanei, assistiamo alla comparsa di ciò che diventerà noto come principio di inerzia.
Nonostante alcuni temi comuni, i Principia presentano rispetto ai Discorsi di Galilei molte differenze e si rivolgono a un pubblico diverso. È interessante notare che entrambi i libri sono stati pubblicati nei Paesi Bassi, presso gli editori Elzevier, rispettivamente ad Amsterdam e a Leida. I Discorsi, per quanto affrontino argomenti filosofici, come la natura del continuo, sono un trattato più nel genere della matematica mista, rivolto a un pubblico variegato, di matematici e uomini di cultura, ma anche di ingegneri e tecnici. Questa duplice composizione dei suoi lettori si evince dal fatto che il libro è scritto in italiano ‒ in latino è soltanto il trattato sulla scienza del moto, contenuto nelle Giornate Terza e Quarta. Inoltre, nella Giornata Seconda, Galilei spiega come disegnare le parabole, nella Terza introduce alcune riflessioni sul piano inclinato, rilevanti per problemi di flusso dei fiumi, e nella Quarta inserisce una tavola con gli angoli di elevazione per i pezzi di artiglieria. Queste tre caratteristiche fanno pensare a un pubblico di lettori che includeva rispettivamente ingegneri civili, idraulici e militari. Descartes, al contrario, puntava più in alto e i suoi Principia sono un'interpretazione della struttura dell'Universo, intesa a sostituire la filosofia scolastica. Le quattro sezioni del libro di Descartes, riguardanti i principî della conoscenza umana, i principî delle cose materiali, il mondo visibile e la Terra, sono più ambiziose delle quattro giornate galileiane. Alcuni trattati basati sui Principia, come il Traité de physique (1671) di Jacques Rohault, erano effettivamente usati per l'insegnamento della filosofia naturale, sia in Francia sia in Inghilterra. Dunque, se è vero che anche Galilei svolse una parte essenziale nel processo che portò all'abbandono dell'aristotelismo e alla nascita di una nuova filosofia della Natura, tuttavia sembra possibile che, da questo punto di vista, il ruolo dei suoi Discorsi sia stato meno importante.
Nell'opera Le monde, scritta prima della condanna di Galilei del 1633, Descartes fa riferimento ad alcune regole sugli urti, senza però enunciarle esplicitamente. L'origine delle sue idee sull'argomento non è chiara: probabilmente, le aveva in parte mutuate da Isaac Beeckman, un atomista con cui molti anni prima Descartes era stato in contatto e che si era occupato dei fenomeni di urto. Anche il medico e sperimentatore Johann Marcus Marci von Kronland lavorò a questioni simili e pubblicò i suoi risultati nel De proportione motus (1639). Le leggi dell'impatto sono basate su un principio di conservazione che segue dalla perfezione divina, e cioè il principio di conservazione della quantità di moto, definita come il prodotto della velocità per la quantità di materia. Questo principio differisce dalla sua versione moderna sotto due importanti aspetti: anzitutto, la quantità di moto è oggi intesa come una grandezza vettoriale e non scalare; in secondo luogo, Descartes identificava la massa con l'estensione, o dimensione, delle particelle, mentre nella moderna concezione i corpi non hanno tutti la stessa densità. Nei Principia, le leggi di conservazione vengono precisate e chiarite, fornendo sette regole dell'urto per il caso particolare dei corpi perfettamente rigidi. Descartes non sente il bisogno di giustificarle, affermando che si tratta di leggi autoevidenti, per quanto i lettori di oggi non siano dello stesso avviso (come d'altra parte non lo erano nemmeno i lettori dell'epoca). Descartes, per esempio, afferma che se un corpo in quiete è urtato da uno in movimento, di dimensioni minori, quest'ultimo rimbalza lasciando immobile il primo, nonostante il fatto che i due corpi potrebbero essere di grandezza confrontabile. Il filosofo si sente tuttavia in dovere di spiegare che se le sue leggi non sembrano sperimentalmente valide è perché in realtà i corpi non sono perfettamente rigidi e, inoltre, l'interazione fra le moltissime particelle dell'etere e dell'aria rende impossibile considerare i due corpi come un sistema realmente isolato. Da questo punto di vista, Descartes segue un approccio molto diverso da quello di Galilei per quanto riguarda le imperfezioni della materia. L'obiettivo di Galilei era quello di ridurre la distanza fra la teoria e le osservazioni, limitando o eliminando gli accidenti e gli impedimenti della materia. Al contrario, nella meccanica di Descartes ‒ a differenza dell'ottica ‒ fra i principî teorici e le osservazioni esiste un divario che non può essere colmato.
Le leggi cartesiane dell'urto dimostrarono una straordinaria capacità di influenzare la cultura scientifica del tempo. Anche se largamente rifiutate, rappresentarono per molti decenni un modello di programma di ricerca, adottato, fra gli altri, dai gesuiti francesi Honoré Fabri, Claude-François Milliet de Chales e Ignace-Baptiste-Gaston Pardies, dal matematico Borelli, dallo sperimentatore Edme Mariotte e da Huygens, Christopher Wren e John Wallis, ai quali si deve la corretta formulazione delle leggi per gli urti elastici. Alcune pubblicazioni di questi studiosi meritano la nostra attenzione: Fabri e de Chales discussero la questione nei libri di testo che usavano durante le loro lezioni al Collegio dei gesuiti, rispettivamente intitolati Physica (1669) e Cursus seu mundus mathematicus (1674), mentre Huygens, Wallis e Wren pubblicarono i risultati delle loro ricerche nei nuovi giornali scientifici del tempo, il "Journal des Sçavans" e le "Philosophical Transactions". Huygens aveva scritto un trattato sulla collisione dei corpi matematici, mai pubblicato; comunque, fu la Royal Society a stimolare le pubblicazioni dei tre scienziati, culminate, nel 1669, con la formulazione delle leggi per gli urti elastici. Huygens sostenne i suoi argomenti contestando Descartes con l'aiuto del principio di relatività del moto, secondo cui, osservando uno stesso fenomeno di urto da uno stato di quiete oppure di moto rettilineo uniforme (per es., da un battello in navigazione in un canale olandese), devono valere le stesse leggi.
Huygens formulò inoltre un principio più generale, stabilendo che, in ogni tipo di urto, la velocità del centro di gravità dei corpi è la stessa sia prima sia dopo l'urto, un principio equivalente alla moderna nozione di conservazione della quantità di moto in tutti i fenomeni di urto, elastico o meno. Le leggi dell'impatto furono un importante passo avanti nell'analisi di ulteriori problemi, affrontati più avanti nel secolo, come il moto curvilineo.
Il pendolo con Galilei acquistò un ruolo doppiamente rilevante nel campo del moto e della meccanica, sia come strumento concettuale utile a studiare i fenomeni di moto, le forze e la gravità sia come strumento per la misura del tempo, da impiegarsi negli esperimenti su questioni quali gli urti o la caduta dei gravi, o anche nelle osservazioni astronomiche.
Nella lettera del 1602 a Guidobaldo Dal Monte, Galilei affermava di essere alla ricerca di una dimostrazione del fatto che le oscillazioni del pendolo fossero perfettamente isocrone, indipendentemente dall'ampiezza; dimostrazione d'altronde impossibile da trovare, dal momento che l'enunciato non era corretto, come lo stesso Galilei forse comprenderà più tardi e come ben sapeva anche Mersenne. Fu però Huygens che riuscì a determinare, nel 1659, la curva lungo la quale le oscillazioni sono rigorosamente isocrone, e cioè la cicloide: la curva descritta da un punto di una circonferenza che rotola su un piano. Fu un risultato straordinario e imprevedibile, cui Huygens giunse grazie a considerazioni puramente geometriche, tanto più che la cicloide era una curva nuova, sconosciuta agli antichi Greci. Di essa, i contemporanei di Huygens, come Wren, Wallis, Blaise Pascal e Gilles Personne de Roberval, avevano ricavato le proprietà a titolo di pura esercitazione matematica, senza indicarne o suggerirne alcuna possibile applicazione pratica. Huygens riuscì a dimostrare che, affinché il corpo sospeso al filo del pendolo descrivesse una traiettoria cicloidale, era necessario limitare il percorso di tale filo per mezzo di due guide, o ganasce, aventi la forma di un arco di cicloide. Huygens spiegò inoltre come disegnare una cicloide e come disporre le ganasce, in modo simile a come aveva fatto Galilei nei Discorsi riguardo alle travi paraboliche, e pubblicò i suoi risultati in un classico della meccanica del Seicento, l'Horologium oscillatorium (1673). Oltre a una minuziosa descrizione delle caratteristiche dell'orologio e alle dettagliate istruzioni per costruirlo, il libro di Huygens conteneva un'originale analisi della caduta dei gravi, che portava a una trattazione dei moti cicloidali, una spiegazione matematica delle evolute e delle evolventi ‒ ovvero quelle curve che si possono ottenere svolgendo un filo arrotolato intorno a un'altra curva ‒ e una discussione sui centri di oscillazione. Il trattato si concludeva con una serie di proposizioni sulla forza centrifuga; quest'ultimo argomento era legato allo studio degli orologi, dato che alcuni di essi erano dotati di un pendolo conico, il cui peso descriveva la base di un cono, anziché oscillare su e giù in un piano verticale. Il moto circolare del pendolo permise a Huygens di studiare la forza centrifuga in relazione all'azione della gravità.
