La Rivoluzione scientifica: luoghi e forme della conoscenza. Gli strumenti scientifici
Gli strumenti scientifici
L'inizio del XVII sec. è stato senza dubbio un periodo particolarmente fecondo nella storia della strumentazione scientifica e per comprenderne appieno l'importanza occorre far precedere l'analisi da un chiarimento terminologico. Fino all'inizio del Seicento, per 'strumenti scientifici' si intendevano esclusivamente quelli matematici, quali gli astrolabi utilizzati per i calcoli astronomici, le meridiane, i quadranti orari e i notturlabi per misurare il tempo, i teodoliti per la topografia e le balestriglie per la navigazione. Tutti questi strumenti erano basati su tecniche e principî geometrici e avevano uno scopo pratico. Si deve notare, inoltre, che la loro produzione era riservata, almeno quella destinata al commercio, ad artigiani specializzati che formavano una corporazione ben definita, quella dei fabbricanti di strumenti matematici. La loro abilità si esprimeva soprattutto nella lavorazione dei metalli (anche se in alcuni casi si ricorreva al legno e all'avorio), nelle tecniche di incisione e nel saper utilizzare alcune competenze matematiche. Tra i motivi per cui è preferibile non etichettare come 'strumenti scientifici' questi congegni ‒ con i quali si applicavano le tecniche geometriche al mondo materiale e si risolvevano alcuni problemi pratici in quelle che erano chiamate allora le arti matematiche‒ vi è il fatto che essi non erano ideati per compiere esperimenti. In altre parole, il loro uso non rivelava nulla di nuovo sul mondo naturale e quindi mancavano di uno dei tratti caratteristici dei moderni strumenti scientifici.
Nel corso del XVII sec., agli strumenti matematici, che continuarono a essere fabbricati, utilizzati e perfezionati con l'aggiunta di nuovi modelli e applicazioni, si aggiunsero due nuove categorie, gli strumenti ottici e quelli costruiti per le indagini di filosofia naturale. Dei primi facevano parte prin- cipalmente telescopi e microscopi, che fecero la loro comparsa all'inizio del secolo e che si distinguevano dagli strumenti matematici soprattutto perché furono concepiti per realizzare nuove scoperte attraverso l'osservazione di aspetti della Natura sconosciuti e destinati, altrimenti, a rimanere tali. Infatti, la conoscenza del mondo naturale ottenibile attraverso di essi era giudicata più profonda, accurata e significativa di quella fornita dai sensi. Allo stesso tempo, si riteneva che questa non fosse tanto una nuova esperienza, quanto il recupero di una sapienza antichissima, un mezzo per riparare almeno in parte i danni causati dal peccato originale alla percezione e alla comprensione umana dell'Universo. Il decadimento delle facoltà sensibili poteva essere, in una certa misura, compensato dall'impiego di strumenti artificiali.
Un'altra novità degli strumenti ottici consisteva nel fatto che erano prodotti da un gruppo di artigiani diverso dai fabbricanti di strumenti matematici. La caratteristica più importante di questi artigiani era la capacità di produrre lenti a partire dal vetro ottico; dunque la fabbricazione di telescopi e microscopi era affidata ai più abili produttori di occhiali. Anche se molti di essi continuarono a produrre lenti da vista e forse a trarre da questo tipo di commercio la maggior parte dei propri mezzi di sussistenza, cominciò lentamente a formarsi una specifica categoria di fabbricanti di strumenti ottici.
L'altra tipologia di dispositivi fabbricati nel corso del XVII sec. fu quella cui appartenevano alcuni strumenti costruiti appositamente per le indagini di filosofia naturale. Benché anche quelli ottici fossero sporadicamente impiegati in questo campo, gli strumenti apparsi successivamente, come il termometro, il barometro, la pompa d'aria, la macchina elettrica e un intero armamentario di congegni utilizzati per la sperimentazione e la ricerca, aprirono una nuova fase della strumentazione scientifica. È probabile che essi abbiano costituito una categoria a sé stante perché, a differenza di quelli ottici, erano privi di una collocazione precisa all'interno della sfera produttiva. Inoltre, sia gli strumenti matematici sia quelli ottici erano prodotti da settori ben determinati del mondo artigianale, mentre non esistevano fabbricanti specializzati nella costruzione di strumenti per la filosofia naturale: la progettazione, e in alcuni casi persino la fabbricazione, richiedevano un intervento molto più diretto da parte degli stessi filosofi, i quali, per la realizzazione delle singole componenti, dovevano rivolgersi ad artigiani diversi, come operai metallurgici, falegnami e vetrai. Il commercio di questi congegni era pressoché inesistente ma, a differenza di quelli ottici, questo tipo di strumenti era in linea con i principî della nuova filosofia sperimentale e, nella maggior parte dei casi (anche se esistevano eccezioni come il termometro e il barometro) operava in modo molto più intrusivo nei confronti dei processi naturali che doveva analizzare. Il mondo naturale era posto sullo stesso piano dei congegni utilizzati per indagarlo e si riteneva di poterlo manipolare e controllare allo stesso modo di una qualsiasi macchina fabbricata dall'uomo; in breve, questi strumenti erano l'espressione di quella filosofia meccanicista che cominciava allora a dominare il campo delle scienze naturali.
Queste tre categorie di strumenti condizionarono gli atteggiamenti e la pratica dei ricercatori per tutto il XVII sec. e soltanto verso la fine iniziarono a emergere, dagli sviluppi del commercio di strumenti, i segnali della nascita di una nuova e più ampia classe di oggetti, quella degli strumenti scientifici.
Geometria e arte della guerra
All'inizio del Seicento esisteva una grande varietà di strumenti matematici, che avevano avuto uno straordinario sviluppo nel secolo precedente, parallelamente al progresso delle arti e delle scienze matematiche. La matematica applicata era utilizzata in un ampio ambito di attività, dall'architettura alla tecnologia militare ed era caratterizzata, tra l'altro, dall'impiego di strumenti in grado di trasformare le tecniche geometriche in protocolli pratici.
All'alba del nuovo secolo, gli strumenti geometrici si erano già conquistati un posto di rilievo se non nella pratica, nella letteratura sull'arte della guerra, ed esistevano numerosi dispositivi per il puntamento, le operazioni di telemetria e di topografia militare e la progettazione delle fortificazioni. Mirini, livelle e clinometri erano prodotti in una sconcertante varietà di modelli e di combinazioni. L'introduzione di un'artiglieria più manovrabile e affidabile aveva indotto i matematici del Rinascimento a prestare la loro collaborazione nelle operazioni di calcolo della gittata e di puntamento dei pezzi di artiglieria. Nel primo caso, esisteva una tecnica sperimentata di triangolazione topografica che permetteva di localizzare un punto collocato a una certa distanza, osservandolo dalle due estremità di una linea di base misurata in precedenza. Questa era una tecnica particolarmente utile in tempo di guerra, perché permetteva di effettuare tutte le misurazioni necessarie e i rilievi senza avventurarsi sul terreno controllato dal nemico. I manuali dell'epoca presentavano, e in molti casi descrivevano, l'uso nelle operazioni belliche di una grande varietà di 'strumenti per la triangolazione', alcuni dei quali sopravvivono ancora nelle collezioni. In questi congegni, tre bracci incernierati e dotati di scale e mirini erano disposti in modo tale da formare un triangolo simile (in senso geometrico) a quello che aveva come vertici i due osservatori e il bersaglio. Oltre ai progetti di Leonard Zubler del 1608, e di Joost Bürgi (1552-1632), ci sono giunti alcuni esemplari di strumenti per la triangolazione realizzati da celebri fabbricanti, come Erasmus Habermel (m. 1606) e lo stesso Bürgi. Spesso i manuali mostravano gli strumenti topografici più generici, come i quadranti e i teodoliti, nel quadro di una battaglia, allo scopo di diffonderne l'uso e sottolinearne la praticità.
Un'analoga drammaticità caratterizzava in genere anche le immagini di mirini e clinometri di artiglieria, utilizzati per il puntamento e l'elevazione di cannoni e mortai. Spesso, infatti, se ne illustrava l'uso nel corso di una battaglia, anche se la delicatezza del sistema di regolazione di molti esemplari conservati rende inverosimile una tale circostanza. I primi modelli di livelle e clinometri erano collocati sopra la bocca del cannone, ma in seguito si preferì sistemarli sulla culatta, per proteggerli dal fuoco nemico. Erano anche dotati di una serie verticale di mirini o di un singolo mirino mobile, in grado di spostarsi verticalmente lungo una scala, utilizzato per traguardare il bersaglio attraverso la punta del cannone. Come si è detto, esisteva una grande varietà di modelli e, oltre ai mirini, l'equipaggiamento degli artiglieri comprendeva calibri per misurare i proiettili e vari tipi di regoli e compassi per effettuare i calcoli relativi alla gittata, alla carica, al peso del proiettile e al tipo di cannone. L'ingegno dei matematici e dei fabbricanti di strumenti aveva dunque un vasto campo su cui esercitarsi.
La diffusione delle fortificazioni realizzate sulla base di principî geometrici ampliò ulteriormente questo campo, per la necessità di opporre adeguati sistemi difensivi alla capacità offensiva delle nuove armi. Le alte mura delle fortezze medievali furono sostituite da opere di difesa larghe e piatte, in grado di neutralizzare i colpi di artiglieria ma più facilmente scalabili dal nemico. Per scongiurare questo rischio, le fortificazioni furono fornite di bastioni sporgenti, che consentivano di opporre agli assalti un fuoco difensivo laterale. Si giunse così a un modello di fortificazione poligonale, dotato di bastioni agli angoli, che richiese lo sviluppo di una complessa scienza volta a determinare la forma ottimale delle fortezze e la messa a punto della strumentazione necessaria a progettarle e a costruirle. La diffusione di queste fortezze poligonali, iniziata nel XVI sec., raggiunse l'apice nel secolo successivo, grazie soprattutto all'opera di un ingegnere militare francese, Sébastien Le Prestre de Vauban (1633-1707). I fabbricanti producevano sia goniometri dotati di punti lungo la circonferenza per tracciare le linee e gli angoli, sia congegni forniti di mirini per trasferire queste linee sul terreno. Esistevano inoltre regoli che riportavano i parametri geometrici necessari per mettere in pratica le norme consigliate da Vauban (ma anche da altri teorici delle fortificazioni) e concepiti come promemoria per uomini più avvezzi a trasportare e consultare strumenti che a leggere libri.
Inoltre, era radicata la tendenza a enfatizzare i legami tra geometria e arte della guerra. Anche la più innocua meridiana poteva essere corredata di una scala dei rapporti tra la quantità di polvere e il calibro del proiettile nei vari materiali, o di una scala dei poligoni per stabilire gli angoli dei diversi tipi di fortezze. Anche se spesso non erano utilizzate, queste scale servivano a sottolineare la natura pratica di tali aspetti della geometria applicata, che assumeva così un valore sociale, oltre che professionale. Seguendo questa moda, Galilei definì il suo compasso di proporzione ‒ uno strumento utilizzabile per effettuare ogni genere di calcoli proporzionali ‒ un 'compasso geometrico e militare'.
