La Rivoluzione scientifica: i protagonisti. Galileo Galilei
Galileo Galilei
Galileo Galilei nacque a Pisa il 15 febbraio 1564 (e non il 18, come riportano alcuni tra i primi biografi). Figlio maggiore di Vincenzo Galilei e di Giulia Ammannati, ebbe due fratelli ‒ Michelangelo, che fu musicista presso il granduca di Baviera, e Benedetto, morto in fasce ‒ e tre sorelle, Virginia, Anna e Livia (e forse anche una quarta di nome Lena). Suo padre era un musicista e aveva scritto un influente Dialogo sulla musica antica e della moderna (1581) in cui, attaccando duramente il suo maestro, Gioseffo Zarlino, rivelava una vena polemica che sarà poi ereditata dal figlio. I Galilei erano un'antica famiglia fiorentina: un avo, anch'egli di nome Galileo Galilei (nato nel 1370 e morto tra il 1446 e il 1451), era un medico di fama che fu eletto per due volte membro dei Priori e nel 1445 rivestì l'alta carica di gonfaloniere. Fu sepolto nella chiesa di Santa Croce dove la sua tomba, una lastra di marmo con una figura intera in bassorilievo, è ancora visibile nella navata vicino all'ingresso. Galilei era orgoglioso della sua ascendenza e si definisce 'nobil fiorentino' sul frontespizio del suo primo libro a stampa, Le operazioni del compasso geometrico e militare, pubblicato nel 1606.
Vincenzo Galilei si era stabilito a Pisa nel 1562, anno del matrimonio. Insegnava musica e integrava il suo magro guadagno con il commercio della seta. Alla fine del 1572 fece ritorno a Firenze, dove nel 1574 fu raggiunto dalla moglie e dal resto della famiglia. Secondo Diego Franchi, frate benedettino di Vallombrosa, Galileo fu mandato dal padre alla scuola di questo famoso monastero, circa 60 km a est di Firenze, ma dovette essere ritirato a causa di una non meglio specificata infiammazione agli occhi. Nel 1578 Vincenzo non riuscì ad assicurare al figlio una borsa di studio al Collegio della Sapienza di Pisa, nel quale quaranta giovani toscani erano mantenuti e istruiti gratuitamente. Un parente, Muzio Tedaldi, si offrì di ospitare il giovane Galilei nella sua casa di Pisa, ma Vincenzo decise che non avrebbe accettato finché Muzio non avesse sposato o lasciato Bartolomea Ammannati, la nipote della madre di Galilei, con la quale si diceva avesse una relazione. Infine, Muzio si sposò e nel 1580 Galilei si trasferì a Pisa, dove il 5 settembre fu immatricolato all'Università.
Galilei frequentò per quattro anni e mezzo la Facoltà delle arti, ma la abbandonò prima di aver concluso il ciclo ordinario degli studi. Questa era una pratica comune e non depose a suo sfavore quando, più tardi, fece domanda per un incarico accademico: pubblicazioni e buone lettere di presentazione erano più utili di un titolo universitario.
Galilei divenne allievo di Ostilio Ricci, membro della fiorentina Accademia del Disegno, e sotto la sua direzione studiò Euclide e Archimede. Egli mostrava notevoli capacità e, a sua volta, fu presto in grado di tenere lezioni private a Firenze e a Siena. Nel 1586 compose La bilancetta, un breve trattato in cui ricostruiva il ragionamento che Archimede dovette seguire per scoprire se l'orefice che aveva forgiato la corona di Gerone avesse sostituito l'oro con un altro metallo. Galilei approfittò delle capacità appena acquisite per costruire una bilancia idrostatica che rappresenta il primo esempio del suo interesse per le scienze applicate. Nel 1587, durante un viaggio a Roma, incontrò Cristoforo Clavio, il celebre matematico della Compagnia di Gesù, professore al Collegio Romano. Quello stesso anno Galilei fece richiesta per la cattedra di matematica all'Università di Bologna, che fu invece assegnata all'astronomo Giovanni Antonio Magini. Nel 1588 Galilei tenne due lezioni all'Accademia fiorentina sulla forma, il luogo e le dimensioni dell'Inferno dantesco: egli seppe abilmente mutare la sfida letteraria in un esercizio matematico e mostrò in che modo la geometria potesse essere applicata allo spazio dantesco. Si occupò anche di problemi relativi alla determinazione del centro di gravità dei solidi e inviò il suo lavoro al professore di matematica di Padova, Giuseppe Moletti, che lo elogiò in una lettera di presentazione. Favorevolmente colpiti furono anche Clavio e un nobile influente, il marchese e matematico Guidobaldo Dal Monte, che raccomandarono Galilei per la cattedra di matematica a Pisa, incarico che ottenne nel 1589.
Il luogo comune che vede Galilei nelle vesti di un ostinato sperimentatore deve molto a due episodi che, secondo Vincenzo Viviani, suo primo biografo, ebbero luogo negli anni del soggiorno pisano (1589-1592). Il primo riguarda il modo in cui la sua attenzione fu catturata dall'oscillazione regolare di una lampada nel duomo di Pisa, che lo indusse a fare "esperienze esattissime", come dice Viviani nel Racconto istorico: "si accertò dell'egualità delle sue vibrazioni, e per allora sovvenegli di adattarla all'uso della medicina per la misura della frequenza dei polsi" (p. 603). Da qui proviene la credenza che Galilei scoprì l'isocronismo del pendolo e inventò un pulsilogium, o strumento per misurare la frequenza dei battiti del polso, già durante il suo periodo pisano. Tuttavia, al di là della testimonianza di Viviani, non esiste altra prova che egli fosse a conoscenza dell'isocronismo del pendolo prima del 1602, quando attirò l'attenzione di Dal Monte sulla questione. Il secondo episodio è la celebre descrizione della salita di Galilei sulla torre pendente di Pisa e, "con l'intervento delli altri lettori e filosofi e di tutta la scolaresca", della confutazione di Aristotele attraverso la dimostrazione che i corpi cadono sempre alla stessa velocità, anche se di peso diverso (ibidem, p. 606). Frequenti riferimenti a torri si trovano in un trattato dal titolo De motu, scritto a Pisa intorno al 1591, ma la tesi di Galilei non è che i corpi cadono alla stessa velocità indipendentemente dal peso, ma che la loro velocità è proporzionale alle differenze tra la loro pesantezza e la densità del mezzo attraverso il quale discendono. In altre parole, egli arrivò all'errata conclusione che soltanto corpi della stessa materia cadono alla stessa velocità, mentre ciò non avviene per corpi di diversa materia.