Il problema dei centri di oscillazione del pendolo composto può esser visto come un capitolo dello studio dei corpi rigidi. Un pendolo composto è infatti un corpo rigido sospeso per un suo punto arbitrario. Mentre nel pendolo semplice tutta la massa è concentrata in un volume puntiforme all'estremità del filo, nel caso del pendolo composto la massa occupa invece un volume ben determinato. Si definisce 'centro di oscillazione' quel punto della congiungente il punto di sospensione con il centro di gravità del corpo, tale che la sua distanza dal punto di sospensione sia uguale alla lunghezza di un pendolo semplice avente lo stesso periodo di oscillazione del pendolo composto. Nel 1646, Mersenne si era chiesto come determinare il punto di oscillazione di un dato corpo rigido e aveva rivolto l'interrogativo ai suoi corrispondenti, fra cui Cavalieri, Torricelli, Baliani, Descartes, Huygens e Roberval. Il gesuita Fabri scrisse, indipendentemente da Mersenne, un breve trattato sull'argomento, in cui mostrava come il problema fosse legato ad altre questioni simili affrontate in precedenza nella letteratura scientifica. Per quanto riguarda il tipo di risposte ottenute da Mersenne al proprio interrogativo, dagli elementi che abbiamo a disposizione sembra possibile individuare una sostanziale divisione, in cui i confini nazionali sono il fattore discriminante; cosicché, se da un lato i matematici italiani non mostrarono alcuna curiosità per l'argomento, dall'altro molti studiosi e corrispondenti d'Oltralpe svilupparono interessanti soluzioni. Il problema del centro di oscillazione fu dunque, perlomeno nel Nord dell'Europa continentale, un capitolo significativo della storia della meccanica.
Non era solo l'interesse teorico a spingere Huygens a lavorare sulla questione del centro di oscillazione, ma anche la necessità di studiare come fosse possibile regolare il periodo di un pendolo aggiungendovi pesi e di determinare il centro di oscillazione di una sfera sospesa a un filo di massa nulla. Le sue ricerche comportavano dunque il ricorso tanto alla matematica superiore ‒ così com'era nota prima della scoperta del calcolo ‒ quanto ad argomenti tecnici o sperimentali. Non stupisce che Huygens fosse costretto ad affidarsi a un buon numero di tecnici e collaboratori, sia per farsi costruire gli orologi sia per collaudarli. Una delle ragioni per cui Huygens rimandò per tanto tempo la pubblicazione del suo capolavoro era che, oltre a una raffinata teoria del moto del pendolo, desiderava produrre i risultati delle prove in mare allo scopo di risolvere l'annosa questione della determinazione nautica della longitudine. I rapporti fra Huygens e i suoi collaboratori non furono sempre semplici. Fra questi ultimi, vi erano orologiai come Severyn Oosterwijk all'Aia e Isaac Thuret a Parigi e navigatori quali il capitano Robert Holmes, che durante un viaggio a Lisbona verificò il funzionamento degli orologi di Huygens, o Jean Richer, che li portò nell'America Meridionale, alla Caienna. Vale la pena ricordare che Richer notò come le oscillazioni fossero più lente del previsto, un fenomeno in seguito ricondotto a un effetto della rotazione terrestre e della forma della Terra.
La questione dell'isocronismo delle oscillazioni del pendolo fu associata allo studio delle oscillazioni di una molla e moti oscillatori in genere: tutti questi moti erano infatti moti periodici regolari e venivano impiegati nella fabbricazione degli orologi. All'argomento delle corde vibranti si interessavano da lungo tempo i matematici, compresi alcuni dei protagonisti di questo capitolo, come Benedetti nel Diversarum speculationum liber, Galilei nella Giornata Prima dei Discorsi, Beeckman durante le discussioni con i suoi ospiti, in particolare con Descartes, e Mersenne in numerose e vaste opere, come l'Harmonie universelle (1636-1637). Un problema studiato era, per esempio, la relazione fra lunghezza, sezione, tensione delle corde e il tono delle note. Come si vede dal titolo del trattato di Mersenne, questi studi facevano parte della scienza della musica, o armonica, una delle quattro discipline classiche del quadrivio, insieme all'aritmetica, la geometria e l'astronomia. Durante il XVII sec., tuttavia, l'armonica, in quanto disciplina a sé stante, perse sempre più importanza, fino a divenire una parte della meccanica strettamente legata all'elasticità.
Anche Hooke si interessava di molle e oscillazioni, in parte in relazione allo studio degli orologi. Il decennio che va dal 1670 al 1680 lo vide coinvolto in una disputa con Huygens, in cui ciascuno dei due scienziati rivendicava il primato sull'invenzione dell'orologio a molla. A differenza di Huygens, Hooke non scrisse un'unica vasta opera, ma pubblicò molte scoperte sotto forma di trattati e articoli più brevi. I suoi più importanti lavori sull'elasticità possono essere trovati nelle Lectures de potentia restitutiva (1678), parte delle Lectiones Cutlerianae, istituite alla Royal Society da Sir John Cutler per Hooke. Fra i risultati delle sue ricerche, vi è la famosa affermazione della proporzionalità fra l'allungamento della molla e la forza, o la potenza, sviluppata da quest'ultima per tornare nella sua posizione naturale. Hooke affermò anche che la tensione o deformazione di una molla è proporzionale al peso che la sollecita, e che le vibrazioni della molla sono isocrone, indipendentemente dall'ampiezza, stabilendo così un'interessante analogia con il pendolo. Nonostante le sue abilità tecniche e manuali, anche Hooke si avvalse della collaborazione di tecnici, in particolare del fabbricante di strumenti londinese Thomas Tompion. La concezione del mondo propria degli ingegneri, dei tecnici e dei fabbricanti di strumenti fu un aspetto importante della meccanica del Seicento, perché incoraggiò la sperimentazione di numerose leggi e rese possibile la costruzione di strumenti di precisione che permettevano ai teorici di eseguire sofisticate misure. Mariotte e Nicolas-François Blondel (1617-1686), rispettivamente matematico e architetto di Luigi XIV, ed entrambi membri dell'Académie des Sciences di Parigi, sottoposero a verifiche sperimentali le leggi di Galilei sulla resistenza dei materiali, trovando che alcuni parametri erano inesatti.
Nel 1684 Leibniz, bibliotecario, consigliere e diplomatico del duca di Hannover, pubblicò negli "Acta Eruditorum" le Demonstrationes novae de resistentia solidorum nelle quali faceva notare come Blondel, Mariotte e altri avessero dimostrato che la legge di Galilei sul momento della forza necessaria a spezzare una trave non concordava con i dati sperimentali. Il ragionamento di Galilei era corretto, ma la sua ipotesi che la trave fosse perfettamente rigida era sbagliata. Assumendo che tutti i corpi sono in qualche misura elastici, Leibniz combinò il lavoro di Galilei con la legge dell'elasticità di Hooke, stabilendo che la forza applicata è proporzionale alle dimensioni del corpo. La conclusione cui giunse era che per un prisma ABCD, il rapporto fra la resistenza alla rottura per trazione longitudinale e la resistenza alla rottura per trazione trasversale è pari a 1/3 del rapporto fra la lunghezza BC e l'altezza AB. Il fattore di proporzionalità era dunque 1/3 e non 1/2, come aveva affermato Galilei. Altri estesero tali considerazioni in successivi sviluppi della teoria, considerando non soltanto la tensione elastica, ma anche la flessione che la accompagnava. Nello stesso lavoro, Leibniz affermò inoltre che esisteva una relazione fra le proprietà elastiche e quelle acustiche dei corpi. Fu così che nella scienza della resistenza dei materiali entrarono in scena l'elasticità e le oscillazioni.