L'esemplare progettato da Galilei faceva parte di un'ampia serie di strumenti analoghi, la cui origine rimane ancora in parte oscura. Il loro ingresso nella letteratura scientifica avvenne a cavallo tra i secc. XVI e XVII, grazie all'opera di specialisti come lo stesso Galilei, Fabrizio Mordente (1532-1608?), Thomas Hood (attivo tra il 1578 e il 1598) e Michel Coignet (1549-1623). Il compasso di proporzione è formato da un ampio regolo diviso in due bracci collegati da una cerniera piatta. Ne esistevano diverse varianti, ma l'idea fondamentale consisteva nel disporre di coppie di scale identiche incise sulle facce adiacenti del regolo che partivano dal perno. Le due linee principali erano semplicemente graduate e utilizzate per effettuare riduzioni o ingrandimenti proporzionali, come quelli necessari per disegnare una mappa topografica in scala. I due bracci del regolo potevano inoltre essere aperti in modo da formare un angolo appropriato al fattore richiesto: le distanze tra le coppie di punti equivalenti sulle scale erano proporzionali ai valori degli stessi punti, che potevano essere letti e manipolati per mezzo di compassi a punte fisse. Altre coppie di scale servivano a effettuare calcoli proporzionali delle aree e dei volumi. Il calcolo dei volumi interessava carpentieri, muratori e architetti, quello delle aree i topografi e così via. Tale strumento poteva essere utilizzato anche dagli artiglieri, per calcolare il peso di proiettili di diverso calibro. Il compasso di proporzione fu prodotto fino alla fine del XVII sec. in vari modelli allo scopo di adattarlo alle esigenze dei diversi campi di applicazione.
Telemetria, topografia e cartografia
La telemetria era una particolare applicazione della tecnica della triangolazione, utilizzata nella topografia. La topografia, come la tecnologia militare, aveva ereditato dal XVI sec. un'ampia gamma di strumenti e di tecniche, che all'inizio del Seicento permisero la costituzione di una solida pratica professionale. Malgrado l'esistenza di numerose alternative più o meno fantasiose, gli strumenti utilizzati dai topografi erano fondamentalmente tre: il teodolite, la tavoletta pretoriana e la bussola azimutale.
Nonostante si siano verificati, nel corso del XVI sec., alcuni tentativi di introdurre l'uso del teodolite altazimutale, l'aggiunta di un arco verticale rendeva lo strumento troppo costoso, scomodo e complicato per le normali esigenze dei topografi. Era raro che si presentasse la necessità di misurare un angolo verticale e, anche in questo caso, si poteva sempre far ricorso a un quadrante. L'uso della parola 'teodolite' ha prodotto molta confusione nella storia degli strumenti topografici di quel periodo: infatti, mentre a un lettore moderno il termine suggerisce l'idea di uno strumento altazimutale, ossia di un apparecchio che combina un arco, o circolo verticale, con un circolo orizzontale, nel XVII sec. esso indicava uno strumento dotato soltanto del circolo orizzontale, utilizzato per rilevare gli azimut o angoli di direzione. Nella maggior parte dei casi, ciò era sufficiente a soddisfare le esigenze dei topografi, anche se alcuni dispositivi, e in particolare quelli prodotti in Olanda, potevano essere sospesi a un anello e utilizzati per effettuare rilievi anche in verticale.
Il valore degli strumenti altazimutali era teorico, più che pratico. Nell'elegante frontespizio di The Surveyor, pubblicato nel 1616, l'autore Aaron Rathbone presentava la topografia come una scienza matematica, esaltando l'uso del teodolite altazimutale rispetto a quello dell'umile tavoletta pretoriana e lasciando chiaramente intendere che coloro che se ne servivano non erano veri geometri ma volgari ciarlatani. All'interno del libro, tuttavia, Rathbone ammetteva che il teodolite altazimutale era troppo complicato per l'uso quotidiano e confessava di servirsi spesso della tavoletta pretoriana per la sua praticità. Per evitare confusioni con i rari e scarsamente utilizzati teodoliti altazimutali, è preferibile usare il termine 'teodolite semplice' per riferirsi al teodolite dotato del solo circolo orizzontale, comprendente un'alidada rotante centrale e generalmente una bussola magnetica per l'allineamento del circolo.
La tavoletta pretoriana, tanto disprezzata dai geometri ma di uso comune, era costituita semplicemente da una tavola sostenuta da un treppiede ‒ su cui era fissato con grappe o spille un foglio di carta ‒, da una bussola magnetica e da un'alidada mobile. Iniziando da un punto del foglio, definito a seconda di come doveva procedere il rilievo, il topografo allineava l'alidada con i punti di riferimento più significativi e tracciava sul foglio le linee di mira. Dopo aver misurato la distanza dal punto successivo, la riportava in scala sulla linea appropriata e ripeteva l'osservazione dalla seconda stazione. In questo modo si potevano localizzare diversi punti sulla mappa con la tecnica della triangolazione, anche se le operazioni di rilievo potevano essere proseguite lungo un'altra linea a piacere o finché lo permetteva la lunghezza del foglio. Con il procedere delle operazioni di rilievo, il foglio si trasformava gradualmente nella mappa del terreno. Il problema di questo metodo, almeno dal punto di vista dei geometri, era costituito dalla sua stessa semplicità; infatti si poteva disegnare una mappa senza alcun bisogno di misurare gli angoli in gradi e di trasferirli su una mappa disegnata in un ufficio cartografico. L'uso della tavoletta pretoriana era quindi fortemente osteggiato dai matematici, perché essi credevano minacciasse sia la topografia, intesa come disciplina autonoma, sia l'importanza di una formazione matematica; al contrario, l'uso dello strumento era fortemente sostenuto dai topografi professionisti, almeno nel caso di rilievi di portata limitata.
Un altro strumento topografico molto diffuso nel XVII sec. era la bussola azimutale, dotata di un ago magnetico imperniato al centro di un quadrante circolare e di due mirini fissati alle estremità di due bracci trasversali. È possibile descriverlo anche come un'alidada dotata di una grossa bussola fissata al centro dei mirini. Nel caso del teodolite, la scala graduata è fissa mentre l'indice è libero di muoversi e solidale con l'alidada; nella bussola azimutale, al contrario, l'indice è un ago magnetico e non muta la propria direzione, mentre la scala graduata è mobile, essendo solidale con i mirini. Il primo strumento è utile nel caso di rilievi in zone antropizzate, caratterizzate dalla presenza di linee di confine o edifici, ma nelle aree meno sviluppate l'allineamento automatico con il meridiano magnetico, garantito dalla bussola azimutale, costituiva un notevole vantaggio. Per questa ragione essa fu largamente impiegata nel XVII sec. in Irlanda, nel corso delle operazioni della Down Survey, il rilevamento diretto dal filosofo naturale William Petty (1623-1687). Per le stesse ragioni, la bussola magnetica costituiva anche un elemento caratteristico di molti strumenti topografici minerari, malgrado l'insorgere di numerosi problemi causati dalle distorsioni magnetiche sotterranee.
Nella seconda metà del XVII sec., la pratica dei rilevamenti topografici si era nuovamente adagiata in una regolare routine basata sull'uso della tavoletta pretoriana, del teodolite e della bussola azimutale. L'unica novità fu la livella a bolla d'aria, descritta da Melchisédech Thévenot nel 1666, costituita da un tubo di vetro sigillato riempito solo parzialmente di alcol, in modo da lasciare una bolla d'aria che, disponendosi al centro della livella, ne indicasse la posizione orizzontale. Lo scopo di Thévenot era quello di dotare di un orizzonte artificiale gli strumenti nautici per la determinazione dell'altezza degli astri, per esempio la back-staff, in modo da poterli utilizzare anche quando l'orizzonte reale non fosse visibile. Entro la fine del secolo, tuttavia, la livella a bolla d'aria era entrata a far parte del corredo dei topografi, che se ne servivano per determinare la posizione orizzontale dei mirini dei loro strumenti. Robert Hooke (1635-1703) se ne servì anche per adattare il quadrante equatoriale di sua invenzione al movimento azimutale.
Strumenti per la navigazione
Il cartografo e fabbricante di strumenti Gerardo Mercatore aveva pubblicato nel 1569 un mappamondo, realizzato servendosi di una tecnica di proiezione di sua concezione, senza fornire però alcuna indicazione sui principî geometrici su cui questa era basata né sui complessi protocolli che era necessario seguire per farne un uso corretto. Il grande vantaggio offerto da questo tipo di carta era che bastava tracciare una linea retta sulla sua superficie per conoscere la direzione che occorreva seguire per mantenere la rotta desiderata. Questo vantaggio era tuttavia ottenuto al prezzo dell'introduzione di altre distorsioni e difficoltà. Per esempio, le linee delle longitudini, sulla carta, non erano convergenti, mentre, ovviamente, nella realtà esse convergono verso i poli. In altre parole, meridiani e paralleli erano rappresentati da linee rette perpendicolari. Di conseguenza, la scala in cui vengono tracciate le distanze varia a seconda della latitudine, crescendo in relazione al suo aumento; di questo aspetto si deve tener conto nel calcolo delle distanze. La scala è proporzionale alla secante della latitudine.
Lo sviluppo della navigazione aveva reso necessaria l'adozione di carte diverse da quelle usuali, che non tenevano in nessun conto la curvatura terrestre; inoltre per servirsi della carta di Mercatore i marinai avrebbero dovuto trasformarsi in esperti di trigonometria e in pratica il suo impiego rimase molto limitato, anche dopo la pubblicazione nel 1599, a opera di Edward Wright, dei principî geometrici su cui era basata. Occorreva uno strumento che, accompagnato da una serie di regole per l'utilizzo nella risoluzione dei problemi più comuni, fosse in grado di trasformare la carta di Mercatore in un valido ausilio alla navigazione. Entrambi gli obiettivi furono raggiunti da Edmund Gunter (1581-1626), un geometra inglese dotato di un particolare talento per la progettazione di strumenti.
Il compasso di proporzione era stato concepito inizialmente per rispondere alle esigenze dei topografi e degli artiglieri, ma a partire dal 1620 fu adattato anche alla navigazione e, in particolare, ai problemi sorti in seguito all'introduzione della carta di Mercatore. Il compasso di Gunter era fornito di coppie di scale relative alle funzioni trigonometriche e nel suo De sectore et radio (1623) l'autore forniva le indicazioni necessarie per utilizzarlo nel calcolare le distanze e le differenze longitudinali, oltre alla soluzione dei problemi relativi ai triangoli sferici. Il compasso di Gunter era piuttosto diffuso nel XVII sec., ma in realtà fu rapidamente superato da un altro strumento di calcolo, sempre basato su un suo progetto, che svolgeva la stessa gamma di funzioni secondo un metodo del tutto nuovo e originale: la scala o regolo di Gunter. Si trattava del secondo strumento indicato nel titolo del suo libro: mentre sector è infatti il nome latino del compasso di proporzione, radius si riferisce al raggio di una balestriglia, strumento di navigazione impiegato per misurare l'ampiezza degli angoli celesti, sul cui elemento centrale, o raggio, Gunter consigliava di incidere le scale del nuovo strumento.