In tempi recenti sono state studiate con particolare attenzione le note manoscritte che il curatore dell'edizione nazionale delle Opere di Galilei, Antonio Favaro, descriveva come Juvenilia e che pubblicò soltanto parzialmente nel primo volume della sua monumentale edizione. Alistair C. Crombie (1975) e, con maggior completezza, William A. Wallace (1984) hanno mostrato che questi quaderni (Firenze, Biblioteca Nazionale, Manoscritti Galileiani, 27, 46) non erano solo esercizi scolastici ma furono scritti nel periodo in cui Galilei ottenne il primo incarico universitario. Il primo quaderno (ms. 27) tratta questioni di logica e in larga parte corrisponde agli Additamenta che Ludovico Carbone integrò ai celebri Commentaria di Francisco Toledo alla logica di Aristotele. Il problema si poneva in relazione alla data di pubblicazione di quest'ultima, 1597: chiaramente troppo tarda, a meno che non si sostenesse che gli appunti di Galilei fossero successivi al 1591. Wallace ha risolto il mistero scoprendo che Carbone usò gli appunti del gesuita Paolo Valla, che insegnava logica al Collegio Romano nel periodo 1587-1588 (Wallace 1984). Galilei avrebbe potuto procurarsene una copia attraverso Clavio, presso il quale si recò in visita a Roma nel 1587. Il secondo quaderno (ms. 46) riguarda l'analisi di problemi fisici relativi al De caelo e al De generatione et corruptione di Aristotele. Wallace ha identificato come possibili fonti le opere a stampa dei gesuiti Francisco Toledo, Benito Pereyra e Cristoforo Clavio (di quest'ultimo, significativamente, l'opera In sphaeram Joannis de Sacrobosco del 1581).
Wallace ha inoltre segnalato la presenza di analogie con altri professori gesuiti come Antonio Menu, Muzio Vitelleschi, Lodovico Ruggiero e Valla. Lo scopo di questi quaderni rimane ignoto; è probabile, tuttavia, che non fossero usati da Galilei per le lezioni, ma che costituissero il mezzo per raggiungere quella formazione scolastica che egli riteneva dovesse far parte del patrimonio di un professore di filosofia naturale. Il rapporto tra questi quaderni e il successivo sviluppo del suo pensiero attende indagini ulteriori e più approfondite.
Nel 1591 il padre di Galilei morì, lasciandolo, in quanto figlio maggiore, di fronte a gravi responsabilità finanziarie. Egli non poteva aspettarsi un grande aiuto dal fratello Michelangelo, doveva prendersi cura della madre e pagare la dote della sorella Virginia, che aveva sposato Benedetto Landucci. In seguito dovette provvedere alla dote e trovare un marito per Livia (sembra invece che Anna sia morta in giovane età). La cattedra di matematica a Padova, vacante dalla morte di Moletti nel 1588, era più redditizia di quella di Pisa e Galilei poté ottenerla nel 1592, sempre grazie all'interessamento del marchese Guidobaldo Dal Monte. Nella città veneta Galilei iniziò presto a frequentare Giovanni Vincenzio Pinelli, che gli mise a disposizione la sua immensa biblioteca, e conobbe Paolo Sarpi ‒ il frate che difese le libertà civili di Venezia ‒ con il quale discusse della teoria copernicana; alcuni appunti di Sarpi risalenti al periodo 1595-1596 sembrerebbero contenere il primo riferimentio all'argomento delle maree che in seguito Galilei avrebbe sviluppato per dimostrare il moto della Terra. Egli fece anche la conoscenza di fra' Fulgenzio Micanzio, segretario e, successivamente, biografo di Sarpi. Per quanto non fosse d'accordo con le sue idee, Galilei strinse amicizia con il filosofo aristotelico Cesare Cremonini, il quale si rese persino garante di una richiesta dell'amico per un anticipo sullo stipendio. Galilei insegnava pubblicamente argomenti prefissati quali gli Elementi di Euclide, la Sfera di Giovanni di Sacrobosco, l'Almagesto di Tolomeo e le pseudoaristoteliche Quaestiones mechanicae. Sappiamo che gli studenti di medicina costituivano la maggior parte del suo pubblico, poiché Galilei protestò formalmente quando il professore di medicina Annibale Bimbiolo decise di tenere le lezioni alla stessa ora in cui egli svolgeva le sue.
Pochi anni prima del suo arrivo i gesuiti istituirono un collegio a Padova, ma i professori dell'Università accolsero con sdegno la loro presenza e nel 1591 richiesero formalmente alla Repubblica di Venezia di porre fine a quella che consideravano una competizione sleale. Tuttavia, sembra certo che Galilei non firmò mai né questa richiesta né le molte altre che furono approvate dal corpo accademico. Egli sapeva di dover molto ai gesuiti ed era un amico intimo di Paolo Gualdo, vicario generale della diocesi di Padova e fedele difensore della Compagnia di Gesù. Quando, nel maggio del 1606, i gesuiti furono espulsi dallo Stato di Venezia, Galilei descrisse con commozione la loro partenza in una lettera al fratello Michelangelo. A Padova egli aveva tra i suoi studenti il nobile fiorentino Filippo Salviati e il patrizio veneto Giovanni Francesco Sagredo; entrambi morirono prematuramente e Galilei volle onorarne la memoria dando i loro nomi a due dei tre interlocutori del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632). Il suo allievo favorito era Benedetto Castelli, al quale più tardi fece assegnare la cattedra di matematica a Pisa. Come era costume del tempo, Galilei aveva preso in affitto una spaziosa dimora e ne affittava le camere agli studenti. Egli impartiva anche lezioni private sull'arte della fortificazione e l'ingegneria militare ‒ materie che interessavano i giovani nobili orientati alla carriera militare ‒, oltre che sulla meccanica, di cui scrisse un breve trattato in italiano, Le meccaniche, che corresse diverse volte e che ebbe una vasta circolazione manoscritta in redazioni successive, risalenti probabilmente al 1593, al 1594 e al 1600.
La prima indicazione di una convinzione copernicana di Galilei risale al maggio 1597, quando lo scienziato scrisse a un collega di Pisa, Jacopo Mazzoni, per respingere l'argomento secondo cui, se veramente la Terra si muovesse, noi vedremmo una parte di cielo più grande di quella che vediamo attualmente. Nell'agosto di quello stesso anno, ricevette una copia del Mysterium cosmographicum (1596) di Kepler, nel quale la teoria eliocentrica è sostenuta su una base simbolica e matematica. Dopo averne letto la prefazione, Galilei scrisse a Kepler per esprimere le sue consolidate simpatie per la tesi del moto terrestre, ma anche la preoccupazione in merito alle conseguenze di una sua divulgazione a un pubblico più ampio. A una lettura più attenta di Kepler, egli si rese conto delle profonde differenze metodologiche tra i loro approcci alla Natura. Nel Dialogo del 1632, riferendosi alla credenza che le maree siano causate dalla Luna, rimprovera a Kepler di aver "dato orecchio ed assenso a predominii della Luna sopra l'acqua, ed a proprietà occulte, e simili fanciullezze" (EN, VII, p. 486); Galilei pensava di poter spiegare il fenomeno su una base puramente meccanica.