Nelle ricerche sul moto della Terra, Galilei abbandona la terminologia e lo schema concettuale aristotelico, affermando che la traiettoria di un proiettile scagliato in direzione orizzontale è parabolica ed è il risultato della composizione di due moti indipendenti: uno uniformemente accelerato e diretto verso il basso; l'altro rettilineo uniforme e parallelo all'orizzonte. Non si commetta l'errore di sottovalutare o dare per scontata l'originalità di Galilei: tanto per fare un esempio, l'astronomo gesuita Riccioli aveva qualche problema, intorno alla metà del secolo, ad accettare che moti differenti potessero combinarsi come se fossero stati indipendenti fra loro. Tuttavia, Galilei considerava la componente rettilinea come un'approssimazione su piccole distanze di un arco di circonferenza e non interpretava le orbite dei pianeti come il risultato della combinazione di un moto rettilineo uniforme con un moto dovuto a una forza centrale attrattiva, ma riteneva invece che le loro traiettorie curvilinee fossero naturali. In uno schema concettuale secondo cui il moto di un corpo non soggetto a forze è rettilineo e uniforme ‒ un principio affermato da Descartes e Gassendi, in seguito noto come principio di inerzia ‒, divenne possibile considerare il moto curvilineo dei pianeti in una maniera nuova; d'altra parte, nel processo che portò alla definizione dei concetti fondamentali della meccanica celeste, giocò un importante ruolo anche una differente tradizione scientifica, cioè la fisica di Kepler. Con il dissolversi delle sfere celesti solide, che da molti secoli si pensava costringessero i pianeti a muoversi lungo orbite circolari, Kepler sposò l'idea che lo spazio celeste fosse fluido, parlò dell'esistenza di un vortice che trascinava i pianeti e riconobbe la necessità di una forza centrale, da lui ritenuta di natura magnetica. Con ogni probabilità, la sua Astronomia nova (1609) suscitò diverse riflessioni su questi argomenti. A partire dalla metà del secolo, le varie teorie dei vortici divennero il modello tipico di spiegazione dei moti celesti e molti di questi temi cominciarono a essere un'importante componente della filosofia meccanica. Tuttavia, nell'ambito di questo modello, che tendeva a spiegare tutti i fenomeni esclusivamente in termini di azioni di contatto fra particelle, il concetto di vortice finì spesso con il sostituire ogni tipo di forza attrattiva.
A questi argomenti, Borelli dedicò alcune parti delle sue Theoricae mediceorum planetarum (1666), un'analisi teorica del moto dei satelliti di Giove. Borelli concentrò la sua attenzione sui pianeti medicei, sia perché all'epoca era impegnato in un dibattito fra gli scienziati europei, riguardante la recente scoperta dell'ombra che i satelliti di Giove proiettavano sulla superficie del loro pianeta, sia perché in tal modo poteva evitare di trattare direttamente le teorie copernicane, un argomento che nell'Italia di quegli anni rischiava di portare a conseguenze spiacevoli. In ogni caso, Borelli si spinse a stabilire perlomeno un'analogia con il Sistema solare, producendo un lavoro che presentava molti spunti di interesse: per esempio, il tentativo ‒ pur restando nell'ambito di una tradizione kepleriana ‒ di interpretare il moto curvilineo come il risultato della mancanza di equilibrio fra due opposte tendenze, una diretta verso l'esterno e l'altra verso l'interno del Sistema; lo sforzo di fornire un'analisi quantitativa di quelle due componenti; l'introduzione di esperimenti e analogie con altri fenomeni, secondo la tradizione dell'Accademia del Cimento. L'idea di Borelli era che il Sole, ruotando, mettesse in moto una leva, sulla quale aveva luogo il moto orbitale. La tendenza diretta verso l'interno era dovuta a un'inclinazione dei satelliti o dei pianeti, a muoversi verso il corpo centrale, mentre la tendenza verso l'esterno era causata dal loro moto circolare, generato dalla luce emessa dal corpo centrale. In base all'analogia con la leva, i satelliti ruotavano intorno a Giove con una velocità inversamente proporzionale alla distanza, oscillando al tempo stesso sopra la leva, come farebbero un pendolo o un cilindro galleggiante sull'acqua se allontanati dalla posizione di equilibrio. Per tutto il corso della sua spiegazione, Borelli fornisce esempi ed esperimenti con pendoli, magneti e sfere rotanti, trattando così in modo simile i fenomeni celesti e terrestri. Seguendo Kepler, conclude quindi che tanto i pianeti quanto i satelliti percorrono ellissi, risultato della combinazione di moti radiali e moti circolari.
Huygens prese parte nel 1669 a un dibattito sorto all'Académie des Sciences di Parigi intorno alle cause della gravità, nel quale intervennero anche Mariotte, Roberval e altri membri dell'Académie. Huygens condivideva alcuni punti importanti dell'analisi di Borelli, discostandosene però per altri significativi aspetti: entrambi concepivano infatti il moto orbitale come il risultato di opposte tendenze lungo il raggio, ma Huygens rifiutava di attribuire un ruolo primario alla tendenza centripeta e cercò di spiegare la gravità in termini del moto di un vortice, in maniera molto simile a Descartes. Per Huygens, la gravità era la differenza tra la forza centrifuga del vortice e quella del corpo, dato che un aumento della tendenza centrifuga del vortice avrebbe provocato uno spostamento del corpo verso il centro. Egli fornì anche prove sperimentali a sostegno delle sue teorie, mostrando che, se un corpo solido è immerso in un recipiente contenente un liquido in rotazione, è spinto verso il centro del recipiente. Il punto debole dell'interpretazione, già affrontato da Descartes, era però che la gravità è diretta verso il centro della Terra e non verso l'asse di rotazione terrestre. Perciò Huygens fu costretto a ipotizzare un improbabile vortice, le cui particelle ruotassero attorno alla Terra in tutte le direzioni. Egli era inoltre un matematico più abile di Borelli e nell'ultima sezione dell'Horologium oscillatorium fornì una misura più convincente della tendenza verso l'esterno, da lui battezzata 'forza centrifuga'. La sua conclusione fu che le forze centrifughe variano in maniera direttamente proporzionale ai quadrati delle velocità di rivoluzione sulla circonferenza e inversamente ai loro raggi. Non era chiaro però in che modo le forze centrifughe dovessero essere calcolate nel caso dei moti ellittici.
Nel frattempo ‒ intorno alla metà degli anni Sessanta del secolo ‒ i matematici inglesi Wren, Wallis e Hooke stavano studiando il moto curvilineo da una diversa prospettiva e cioè cercando di stabilire un'analogia fra l'orbita dei pianeti e il moto di un corpo sospeso all'estremità del filo di un pendolo conico. Essi discussero inoltre la forza attrattiva di corpi celesti, come il Sole e la Terra, e affrontarono la questione delle comete, la cui traiettoria era considerata frutto di un moto rettilineo perturbato da un fluido o da un vortice presente negli spazi interplanetari. In un'altra delle sue Lectiones Cutlerianae, dal titolo An attempt to prove the motion of the earth (1674), Hooke avanzò tre potenti e suggestive ipotesi riguardo ai moti celesti: (a) tutti i corpi celesti esercitano una forza di attrazione su ogni parte di sé stessi e sui corpi sufficientemente vicini; (b) un corpo, una volta messo in moto, continua a muoversi in linea retta fino a che non è deviato da una forza esterna, così da descrivere una circonferenza, un'ellisse o una curva più complessa; (c) la forza attrattiva discussa nella prima ipotesi non è costante, ma decresce, secondo una legge che Hooke non era riuscito a determinare. Alcuni anni dopo, il matematico inglese sarà in grado di riferire a Newton che la gravità, o forza attrattiva dei corpi celesti, era inversamente proporzionale al quadrato della distanza dal centro. Sebbene queste tre ipotesi possano apparire al moderno lettore estremamente suggestive, non va dimenticato che negli anni Settanta del XVII sec. si trattava di ragionevoli e plausibili supposizioni e non di prove. L'approccio inglese al moto curvilineo differiva da quello continentale per quanto riguardava la questione della tendenza verso l'esterno, o forza centrifuga. Descartes, Borelli e Huygens avevano tutti provato a introdurre una tendenza verso l'esterno come parte del loro studio del moto curvilineo; al contrario, Wren, Wallis, e soprattutto Hooke, furono indotti, forse dall'analisi del moto del pendolo e delle comete, a considerare solo moti rettilinei uniformi e deflessioni centrali.