Nel 1620, sempre allo scopo di agevolare l'uso della carta di Mercatore, Gunter aveva pubblicato le sue tavole di logaritmi di funzioni trigonometriche e il regolo da lui ideato riportava elenchi di logaritmi numerici e di funzioni trigonometriche. In questo caso non era necessario confrontare le linee tra loro ed era possibile effettuare moltiplicazioni e divisioni semplicemente utilizzando un compasso a punte fisse per aggiungere o sottrarre dalle scale logaritmiche una determinata lunghezza. I logaritmi erano stati scoperti da John Napier (Johannes Nepero, 1550-1617) pochi anni prima e la rapidità con cui furono applicati al regolo di Gunter dimostra l'importanza degli strumenti nell'attività matematica del tempo e l'impegno dedicato al loro perfezionamento. Il passo successivo fu quello di disporre due scale di questo tipo in modo tale da farle scorrere l'una sull'altra, ottenendo così il regolo calcolatore logaritmico, rimasto in uso fino alla fine del XX secolo.
L'uso della balestriglia nella navigazione astronomica cominciò a diffondersi nel XVI sec. e si mantenne per tutto il XVIII, soprattutto nella marina olandese. Lo strumento, costruito di solito in legno, era composto da un'asta graduata o radius, un'estremità della quale era avvicinata all'occhio dell'osservatore; l'asta attraversava il centro di un regolo fatto scorrere fino a coprire esattamente lo spazio che separava i due oggetti di cui si desiderava calcolare la distanza angolare: per esempio, il Sole e l'orizzonte, se lo scopo era quello di stabilire la latitudine in base all'altezza del Sole a mezzogiorno. Nel Seicento fu sviluppato un modello alternativo di balestriglia che, pur essendo un banale oggetto in legno utilizzato comunemente in mare, è il frutto di una concezione molto ingegnosa. Si tratta dello strumento noto con il nome di back-staff, inventato dall'inglese John Davis verso la fine del XVI sec. e molto diffuso nella marina britannica.
La forma del nuovo strumento consentiva di risolvere numerosi problemi posti dall'uso della balestriglia. Uno dei principali consisteva nel fatto che il centro dell'angolo ricercato coincideva con il centro dell'occhio dell'osservatore e rimaneva quindi inaccessibile, rendendo inevitabile un certo grado di approssimazione. Un altro problema si presentava allorché si voleva rilevare la posizione del Sole, che sarebbe stato necessario fissare direttamente; inoltre l'osservatore avrebbe dovuto guardare contemporaneamente in due direzioni diverse. Con la back-staff, invece, l'angolo era pienamente accessibile, l'osservatore volgeva le spalle al Sole e si serviva dell'ombra proiettata da un mirino, senza essere costretto a fissare l'astro, e per effettuare l'osservazione era sufficiente allineare tre elementi, mantenendo lo sguardo in un'unica direzione.
Nell'aspetto assunto comunemente da questo strumento nel XVII sec., il quadrante era diviso in due parti, di 60° e 30° (o di 65° e 25°). L'arco di 60° aveva un raggio piuttosto piccolo, ma non era necessario suddividerne la scala in frazioni di grado, dal momento che il suo unico scopo era quello di regolare un mirino su un valore da 15° a 20° minore di quello dell'altezza presunta del Sole in quel momento. Per effettuare una lettura più accurata si utilizzava l'arco di 30°, fornito di un raggio molto più lungo. In genere questo era dotato di una scala trasversale o diagonale, del tipo usato, per esempio, negli strumenti astronomici di Tycho Brahe; la scala consentiva una lettura fino al minuto di arco, per quanto le rilevazioni effettuate in mare non raggiungessero quasi mai una simile precisione. In pratica, dopo aver regolato il mirino dell'arco di 60° sul valore prescelto, l'osservatore volgeva le spalle al Sole di mezzogiorno, osservando la linea dell'orizzonte attraverso una fenditura praticata nel mirino anteriore fisso dello strumento, regolando contemporaneamente il mirino posteriore dell'arco di 30° e mantenendo l'ombra proiettata dal mirino dell'arco di 60° lungo un'apposita linea sul mirino anteriore. Il valore massimo rilevato sull'arco di 30°, nel momento in cui il Sole raggiungeva la sua massima altezza, era quindi aggiunto al valore prestabilito sull'arco di 60° per ottenere l'altezza solare e da questa, applicando la declinazione solare relativa al giorno in cui si effettuava l'osservazione, la latitudine della nave.
Se si deve a Gunter l'applicazione delle scale logaritmiche alla balestriglia e la sua successiva trasformazione in un regolo, prima singolo e poi scorrevole, l'applicazione dei logaritmi alle scale circolari fu merito principalmente di William Oughtred, che definì 'cerchio di proporzione' uno strumento di sua invenzione, di cui pubblicò il progetto nei Circles of proportion and the horizontal instrument (1632). Il cerchio consentiva di leggere i logaritmi di numeri e di funzioni trigonometriche su una serie di scale circolari collegate da indici rotanti, mentre una coppia di indici, regolati all'ampiezza richiesta, permetteva di aggiungere o sottrarre parti di diverse scale circolari. L'interesse per le meridiane è dimostrato dal progetto di un congegno definito da Oughtred 'strumento orizzontale', una meridiana basata sulla proiezione sull'orizzonte dei percorsi giornalieri del Sole nel corso dell'anno, dell'eclittica e dell'equatore, che permetteva la lettura di diversi parametri, oltre naturalmente a quella dell'ora. Oughtred descrisse la sua invenzione nella stessa opera in cui aveva esposto il progetto dei cerchi di proporzione e spesso in quel periodo i due dispositivi erano applicati alle due facce di un unico strumento.
Anche se, grazie ai vari compassi di proporzione e ai regoli logaritmici, era divenuto possibile eseguire complesse operazioni matematiche servendosi di procedure strumentali, queste rimanevano ancora troppo complicate per potersi diffondere al di fuori dell'ambito professionale. Occorreva dunque uno strumento più semplice che rispondesse alle esigenze di una popolazione in cui anche gli individui più istruiti conoscevano a malapena la tavola pitagorica e incontravano notevoli difficoltà nel portare a termine una divisione di una certa lunghezza. Una prima risposta fu fornita dai cosiddetti 'bastoncini' o 'ossi' di Napier, che divennero rapidamente molto popolari. Anche questa, come i logaritmi, era un'invenzione del matematico scozzese John Napier e consisteva nell'aggiungere o sottrarre tra loro, secondo una procedura stabilita, i numeri contenuti in alcune colonne, per semplificare le operazioni di moltiplicazione e divisione. Questi 'bastoncini' potevano essere realizzati su carta, legno o avorio (donde la denominazione di 'ossi di Napier'), e nella versione in legno potevano presentarsi come una serie di asticciole separate, oppure come una fila di cilindri racchiusi in una scatola e dotati di manovelle, girando le quali si poteva mettere in evidenza la colonna voluta. La descrizione di questa invenzione, pubblicata da Napier nella Rabdologiae seu numerationis per virgulas libri duo (1617), ebbe una vasta diffusione e fu tradotta in diverse lingue. A un livello più raffinato, la tecnologia del XVII sec. ha prodotto anche i primi modelli di macchine calcolatrici, tra cui alcuni celebri, come quelli progettati da Blaise Pascal (1623-1662) e Samuel Morland (1625-1695).
Trascurare il forte interesse per le meridiane (o orologi solari), come fanno molti storici della scienza, significa ignorare una delle priorità della ricerca matematica seicentesca. Questa mancanza d'attenzione è forse dovuta al fatto che si tende a identificare la meridiana con il semplice quadrante orizzontale da giardino, che però è soltanto una misera traccia delle realizzazioni di una branca della geometria applicata che attrasse gli ingegni più raffinati ed entusiasti. Tra le invenzioni di Oughtred troviamo per esempio l'orologio solare (o meridiana) equinoziale universale ad anello, sviluppato a partire da uno strumento progettato in precedenza da Rainer Gemma Frisius (1508-1555), il cosiddetto 'anello astronomico'. Lo strumento di Oughtred era composto da due anelli imperniati, unicamente per poter essere piegati e trasportati facilmente in una tasca; per usare lo strumento occorreva aprire l'anello dell'ora ad angolo retto rispetto a quello del meridiano e regolare in base alla latitudine il punto di sospensione dell'anello del meridiano. Uno spioncino scorrevole, inserito in una fessura praticata in una barra diametrale, era regolato in base alla data o alla declinazione solare, in modo tale che l'angolo formato con l'anello dell'ora fosse identico all'angolo del Sole con l'equatore, ossia alla sua declinazione per quella data, ricavata da una tabella. Quando lo strumento era sospeso e fatto ruotare, la luce del Sole che attraversava lo spioncino riusciva a colpire l'anello delle ore indicando l'ora esatta soltanto quando quest'ultimo si trovava parallelo all'equatore, mentre l'anello del meridiano era perfettamente allineato al meridiano. Si trattava insomma di una meridiana portatile, che non richiedeva l'uso della bussola per essere orientata e che fu molto usata nel XVII e per tutto il XVIII secolo.
Gunter s'interessò anche di misurazioni mediante quadranti e una delle sue invenzioni più conosciute fu il quadrante orario, che sfruttava l'altezza del Sole per indicare l'ora e che, naturalmente, poteva essere regolato in base alla declinazione solare, dato che l'altezza del Sole a una certa ora varia a seconda della data. Il quadrante circolare di Oughtred era universale ‒ poteva essere regolato per qualsiasi altezza ‒ mentre la proiezione delle linee orarie disegnata da Gunter, come quella dello strumento orizzontale di Oughtred, era valida soltanto per una particolare latitudine. Tuttavia, questo aspetto permise a Gunter di includere nel suo strumento altre linee ‒ l'orizzonte, l'eclittica e le linee degli azimut solari ‒ che consentivano di utilizzare il quadrante anche per individuare altri parametri astronomici.
Nel Seicento furono concepiti vari tipi di meridiana oltre quelle qui menzionate. Uno strumento piuttosto comune era il notturlabio, che consentiva di conoscere l'ora di notte sfruttando l'orientamento del cielo notturno; esso era fornito di una scala oraria regolata a seconda della data e di un indice che misurava l'avanzamento della rotazione celeste con riferimento a una particolare stella. Alcuni modelli tradizionali di meridiana continuarono a essere prodotti in grandi quantità, mentre emerse un nuovo centro di produzione a Dieppe, specializzato nella fabbricazione del quadrante azimutale magnetico progettato da Charles Bloud (attivo tra il 1635 e il 1680).
L'uso dell'astrolabio come strumento professionale era in rapido declino nell'Europa del Seicento (mentre sopravvisse molto più a lungo nel mondo islamico), ma gli esempi che abbiamo fornito dimostrano sufficientemente l'ingegnosità, l'originalità e la raffinatezza che continuarono a caratterizzare la progettazione e la produzione degli strumenti matematici in questo periodo. Nonostante la scarsa attenzione prestata loro dagli storici, comprensibilmente distratti dall'avvento di telescopi e microscopi, è evidente che nel XVII sec. il campo tradizionale della produzione degli strumenti della matematica applicata era ancora molto fiorente.