Nel 1597, Galilei iniziò a integrare le sue entrate con la costruzione e la vendita di strumenti matematici, come il compasso geometrico e militare o compasso di proporzione, che anticipava il regolo calcolatore ed era molto richiesto. A questo scopo, egli presto impiegò un artigiano esperto, Marcantonio Mazzoleni, che si trasferì in casa sua con tutta la famiglia. Galilei non si sposò mai, ma ebbe tre figli dalla convivente Marina Gamba: Virginia (nata il 13 agosto 1600), Livia (nata il 18 agosto 1601) e Vincenzo (nato il 21 agosto 1606). Per ciascuno dei figli egli compilò alcuni oroscopi. Le due ragazze furono affidate a un convento di Arcetri, vicino Firenze, nel 1614; Vincenzo fu riconosciuto nel 1619.
A Padova Galilei mantenne una corrispondenza regolare con i suoi amici dell'Università di Pisa e con la corte dei Medici. Girolamo Mercuriale, professore di medicina a Pisa e uno dei più noti medici del tempo, scrisse a Galilei nel 1601 esortandolo a recarsi a Firenze nell'estate successiva, quando Cosimo, il figlio maggiore del granduca Ferdinando I e di Cristina di Lorena, avrebbe compiuto dodici anni e dunque sarebbe stato abbastanza grande per iniziare la sua educazione matematica. Non sappiamo se Galilei divenne l'insegnante del giovane principe già a partire dal 1602, ma è certo che egli ebbe quel posto almeno dal 1605. Intorno al 1602, iniziò alcuni esperimenti sulla caduta dei corpi, unitamente al suo studio sul moto dei pendoli e sul problema della brachistocrona, ovvero quale sia la curva descritta da un grave che si muove nel minor tempo possibile fra due punti. Inizialmente egli espresse la legge dei corpi in caduta libera ‒ secondo cui la distanza percorsa è proporzionale al quadrato dei tempi ‒ in una lettera del 1604 a Sarpi; ma sostenne di averla derivata assumendo che la velocità è proporzionale alla distanza (laddove doveva rendersi presto conto che la velocità è proporzionale alla radice quadrata della distanza).
Nell'autunno del 1604, l'apparizione di una supernova riaccese il dibattito sull'incorruttibilità dei cieli che era stato tanto vivace nella generazione precedente, quando Tycho Brahe aveva sostenuto che la 'nuova stella' del 1572 provava che i cieli non erano immutabili. Da alcuni frammenti di una lezione pubblica che Galilei tenne sulla nova del 1604, sappiamo che egli prese le parti di Tycho contro Aristotele. Egli ispirò al benedettino Gerolamo Spinelli un dialogo in dialetto padovano, rivolto a un pubblico estraneo ai circoli accademici, In perpuosito de la stella nuova, pubblicato sotto lo pseudonimo di Cecco di Ronchitti.
Le vendite del compasso andarono molto bene e nel 1606 Galilei pubblicò un manuale in italiano per un corretto uso dello strumento; poco dopo, però, Simon Mayr, un tedesco attivo a Padova, e il suo discepolo italiano Baldassarre Capra ne pubblicarono uno simile in latino, sostenendo che Galilei aveva rubato loro l'idea. Poiché Mayr aveva già lasciato Padova, Galilei intentò un processo contro Capra e pubblicò un'aspra replica in cui forniva la sua versione dei fatti.
Nel luglio del 1609, a Venezia, Galilei venne a sapere che un olandese aveva inventato uno strumento che faceva apparire più vicini gli oggetti distanti e tentò immediatamente di costruirne uno simile. Anche altri stavano lavorando alla realizzazione di strumenti analoghi, ma per la fine di agosto del 1609 Galilei aveva costruito un telescopio a nove ingrandimenti, migliore di quelli dei suoi rivali. Egli tornò quindi a Venezia dove tenne una pubblica dimostrazione del suo cannocchiale dalla sommità dei "più alti campanili di Venezia" (EN, X, p. 253). La funzione pratica, ovvero la possibilità di avvistare le navi a grande distanza impressionò le autorità veneziane, che confermarono a vita l'incarico di Galilei e aumentarono il suo stipendio da 520 a 1000 fiorini, una somma senza precedenti per un professore di matematica. Galilei non dominò mai completamente la teoria ottica che sottostava alla sua combinazione di un obiettivo piano-convesso e di un oculare piano-concavo (corrispondente al nostro binocolo da teatro), ma Venezia era famosa per la lavorazione del vetro per cui era possibile procurarsi lenti molate in modo eccellente. I miglioramenti furono rapidi ed egli stesso ne descrive i progressi: "Dopo me ne preparai un altro più esatto, che rappresentava gli oggetti più di sessanta volte maggiori. Finalmente, non risparmiando fatica né spesa alcuna, sono giunto a tanto da costruirmi uno strumento così eccellente [questo è un implicito elogio agli artigiani di Venezia], che le cose vedute per mezzo di esso appariscano quasi mille volte più grandi e più di trenta volte più vicine che se si guardino con la sola facoltà naturale" (Sidereus nuncius, ed. Brunetti, p. 279).
All'inizio di gennaio del 1610, Galilei rivolse verso i cieli il suo telescopio notevolmente migliorato e ciò che vide e descrisse nel Sidereus nuncius, pubblicato nel marzo di quello stesso anno, avrebbe rivoluzionato l'astronomia: la Luna rivelava le sue montagne (di cui Galilei potè stimare l'altezza), la Via Lattea si dissolveva in una moltitudine di piccole stelle e dal nulla ne apparvero di nuove. Una scoperta ancor più spettacolare e importante fu quella di quattro satelliti di Giove.
Se Giove si muoveva intorno a un corpo centrale con il suo seguito di pianeti, non si poteva più obiettare che il moto della Terra intorno al Sole fosse assurdo a causa del moto della Luna intorno alla Terra. I satelliti di Giove non furono sufficienti a vincere la battaglia copernicana, ma rimossero uno dei principali ostacoli che impedivano all'eliocentrismo di essere preso in seria considerazione dagli astronomi.
Al granduca Ferdinando I, morto nel gennaio 1609, successe il figlio Cosimo II, allievo di Galilei, il quale a sua volta cercava già da qualche tempo di rientrare a Firenze approfittando della nuova fama acquisita. In onore di Cosimo, egli battezzò i satelliti 'Pianeti Medicei' e iniziò una corrispondenza con il segretario di Stato fiorentino, Belisario Vinta. Nel maggio del 1610 fece richiesta formale di un impiego (al nuovo stipendio di 1000 fiorini) e di tempo disponibile per completare un ambizioso programma:
2 libri De sistemate seu constitutione universi, concetto immenso et pieno di filosofia, astronomia et geometria: tre libri De motu locali, scienza interamente nuova, non havendo alcun altro, né antico né moderno, scoperto alcuno de i moltissimi sintomi ammirandi che io dimostro essere ne i movimenti naturali et ne i violenti, onde io la posso ragionevolissimamente chiamare scienza nuova et ritrovata da me sin da i suoi primi principii: tre libri delle mecaniche, due attenenti alle demostrazioni de i principii et fondamenti, et uno de i problemi; et benché altri habbino scritto questa medesima materia, tutta via quello che ne è stato scritto sin qui, né in quantità né in altro è il quarto di quello che ne scrivo io. Ho anco diversi opuscoli di soggetti naturali, come De sono et voce, De visu et coloribus, De maris estu, De compositione continui, De animalium motibus, et altri ancora. (EN, X, pp. 351-352)
Inoltre, dichiarava "Magna longeque admirabilia apud me habeo: ma non possono servire, o, per dir meglio, essere messe in opera se non da principi, perché loro fanno et sostengono guerre, fabricano et difendono fortezze" (ibidem, p. 351). La lettera si chiudeva con la richiesta "oltre al nome di Matematico, che S[ua] A[ltezza] ci aggiugnesse quello di Filosofo, professando io di havere studiato più anni in filosofia, che mesi in matematica pura" (ibidem, p. 353). Galilei fu puntualmente nominato matematico e filosofo del granduca di Toscana e il suo stipendio addebitato all'Università di Pisa dove, tuttavia, egli non avrebbe avuto obbligo d'insegnamento; questo naturalmente non lo aiutò ad accattivarsi l'amicizia dei colleghi pisani.