A partire dal 1669, Newton fu professore lucasiano di matematica al Trinity College di Cambridge. Intorno al 1680, era noto ai matematici e ai filosofi sperimentali soprattutto per i suoi lavori di ottica, pubblicati nel decennio precedente, sulla natura della luce e sul telescopio riflettore. Sebbene le prime speculazioni su problemi di moto e di meccanica risalissero agli anni Sessanta, il lavoro di Newton era tuttavia rimasto in forma di manoscritto ed era in gran parte sconosciuto. Le sue straordinarie competenze matematiche, che l'avevano portato a inventare il calcolo infinitesimale nel 1666, erano note a un piccolo numero di matematici in Inghilterra e in Europa. Come la maggior parte dei contemporanei, Newton riteneva che il cielo fosse fluido, e fino ai primi anni Ottanta aveva cercato di spiegare i fenomeni celesti sulla base di questa concezione cartesiana.
Fra il 1679 e il 1681, Newton fu impegnato in una celebre corrispondenza con John Flamsteed (1646-1719), astronomo reale a Greenwich, e con Hooke, divenuto segretario della Royal Society, con il quale discusse argomenti relativi al moto curvilineo e orbitale. Negli anni Sessanta, Newton, come i matematici del resto d'Europa, aveva sviluppato l'idea che fosse il moto curvilineo a generare la tendenza centrifuga ed era riuscito a fornire una misura quantitativa della pressione diretta verso l'esterno esercitata da una sfera che rotola in un contenitore cavo di forma circolare. Hooke fu spinto da Newton a includere la forza centrifuga nella sua descrizione del moto orbitale; viceversa Newton, stimolato dai suggerimenti di Hooke, cominciò a sua volta a considerare le traiettorie orbitali come il risultato di un moto rettilineo uniforme e di un'attrazione verso un centro inversamente proporzionale alla distanza dal centro. Tuttavia nelle pubblicazioni non fornì una giustificazione del perché la forza esterna o centrifuga potesse essere ignorata nei calcoli. Una comprensione chiara ed esplicita del fatto che la forza centrifuga sia apparente e non dipenda dal moto circolare del corpo, ma dalla descrizione che ne facciamo in un sistema di riferimento rotante, non faceva parte dell'orizzonte degli studi seicenteschi dei fenomeni di moto. Sembra che nel 1679 Newton fosse riuscito a stabilire una relazione fra la traiettoria ellittica e l'attrazione centripeta proporzionale all'inverso del quadrato della distanza; tuttavia, non vi è certezza sull'esistenza ancora oggi di copie di questa sua iniziale dimostrazione.
Nel 1680-1681, l'apparizione di due enormi comete nei cieli europei indusse astronomi e matematici a riflettere sulla natura di tali corpi celesti e sulle loro traiettorie. Flamsteed era convinto che le due comete fossero in realtà un unico oggetto che, giunto in prossimità del Sole, aveva invertito la propria direzione di moto. Newton inizialmente rifiutò di accettare tale ipotesi e ribadì che le comete erano effettivamente due. In ogni caso la corrispondenza con Flamsteed lo spinse a una riflessione sulle traiettorie delle comete e sull'attrazione centrale del Sole. In una memoria di quel periodo Newton afferma, per esempio, che se la cometa era tornata indietro dopo essere giunta vicino al Sole, significava che al perielio la vis centrifuga aveva vinto la forza attrattiva, facendo sì che la cometa cominciasse ad allontanarsi dal Sole. Non molto tempo dopo questo scambio di opinioni, egli buttò giù una breve serie di proposizioni sulle comete, in cui affermava che lo spazio celeste era fluido e che i pianeti, nel loro corso, erano trascinati dall'etere celeste. Affermò inoltre che esisteva una gravità, diretta verso il Sole e verso i pianeti, inversamente proporzionale al quadrato della distanza; che, se la traiettoria delle comete era chiusa, doveva essere di forma ovale; infine, che l'oggetto comparso nel 1680-1681 era in effetti una cometa sola, che aveva girato intorno al Sole. Questo manoscritto rappresenta una testimonianza fondamentale del mutamento intervenuto nel pensiero newtoniano, intorno al 1681-1682, riguardo a tali argomenti. Si noti che, ancora in quegli anni, Newton riteneva corretta l'ipotesi di una natura fluida del cielo e non era del tutto sicuro che esistesse una relazione fra la forza inversamente quadratica e le sezioni coniche per le traiettorie delle comete.
Nel 1684, in occasione di una visita a Cambridge, l'astronomo Edmond Halley (1656-1742) chiese a Newton quale curva sarebbe stata generata dalla combinazione di un moto rettilineo uniforme e di un'attrazione centrale inversamente proporzionale al quadrato della distanza. Newton rispose che il risultato dei due moti doveva essere un'ellisse e non riuscendo a trovare i propri appunti con la dimostrazione, promise a Halley che gliela avrebbe spedita a Londra. Nel giro di qualche mese, Newton fu in grado di fare avere a Halley la dimostrazione inversa ‒ cioè che se un corpo si muove lungo un'ellisse, allora è soggetto a una forza di attrazione inversamente proporzionale al quadrato della distanza dal fuoco ‒ e molto altro ancora. Entro il 1686, dopo numerose stesure sempre più approfondite, aveva portato a termine, pronto per la pubblicazione, uno stupefacente lavoro di cinquecento pagine suddivise in tre libri: il primo e il secondo trattavano il moto dei corpi nei mezzi, rispettivamente non resistenti e resistenti; il terzo, sul Sistema del mondo, si basava largamente sulle dimostrazioni matematiche del primo volume e le applicava a una straordinaria gamma di fenomeni, come il moto dei pianeti e dei satelliti ‒ in particolare la complicata questione del moto lunare ‒, le maree, la forma della Terra, la precessione degli equinozi e le comete. È possibile che Newton abbia cominciato a procedere per tentativi con la matematica in seguito ai suggerimenti di Hooke e soprattutto alla visita di Halley. In ogni caso, deve aver compreso ben presto la straordinaria potenza della sua costruzione, inimmaginabile in precedenza, in cui un'enorme varietà di fenomeni celesti e terrestri era ricondotta all'idea che tutte le parti della materia si attraggono reciprocamente in ragione del quadrato della distanza.
Prima di provare a presentare alcuni dei principali risultati del capolavoro di Newton, Philosophiae naturalis principia mathematica (1687), bisogna discutere questioni, quali il titolo, il genere e lo stile dell'opera, il pubblico a cui era diretta e il tipo di matematica utilizzata. Il titolo suona come una puntualizzazione in riferimento ai Principia philosophiae di Descartes e probabilmente Newton lo intendeva proprio in questo modo: voleva infatti sottolineare le solide basi matematiche di cui aveva provvisto il proprio lavoro, in contrapposizione alle 'fantasie' di Descartes. Newton era particolarmente energico ed efficace nelle sue critiche, dato che egli stesso aveva un tempo aderito a molte di quelle dottrine che ora confutava. La reazione newtoniana contro Descartes e contro la sua concezione dello spazio e del moto può essere fatta risalire a un importante manoscritto che precede i Principia, il De gravitatione et aequipondio fluidorum, la cui datazione è controversa ed è stata collocata nel periodo che va dalla metà degli anni Sessanta alla metà degli anni Ottanta del XVII secolo. Nel De gravitatione assistiamo agli effetti dell'influenza dei platonici di Cambridge, in particolare di Henry More (1614-1687), sul ruolo di Dio nell'Universo e sulla relazione del divino con lo spazio e il tempo.