Strumenti per la determinazione della longitudine in mare
Mentre sulle navi la balestriglia e la back-staff erano gli strumenti consueti per determinare l'altezza degli astri, Robert Hooke concepì, fra i molti strumenti portatili di navigazione astronomica di cui rivendicava la paternità, un dispositivo che avrebbe svolto un ruolo determinante nell'evoluzione dell'ottante, del sestante e del circolo a riflessione. Hooke lo presentò alla Royal Society nel 1666, ma la descrizione, non pubblicata, fu ritrovata fra i suoi scritti soltanto dopo la morte dell'autore.
Lo strumento in questione era un sestante, costituito da due bracci imperniati, uno dotato di uno specchio e l'altro di un mirino telescopico, che consentiva di misurare la distanza angolare fra due oggetti che, nella comunicazione di Hooke alla Royal Society, erano la Luna e una stella fissa. Uno dei due era riflesso nello specchio, mentre l'altro era visibile direttamente guardando oltre lo specchio; quando le immagini risultavano allineate nell'oculare, la distanza angolare fra i due risultava pari al doppio dell'angolazione dei bracci del compasso. L'asta lineare inserita fra i due bracci del compasso di Hooke era quindi graduata secondo una scala corrispondente alla metà dell'angolo fra i bracci. Fu questa la prima descrizione di una tecnica che sarebbe divenuta universale nel campo della navigazione. Il riferimento alla Luna e a una stella fa pensare che Hooke ritenesse possibile impiegare lo strumento per determinare la longitudine in alto mare con il metodo della distanza lunare. Nel 1699, Isaac Newton presentò un ottante basato sullo stesso principio in occasione di una riunione della Royal Society, ma anche in questo caso lo scritto fu pubblicato postumo.
Come mezzo per determinare la longitudine in alto mare, a Hooke interessava ancora di più il cronometro. All'evoluzione degli orologi meccanici nel XVII sec., infatti, diedero impulso proprio le esigenze di misurazione del tempo degli astronomi e quelle di determinazione della longitudine dei naviganti. Galilei disegnò un orologio regolato da un pendolo, ma il primo sistema di questo tipo a essere prodotto e a diffondersi fu quello ideato molto più tardi da Christiaan Huygens e pubblicato nel 1658. Egli applicò il pendolo al classico sistema di scappamento a verga, che senza questa aggiunta non aveva di per sé una capacità oscillatoria naturale e serviva semplicemente a ritardare l'applicazione della forza trasmessa dal peso mediante l'avanzamento di un treno di ingranaggi a ruote, obbligandolo a spingere la barra del bilanciere prima in una direzione e poi nell'altra. Con l'introduzione del pendolo, tenuto in movimento da detta forza, era possibile esercitare un certo grado di controllo sullo scappamento, nonostante l'interferenza di quest'ultimo sul movimento del pendolo stesso. Con la sottigliezza tipica del matematico, Huygens applicò al punto di sospensione del pendolo le 'ganasce', ossia piastrine metalliche curve posizionate in modo che il filo a cui era sospeso il pendolo si adagiasse su di esse, sollevando il peso del pendolo al di sopra della traiettoria circolare e costringendolo a seguire un arco di cicloide. Egli aveva infatti dimostrato che in tal modo il movimento sarebbe stato isocrono, dal momento che le oscillazioni lungo una cicloide avvengono nello stesso periodo di tempo indipendentemente dall'ampiezza. Le conoscenze matematiche di Huygens gli consentirono anche di dimostrare che per far muovere il peso lungo una traiettoria cicloidale, in termini matematici 'evolvente', le ganasce stesse dovevano essere cicloidali, ossia 'evolute'.
Nel giugno del 1657 a L'Aia, il fabbricante Solomon Coster ottenne il privilegio per la fabbricazione dell'orologio a pendolo di Huygens. Quest'ultimo aveva però ben altre ambizioni, e nel decennio fra il 1660 e il 1670 fu più volte collaudata in alto mare la precisione di una versione modificata del suo orologio a pendolo‒ con una montatura a sospensione cardanica che mantenesse l'orologio in orizzontale‒ da utilizzare come cronometro longitudinale. Tuttavia, nonostante i collaudi avessero un discreto successo, il meccanismo di regolazione a pendolo non era destinato ad avere un grande futuro nell'applicazione ai cronometri o agli orologi da navigazione.
Anche Hooke voleva risolvere il problema della determinazione della longitudine in mare e la soluzione che andò formulando negli anni fra il 1660 e il 1670 sembrava più promettente. Il suo lavoro si incentrò infatti sulla regolazione del movimento della ruota del bilanciere degli orologi per mezzo di una molla. Come il pendolo di Huygens, la molla consentiva di imprimere al bilanciere un'oscillazione naturale che ne controllava il movimento, o come diceva Hooke, per analogia con il pendolo, permetteva di generare una 'forza di gravità artificiale'. A quel tempo, egli aveva senza dubbio a disposizione orologi funzionanti: Lorenzo Magalotti, in visita alla Royal Society, dichiarò di averne visto uno nel febbraio del 1668 e notò chiaramente una molla attaccata al bilanciere. Hooke non dovette quindi gradire molto la notizia, giunta nel 1675, dell'ideazione a opera di Huygens di un orologio a molla. Hooke aveva applicato ai suoi orologi un certo numero di innovazioni, come lo scappamento a doppio bilanciere, impiegato per correggere le alterazioni provocate dalle svolte improvvise, oltre a un sistema per ricaricare l'orologio senza interrompere il movimento degli ingranaggi. Aveva progettato anche diversi tipi di molla per bilanciere, ma probabilmente non la forma a spirale conica impiegata da Huygens e in seguito universalmente adottata negli orologi a molla.
Nel XVII sec. in genere gli orologi erano considerati strumenti che, insieme ad altri, potevano aiutare a rendere più precise le misurazioni astronomiche o a risolvere il problema della determinazione della longitudine in mare; per questo a occuparsene furono matematici e filosofi naturali quali Galilei, Hooke e Huygens. Gli orologi rappresentarono il punto di contatto fra matematici pratici e una vasta rete di artigiani meccanici di talento, da Joost Bürgi, all'inizio del secolo, a Thomas Tompion, attivo alla fine del Seicento, entrambi sufficientemente versatili da poter applicare la loro arte anche alla fabbricazione di strumenti più tipicamente matematici.
Telescopi e microscopi all'inizio del XVII secolo
Nell'autunno del 1608 Hans Lipperhey, un fabbricante di occhiali di Middelburg, presentò agli Stati Generali d'Olanda la domanda per il rilascio di un brevetto di un telescopio rifrattore. Benché si fosse impegnato a realizzare un prototipo dell'invenzione, la sua richiesta fu respinta, anche a causa della presentazione quasi contemporanea di una domanda analoga da parte di Zacharias Janssen, un altro fab- bricante di occhiali di Middelburg. Non erano ancora trascorsi tre mesi da quando Lipperhey aveva presentato la richiesta, che si fece avanti un terzo contendente, un tale Jacob Metius di Alkmaar. Si può quindi dedurre che, in realtà, la realizzazione tecnica del telescopio non presentasse particolari difficoltà per gli artigiani del tempo, i quali potevano intuire l'utilizzo pratico di uno strumento del genere, in particolare nel campo militare.
Quando nel maggio 1609 giunse notizia a Galilei dell'invenzione del telescopio da parte di 'un certo fiammingo', egli comprese subito le potenzialità del nuovo strumento. La notizia si era in effetti propagata molto rapidamente e, nel momento in cui la voce giungeva a Galilei, i telescopi erano già in vendita nelle botteghe di Parigi. Lo scienziato italiano si mise all'opera per perfezionarlo e all'inizio del 1610 era in grado di costruire telescopi con una capacità compresa tra i venti e i trenta ingrandimenti. Con questi strumenti Galilei iniziò l'osservazione del cielo, con risultati clamorosi, come la scoperta dei quattro satelliti di Giove, della superficie montuosa della Luna, delle stelle della Via Lattea, delle fasi di Venere e di molto altro ancora. Nello stesso periodo, l'astronomo inglese Thomas Harriot effettuava ricerche molto simili ma, trovandosi già al servizio del conte di Northumberland, non aveva alcun motivo per renderne pubblici i risultati. Galilei d'altronde seppe sfruttare abilmente le sue scoperte per ottenere il favore dei Medici e farsi assegnare un prestigioso incarico alla corte toscana.
I telescopi di Galilei erano dotati di un obiettivo positivo (convesso) e di una lente oculare negativa (concava) e possedevano, quindi, un campo visivo molto limitato. Nel giro di poco tempo, tuttavia, si rese disponibile una soluzione alternativa. L'astronomo tedesco Johannes Kepler, che era stato tra coloro che avevano accolto con maggiore entusiasmo le scoperte di Galilei, avanzò nel 1611, al termine di un rapido quanto fruttuoso studio dell'ottica del telescopio, la proposta di combinare una lente oculare positiva con un obiettivo positivo. Questa soluzione, che portò alla realizzazione dello strumento noto come telescopio astronomico, presentava il vantaggio di permettere una visuale più ampia e la proiezione dell'immagine del disco solare per l'osservazione indiretta dell'astro. Il congegno divenne di uso comune tra il 1630 e il 1650; in seguito la sua importanza rimase legata soprattutto alla possibilità di essere impiegato con un oculare micrometrico o come mirino telescopico.
Uno degli 'aspiranti inventori' del telescopio compare anche alle origini della storia del microscopio: Zacharias Janssen fu infatti tra i primi a chiedere il rilascio di un brevetto per il nuovo strumento. Intorno alla metà del secolo, Willem Boreel affermò di aver visto già nel 1619 un congegno di questo tipo fabbricato da Janssen. In effetti poco si sa sulla paternità dell'invenzione del microscopio, la cui scoperta è rimasta molto più in ombra rispetto a quella del telescopio, probabilmente perché il primo comportava minori implicazioni e non suscitava accesi conflitti come il secondo. Del resto, l'introduzione del microscopio non produceva alcun vantaggio strategico; anzi, per molti anni l'esplorazione del mondo delle cose minuscole non fu presa troppo sul serio e infatti i microscopi messi in commercio erano solitamente considerati poco più che giocattoli. Tuttavia, ciò non ne impedì la circolazione: Constantijn Huygens ne vide un esemplare a Londra nel 1621, mentre furono i membri della romana Accademia dei Lincei a battezzare il nuovo strumento microscopium.
L'esemplare fabbricato da Janssen e menzionato da Boreel si trovava a Londra e apparteneva a Cornelis Drebbel (1572-1633), che iniziò a produrre microscopi e a promuoverne la diffusione nelle corti europee. Nicolas-Claude Fabri de Peiresc ne vide uno alla corte francese nel 1622 e il suo resoconto è il primo documento conosciuto che contiene la descrizione completa di uno strumento dotato di due lenti convesse. Nello stesso periodo cominciarono a circolare anche i microscopi semplici, ossia congegni nei quali era utilizzata una lente singola.
Nonostante la discreta diffusione e la curiosità che suscitavano, l'introduzione di questi apparecchi non ebbe, sul momento, un impatto neppure lontanamente paragonabile a quello dei telescopi. Utilizzando le scoperte astronomiche come argomenti nella sua vigorosa e caparbia difesa della teoria copernicana, Galilei aveva assicurato al telescopio un ruolo di primo piano nella controversia cosmologica del suo tempo, obbligando tutti i partecipanti al dibattito a fare i conti con la sua presenza. Le osservazioni effettuate al microscopio, al contrario, non avevano alcuna implicazione o conseguenza sul piano della filosofia naturale e soltanto con l'affermazione di una visione della Natura che attribuiva un ruolo significativo al mondo infinitesimale il microscopio cominciò a essere oggetto di un interesse serio e duraturo da parte degli uomini di scienza.