La partenza di Galilei da Venezia ha spesso destato sorpresa: in nessun'altra parte d'Italia egli poteva trovare maggior libertà o sentire meno le restrizioni imposte dalla Controriforma. Galilei però non la vedeva in questo modo: a un corrispondente fiorentino confidava che la Repubblica era troppo avida del suo tempo e che egli poteva soltanto sperare di ottenere la tranquillità richiesta dal suo lavoro da "un principe grande" (ibidem, p. 233). Sagredo previde che non tutto sarebbe andato per il verso giusto e al momento del suo ritorno dal Medio Oriente, dove era stato inviato quando Galilei aveva lasciato Padova, chiedeva al suo maestro: "La libertà e la monarchia di se stessa dove potrà trovarla come in Venetia?" (ibidem, XI, p. 171).
Il Sidereus nuncius aveva suscitato scalpore in molte parti d'Europa e a Francoforte ne fu stampata un'edizione non autorizzata alla fine del 1610. Kepler reagì in modo entusiastico e generoso, salutando il risultato galileiano con una Dissertatio cum Nuncio sidereo (1610) la cui composizione, però, è precedente alla verifica personale delle nuove scoperte celesti. Dopo averne accertata l'autenticità, egli rinnovò la sua approvazione nella Narratio de observatis a se quatuor Jovis satellitibus erronibus (1611). Altri autori attaccarono Galilei sul piano teorico e, almeno in parte, questo sembrerebbe essere stato causato dalla scarsa qualità dei loro telescopi. Martin Horky, un protetto di Giovanni Antonio Magini, professore di astronomia dell'Università di Bologna, sostenne che il telescopio di Galilei era utile per le osservazioni terrestri, ma inefficace per lo studio dei cieli. La sua Peregrinatio contra Nuncium sidereum (1610) scatenò le ire di due sostenitori di Galilei, John Wedderburn e Giovanni Antonio Roffeni, che pubblicarono due pamphlets in difesa del loro maestro. Un attacco più pesante fu condotto da un giovane e brillante nobile fiorentino, Francesco Sizzi, che criticò le scoperte di Galilei soprattutto attraverso considerazioni astrologiche ed ermetiche, ma la sfida più pericolosa era rappresentata da un manoscritto che circolava in forma riservata con il titolo Contro il moto della Terra, a firma di Lodovico Delle Colombe. Esso non conteneva un attacco diretto a Galilei, ma si scagliava contro i copernicani accusandoli di andare contro le Sacre Scritture. Il gran numero di note presenti nella copia galileiana di questo trattato mostrano la sua irritazione e quanto egli temesse di essere trascinato in questioni teologiche. Mentre il dibattito infuriava, Galilei continuò le sue osservazioni con il telescopio nella speranza di trovare altri satelliti. La corte francese scrisse che sarebbe stata riconoscente se il loro re, Enrico IV, avesse trovato un posto nel cielo.
Nel luglio del 1610, Galilei notò che Saturno presentava un profilo allungato e pensò che potesse essere l'effetto di due satelliti, uno per ciascuno dei due lati del pianeta. Egli fece circolare un anagramma di 37 lettere per annunciare la sua scoperta, pur mantenendola segreta. Quando Giuliano de' Medici, ambasciatore fiorentino a Praga, fu incaricato dall'imperatore Rodolfo II di chiederne la soluzione, Galilei annunciò che Saturno aveva due satelliti. Sfortunatamente, tali satelliti furono sempre meno visibili, fino a sparire del tutto sul finire del 1612. Anche tutte le altre scoperte celesti di Galilei avrebbero subito lo stesso destino? Sinceramente in imbarazzo, ma ancora capace di alzare la testa di fronte alla frustrazione, Galilei scriveva a Mark Welser il 1° dicembre 1612: "Forse Saturno si ha divorato i propri figli? o pure è stata illusione e fraude l'apparenza con la quale i cristalli hanno per tanto tempo ingannato me con tanti altri che meco molte volte gli osservarono? [...] la brevità del tempo, l'accidente senza esempio, la debolezza dell'ingegno e 'l timore dell'errare, mi rendono grandemente confuso" (EN, V, pp. 237-238).
Il telescopio di Galilei non era adatto a risolvere la questione degli anelli di Saturno, ma era in grado di rendere visibile e spiegabile l'aspetto mutevole di Venere. Nel novembre del 1610 egli inviò un anagramma a Giuliano de' Medici a Praga e, convintosi che le sue osservazioni fossero corrette, gli scrisse di nuovo il 1° gennaio per dargli la soluzione dell'enigma e svelare che Venere aveva le fasi come la Luna. Era un risultato di estrema importanza poiché significava che Venere orbitava intorno al Sole. Il telescopio stava diventando sempre più chiaramente uno strumento al servizio del copernicanesimo.
A Roma, i gesuiti fecero le loro osservazioni con il telescopio e confermarono le scoperte di Galilei, al quale, durante una visita in questa città nella primavera del 1611, il Collegio Romano riservò l'onore di una pubblica lettura, in cui il padre Odo Maelcote lodò il Sidereus nuncius. Il giovane Federico Cesi, che aveva fondato di recente l'Accademia dei Lincei, vi iscrisse Galilei e il cardinale Bellarmino volle discutere con lo scienziato di astronomia. Egli, inoltre, mostrò le meraviglie del telescopio nei migliori salotti romani, dove fu ricevuto sfarzosamente. Il 31 maggio 1611, il giovane cardinale Francesco Maria del Monte scrisse direttamente al granduca Cosimo II: "e se noi fussimo hora in quella Republica Romana antica, credo certo che gli sarebbe stata eretta una statua in Campidoglio, per honorare l'eccellenza del suo valore" (EN, XI, p. 119).