Il titolo del lavoro di Newton è indicativo dei contenuti e dei lettori a cui intendeva rivolgersi. L'argomento non si prestava a una presentazione semplice, ma nonostante ciò Newton fa ai suoi lettori ben poche concessioni. Mentre Galilei, nei Discorsi, alleggerisce l'impatto delle dimostrazioni matematiche, introducendo nelle Giornate Terza e Quarta alcune discussioni fra tre interlocutori, Newton invece aggiunge alla struttura di un lavoro già complesso, proposizioni e teoremi non indispensabili che i lettori avrebbero potuto benissimo saltare. In effetti, all'apertura del Libro III, lo stesso Newton avverte di concentrare l'attenzione sulle prime tre sezioni del Libro I e di passare poi al terzo. Solo qualche occasionale scolio permette qua e là di tirare il fiato, interrompendo l'andamento deduttivo del libro. Con una presentazione così proibitiva, Newton eliminava dal novero dei potenziali lettori chiunque non fosse esperto di matematica superiore. Aveva buone ragioni per farlo, dal momento che, dopo le pubblicazioni degli anni Settanta nel campo dell'ottica, era stato coinvolto in una serie di esasperanti dispute che gli avevano fatto giurare di abbandonare la filosofia.
Nella prefazione, Newton colloca il proprio lavoro nella tradizione della matematica mista, in particolare della meccanica razionale. Tuttavia, poiché la meccanica si occupa delle arti pratiche, è cosciente del fatto che i Principia andavano al di là dell'ambito meccanico, perché trattavano questioni relative al mondo naturale e soprattutto perché affrontavano i fenomeni del moto in quanto attinenti alla filosofia. In particolare, Newton afferma che il compito della filosofia consiste nell'investigare le forze della Natura a partire dai fenomeni, e nel ricavare poi da tali forze gli altri fenomeni. I primi due libri dei Principia sono in gran parte strutturati in maniera assiomatica, pressappoco come le parti scritte in latino dei Discorsi di Galilei e come l'Horologium oscillatorium di Huygens. Newton procede ex suppositione: se sono date certe forze, allora i corpi si muovono in un determinato modo. Nel Libro III, la struttura matematica trova applicazione alla struttura dell'Universo. Sia a Galilei sia a Newton sarebbe piaciuto moltissimo riuscire a fornire una spiegazione convincente e presentabile della gravità, ma entrambi non furono in grado di farlo o vi rinunciarono. Tutti e due sostennero, comunque, che l'impianto matematico da loro creato offriva un'eccellente descrizione dei fenomeni che stavano studiando.
La matematica di Newton nei Principia non è così semplice da definire, dato che l'autore fa uso di una grande varietà di tecniche, quali la geometria infinitesimale, che chiamò il metodo dei primi e ultimi rapporti, le serie infinite e talvolta si avvale anche del calcolo o dei teoremi sulle quadrature. Alcuni hanno trovato stupefacente che Newton, pur avendo inventato il metodo delle flussioni nel 1665-1666, non lo abbia utilizzato molto nel suo lavoro. Il metodo dei primi e ultimi rapporti, tuttavia, era uno strumento potente e adatto a trattare gli argomenti oggetto dei suoi studi, che erano di tipo geometrico, come le traiettorie orbitali e le loro tangenti. In età più avanzata, quando fu coinvolto in un'acrimoniosa disputa con Leibniz riguardo all'invenzione del calcolo, Newton dichiarò di aver formulato originariamente il suo capolavoro nel linguaggio del calcolo e di averne poi tradotto il simbolismo matematico al momento di pubblicarlo. Tali affermazioni si riferiscono però solo ad alcune parti minori del suo lavoro, non ai teoremi fondamentali riguardanti il moto orbitale.
Per lunghezza, vastità e complessità, i Principia di Newton superano tutti i più importanti trattati discussi in questo capitolo. Sarebbe dunque impossibile fornire un riassunto adeguato anche solo dei suoi punti principali. Inoltre, sebbene alcuni teoremi siano sempre stati considerati altamente significativi, altri hanno avuto una storia più interessante e con il passare del tempo la percezione dei lettori nei loro confronti è andata modificandosi. Le considerazioni che seguono vanno lette alla luce di queste osservazioni.
Newton parte con un tipico approccio matematico, dando cioè una serie di definizioni, riguardanti la quantità di materia e di moto, la forza insita e quella impressa, e diversi tipi di forza centripeta. Prima di Newton, le questioni terminologiche erano state il tormento della meccanica e proprio il successo della sua opera contribuì a fare in modo che si stabilisse una nomenclatura comune largamente condivisa. Nella concezione cartesiana, la massa di un corpo coincideva sostanzialmente con il suo volume, cosicché si poteva parlare indifferentemente di massa o di dimensioni. Newton, al contrario, intendeva sottolineare che nel suo lavoro non veniva preso in considerazione solamente il volume, o la mole, di un corpo, ma anche la densità. Grazie a esperimenti con il pendolo, Newton riuscì a stabilire che la massa e il peso erano proporzionali. La massa, tuttavia, è una caratteristica costante di un corpo, mentre il peso dipende dalla sua posizione: per esempio, il peso di un corpo al livello del mare è maggiore di quello dello stesso corpo in cima a una montagna. La forza insita, nota anche come forza di inerzia, sembra avere una duplice natura: da un lato, è la proprietà che ha ogni corpo di permanere, se indisturbato, nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme; d'altra parte, si presenta come una forza latente che il corpo possiede, che si manifesta quando un'altra forza cerca di modificarne lo stato di moto. Una forza impressa è un'azione che modifica lo stato di quiete o di moto rettilineo di un corpo. Le otto definizioni sono accompagnate da uno scolio, in cui Newton discute i concetti di spazio e tempo e introduce la distinzione fra spazio, tempo e moto relativi e assoluti: i primi sono oggetto di nostre sensazioni, mentre i secondi sono matematici e veri. Secondo Newton, non è possibile individuare il moto rettilineo uniforme assoluto, ma nel caso di moto circolare la tendenza dei corpi a sfuggire lungo la direzione della tangente fornisce la prova della rotazione assoluta.
Newton prosegue poi con l'enunciare tre leggi del movimento. La prima, cui oggi ci si riferisce comunemente con il nome di principio di inerzia, deriva da Descartes. La seconda afferma che la forza di moto impressa a un corpo è proporzionale alla variazione della quantità di moto nella stessa direzione della forza. Questa legge viene messa in atto sia nel caso in cui la forza venga applicata tutta insieme, come negli urti, sia nel caso in cui essa agisca con continuità, come per la forza centripeta. La forza impressa può dunque essere proporzionale o alla differenza di velocità del corpo per effetto dell'urto, oppure alla variazione della sua velocità in un dato intervallo di tempo, cioè all'accelerazione. Infine, la terza legge stabilisce che le azioni reciproche di due corpi sono uguali e contrarie. Questa legge ebbe importanti applicazioni agli urti, discusse da Newton anche in relazione a esperimenti svolti da Wren alla Royal Society, da Mariotte e da lui stesso. Newton sottolineò che la terza legge era universale e che la conservazione della quantità di moto non dipendeva dalla caratteristica dei corpi di essere perfettamente rigidi o elastici, ma valeva anche per i corpi morbidi, per esempio una palla di lana compressa. Newton utilizza inoltre tale legge per stabilire un risultato fondamentale, ovvero la reciprocità dell'attrazione.