Astronomia telescopica
Dopo Galilei, nessuno avrebbe osato mettere in dubbio l'importanza del telescopio per la cosmologia, cioè per quella parte della filosofia naturale che studiava la natura fisica della materia celeste, del Sole, della Luna, dei pianeti e delle stelle, la loro distribuzione complessiva, i loro movimenti, esaminati da un punto di vista qualitativo, e le loro cause. Su un altro versante, l'astronomia matematica si occupava di fornire una descrizione quantitativa delle posizioni e dei moti degli astri, sulla base di misurazioni effettuate con appositi strumenti, che rientravano a pieno titolo nella categoria degli strumenti matematici tradizionali. Fino a quel momento, il telescopio non aveva fornito nessun contributo all'astronomia, intesa in questo senso più ristretto, che era quello allora prevalente, dato che si trattava di uno strumento d'indagine qualitativa e non di misurazione.
Questa situazione mutò con l'introduzione di punti di riferimento graduati nel piano focale del telescopio astronomico, ossia della combinazione di due lenti convesse, proposta da Kepler. I vantaggi offerti da questa soluzione, e in particolare l'ampliamento del campo visuale, erano stati accolti favorevolmente dagli astronomi che, a differenza di quanti compivano osservazioni terrestri, non si curavano molto del fatto che l'immagine apparisse capovolta. L'obiettivo di un telescopio astronomico concentra i raggi luminosi in un punto focale reale all'interno del tubo e l'immagine che si forma è successivamente ingrandita dalla lente oculare. Di conseguenza, qualunque oggetto introdotto nel piano focale dell'obiettivo si sovrappone all'immagine che si forma su di esso ed è, come questa, ingrandito dalla lente oculare.
Tale tecnica fu scoperta casualmente intorno al 1640 dall'astronomo inglese William Gascoigne, che un giorno notò come la tela tessuta da un ragno all'interno del suo apparecchio si stagliasse, perfettamente a fuoco, sullo sfondo dell'immagine astronomica. Gascoigne comprese immediatamente le potenzialità di un tale accorgimento e si mise all'opera per sviluppare un oculare micrometrico e un mirino telescopico. Nel primo caso, due fili erano mossi in direzioni opposte da una vite doppia attaccata a un puntatore che si muoveva a sua volta su un disco graduato seguendo l'apertura o la chiusura dei fili stessi. Il mirino telescopico era caratterizzato, invece, da un ago inserito al centro del campo visuale in coincidenza con il piano focale; ciò consentiva di utilizzare il telescopio al posto della tradizionale alidada dotata di mirini aperti o piani su uno strumento di misurazione come il quadrante, in cui il mirino era imperniato al vertice e spostato lungo una scala di 90°.
Anche se queste applicazioni del telescopio alle operazioni di misurazione astronomica erano note agli astronomi inglesi, come Christopher Wren (1632-1723) e Robert Hooke, le informazioni che le riguardavano circolarono in forma privata all'interno di una ristretta cerchia di corrispondenti. Soltanto in seguito agli annunci provenienti da altri paesi europei, gli inglesi rivendicarono pubblicamente la priorità dell'invenzione. Christiaan Huygens in Olanda e gli astronomi e matematici francesi Adrien Auzout (1622‒1691), Pierre Petit (1594/1598-1677) e Jean Picard (1620-1682) avevano raggiunto in modo indipendente gli stessi risultati dei colleghi inglesi. Applicando un mirino telescopico a uno strumento graduato, si era giunti a combinare uno strumento ottico con uno di misurazione astronomica e si era aperta una breccia nel muro, per così dire, che separava queste due categorie di strumenti. Tuttavia, lo scopo del mirino era soltanto quello di migliorare l'accuratezza della misurazione ‒ la visione dell'oggetto osservato era più chiara e l'allineamento più preciso ‒ e non alterava la funzione fondamentale dello strumento.
Gli oculari micrometrici e i mirini telescopici costituirono un'innovazione fondamentale nel campo degli strumenti di misurazione astronomica e giunsero in un momento particolarmente opportuno, poiché la loro diffusione precedette di poco la fondazione degli osservatori nazionali di Londra e di Parigi. Tuttavia, mentre questi ultimi furono dotati sin dall'inizio della loro attività di strumenti con mirini telescopici, Johannes Hevelius (1611-1687) ‒ proprietario del più importante osservatorio privato del XVII sec. e probabilmente quello attrezzato nel modo migliore in Europa‒ sino a quel momento si rifiutò risolutamente di ammettere i vantaggi derivanti dall'applicazione delle nuove tecniche agli strumenti di misurazione. Non che Hevelius non avesse familiarità con i telescopi o lo si potesse accusare di non conoscere l'ottica; piuttosto, le sue osservazioni telescopiche lo ponevano tra i più importanti astronomi europei. Egli inoltre non era neanche pregiudizialmente contrario all'uso dei micrometri nei telescopi astronomici; tuttavia si rifiutava di sostituire i mirini piani dei suoi strumenti di misurazione con i nuovi mirini telescopici.
Gli strumenti di misurazione raccolti nell'osservatorio di Hevelius a Danzica seguivano in genere i modelli utilizzati e progettati da Tycho, almeno nel caso di quelli di maggior successo, che non derivavano da Tolomeo o dalla pratica medievale. Hevelius aveva apportato, tuttavia, importanti miglioramenti alla meccanica di questi strumenti, lavorando su ognuno di essi fino a ottenere una gamma di apparecchiature in grado di rivaleggiare con il celebre osservatorio di Tycho Brahe. Egli pubblicò perfino una descrizione completa e dettagliata di tutti i suoi strumenti (sul modello dell'Astronomiae instauratae mechanica di Tycho Brahe) con il titolo di Machina coelestis (1673-1679), dalla quale risultava chiaramente che, malgrado l'incoraggiamento e il sostegno fornito alle nuove tecniche dagli osservatori di Londra e di Parigi, Hevelius non intendeva rinunciare al sistema di puntamento ideato da Tycho, in cui il mirino oculare era dotato di due fessure parallele che corrispondevano al diametro di un mirino cilindrico posto all'estremità dello strumento; l'apparecchio era puntato correttamente verso una stella quando la sua luminosità appariva di uguale intensità in ciascuna fessura e le linee di mira sfioravano da entrambi i lati la superficie del cilindro. Questa soluzione aveva lo scopo di diminuire la gamma dei possibili allineamenti con l'uso di una singola fessura di dimensioni finite, ma i critici di Hevelius non mancarono di sottolineare che l'impiego di mirini telescopici avrebbe garantito un livello di precisione ancora più elevato.
Tra i primi critici di Hevelius va annoverato Hooke che nelle Animadversions on the Machina coelestis (1674) affrontava l'argomento fondamentale secondo cui esiste un limite al potere di risoluzione dell'occhio umano; in base agli esperimenti condotti dallo stesso Hooke, infatti, l'acutezza visiva giunge raramente fino al minuto di arco e non supera in ogni caso il mezzo minuto. Era quindi inutile, secondo il suo punto di vista, graduare gli strumenti oltre questo limite, fino ai secondi di arco per esempio, senza l'ausilio di un telescopio. L'autore proseguiva descrivendo i suoi progetti di strumenti di misurazione dotati di mirini telescopici e in particolare quello di un ampio quadrante con due telescopi, utilizzabile da un singolo osservatore posto all'apice, in cui le immagini fornite dai due mirini telescopici convergevano e si sovrapponevano per riflessione. Questo straordinario progetto comprendeva un mirino mobile dotato di un dispositivo di regolazione micrometrico, azionato da una vite senza fine ed era montato su un supporto equatoriale dotato di un movimento meccanico regolato da un pendolo conico. Il movimento poteva anche essere deviato da un giunto universale, il 'giunto di Hooke', per permettere al quadrante di seguire il cielo nell'azimut. Il quadrante equatoriale non fu mai costruito, ma rappresenta un esempio significativo della fiducia di Hooke nel futuro degli strumenti di misurazione.
Per la ricerca astronomica nel XVII sec., sono fondamentali gli osservatori di Greenwich e di Parigi; quest'ultimo fu terminato nel 1672 e tra i suoi strumenti vi erano due quadranti murali, di 1,82 m ca., dotati di mirini telescopici. Nell'Osservatorio Reale di Greenwich fu installato, nel 1676, un quadrante murale di 3 m ca. progettato da Hooke, sostituito, nel 1689, da un arco murale con un'ampiezza di 140°, ciascuno dei quali era fornito di una intelaiatura metallica per reggere il perno di un mirino telescopico. Nel 1676 un settore equatoriale con raggio di 2,13 m ca. fu montato su un asse polare. Questo strumento era dotato di due mirini telescopici e, benché differisse in numerosi punti dal quadrante equatoriale di Hooke, è molto probabile che l'ambizioso strumento da lui ideato fosse la fonte ispiratrice di questo progetto. Parte della sua realizzazione fu affidata all'orologiaio londinese Thomas Tompion, che aveva lavorato a lungo con Hooke.
Uno degli astronomi in servizio presso l'Observatoire di Parigi era il danese Ole Christensen Rømer, il quale, dopo aver fatto ritorno nel 1681 in Danimarca, costruì a Copenaghen un osservatorio che sfruttava pienamente le potenzialità delle nuove tecnologie apprese dal suo maestro Jean Picard. Uno degli strumenti installati era destinato a esercitare una profonda influenza sugli sviluppi dell'astronomia posizionale. Lo strumento dei passaggi di Rømer doveva probabilmente molto al metodo, sviluppato da Picard, di osservare le culminazioni delle stelle servendosi di un telescopio fisso e di cronometrare gli intervalli di tempo per misurare le differenze nella loro ascensione retta. Rømer trasformò questo metodo in uno strumento permanente appositamente progettato, formato da un telescopio di 1,82 m ca. con un filo verticale nel piano focale, montato su un asse orizzontale imperniato a entrambe le estremità, in modo da potersi muovere sul piano del meridiano. L'elevazione poteva quindi essere regolata in anticipo sull'altezza presunta della stella. Lo strumento dei passaggi divenne l'apparecchio di misurazione dell'ascensione retta maggiormente diffuso negli osservatori sino alla fine del XVIII secolo.
Rømer progettò anche altri strumenti innovativi, tra i quali un cerchio meridiano, sviluppato a partire dallo strumento dei passaggi, a cui era aggiunto un cerchio verticale, che consentiva la rilevazione della declinazione per mezzo di due microscopi micrometrici di lettura, mentre la misurazione dell'ascensione retta delle stelle era ottenuta cronometrando i tempi delle loro culminazioni. Il lavoro svolto da Rømer negli ultimi anni del XVII sec. riflette chiaramente un clima di fiducia verso la possibilità di realizzare importanti innovazioni nel campo della strumentazione, dovuto soprattutto all'emergere di nuovi dispositivi e idee.