Nell'estate di quell'anno, i professori in licenza dell'Università di Firenze e i giovani gentiluomini fiorentini s'incontrarono presso la villa di Salviati a Le Selve, vicino Firenze. Galilei soffriva di alcuni problemi fisici che attribuiva al clima fiorentino e così acconsentì all'opportunità di recarsi presso la residenza di campagna di Salviati. In sua presenza si svolse una discussione sulle qualità del caldo e del freddo e, specificamente, sul motivo per cui il ghiaccio è più leggero dell'acqua, stante che l'azione del freddo è di condensare e non di rarefare. Da qui il dibattito si spostò sulle cause generali del galleggiamento dei corpi, con Galilei che seguiva la linea archimedea, ossia della densità relativa, mentre un professore aristotelico insisteva su quella della forma del corpo. Il fiorentino Lodovico Delle Colombe s'intromise nella questione e il dibattito si trasformò in lite. Cosimo II redarguì gentilmente Galilei e suggerì che fosse la penna a far da giudice nella disputa. In una fase successiva del dibattito, risalente all'inizio dell'autunno del 1611, Galilei s'impegnò in ulteriori discussioni con il filosofo Flaminio Papazzoni, e poiché in quel periodo i cardinali Maffeo Barberini (il futuro Urbano VIII) e Federico Gonzaga si trovavano entrambi a Firenze, il granduca Cosimo II invitò Galilei e Papazzoni a ripetere i loro argomenti di fronte ai due importanti ospiti. Fu in questa occasione che il cardinale Barberini si schierò con Galilei e successivamente pubblicò un poema di elogio dal titolo Adulatio perniciosa (apparso nell'edizione di Anversa del 1634 dei Poemata di Urbano VIII, ma omesso nelle edizioni successive). Il Discorso sui galleggianti apparve nel maggio del 1612 e fu venduto tanto velocemente che, prima della fine dell'anno, Galilei ne preparò una nuova edizione. In agosto fu pubblicata una replica a firma di un membro dell'Accademia degli Incogniti che potrebbe essere identificato con Arturo Pannochieschi d'Elci, provveditore generale dello Studio di Pisa. La mitezza e, spesso, la leggerezza delle sue critiche furono seguite, invece, dalle stroncature di Giorgio Coresio e Vincenzio di Grazia (rispettivamente lettore di greco e professore di filosofia allo Studio di Pisa), e da quelle di Lodovico Delle Colombe a Firenze. Castelli, allora lettore a Pisa, preparò una confutazione di Coresio, ma decise di non stamparla quando seppe che Coresio, un greco ortodosso, si trovava in seria difficoltà con le autorità religiose e soffriva di un esaurimento nervoso. Tuttavia, Delle Colombe e di Grazia furono redarguiti congiuntamente nella Risposta alle opposizioni, scritta in gran parte da Galilei, ma pubblicata a nome di Castelli nel 1615; lasciando a quest'ultimo la firma del trattato, Galilei dava l'impressione di non reputare i suoi colleghi degni di una risposta diretta. Era un'offesa che non avrebbero dimenticato.
Nell'autunno del 1611, Christoph Scheiner, un gesuita che insegnava all'Università di Ingolstadt, scrisse tre lettere a Mark Welser, ad Augusta, informandolo di avere scoperto alcune macchie sulla superficie solare. Welser le fece stampare (Tres epistolae de maculis solaribus, 1612), e le inviò all'estero; tra i destinatari spiccano Galilei e i membri dell'Accademia dei Lincei. Per timore che Scheiner fosse in errore e che potesse gettare discredito sulla Compagnia di Gesù, gli fu vietato di usare il suo nome ed egli si nascose sotto lo pseudonimo di "Apelles latens post tabulam". Tuttavia, Galilei riuscì a individuarne la matrice gesuita e in due lettere inviate a Welser lo rimproverò di aver proposto che le macchie fossero piccoli satelliti orbitanti intorno al Sole. Scheiner rispose con la De maculis solaribus [...] accuratior disquisitio, alla quale Galilei replicò nel dicembre del 1612 con una terza lettera a Welser. L'anno seguente Cesi pubblicò a Roma le lettere di Galilei con il titolo Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti. Inoltre, Galilei sostenne di aver osservato le macchie solari prima di Scheiner: in un'epoca attenta alla questione della priorità, questa era una pretesa che rendeva ancora più ostile il suo avversario e che segnava un solco tra Galilei e i gesuiti.
Nel frattempo, la questione copernicana non era sopita: nel novembre del 1612, Galilei seppe di essere stato criticato da Niccolò Lorini, un importante frate domenicano di Firenze, al quale chiese spiegazioni. Lorini rispose con una lettera nella quale negava risolutamente ogni attacco nei suoi confronti. Ogni volta che il moto della Terra era al centro di una discussione, egli interveniva soltanto per far sapere che era vivo: "ho detto due parole per esser vivo, e detto, come dico, che quella opinione di quel'Ipernico, o come si chiami, apparisce che osti alla Divina Scrittura" (EN, XI, p. 427). L'ignoranza dell'ortografia del nome di Copernico rende improbabile che Lorini abbia avuto un qualche interesse nei confronti dell'astronomia. Tuttavia è un peccato che, dopo aver attaccato i gesuiti, Galilei abbia scelto di affrontare anche i domenicani.
Nel dicembre del 1613, la questione della compatibilità della teoria copernicana con le Sacre Scritture fu sollevata durante una cena presso la corte del granduca a Pisa. Galilei non era presente, ma le sue idee furono difese da Castelli quando Cristina di Lorena, madre di Cosimo II, chiese che le fossero spiegate. Galilei si accorse dell'importanza della questione e scrisse una lunga lettera a Castelli nella quale argomentava che era più facile spiegare come Giosuè avesse prolungato il giorno con la teoria copernicana (in cui solo il moto della Terra deve essere fermato) piuttosto che con quella geocentrica, dove invece è necessario arrestare tutti i moti celesti. La questione rimase in stallo fino a quando, la quarta domenica di Avvento del 1614, un altro domenicano, Tommaso Caccini, denunciò il copernicanesimo dal pulpito della chiesa fiorentina di S. Maria Novella. La notizia del clamoroso sermone giunse presto a Roma, dove un amico di Galilei, monsignor Giovanni Ciampoli, discusse l'incidente con il cardinale Barberini e riferì che il cardinale "stimerebbe in queste opinioni maggior cautela il non uscir delle ragioni di Tolomeo o del Copernico" (ibidem, XII, p. 146). Ciampoli spiegò che si doveva prestare molta attenzione affinché qualcuno non iniziasse a sostenere che con il telescopio si potesse provare l'esistenza della vita sulla Luna, cosa che a sua volta avrebbe potuto condurre a porsi la domanda se gli abitanti della Luna "possano esser discesi da Adamo, o usciti dall'arca di Noè". Era invece più saggio "l'attestare spesso di rimettersi all'autorità di quei che hanno iuridistione sopra gl'intelletti humani nell'interpretazioni delle Scritture" (ibidem). Galilei seguì il consiglio e scrisse al cardinale Giacomo Muti che la Luna era arida. Nel frattempo, padre Lorini, in preda a un sacro furore, denunciò Galilei all'Inquisizione, inviando a tal proposito copia della lettera a Castelli. Galilei scrisse prontamente a monsignor Piero Dini, a Roma, per rivendicare la sua ortodossia e, fatto ancor più importante, egli precisò il senso della sua lettera a Castelli nella Lettera a Cristina di Lorena, che rappresenta la più chiara presa di posizione sulla questione delle relazioni tra scienza e Sacre Scritture. Riprendendo una battuta del cardinale Cesare Baronio, "l'intenzione dello Spirito Santo esser d'insegnarci come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo" (ibidem, V, p. 319), Galilei elaborò la tesi secondo cui Dio si esprime sia attraverso il libro della Natura sia attraverso la Bibbia e bisogna prestare attenzione affinché le espressioni metaforiche in quest'ultima non siano interpretate in senso scientifico. Nel 1636, la lettera fu pubblicata in traduzione latina e fuori dall'Italia, ma copie manoscritte erano già molto diffuse prima di tale data.