È facile comprendere, a partire da queste premesse, l'importanza fondamentale che rivestono, nel lavoro di Newton, le nozioni di quantità di moto e della sua conservazione. I fenomeni di urto erano stati uno strumento essenziale per descrivere molti casi reali del comportamento dei corpi e, con le opportune generalizzazioni, potevano essere estesi a campi ancora più vasti. Questo processo può essere osservato nella sezione II, proposizione 1, in cui Newton enuncia un teorema straordinariamente potente ed elegante: nel caso di un corpo in rotazione attorno a un centro di forze fisso S, l'area spazzata dal raggio dell'orbita e il tempo di percorrenza dell'arco corrispondente sono proporzionali. Qui la curva descritta dal corpo orbitante è inizialmente rappresentata come un poligono, ai cui vertici A, B, C agiscono impulsi istantanei di forza centripeta che fanno deflettere il corpo verso S. Con l'aiuto della matematica elementare, Newton riesce a dimostrare che le aree dei triangoli SAB, SBC, SCD, ecc., sono proporzionali al tempo richiesto a percorrere i tratti AB, BC, CD. A questo punto, la forza centripeta è fatta agire in maniera continua e la larghezza dei triangoli è fatta diminuire in infinitum, in modo che il poligono ABCD… diventi una curva. Tale generalizzazione della legge di Kepler delle aree, secondo cui le aree spazzate dai raggi sono proporzionali ai tempi, richiede solo che la forza sia centrifuga, mentre la sua dipendenza dalla distanza è arbitraria. Newton fornì una spiegazione anche per le altre due leggi di Kepler, che stabiliscono che i pianeti si muovono su ellissi in cui il Sole occupa uno dei fuochi e che i quadrati dei tempi di rivoluzione sono proporzionali ai cubi degli assi maggiori delle ellissi planetarie.
Un esempio della natura potente e intuitiva del metodo geometrico di Newton può essere ricavato dalla proposizione 6, in cui si dimostra che se un corpo P ruota intorno a un centro di forza S lungo una curva APQ, e se RPZ è tangente alla curva in P, QR è parallelo al raggio SP e QT è perpendicolare a SP, allora, quando P tende a Q, la forza centripeta è proporzionale alla deviazione QR e inversamente proporzionale al quadrato di SP×QT. Ma SP×QT va come il tempo, perciò, al limite, la forza centripeta va come il rapporto fra la distanza QR e il quadrato del tempo. Per alcune curve, Newton riuscì a trovare diverse forme di tale espressione. Nella sezione III, proposizioni 9-13, si trova che se i corpi ruotano lungo sezioni di cono, la forza diretta verso il fuoco è inversamente proporzionale al quadrato della distanza. Newton affermò che vale anche l'inverso; che egli avesse fornito o meno una dimostrazione di tale affermazione, divenne in seguito argomento di dibattito fra i matematici.
I risultati che Newton dimostra nelle sezioni di apertura del Libro I prendono in considerazione un centro di forze fisso, che tuttavia in Natura non esiste. La sezione XI tratta delle attrazioni reciproche fra i corpi. Nell'introduzione, Newton osserva che, nonostante nel suo libro si parli di forze attrattive, forse dal punto di vista fisico sarebbe stato più corretto parlare di impulsi. Le forze di attrazione suggeriscono l'idea di un'azione a distanza di natura continua, mentre gli impulsi rimandano a un'azione di contatto di natura discreta, come nel caso degli urti. Newton fa notare che la trattazione è di tipo matematico, e che ciò lo autorizza a mettere da parte le discussioni riguardanti le questioni fisiche. Tali commenti, che si ritrovano anche nella seconda e terza edizione (1713, 1726), sono piuttosto bizzarri, dato che Newton afferma anche che lo spazio celeste è un mezzo privo di qualsiasi resistenza, cosicché al lettore viene spontaneo chiedersi da dove vengano gli impulsi di cui parla Newton; ma l'interrogativo è lasciato senza risposta. In seguito, nelle Queries poste in appendice al trattato Opticks, Newton introdurrà ulteriori speculazioni sulla causa della gravità e sull'esistenza di fluidi sottili. Sempre nella sezione XI, proposizione 66, affronta il problema dei tre corpi, una delle maggiori sfide matematiche del suo sistema. Alle forze attrattive fra corpi sferici e non sferici sono dedicate le sezioni XII e XIII, in cui Newton riesce a dimostrare che una particella posta all'esterno di un corpo sferico è soggetta a una forza attrattiva inversamente proporzionale al quadrato della distanza dal centro, come se tutta la massa fosse concentrata in quel punto. I pianeti possono dunque essere trattati come se fossero puntiformi.
Il Libro II, riguardante il moto dei corpi nei mezzi resistenti, è stato considerato dagli storici molto meno interessante ed è stato, di conseguenza, meno studiato. Gli argomenti trattati da Newton sono la resistenza in un mezzo ‒ proporzionale alla velocità sia semplice sia quadratica ‒, il moto del pendolo, la resistenza offerta dai fluidi al moto di un proiettile e la propagazione delle onde e del suono. Nella sezione VII, dedicata al moto dei fluidi e alla resistenza di un mezzo al moto di un proiettile, Newton cerca di risolvere il problema, già affrontato da Torricelli, di trovare la velocità di un getto d'acqua che fuoriesce da un foro praticato sul fondo di un recipiente. Diversamente dal matematico italiano, Newton conclude che la velocità del getto deve essere uguale alla velocità di un corpo in caduta libera da una quota pari alla metà dell'altezza dell'acqua nel recipiente. In seguito, questa conclusione si dimostrò controversa (in effetti è erronea) e di conseguenza sia Newton, nelle successive edizioni dei Principia, sia vari matematici del XVIII sec. portarono a termine una serie di esperimenti, pratici e mentali, per risolvere la questione. Nella stessa sezione, Newton fece ricorso al moto del pendolo per studiare la resistenza al moto di un proiettile, sospendendo all'estremità di un filo un recipiente che poteva essere riempito con diverse sostanze. Dal comportamento del recipiente, dedusse che la resistenza dipendeva dalla superficie esterna del corpo e non da un'eventuale resistenza interna, causata da un ipotetico etere che pervadeva i pori di tutti i corpi contenuti nel recipiente. Secondo Newton, questo esperimento dimostrava efficacemente che si davano solo due possibilità: o non esisteva alcun etere, oppure, se esisteva, non offriva alcuna resistenza al moto. Nonostante la sua natura matematica, il Libro II contiene anche accurate indagini sperimentali sulla resistenza al moto del pendolo, i cui risultati sono riportati nelle numerose tabelle dello scolio alla proposizione 40 del Libro II. Nella tab. 1, per esempio, le righe 1 e 2 forniscono le lunghezze in pollici degli archi descritti dal pendolo rispettivamente nella prima e ultima oscillazione, nella riga 3 si può leggere la differenza fra i due suddetti valori e nelle righe 4 e 5 il numero di oscillazioni rispettivamente in aria e in acqua. Dall'inizio alla fine dei Principia, inoltre, Newton non manca di riportare i risultati sperimentali delle sue misure, fornendo valori spesso in accordo molto stretto, per quanto non del tutto, con le previsioni teoriche: è, questa, un'importante caratteristica del suo lavoro.
Newton conclude il libro con un tentativo di confutazione della teoria dei vortici interplanetari, in cui cerca di dimostrare come essa sia in disaccordo con le leggi di Kepler sul moto dei pianeti. A tale scopo, Newton traccia un modello semplificato del Sistema solare copernicano, con il centro in S, un cerchio esterno CF entrato in S e le circonferenze DA ed EB non centrate in S, essendo E e D i loro punti di massimo avvicinamento a S, o perieli, e A e B gli afeli. In base alla seconda legge di Kepler, i pianeti dovrebbero muoversi più velocemente in E e D piuttosto che in A e B, ma ‒ secondo le leggi della meccanica ‒ i vortici dovrebbero essere più veloci nei tratti A e B, più stretti, che nei tratti E e D, più larghi. Qui lo scopo di Newton è dimostrare che l'ipotesi dei vortici porta necessariamente a una contraddizione: o con le leggi del moto dei pianeti oppure con la legge di Castelli per il flusso dell'acqua.