Tuttavia, restava ancora un importante problema da risolvere. Lo strumento dei passaggi e il cerchio meridiano di Rømer, e in sostanza il suo stesso metodo di utilizzare questi strumenti, richiedevano l'ausilio di un cronometro. Anche se la precisione degli orologi era enormemente aumentata nel corso del XVII sec., principalmente grazie all'uso del pendolo per regolarne il movimento, non era ancora stato inventato un 'regolatore astronomico', ossia un orologio sufficientemente accurato e affidabile, per rispondere alle esigenze degli strumenti di misurazione ottico-meccanici.
Verso la metà del XVII sec., erano evidenti due tendenze nella fabbricazione di telescopi. In primo luogo, dalla grande quantità dei produttori cominciò a emergere il talento di alcuni fabbricanti di lenti, la cui fama andò consolidandosi in tutta Europa. In altre parole, la fabbricazione di strumenti ottici iniziò a essere considerata un'attività specialistica in cui la qualità dei risultati dipendeva dall'abilità dei singoli artigiani, l'impegno e il talento dei quali meritavano di essere coltivati e rispettati. L'altra tendenza era l'adozione di lunghezze focali maggiori, allo scopo di ridurre i problemi provocati dalle diverse forme di aberrazione.
Già Kepler si era reso conto che le lenti con curvatura sferica non consentivano di focalizzare in un unico punto i raggi di luce paralleli, dato che il punto di convergenza dipendeva dalla distanza del raggio di luce dal centro della lente; ma nel XVII sec. tutti i tentativi di molare la lente secondo sezioni coniche diverse erano falliti. L'aberrazione sferica poteva essere ridotta ma non eliminata. Esisteva, inoltre, una seconda fonte di problemi, non ben identificata fino alla pubblicazione degli scritti di ottica di Newton negli anni Settanta: l'aberrazione cromatica. Poiché la luce è una combinazione di raggi diversi per colore e modo di rifrazione, anche nel caso in cui si fosse riusciti a modellare una lente in grado di focalizzare precisamente la luce monocromatica, rimaneva da risolvere il problema della separazione dei raggi, dovuta alla rifrazione.
In pratica era possibile minimizzare queste difficoltà impiegando una curvatura molto lieve, limitata all'area centrale della lente. Meno sfocata era l'immagine, più era facile ingrandirla e osservarne i particolari. Tuttavia volendo aumentare il diametro della lente, in modo da catturare una quantità maggiore di luce, si era costretti ad estendere anche l'area della curvatura, per evitare angoli di incidenza obliqui verso la periferia della lente. I telescopi diventarono necessariamente più lunghi e meno maneggevoli.
Al di là dei problemi di costruzione, ci si chiede cosa tentassero di scoprire gli astronomi con i loro sempre più giganteschi telescopi. Uno dei misteri ancora irrisolti era quello della conformazione fisica di Saturno, questione lasciata in sospeso da Galilei il quale, essendo stato il primo a esaminare il cielo con un telescopio, sembrava aver scoperto quasi tutto quello che era possibile scoprire. Tuttavia, Saturno era rimasto un enigma anche per lo scienziato pisano che, dopo aver svelato l'esistenza di due satelliti stazionari, aveva dovuto ammettere in un secondo tempo la scomparsa di questi due compagni del pianeta.
Alla metà del secolo, a Londra, i telescopi avevano raggiunto lunghezze superiori ai 10 metri. La montatura era costituita da un albero e da un sistema di carrucole a cui era sospeso il tubo, con una forcella mobile e regolabile su cui poggiava il sistema oculare. Nei Paesi Bassi, nel 1655, utilizzando lenti molate, Christiaan Huygens realizzò con l'aiuto del fratello Constantijn un buon telescopio di 7 m, con il quale scoprì un satellite di Saturno. L'annuncio della scoperta fu dato nel 1656 e tre anni dopo Huygens rese note le sue osservazioni sull'anello di Saturno. Incoraggiato da questi risultati, Hevelius cominciò a interessarsi seriamente ai telescopi di grandi dimensioni e si procurò strumenti con lunghezze focali di 18,3 m e di 21,3 m ca. e uno addirittura di 45,7 m ca., tutti descritti nel suo trattato Machina coelestis. Quest'ultimo strumento era talmente ingombrante da essere di fatto inutilizzabile, nonostante Hevelius avesse ridotto il tubo di legno a due soli lati, uniti ad angolo retto, con una serie di impostazioni di apertura posizionate lungo l'asse. In seguito Huygens realizzò un telescopio di 37,5 m ca., eliminando completamente il tubo e utilizzando solo una corda per collegare e mantenere allineati la montatura dell'obiettivo, attaccata a un palo, e l'oculare, posto su una base poggiata a terra. La piattaforma della montatura dell'obiettivo poteva essere spostata in su e in giù lungo l'albero all'altezza necessaria. Tra gli strumenti inglesi di cui si ha notizia, il più lungo era un telescopio di 18,3 m, usato da Hooke, costituito da un tubo convenzionale. John Flamsteed ne possedeva uno simile, a Greenwich, che tuttavia non riuscì a utilizzare praticamente. Erano invece funzionanti i telescopi di 30,5 m e 41,4 m ca. impiegati da Gian Domenico Cassini presso l'Observatoire di Parigi, con i quali l'astronomo scoprì due satelliti di Saturno.
Meno spettacolare, ma altrettanto importante per l'evoluzione dei telescopi, fu l'invenzione degli oculari composti. Nel 1645, Antonius Maria Schyrlaeus de Rhieta descrisse l'uso di una lente di raddrizzamento in un telescopio astronomico e menzionò, sebbene soltanto in un crittogramma, un telescopio con quattro lenti, dotato di una lente di raddrizzamento e di una lente di campo, che aveva la funzione di ingrandire il campo visivo. Schyrlaeus consigliava di rivolgersi a un fabbricante di Augusta, Johann Wiesel (1583-1662), che utilizzava varie combinazioni di lenti nei normali telescopi e i cui strumenti avevano acquistato una notevole notorietà, tanto da essere ricercati anche all'estero. In Inghilterra, i pionieri dei grandi telescopi, quali l'astronomo Sir Paul Neile e il fabbricante di strumenti Richard Reeve, cominciarono ad adottare gli oculari composti. Fu probabilmente attraverso i suoi conoscenti inglesi che Huygens entrò in contatto con questi dispositivi. Nello stesso periodo, era possibile trovare gli oculari composti anche a Parigi, nei telescopi realizzati dagli ottici italiani, in particolare in quelli di Giuseppe Campani (1635-1715). La conoscenza di questi telescopi, in uso a Londra e a Parigi, è alla base del sistema oculare ideato da Huygens, e che ancora oggi porta il suo nome, caratterizzato da una lente di campo e una lente oculare dotate di un particolare rapporto fra lunghezze focali e distanza.
Come abbiamo visto, tra i fabbricanti di telescopi spiccavano i nomi di Wiesel in Germania e Reeve in Inghilterra. Una stella ancora più brillante di questo nuovo firmamento era Campani, che aveva fornito a Cassini i telescopi impiegati dall'astronomo a Bologna e ai cui servigi questi non aveva voluto rinunciare neppure quando gli era stata affidata la direzione dell'Observatoire di Parigi.
Per rendersi conto dell'importanza attribuita all'abilità di alcuni artigiani, basti ricordare le gare pubbliche, organizzate nel decennio 1660-1670 da Campani, fra lo stesso Campani e il più anziano e affermato Eustachio Divini, i cui strumenti godevano di grande prestigio in tutta Europa ed erano stati acquistati perfino da Hevelius.
Sebbene il telescopio a rifrazione conservasse un posto preminente fra gli strumenti ottici durante tutto il secolo, a partire dal 1660 cominciarono a circolare progetti per la realizzazione di telescopi a riflessione. Questa nuova concezione ebbe scarsa influenza nel XVII sec. e gli storici se ne sono interessati più per l'importanza che assunse in seguito che per i limitati successi riscossi in questo periodo. Nell'arco di un decennio fecero la loro comparsa i progetti di James Gregory (1638-1675), Cassegrain (attivo intorno al 1672) e Newton. Nel 1663, Gregory si rivolse a Reeve affinché realizzasse il suo modello, costituito da un obiettivo a specchio concavo e da una lente secondaria concava che rifletteva e dirigeva la luce sull'oculare, posto dietro l'apertura, al centro dello specchio principale. La pubblicazione nel 1671 del modello newtoniano, in cui la lente secondaria era costituita da uno specchio piatto che rifletteva la luce dirigendola verso un oculare al centro del tubo, provocò la reazione di Cassegrain, che sosteneva di aver realizzato per primo un modello analogo a quello di Gregory, con una lente secondaria convessa invece che concava. Dopo un breve momento di notorietà, dovuto soprattutto all'interesse dimostrato da Hooke e dal fabbricante di telescopi Christopher Cock, questa nuova concezione sembrò cadere nell'oblio per il resto del secolo. In realtà è possibile che circolasse un numero di progetti maggiore di quello di cui si è accertata l'esistenza, in quanto uno degli obiettivi di questa nuova concezione era quello di realizzare telescopi più corti e non è chiaro se in quel periodo questi 'riflettori', che ovviamente in realtà erano una combinazione di specchi e lenti, fossero considerati fondamentalmente diversi dai tentativi di accorciare i telescopi a rifrazione per mezzo di sistemi di specchi riflettenti intermedi. Quest'ultima, per esempio, era la direzione in cui si muoveva Hooke.
L'evoluzione del microscopio
L'interesse per il microscopio, che durante la prima metà del Seicento era stato relativamente scarso, si accese nuovamente a partire dalla metà del secolo, non a caso in un momento in cui la concezione meccanicista cominciava a dominare le teorie sulla natura del mondo fisico. Secondo questa concezione, tutti i fenomeni osservabili erano causati dall'interazione meccanica di minuscole particelle, o corpuscoli, che si supponeva concorressero a formare minuscole macchine o micromeccanismi. Per poter osservare questo mondo nascosto, ma di fondamentale importanza, era indispensabile migliorare il microscopio. Hooke, la cui Micrographia del 1665 è emblematica del rinnovato interesse, è molto esplicito rispetto a questa motivazione, né nasconde l'ambizione di riuscire a fornire una base empirica alla concezione meccanicista della Natura.
Nella maggior parte dei casi, i fabbricanti di telescopi citati in precedenza si occupavano anche di microscopi; di fatto si riscontrano molte analogie tra i due strumenti ed è possibile considerare il microscopio una derivazione del telescopio. Nel caso dei microscopi italiani, per esempio, sui quali ci è pervenuta una quantità maggiore di informazioni, le lenti sono installate all'estremità di tubi telescopici di cartone e sembra che soltanto in un secondo momento si sia pensato a dotarli di un piccolo treppiede che consentisse di effettuare l'osservazione dall'alto. Per regolare la messa a fuoco si spostava tutto lo strumento su di un sostegno a frizione. Alcuni tra i microscopi più antichi potevano essere tenuti in mano come i telescopi: l'illuminazione era fornita da un foro praticato nella base, che lasciava passare la luce quando lo strumento era avvicinato all'occhio e inclinato verso l'alto, in direzione della sorgente luminosa. Al microscopio furono in seguito applicate due innovazioni già apportate al telescopio: la lente di campo e l'oculare composto. Divini realizzò uno strumento con queste caratteristiche nel 1667 e nel 1672 dotò la montatura a treppiede di una ghiera filettata, per facilitare la regolazione della messa a fuoco. La forma detta a 'bussolotto filettato', in realtà, è rimasta associata al nome di Campani, che in uno dei suoi modelli utilizzò due di questi dispositivi, uno per regolare la posizione dello strumento a seconda del fattore di ingrandimento, l'altro per regolare la messa a fuoco. In questo modo, Campani riuscì a eliminare i tubi scorrevoli a pressione, utilizzati nei cannocchiali.