La questione si fece più complessa nel 1615 a causa della pubblicazione di un libro del carmelitano Paolo Antonio Foscarini, che difendeva il copernicanesimo dall'accusa di essere incompatibile con la Bibbia (Lettera [...] sopra l'opinione de' Pittagorici e del Copernico della mobilità della Terra e stabilità del Sole). Foscarini si recò a Roma, dove iniziò a predicare, e mandò anche una copia della sua opera al cardinale Bellarmino, richiedendo un'opinione. Il cardinale rispose: "mi pare che V. P. et il Signor Galileo facciano prudentemente a contentarsi di parlare ex suppositione e non asso- lutamente" (EN, XII, p. 171) e ricordò a Foscarini che "né è l'istesso dimostrare che supposto ch'il sole stia nel centro e la Terra nel cielo, si salvino le apparenze, e dimostrare che in verità il sole stia nel centro e la Terra nel cielo; perché la prima dimostrazione credo che ci possa essere, ma della seconda ho grandissimo dubbio" (ibidem, p. 172). Aggiunse anche che qualora tale prova fosse possibile, allora la Bibbia dovrebbe essere reinterpretata con la massima cura. Tuttavia Galilei, che aveva ricevuto una copia della lettera di Foscarini, pensava di avere tale prova e questa era l'argomento delle maree, che egli presentò poi nella Giornata Quarta del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo e che originariamente pensava di chiamare Del flusso e reflusso del mare. Si trattava di una prova fisica e quando Galilei partì per Roma nel dicembre del 1615 era convinto di poter conquistare la 'città eterna': tutto ciò che ottenne fu che il Sant'Uffizio iniziasse a prendere sul serio la teoria eliocentrica. E questo portò alla condanna di due proposizioni: (1) "Sol est centrum mundi, et omnino immobilis motu locali"; (2) "Terra non est centrum mundi nec immobilis, sed secundum se totam movetur, etiam motu diurno". La prima fu censurata come "stultam et absurdam in philosophia, et formaliter haereticam", la seconda come "ad minus esse in Fide erroneam" (decisione presa il 24 febbraio 1616; ibidem, XIX, p. 321). Pochi giorni dopo, il 5 marzo, la Congregazione dell'Indice proibì a sua volta il libro di Copernico "donec corrigatur" e condannò la lettera di Foscarini insieme ad altre opere che contenevano la stessa dottrina. Di Galilei non si faceva parola e prima che partisse da Roma, il cardinale Bellarmino gli rilasciò un certificato nel quale dichiarava che allo scienziato non era stata richiesta alcuna abiura o ritrattazione, ma era stato soltanto informato della decisione della Congregazione dell'Indice (il documento è datato 26 maggio 1616; ibidem, p. 342). Una memoria anonima trovata negli atti si spinge oltre e afferma che Galilei fu esortato non soltanto ad abbandonare la teoria del moto terrestre, ma anche a non discuterne ("seu de ea tractare"; ibidem, p. 321). L'autenticità di questo documento è stata contestata (de Santillana 1955), ma esso riapparve durante il processo del 1633 e fu usato contro Galilei.
Galilei fece ritorno a Firenze alla fine di maggio e rivolse la sua attenzione a una questione meno controversa: la determinazione della longitudine in mare. Egli coltivava la speranza che la compilazione di tavole accurate relative ai periodi di rivoluzione dei satelliti di Giove gli avrebbe permesso di predire come le loro posizioni relative sarebbero state viste da ogni punto sulla superficie terrestre e, quindi, di permettere ai navigatori di conoscere la loro posizione soltanto guardando attraverso il telescopio. Questo tentativo impegnò Galilei per molto tempo, ma alla fine non gli fu possibile compilare tavole sufficientemente precise da essere utilizzabili nella pratica (le osservazioni di Galilei per gli anni 1616 e 1617 occupano più di 150 pagine del volume III delle Opere).
Nell'autunno del 1618 l'apparizione in rapida successione di tre comete suscitò un grande entusiasmo. Galilei era costretto a letto e gli era impossibile compiere molte osservazioni, ma fu ugualmente chiamato a esprimere le sue opinioni fondandosi sui resoconti altrui. Egli scelse una lettura pubblica tenuta dal professore di matematica del Collegio Romano, padre Orazio Grassi, che interpretava la cometa allo stesso modo in cui Tycho aveva interpretato quella del 1577, ossia come un corpo celeste localizzato oltre la sfera della Luna. Galilei riteneva, invece, che le comete non fossero che fenomeni ottici prodotti dalla rifrazione della luce nell'atmosfera e scrisse un Discorso sulle comete che un suo allievo, Mario Guiducci, pubblicò a suo nome. Poiché Guiducci era un giurista e non godeva di alcuna reputazione scientifica, Grassi comprese che Galilei ne era il vero autore e preparò una replica che fu stampata nel 1619 con il titolo di Libra astronomica ac philosophica. Galilei a sua volta confutò punto per punto le critiche che gli erano state mosse in uno scritto terminato nel 1621 ma pubblicato, con grande ritardo, soltanto nel 1623 sotto gli auspici dell'Accademia dei Lincei. Poco tempo prima della sua uscita dalla tipografia, il cardinale Maffeo Barberini divenne papa con il nome di Urbano VIII e Galilei poté dedicargli il libro. Il Saggiatore è un capolavoro di arguzia e fu acclamato dal mondo letterario. Urbano VIII giunse a farselo leggere a voce alta a tavola. è in quest'opera che si trova il celebre brano di Galilei sul libro della Natura: "La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola" (EN, VI, p. 232). Grassi non lasciò la questione senza risposta e nel 1626 pubblicò la Ratio ponderum librae et simbellae. Galilei dovette ritenere che la polemica si era protratta a sufficienza, anche perché in questo periodo era già impegnato nella stesura del famoso Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo.