Il Libro III, caratterizzato da un diverso stile, studia i fenomeni del mondo reale partendo dalle costruzioni matematiche del Libro I. Sebbene alcuni problemi, come il moto lunare e la precessione degli equinozi, non potessero essere pienamente risolti da Newton, nel complesso i successi ottenuti erano senza precedenti. Nello studio delle comete, per esempio, non solo Newton riuscì a mostrare che obbediscono alle stesse leggi dei pianeti e degli altri corpi celesti, ma fu in grado anche di determinare, con metodi grafici, i parametri caratteristici della grande cometa del 1680-1681, raggiungendo uno stupefacente livello di accuratezza. In altri casi, Newton ebbe meno successo; per esempio, nel tentativo di trovare una causa e fornire una spiegazione quantitativa per la precessione degli equinozi ‒ fenomeno noto sin dall'Antichità ‒, basò la sua analisi sugli effetti esercitati dalla Luna e dal Sole sulla Terra, effetti legati alla particolare forma di quest'ultima, schiacciata ai poli. In realtà, l'approccio corretto sarebbe stato quello di utilizzare le leggi del corpo rigido e non le leggi del moto discusse all'inizio dei Principia. Per esempio, Newton applica la conservazione della quantità di moto invece della conservazione del momento angolare, grandezza che ha le dimensioni di una quantità di moto moltiplicata per una distanza. Tale esempio mostra che le leggi del moto fornite da Newton erano solo una parte delle leggi della meccanica, che saranno poi sviluppate nel corso del XVIII secolo. In conclusione, i mezzi teorici e pratici che Newton aveva a disposizione lo misero in grado di approfondire e studiare il comportamento dei punti materiali, mentre soltanto dopo la sua morte fu possibile affrontare con successo e con l'uso di strumenti concettuali e matematici più potenti, il comportamento dei corpi rigidi, fluidi ed elastici.
Non si dovrebbe commettere l'errore di giudicare i Principia fermandosi all'apparenza, cioè come un lavoro esclusivamente pertinente alle discipline matematiche. Ampie fonti manoscritte rivelano infatti l'esistenza di legami fra tale opera e le ricerche di Newton nel campo della teologia e dell'alchimia. Gli studi teologici riguardano in particolare il problema della presenza di Dio in uno spazio infinito, probabilmente vuoto, e il suo possibile ruolo nell'attrazione reciproca fra i corpi. Lo scolio generale che conclude la seconda e la terza edizione dei Principia contiene un inno a Dio e al Creato, che nella sua perfezione rivela il progetto del Creatore. L'interesse per l'alchimia è legato probabilmente a una concezione in senso esteso della Natura e delle sue forze, ma è rintracciabile solo in due punti, in particolare nell'ipotesi 3, Libro III della prima edizione, in cui si afferma che ogni corpo può essere 'trasmutato' in un altro di diverso tipo, e nella discussione sul ruolo delle comete, presente in tutte e tre le edizioni. Newton attribuiva un ruolo provvidenziale alle comete, le cui code fornivano i liquidi consumati nel corso dei processi vegetativi e putrefattivi e poi trasformati in polvere. Come scrive nei Principia, sospettava inoltre che la parte più sottile dell'aria, necessaria alla sopravvivenza del genere umano, provenisse dalle comete.
Malgrado gli sforzi fatti da Newton per selezionare i destinatari del suo trattato in modo da escludere i meno esperti di matematica, i Principia non furono accolti senza critiche. La recensione sulle "Philosophical Transactions", scritta da Halley, che aveva visto il libro in fase di stampa, fu molto favorevole, com'è facile immaginare. Gli "Acta Eruditorum" fornirono un resoconto positivo e dettagliato del lavoro, mentre il "Journal des Sçavans" fu piuttosto critico. Inoltre, i matematici ‒ che, a giudizio di Newton avrebbero dovuto essere i lettori potenzialmente più ricettivi e ai quali aveva spedito alcune copie del libro (per es., Huygens e Leibniz) ‒ furono estremamente critici nei confronti del suo peculiare approccio alle cause fisiche e rimasero molto colpiti dal fatto che ammettesse la possibilità di un'azione a distanza, o comunque di un'azione in assenza di un mezzo interposto. Leibniz replicò pubblicando, nel 1689, due articoli sugli "Acta Eruditorum", uno sul moto dei corpi nei mezzi resistenti, Schediasma de resistentia medii, l'altro sui moti planetari, Tentamen de motuum coelestium causis. In entrambi utilizzò il calcolo differenziale, da lui sviluppato a Parigi fra il 1675 e il 1676, di cui aveva pubblicato i rudimenti nella Nova methodus, apparsa sugli "Acta Eruditorum" del 1684, e nel De geometria recondita del 1686. Lo Schediasma tratta un argomento che Leibniz aveva già esaminato, mentre il Tentamen fu messo insieme frettolosamente, ma brillantemente, sulla base di quanto dimostrato da Newton nei Principia. Il Tentamen è particolarmente interessante per il modo in cui Leibniz riuscì a ritrovare alcuni dei risultati ottenuti da Newton sui moti celesti, ricorrendo però a un sistema basato sui vortici. Abbiamo visto come nella proposizione 1 del Libro I, Newton fosse stato in grado di spiegare in termini di forze centrali la legge di Kepler per le aree. È difficile immaginare di poter riscrivere in forma diversa una dimostrazione tanto efficace e potente: eppure Leibniz vi riuscì, mostrando che i moti planetari ellittici potevano essere scomposti nella somma di due moti, uno circolare e uno radiale. Questo approccio è simile a quello di Kepler, il cui lavoro era noto a Leibniz, e ricorda le Theoricae di Borelli, che probabilmente Leibniz all'epoca non aveva letto. Se il moto circolare avviene secondo una semplice legge, in cui la velocità di rotazione è inversamente proporzionale alla distanza dal centro, Leibniz dimostra che si ottiene proprio la legge di Kepler delle aree, qualunque sia il moto radiale. A questo punto, per salvare la teoria dei vortici dei moti planetari, egli sostiene l'effettiva esistenza di un vortice in rotazione attorno al Sole, che nel suo moto segue la legge richiesta e trascina con sé i pianeti. Leibniz riuscì anche a dimostrare che il moto lungo il raggio era la conseguenza di una mancanza di equilibrio fra una forza centrifuga diretta verso l'esterno e una forza centripeta inversamente proporzionale al quadrato della distanza. Dunque, la sua scomposizione matematica del moto, differente da quella di Newton, si prestava direttamente a un'interpretazione fisica alternativa. Tuttavia, Leibniz non fu in grado di spiegare la terza legge di Kepler, secondo cui i quadrati dei tempi di rivoluzione sono proporzionali ai cubi degli assi maggiori delle orbite ellittiche e neppure riuscì a dar conto di vari altri fenomeni, in particolare delle comete.
Anche Huygens fu impressionato e al tempo stesso turbato dal lavoro di Newton. È interessante il fatto che nella sua risposta ai Principia, un lavoro dal titolo Discours de la cause de la pesanteur (1690, pubblicato insieme al Traité de la lumière), egli abbia posto l'attenzione sulla parola 'causa', più o meno come aveva fatto Leibniz. Huygens considerava la legge dell'inverso del quadrato come una vera e propria scoperta ed era pronto a rigettare l'ipotesi dei vortici cartesiani. Credeva tuttavia nell'esistenza di un etere come causa della gravità. Secondo Huygens, l'etere aveva la sua ragion d'essere in quanto mezzo di propagazione della luce, che, come è noto, riteneva analoga alla propagazione delle onde in un mezzo. Nel Discours, anche Huygens espresse le sue idee sul moto nei mezzi resistenti. A parte recensioni sulle riviste specialistiche, i lavori di Leibniz e Huygens possono essere considerati le principali reazioni suscitate dai Principia di Newton nel XVII secolo.
Nei lavori di Galilei e Torricelli sul moto del pendolo, sul piano inclinato e sui getti d'acqua che fuoriescono da un recipiente, si trova la nozione di conservazione, espressa nel concetto che qualunque oggetto, cadendo, ha la proprietà di risalire alla quota di partenza, se non si tiene conto degli impedimenti accidentali. Nell'Horologium oscillatorium, anche Huygens si riferisce a questo stesso concetto e Descartes, nei Principia philosophiae, fa della conservazione della quantità di moto una delle colonne portanti della sua concezione del mondo. Tutti coloro che in seguito si occuperanno delle leggi degli urti seguiranno l'esempio di Descartes e formuleranno nuove leggi di conservazione per gli urti elastici e per gli urti in generale.