Se in Italia Divini e Campani detenevano il primato nella fabbricazione sia dei microscopi sia dei telescopi, la stessa situazione esisteva in Inghilterra, basti pensare che quasi certamente Hooke acquistò da Reeve il microscopio di cui parla nella sua Micrographia. Come i modelli italiani, questo strumento era dotato di un bussolotto filettato, che però si avvitava su un pilastrino laterale invece che su un treppiede. Questa soluzione offriva l'innegabile vantaggio di poter inclinare opportunamente il microscopio, invece di dover osservare direttamente dall'alto. A poco a poco il microscopio cominciò a differenziarsi dal telescopio, acquistando una sua precisa identità. Reeve continuò a usare un insieme di tubi telescopici dotati di lenti di varie curvature per ottenere diversi ingrandimenti. Prima della fine del secolo, il pilastrino laterale e il treppiede nei microscopi composti erano considerati segni distintivi di due importanti fabbricanti londinesi, rispettivamente di John Marshall e di Edmund Culpeper; quest'ultimo produceva anche un microscopio semplice con una montatura con bussolotto a vite.
Per trovare un microscopio la cui concezione non derivi da un telescopio, dobbiamo rivolgerci agli strumenti radicalmente diversi costruiti da Antoni van Leeuwenhoek (1632-1723). Si tratta di una produzione completamente estranea alla sfera commerciale, in quanto Leeuwenhoek, un mercante di tessuti di Delft, realizzava in proprio tutti i suoi microscopi. Le lenti erano costituite da minuscole sfere di vetro, incastonate in lamine di ottone che si tenevano vicino all'occhio. Con questi microscopi semplici, Leeuwenhoek riuscì a ottenere ingrandimenti e risultati senza precedenti. La passione per i microscopi semplici a sfere di vetro, condivisa da Robert Hooke, Christiaan Huygens, Nicolaas Hartsoeker (1656-1725), Jan Swammerdam (1637-1680), Samuel van Musschenbroek (1639-1681) e suo fratello Johann, fu un fenomeno nordeuropeo, ma questo tipo di strumentazione, che si identificava con il suo ideatore, non trovò né uno sbocco commerciale, né sostenitori altrettanto appassionati. Nonostante gli straordinari successi ottenuti da Leeuwenhoek, i suoi metodi di fabbricazione e le sue tecniche di visualizzazione non gli sopravvissero.
Non si conservò a lungo neanche la concezione meccanicista che il microscopio avrebbe dovuto dimostrare e che in un certo senso fu vittima proprio del successo di questo strumento. Una volta che le più minuscole forme di vita, per esempio le pulci, si erano rivelate per quello che erano (piccoli organismi complessi al pari di quelli del mondo macroscopico), la speranza di arrivare a isolare i corpuscoli cominciò ad affievolirsi. Se, da una parte, ciò era servito a rafforzare il concetto generale che organismi minuscoli potessero essere molto complessi, soltanto un tipo radicalmente diverso di strumento avrebbe potuto soddisfare le esigenze della concezione meccanicista; di conseguenza l'interesse dei filosofi naturali per il microscopio tornò a scemare rapidamente.
Uno degli sviluppi più significativi della strumentazione nel XVII sec. fu la sua applicazione alla filosofia naturale. Frutto di una metodologia sperimentale e di una visione meccanicista della Natura, questi strumenti riflettono alcuni degli atteggiamenti più tipici del nuovo approccio allo studio dei fenomeni naturali. Alcuni esistevano già nel XVI sec., come l'inclinometro e il declinometro, che per esempio erano utilizzati sia per la navigazione sia per lo studio del magnetismo terrestre. Gli sviluppi più interessanti, tuttavia, si registrarono nel secolo successivo, in cui si prese atto anche delle notevoli potenzialità di applicazione degli strumenti già esistenti.
Il termometro, per esempio, fece la sua comparsa nel 1612, quando Santorio Santorre rese note le esperienze sul calore del corpo umano, compiute con l'ausilio di un termometro ad aria. Galilei sosteneva di essersi già servito di un dispositivo simile. Nel termometro ad aria, che in Inghilterra fu chiamato weather-glass, lo spostamento di un liquido in un tubo di vetro misurava la dilatazione e la contrazione di una bolla d'aria. Poiché il tubo era aperto e il suo contenuto veniva a contatto con l'aria, il fenomeno era determinato dall'azione congiunta di temperatura e pressione atmosferica.
La separazione degli effetti della temperatura da quelli della pressione fu resa possibile dal termometro a liquido, di vetro sigillato, inventato a Firenze sicuramente prima del 1654 e la cui diffusione in quella città è ampiamente documentata nel sesto decennio del secolo. Questo tipo di termometro consisteva in un globo di vetro collegato a un lungo cannello con 50 o 100 graduazioni. Nel Museo di Storia della Scienza di Firenze ne è conservato un numero sorprendente di esemplari, realizzati da Antonio Alamanni per l'Accademia del Cimento. Strumenti analoghi erano già in uso a Parigi alla fine di quel decennio ed erano fabbricati a Londra agli inizi degli anni Sessanta del Seicento.
Nella seconda metà del XVII sec., i tentativi di migliorare il termometro si concentrarono sulla normalizzazione della scala con l'adozione di due punti fissi. Non si poteva sapere con certezza se i termometri fiorentini fossero normalizzati o meno e i metodi eventualmente impiegati erano sconosciuti. Nel 1665, Hooke pubblicò nella Micrographia un procedimento basato su un unico punto fisso: la temperatura di congelamento dell'acqua distillata. L'impiego di due punti fissi era sostenuto, fra gli altri, da Rømer, che alla fine del secolo scelse la temperatura della neve o del ghiaccio frantumato come punto inferiore e quella dell'acqua bollente come punto superiore.
L'uso del barometro per misurare le variazioni della pressione atmosferica derivò da esperimenti condotti da due seguaci di Galilei; ideato da Evangelista Torricelli, lo strumento fu realizzato per la prima volta da Vincenzo Viviani nel 1644. Tentando di scoprire i motivi per i quali una pompa a sifone non riesce a sollevare l'acqua per più di 9,15 m, Torricelli si era servito di un tubo di vetro sigillato a un'estremità contenente mercurio, immerso in una vaschetta contenente anch'essa mercurio a contatto con l'aria. Il mercurio fluiva dal tubo nella vaschetta arrestandosi a una certa altezza, determinata, secondo Torricelli, dal peso dell'aria che equilibrava il peso del mercurio e che avrebbe, quindi, equilibrato una colonna di acqua molto più alta. Egli avanzò l'ipotesi che l'altezza della colonna rispecchiasse le variazioni delle condizioni atmosferiche, ma l'esperimento suscitò interesse soprattutto perché consentiva di dimostrare che l'aria aveva un peso e quindi di speculare sulla natura del 'vuoto' formatosi sopra la colonnina di mercurio. In seguito Pascal osservò che l'altezza della colonna cambiava con le condizioni atmosferiche e ideò il barometro a sifone, nel quale il cannello contenente il mercurio, invece di essere immerso in una vaschetta, era piegato a gomito e aperto, a contatto con l'atmosfera. L'invenzione fu resa nota soltanto nel 1663, un anno dopo la morte di Pascal. Nel frattempo, in Inghilterra, l'interesse degli studiosi si era andato concentrando soprattutto sulle piccole variazioni di altezza di una colonna di mercurio. Wren aveva ipotizzato che tali variazioni avrebbero consentito di provare la teoria cartesiana dell'influsso della Luna sulle maree, determinato dalla pressione meccanica esercitata dal satellite sul mare; in tal caso si sarebbero dovuti osservare nel tubo torricelliano cambiamenti legati alle fasi lunari. Robert Boyle osservò una variazione, ma stabilì che non aveva niente a che fare con la Luna.
A stimolare l'interesse per queste variazioni, tuttavia, fu un quesito di altro genere: in che modo le condizioni atmosferiche influivano sullo stato di salute di una popolazione e, in particolare, perché molte persone si ammalavano contemporaneamente quando un'epidemia si diffondeva in una città o in una regione? Ci si chiedeva se una serie di misurazioni e relazioni non potesse fornire la risposta a tale quesito e se la variazione registrata nel tubo torricelliano non fosse correlata al grado di concentrazione di una componente vitale nell'atmosfera. Fu in questo contesto che nacque il 'barometro' vero e proprio: il termine fu impiegato per la prima volta da Boyle nel 1663. L'attenzione degli studiosi si spostò dall'altezza totale della colonna di mercurio alle sue variazioni infinitesimali: per rilevarle Hooke escogitò sistemi di ingrandimento della scala di lettura.
Una delle soluzioni proposte da Hooke fu il barometro a quadrante. Sebbene si trattasse di una derivazione del barometro a sifone inventato da Pascal, probabilmente il suo dispositivo fu il frutto delle indagini svolte insieme a Boyle con il modello a sifone, in base alle quali fu formulata la cosiddetta 'legge di Boyle' sul rapporto fra volume e pressione dei gas. Hooke collocò un galleggiante sulla superficie del mercurio in un barometro a sifone; il galleggiante era collegato a un contrappeso per mezzo di un filo fatto passare sopra una carrucola; sull'asse della carrucola era attaccato un indice che si spostava su una scala circolare. L'estremità chiusa del tubo si allargava formando una vaschetta, per far sì che il movimento corrispondente alle variazioni del livello del mercurio si concentrasse nell'estremità aperta, più corta, del tubo. Un'altra soluzione escogitata da Hooke per rendere più agevole la lettura del barometro, consisteva nel restringere la parte aperta del tubo al di sopra del mercurio e di versarvi dentro un altro liquido: la restrizione del cannello amplificava i dislivelli del liquido immesso, rendendoli più evidenti. Un sistema alternativo, attribuito a Morland, consisteva nel piegare l'ultima parte del tubo al di sopra della colonna di mercurio con un'angolazione di pochi gradi rispetto al piano orizzontale, in modo da disporre di una scala graduata più lunga, collocata nella parte inclinata del tubo.