La disputa con Grassi è solitamente considerata un momento infelice della carriera scientifica di Galilei, poiché egli negava che le comete fossero oggetti reali, mentre Grassi è stato elogiato per la sua obiettività e correttezza. In Galileo eretico (1983), Pietro Redondi ha ricostruito, per gran parte su prove indiziarie, un differente scenario, all'interno del quale Grassi è ritratto nel tentativo di dimostrare che la fede atomistica di Galilei, mettendo in pericolo il dogma cattolico della transustanziazione, rendeva lo scienziato sospetto di eresia. Nelle sue opere a stampa Grassi si sofferma in una sola occasione sul mistero dell'Eucaristia, che nella sua visione ortodossa implica sia un cambiamento sostanziale nella natura del pane sia la permanenza delle specie sensibili, quali colore, odore, sapore. Galilei riteneva invece che queste qualità fossero soggettive, poiché le considerava meri nomi di oggetti esterni; in tal modo implicitamente negava l'avvenuta transustanziazione. Nel 1982, Redondi trovò negli archivi del Sant'Uffizio a Roma una denuncia anonima contro Galilei in difesa della dottrina eucaristica espressa da Grassi; a partire da questo episodio, di cui ritenne responsabile il gesuita, Redondi ha elaborato un'audace interpretazione dei problemi di Galilei con la Chiesa. Vi sono, tuttavia, notevoli differenze stilistiche tra gli scritti di Grassi e questo documento, che peraltro non è di sua mano (Pagano 1984).
L'elezione del cardinale Barberini al soglio pontificio nel 1623 incise in modo definitivo sulle vicende copernicane di Galilei. Nella primavera seguente egli si recò a Roma dove il nuovo papa lo ricevette non meno di sei volte, gli donò un dipinto, due medaglie, diversi Agnus Dei, promise una rendita per il figlio e in ultimo gli concesse di scrivere sul moto della Terra, purché non presentasse tale moto come una realtà fisica ma come una mera ipotesi scientifica. Durante il soggiorno a Roma, Galilei conobbe il cardinale Frederic Eutel Zollern, che si offrì di discutere la questione copernicana con il papa prima del suo ritorno in Germania. Egli fece presente al papa che i protestanti tedeschi erano tutti a favore del nuovo sistema cosmologico e che pertanto era necessario procedere con la massima attenzione prima che la Chiesa tentasse di risolvere la questione copernicana. Il papa replicò che la Chiesa non aveva mai dichiarato eretica la visione copernicana e non lo avrebbe fatto, ma dichiarò anche che non vi era ragione di supporre che ci sarebbe mai stata un prova del sistema copernicano. Galilei tornò a Firenze portando con sé queste notizie incoraggianti e si mise a lavorare al Dialogo sopra i due massimi sistemi. Sfortunatamente il cardinale Zollern morì nel 1625 e Galilei perse un amico che otto anni dopo avrebbe potuto essere un testimone chiave al suo processo. La sfortuna lo colpì anche nel fisico: a causa di una malattia tra il 1626 e il 1629 fu incapace di lavorare con regolarità e fu soltanto nel gennaio del 1630 che riuscì a completare il suo capolavoro lungamente atteso. Egli sperava di portarlo fuori dalle secche della censura romana con l'aiuto dei suoi amici: Ciampoli e il domenicano Niccolò Riccardi, che era diventato maestro di Sacro Palazzo, con l'incarico di autorizzare la pubblicazione dei libri.
Nella primavera del 1630 Riccardi ricevette dalle mani di Galilei il manoscritto del Dialogo e affidò il testo a un collega domenicano, Raffaello Visconti, i cui interessi riguardavano l'astrologia e le scienze occulte, ma che provava simpatia per gli astronomi. Questi era anche amico personale di Orazio Morandi, abate di S. Prassede a Roma, noto per aver trascorso molto tempo in compagnia di Antonio e Giovanni de' Medici per studiare i segreti della tradizione ermetica. Nella primavera del 1630, probabilmente nella prima metà di maggio, Morandi pubblicò alcune profezie astrologiche, tra le quali una che prevedeva la morte prematura del papa. Galilei, arrivato a Roma il 3 maggio, era quasi certamente all'oscuro di questo episodio quando ricevette, il 24 maggio, un invito a cenare con Morandi e Visconti; ma le dicerie romane avevano già associato il nome di Galilei a quello dell'astrologo. Il 26 giugno Galilei lasciò Roma e poco dopo Morandi fu imprigionato a Tor di Nona; lo scienziato si informò quindi presso un comune amico, il quale rispose il 17 agosto, comunicandogli che il processo era così segreto che non era possibile sapere cosa stesse accadendo. Durante il processo fu presentato un Discorso astrologico sulla vita di Urbano VIII a nome di Visconti, la cui dichiarazione di innocenza ebbe comunque un certo successo, visto che fu soltanto bandito da Roma, mentre altri coimputati ebbero sentenze pesanti: lo stesso Morandi morì in prigione il 9 ottobre 1630, prima della fine del processo.
Nella primavera del 1631, Urbano VIII pubblicò una bolla (che rinnovava i divieti della Coeli et terrae Creator del 5 gennaio 1586) contro gli astrologi che rivendicavano il potere di conoscere il futuro e di mettere in moto forze segrete in grado di controllare le sorti della vita umana. Il pontefice ordinava di controllare che tali arti magiche non fossero dirette contro la vita del papa e quella dei suoi parenti fino al terzo grado. I colpevoli sarebbero stati puniti non solo con la scomunica, ma anche con la morte e la confisca dei beni. Che il nome di Galilei fosse stato associato a quelli di Morandi e Visconti fu quanto meno un caso sfortunato, ma lo scienziato non poteva certo sospettare che la sua amicizia con Ciampoli si sarebbe dimostrata ancor più dannosa.
Urbano VIII si dilettava con la poesia nelle sue ore di riposo e godeva della compagnia di letterati, tra i quali Ciampoli, il suo segretario dei brevi, le cui relazioni con il pontefice erano di intima amicizia e confidenza, tanto da ritenere di poterne anticipare il pensiero. Ciampoli era anche impaziente di ricevere la porpora cardinalizia che Urbano VIII aveva distribuito a persone che il segretario giudicava meno meritorie di lui. Nella sua frustrazione egli divenne incauto fino al punto di stringere amicizia con personaggi vicini al cardinale spagnolo Cesare Borgia, portavoce di Filippo IV e spina nel fianco di Urbano VIII. Quando il cardinale Borgia protestò pubblicamente contro la posizione papale nella lotta tra la Francia e la casa asburgica in un tempestoso concistoro l'8 marzo 1632, Urbano VIII decise di epurare il suo entourage dagli elementi filospagnoli e venendo a sapere delle relazioni di Ciampoli con gli Spagnoli, l'irritazione del papa fu così grande che privò il segretario dei suoi considerevoli poteri. Ciampoli, nell'agosto del 1632, fu esiliato da Roma, dove non fece mai più ritorno, per diventare governatore della cittadina di Montalto.