Fu Leibniz, tuttavia, il più fedele seguace di Descartes, con i suoi tentativi di formulare una legge di conservazione; paradossalmente, fu anche il suo più accanito oppositore, nel senso che era in disaccordo con Descartes sulla grandezza fisica che doveva ritenersi conservata. Ancora una volta, furono i prestigiosi "Acta Eruditorum" di Lipsia il luogo privilegiato in cui puntualmente trovarono spazio e risonanza le sue pubblicazioni. Nel 1686, Leibniz sferrò il suo attacco a Descartes con la Brevis demonstratio erroris memorabilis Cartesii et aliorum. Qui il filosofo affermava che la grandezza fondamentale che in Natura godeva della proprietà di conservazione non era la quantità cartesiana di moto, ma bensì la forza, una delle cui possibili misure era data da mv2, cioè dal prodotto della massa, o quantità di materia, per il quadrato della velocità. In Leibniz, lo studio della Natura era strettamente connesso agli studi filosofici, e il suo principio di conservazione era frutto più del concetto metafisico di equivalenza fra effetto totale e causa piena, che di approfonditi esperimenti quantitativi. Per dimostrare la sua tesi, formulò tuttavia un potente esperimento mentale (fig. 19). Partì da due assiomi: primo, un corpo che cade da una certa altezza acquista una forza sufficiente a risalire alla stessa quota, a meno che non esistano impedimenti esterni; secondo, per sollevare un corpo A di una libbra all'altezza CD di quattro tese, occorre tanta forza quanta ne serve per sollevare un corpo B di quattro libbre all'altezza EF di una tesa. È difficile contestare questo assioma, se si considera che B può essere pensato come composto da quattro corpi di una libbra ciascuno, ognuno dei quali è sollevato di una tesa. Ora, un corpo A che cade da una quota di quattro tese acquista una velocità doppia rispetto a quella acquistata da un corpo B che cade da una tesa, come era stato dimostrato da Galilei. Alla fine del suo percorso, A avrà una quantità di moto pari a due unità, mentre B avrà una quantità di moto di quattro unità. Ma poiché A e B hanno per ipotesi la stessa forza, si ricava che forza e quantità di moto non sono la stessa cosa. Infatti, se lo fossero, avremmo ottenuto il moto perpetuo. Secondo Leibniz, una misura della forza è data dall'altezza alla quale il corpo è in grado di sollevarsi, o, equivalentemente, dal quadrato della velocità che acquista precipitando, in questo caso detta vis viva, o forza viva. Simili concetti saranno espressi da Leibniz in articoli successivi. Per quanto riguarda gli urti, comunque, una nozione cartesiana leggermente modificata, cioè la quantità di moto combinata con la direzione, o quantità di moto vettoriale, è supposta conservarsi universalmente, mentre la forza di Leibniz mv2 si conserva solo per gli urti elastici. Leibniz insiste sul fatto che la forza si conserva sempre, sostenendo che in quei casi in cui apparentemente sembra che essa sia dissipata, di fatto ciò che avviene è un trasferimento alle componenti microscopiche dei corpi in collisione.
Alcune di queste idee furono elaborate nello Specimen dynamicum, pubblicato negli "Acta Eruditorum" del 1695. Con questo articolo, Leibniz introdusse pubblicamente il termine 'dinamica', che aveva coniato alcuni anni prima, con il significato di scienza delle forze. Oggi il termine è usato per indicare quell'area della meccanica che ha per oggetto lo studio del moto sotto l'azione di una forza, intesa come il prodotto della massa per l'accelerazione. Intorno al 1700, tuttavia, la 'dinamica' era circondata da un alone che la qualificava come 'leibniziana' e indicava una complessa serie di dottrine a metà strada fra metafisica, filosofia naturale e meccanica. È curioso che oggi si parli comunemente di 'dinamica newtoniana', visto che proprio Newton trovava particolarmente irritanti tanto il termine introdotto da Leibniz, quanto le sue dottrine. Il tentativo di Leibniz fu quello di conciliare le idee di Aristotele con la filosofia meccanica, attraverso la costruzione di un sistema stratificato di più profonde entità metafisiche e delle loro manifestazioni fenomenologiche visibili. A parte l'azione a distanza, Leibniz rigettò anche le idee newtoniane di spazio, tempo e moto assoluti. Il suo attacco più elaborato contro tali dottrine fu formulato alla fine della sua vita, nella corrispondenza con il teologo inglese Samuel Clarke, le cui idee erano estremamente vicine al pensiero di Newton.
Un altro argomento di contesa fra i due studiosi e i rispettivi sostenitori riguardava i principî di conservazione. Secondo Newton, la vis viva nell'Universo non si conservava, dato che l'Universo, per andare avanti, necessitava del costante intervento di Dio. Al contrario, Leibniz pensava che Dio, nella sua infinita saggezza, avesse predisposto l'Universo in modo tale da non richiedere il proprio continuo intervento. Le dispute intorno alla conservazione della forza occuparono la prima metà del XVIII sec. e comportarono interessanti tentativi sperimentali concepiti per misurare gli effetti della caduta dei corpi lasciati cadere sull'argilla. Si trovò che, per imprimere nell'argilla segni ugualmente profondi, l'altezza dei corpi doveva essere proporzionale alla massa. Dato che l'altezza di caduta era proporzionale al quadrato della velocità, gli esperimenti suggerirono che la vis viva fosse una significativa misura della forza.
Abbiamo brevemente analizzato una delle principali caratteristiche delle riflessioni leibniziane sulla Natura. Un'altra caratteristica cruciale del suo lavoro riguarda l'applicazione della matematica superiore e del calcolo differenziale ai problemi di moto e di meccanica. Nonostante questo primato sia stato attribuito a Newton, fu Leibniz il primo a contribuire a un'ampia diffusione di questo nuovo e potente strumento fra i matematici europei. Sebbene, sotto certi aspetti, le versioni del calcolo di Newton e di Leibniz siano largamente equivalenti, per altri aspetti la notazione di Leibniz è più efficace di quella adottata nei Principia. Newton si basa largamente sulla geometria, e nelle equazioni utilizza le lettere dell'alfabeto per rappresentare indifferentemente le costanti e le variabili. Quando si rende necessario il calcolo di un integrale, Newton afferma che il problema si riduce a trovare le quadrature e raramente fornisce una soluzione o un'indicazione riguardo alla tecnica da adottare. Al contrario, Leibniz segue la consueta regola di separare le costanti (a,b,c,…) dalle variabili (x,y,z,…) e scrive poi le equazioni differenziali, indicandone subito il tipo e quindi suggerendone una strategia di integrazione, generalmente il metodo della separazione delle variabili o quello della sostituzione di variabile.
A partire dall'ultimo decennio del XVII sec., gli "Acta Eruditorum" e altri giornali scientifici pubblicarono un numero considerevole di importanti lavori sulla meccanica ‒ di cui la scienza del moto era ormai parte integrante ‒, per esempio sulla forma della catenaria e della brachistocrona, ovvero la curva fra due punti percorsa da un grave nel più breve tempo possibile. Nel XVIII sec., anche nei "Mémoires de l'Académie Royale des Sciences" apparve una serie di fondamentali articoli basati sul calcolo differenziale. Oltre Leibniz, diversi matematici ‒ come Jakob I Bernoulli a Basilea, il fratello Johann I a Parigi, a Groningen e infine a Basilea, Pierre Varignon a Parigi, Jacob Hermann (1678-1733) a Padova, e altri ancora ‒ si accinsero a riformulare nel linguaggio della nuova matematica le proposizioni newtoniane dei Principia e ad affrontare un gran numero di problemi di crescente complessità. Varignon riscrisse ampie parti dei Principia nel nuovo formalismo matematico e Johann I Bernoulli fornì eleganti e potenti soluzioni a diversi problemi di meccanica, per esempio quello di trovare la traiettoria a partire da una forza data, noto come 'problema inverso delle forze centrali'.
In conclusione, se intorno al 1600, l'equilibrio dei corpi e la scienza delle macchine occupavano una posizione centrale nella meccanica, con lo schiudersi del Settecento tali questioni erano ormai state soppiantate da una moltitudine di problemi e argomenti diversi, come la caduta dei gravi, il moto dei proiettili, gli urti, l'equilibrio e il moto dei fluidi, il comportamento dei corpi rigidi ed elastici e le complesse traiettorie dei pianeti, dei satelliti e delle comete, in movimento sotto l'azione di ciò che appariva essere una forza universale. Se si confronta l'iniziale formulazione della scienza del moto con i risultati ottenuti nei periodi successivi e con la potenza e l'originalità della nuova matematica utilizzata, si ha decisamente l'impressione che i protagonisti di questo capitolo, più che trasformare un'antica disciplina, abbiano creato una scienza nuova.
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