Il declino di Ciampoli avrebbe avuto conseguenze importanti per Galilei. Nel 1630 e nel 1631, il segretario aveva avuto un ruolo di primaria importanza nell'assicurare a Galilei il permesso di stampare il suo Dialogo. Visconti aveva informato Riccardi sia di aver approvato il libro sia che l'opera richiedeva solamente qualche piccola correzione. Riccardi, non senza difficoltà e con molto ritardo, diede l'imprimatur, inizialmente solo per Roma e poi anche per Firenze, dove doveva essere letto e censurato dal consultore dell'Inquisizione locale. Tuttavia, egli pretese che gli fossero inviate la prefazione e la conclusione. Quando il censore fiorentino diede l'autorizzazione alla stampa nel settembre 1630, Riccardi iniziò a sollevare una serie di obiezioni e sostenne che Galilei sarebbe dovuto ritornare a Roma per discutere la redazione finale dell'opera. Nel frattempo, lo scoppio di un'epidemia di peste rendeva difficile il viaggio tra Roma e Firenze e Riccardi propose che una copia dell'opera fosse mandata a Roma perché lui e Ciampoli potessero rivederla. Tuttavia anche tale richiesta rimase inascoltata e da questo momento in poi Riccardi non seppe più nulla del Dialogo fino a quando una copia stampata lo raggiunse a Roma: sopra l'imprimatur fiorentino egli scoprì, con orrore, anche la sua approvazione. Come Urbano VIII fece notare all'ambasciatore toscano, "il nome del medesimo Maestro del Sacro Palazzo [...] non ha che fare nelle stampe di fuori" (EN, XIV, p. 384). Chiamato a spiegare il suo comportamento, Riccardi si scusò dicendo che egli aveva ricevuto l'ordine di approvare il libro direttamente da Ciampoli.
Il Dialogo andò in stampa nel giugno 1631. L'editore aveva deciso di stamparne un migliaio di copie, un grande numero per i canoni dell'epoca, e il lavoro non fu terminato prima del febbraio del 1632. Le prime copie arrivarono a Roma tra la fine di marzo e l'inizio di aprile, apparendo nella scena romana a poche settimane di distanza dal concistoro in cui il cardinale Borgia aveva attaccato Urbano VIII. Tutte le 'ciampolate', come il papa le chiamava, dovevano essere attentamente controllate. Inoltre, l'imprimatur romano su una pubblicazione fiorentina non poteva che far nascere sospetti. A Riccardi fu richiesto di scrivere all'inquisitore fiorentino e di proibire la vendita dei libri di Galilei in attesa di ulteriori istruzioni. Nel clima di sospetto che seguì l'incidente del concistoro con il cardinale Borgia, anche l'emblema dei tre delfini sul frontespizio, che poteva essere associato con l'ermetismo, causava preoccupazione. Fu con sollievo che Riccardi seppe che il disegno non era di Galilei, ma dello stampatore e che appariva in tutte le sue pubblicazioni.
Nell'estate del 1632, Urbano VIII istituì una commissione preliminare al fine di chiarire la vicenda dell'approvazione alla stampa del Dialogo. Nelle carte su Galilei del Sant'Uffizio, la commissione trovò la memoria anonima del 1616 che lo esortava a non sostenere, insegnare o difendere in alcun modo il moto della Terra. L'autenticità del documento, dapprima messa in dubbio, fu accettata dai commissari, i quali conclusero che Galilei aveva contravvenuto a un ordine formale del Sant'Uffizio. Così lo scienziato fu chiamato a Roma, dove arrivò, con molto ritardo, il 13 febbraio 1633. A Roma egli fu ospite dell'ambasciatore di Toscana, mentre tre teologi leggevano il Dialogo per stabilire se in esso il copernicanesimo era presentato come realtà fisica o ipotesi. Il paragrafo conclusivo dell'opera presentava un argomento già utilizzato dallo stesso Urbano VIII, secondo il quale "soverchia arditezza sarebbe se altri volesse limitare e coartare la divina potenza e sapienza ad una sua fantasia particolare" (EN, VII, p. 488). Sfortunatamente, Galilei faceva dire queste parole a Simplicio, il pedante aristotelico che rappresenta una misera figura di intellettuale in tutta l'opera. I teologi non tardarono ad accorgersene e lo stesso papa, quando rivolse la sua attenzione al problema, lo interpretò come un affronto personale. L'argomento sostenuto dal papa era apparso nel De Deo uno (1629) di un suo teologo ufficiale, Agostino Oregio.
Il 12 aprile Galilei fu convocato al Sant'Uffizio, dove fu arrestato e interrogato due volte prima di essere rimandato alla residenza dell'ambasciatore di Toscana. Egli apparve di nuovo di fronte al tribunale il 10 maggio e il 21 giugno, ma non fu mai torturato o molestato fisicamente. Alla fine, nonostante un vigoroso diniego del fatto che egli intendesse presentare argomenti in favore della verità fisica del sistema eliocentrico, Galilei fu giudicato colpevole di aver contravvenuto agli ordini della Chiesa. La mattina del 22 giugno 1633 fu portato in una stanza del convento di S. Maria sopra Minerva in Roma e fatto inginocchiare mentre si dava lettura della sentenza di condanna alla prigionia; ancora inginocchiato, Galilei abiurò formalmente il suo errore. Non fu imprigionato, ma gli fu permesso di partire per Siena e, in seguito, di ritornare a Firenze, dove fu confinato nella sua residenza di campagna ad Arcetri.
Galilei trovò conforto nel lavoro e in un paio di anni completò i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, il libro al quale è legata la sua imperitura fama di scienziato. è in quest'opera che egli risolse i problemi delle proprietà del moto accelerato e diede le dimostrazioni delle sue due grandi scoperte: (a) la distanza percorsa dai corpi in caduta libera è proporzionale al quadrato dei tempi ed è indipendente dal peso; (b) la traiettoria di un proiettile è una parabola. Un nuovo problema sorse al momento di trovare un editore: la Chiesa aveva emesso una generale proibizione alla stampa, o alla ristampa, delle sue opere. Passando per le mani di un amico a Venezia, il manoscritto raggiunse il famoso editore Louis Elzevier in Olanda, un paese protestante sul quale la Chiesa Romana non aveva alcuna autorità. Elzevier iniziò subito la stampa, mentre Galilei finse di essere sorpreso e di non sapere come il manoscritto avesse lasciato l'Italia. Nonostante sia improbabile che qualcuno abbia creduto alla sua storia, la Chiesa non fece opposizione alla pubblicazione dei Discorsi nel 1638. Tuttavia, Galilei non riuscì mai a ottenere il perdono che sperava e rimase agli arresti domiciliari anche dopo il sopraggiungere della cecità nel 1638. Urbano VIII fu risoluto nel rifiutarsi di commutare la sentenza.
Galilei visse ancora quattro anni con il giovane assistente Viviani e, negli ultimi mesi, con Evangelista Torricelli. Morì l'8 gennaio 1642, cinque settimane prima di compiere 78 anni. L'inflessibilità di Urbano VIII non diminuì: il granduca sperava di erigere una tomba appropriata per Galilei nella chiesa di Santa Croce, ma fu avvertito di non procedere. Dovette passare quasi un secolo prima che le spoglie di Galilei fossero deposte nel corpo centrale della chiesa.
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