La genesi del barometro è un esempio dei legami sempre più stretti intercorrenti fra la realizzazione di strumenti scientifici e la filosofia naturale. Pur assumendo una diversa identità concettuale nel passaggio dal tubo torricelliano al barometro, questo strumento mantenne a lungo la stessa conformazione fisica. Quando infine anche questa cambiò, per l'aggiunta di dispositivi di ingrandimento della scala di lettura, ciò avvenne per soddisfare le esigenze sperimentali di una teoria completamente diversa, che si proponeva di spiegare il rapporto esistente fra salute della popolazione e condizioni atmosferiche. Questa teoria stimolò l'interesse per molti altri strumenti utilizzati in campo meteorologico, come quelli ideati da Hooke: l'igrometro, che sfruttava le proprietà igroscopiche delle barbe dell'avena selvatica per misurare l'umidità atmosferica, il pluviometro, l'anemometro, il misuratore dei raggi solari e molti altri. Sia Hooke sia Wren realizzarono persino dei rilevatori atmosferici automatici, nell'ambizioso tentativo di costruire stazioni meteorologiche azionate da meccanismi automatici, in grado di registrare ininterrottamente su carta i diversi parametri meteorologici. Sul piano pratico si ebbe la graduale trasformazione dei barometri in oggetti commerciabili e già prima della fine del secolo la fabbricazione di questi strumenti si era diffusa a Parigi e a Londra.
L'interesse dei filosofi naturali per il vuoto accomuna il barometro a quello che si può considerare lo strumento sperimentale più rappresentativo del XVII sec.: la pompa d'aria. Questo congegno rappresenta in modo inequivocabile l'approccio meccanicista e sperimentale della Royal Society, in quanto consentiva di creare un ambiente di sperimentazione artificiale, ribadendo il presupposto di una Natura governata da leggi esclusivamente meccaniche ed esaltando il ruolo degli strumenti per la filosofia naturale.
La prima pompa d'aria fu realizzata dal tedesco di Magdeburgo Otto von Guericke intorno al 1640 e fu descritta da Gaspar Schott nel 1657. Boyle, che per i suoi esperimenti desiderava ricreare uno spazio analogo a quello che si formava al di sopra della colonna di mercurio nel tubo torricelliano, ne commissionò un esemplare al fabbricante di strumenti Ralph Greatorex (1625-1712), ma in un secondo momento, scontento dei risultati, passò l'incarico a Hooke. Nel 1660 Boyle pubblicò la descrizione di una pompa funzionante, che Hooke aveva realizzato fra il 1658 e il 1659 integrando fra loro parti fabbricate da diversi artigiani londinesi. La pompa era costituita da un unico pistone, spinto all'interno di un cilindro da un meccanismo a pignone e cremagliera. Il cilindro era collegato a una sfera di vetro, all'interno della quale era condotto l'esperimento. Grazie al successo dei New experiments physico-mechanical touching the spring of the air, pubblicati nel 1660 da Boyle, la pompa d'aria divenne uno strumento molto ricercato, sebbene fosse difficile costruirla e ancora più difficile riuscire a farla funzionare. Nel 1663, von Guericke ne inventò un altro tipo, mentre Huygens modificò il modello di Hooke utilizzando una cupola sigillata fissata a una superficie piatta, non più posta direttamente sopra il cilindro. A sua volta Boyle sfruttò alcune idee di Huygens per realizzare una versione aggiornata della pompa, descritta nel suo Continuation of new experiments physico-mechanical del 1669. Denis Papin, autore delle Nouvelles experiences du vuide avec la description des machines qui servent à le faire (1674), collaborò con Huygens alla costruzione di pompe d'aria a Parigi nel 1673 e, dopo essersi trasferito a Londra, nel 1675, realizzò per Boyle una pompa a due cilindri.
La nuova pompa di Papin era molto più facile da azionare e molto più efficiente degli esemplari monocilindro precedenti e, nella forma adottata da Francis Hauksbee (1666 ca.-1713), divenne il prototipo delle pompe commerciali del XVIII secolo. Nel frattempo a Leida, mentre si diffondeva il modello di Papin, van Musschenbroek cominciò a fabbricare per uso commerciale le pompe pneumatiche che per diversi decenni rappresentarono un prodotto distintivo dei laboratori Musschenbroek. Il modello più popolare, fra i molti in circolazione, era quello pubblicato da Wolford Seuguerd nel 1680: una pompa a pistone singolo con cilindro inclinato.
La pompa d'aria ha rappresentato l'archetipo degli strumenti sperimentali del XVII sec., e la macchina elettrostatica ha svolto probabilmente lo stesso ruolo nel secolo successivo. La sua storia comincia nel Seicento e a essa sono legati i nomi di von Guericke e di Hauksbee. Von Guericke era riuscito a produrre quelli che potremmo considerare fenomeni elettrostatici mettendo in rotazione una sfera di zolfo; questa macchina, però, si rivelò inadatta allo scopo delle indagini che condusse per dimostrare le sue teorie cosmologiche. Hauksbee effettuò una serie di esperimenti di elettrostatica alla fine del XVII sec., ma le conseguenze del suo lavoro e la comparsa di macchine derivate dal prototipo da lui realizzato, un globo di vetro fatto ruotare tramite un cavo e una carrucola, si manifestarono soltanto in un periodo successivo.
Fra gli artigiani, quelli italiani occupavano un posto preminente per quanto riguarda gli strumenti ottici, in parte grazie alla maggiore disponibilità di vetro ottico di buona qualità. Sembra invece che la produzione tedesca non fosse significativa quanto nel XVI sec., allorché le botteghe di Norimberga, Augusta e altre città occupavano un posto di primo piano ed erano note per la creatività degli artigiani e l'originalità dei loro prodotti. Faceva eccezione, ovviamente, Johann Wiesel, uno degli artigiani più originali di tutto il XVII secolo. A Parigi si registrò un notevole incremento del numero di botteghe e dell'attività commerciale in genere, stimolata anche dalle iniziative dell'Académie des Sciences e dell'Observatoire di Parigi. Gli artigiani dei Paesi Bassi accolsero con particolare entusiasmo la nuova scienza, partecipando, per esempio, al mercato degli strumenti delle scienze naturali. Anche a Londra la Royal Society e il Royal Observatory di Greenwich diedero maggiore impulso a un'attività commerciale già fiorente, basata su una solida conoscenza della matematica applicata. Secondo i resoconti dei viaggiatori dell'epoca, la dimensione commerciale della fabbricazione e della vendita di strumenti era particolarmente evidente a Londra, più che in altre città.
Nel resoconto del suo viaggio in questa città nel 1663, per esempio, Balthazar de Moncony descrive un ambiente commerciale pieno di animazione e di energia: lo vediamo visitare molte botteghe di fabbricanti di strumenti, acquistare cannocchiali, esaminare una serie di microscopi di Reeve, parlare di strumenti con gli artigiani, ordinare oggetti su misura e prendere appuntamento per ritornare quando nel negozio fossero stati posti in vendita nuovi prodotti. Particolarmente interessante è il racconto della presentazione di una lanterna magica a cui egli assistette nella bottega di Reeve a Longacre. Esso fornisce la prima documentazione scritta della diffusione della lanterna magica in Inghilterra ed è una delle più antiche attestazioni di una tradizione che diverrà comune a Londra nel XVIII sec., ovvero la consuetudine degli artigiani di dare dimostrazioni pubbliche del funzionamento degli strumenti. È chiaro che già a quell'epoca i fabbricanti inglesi erano alla ricerca di nuovi mezzi per ampliare il loro mercato.
È evidente anche un'altra caratteristica del commercio londinese che avrà un ruolo importante per il suo successo nel secolo successivo. Abbiamo osservato che esisteva una divisione fra gli strumenti impiegati nelle diverse branche del sapere, determinata in parte anche dal fatto che il loro commercio si distribuiva su aree geografiche diverse. Alla fine del XVII sec., questa divisione inizia a farsi meno netta e molti fabbricanti, in particolare Edmund Culpeper e John Rowley, cominciano a commercializzare sia strumenti matematici sia strumenti ottici. L'espansione del commercio di strumenti, specialmente di quello riguardante la nuova categoria di strumenti delle scienze naturali, presupponeva l'impiego di una vasta gamma di tecniche e l'uso di svariati materiali. Un singolo strumento poteva essere fatto di ottone, mogano, avorio, vetro e cuoio, e richiedere nozioni di falegnameria, metallurgia, soffiatura del vetro e riduzione in scala. Il caso di Hooke è esemplare: è evidente, infatti, che egli conosceva molto bene l'ambiente artigiano londinese ed era in contatto con botteghe e fabbricanti ai quali commissionava le componenti di cui aveva bisogno e realizzava i suoi progetti sia in proprio, sia in collaborazione con gli artigiani di fiducia. Se le corporazioni dei mestieri avessero vietato questo tipo di interazione creativa e non strutturata, i fabbricanti non avrebbero avuto la possibilità di svolgere questo ruolo.
A Parigi, al contrario, le corporazioni cercarono attivamente di regolamentare la produzione manifatturiera, mantenendola entro confini prestabiliti e per questo motivo qui non si sviluppò, come a Londra, il commercio derivato dalle applicazioni della nuova scienza. Anche nella capitale inglese gli artigiani dovevano appartenere a una corporazione, ma non importava a quale, e non erano tenuti a osservare norme particolari nella produzione. Le corporazioni controllavano il sistema di apprendistato, ma non la produzione dei laboratori artigianali. Culpeper, per esempio, apparteneva alla società dei commercianti alimentari, Rowley a quella dei ricamatori, e in nessun caso vi era la benché minima difficoltà per il fatto che essi vendessero, fra le altre merci, anche strumenti destinati allo studio della matematica o della filosofia naturale. Un siffatto ambiente commerciale permise l'emergere di una tipologia di prodotti che in seguito si sarebbe distinta come quella degli 'strumenti scientifici'.
A imprimere una nuova direzione al commercio di strumenti non furono soltanto tali circostanze, ma anche fattori istituzionali e intellettuali. L'importanza delle società scientifiche e degli osservatori non si limitava al fatto che essi costituivano una fonte di committenza diretta per i fabbricanti. Mentre personaggi come Hooke, per esempio, animavano le riunioni della Royal Society con esperimenti, dimostrazioni e presentazioni di strumenti, si diffondeva l'idea che si sarebbero potuti, in qualche modo, accogliere e organizzare questi eventi allo scopo di diffondere e rafforzare i principî della nuova filosofia naturale. Si trattava di un sapere aperto, pubblico e istituzionale, non più nascosto, segreto e oscuro. La sperimentazione non doveva essere privilegio di una casta particolare di esperti o iniziati, bensì una scienza pubblica, continuamente verificabile, grazie alla produzione di strumenti sempre nuovi da parte dei fabbricanti e i cui destinatari, come si vide in seguito, non furono soltanto le accademie istituzionali ma, in conseguenza di una commercializzazione mirata, anche un pubblico più vasto.
Il contesto intellettuale è caratterizzato dal rapporto fra gli strumenti tradizionali della matematica applicata e quelli nuovi, utilizzati nelle diverse scienze. Lo studio della Natura attraverso gli strumenti implicava il presupposto che la Natura stessa fosse una macchina e che la differenza fra i congegni meccanici di uso quotidiano e i micromeccanismi del mondo naturale fosse solo una questione di scala. Sulla scorta del successo della speculazione matematica nel XVI sec., si erano verificati casi in cui i metodi matematici e strumentali erano stati applicati a questioni che allora erano in realtà di dominio della filosofia naturale, quali la balistica e lo studio del magnetismo terrestre. Il nuovo meccanicismo legittimava ora un tipo di indagine che si serviva il più possibile di metodi strumentali.
Infine è interessante porre a confronto brevemente la carriera di due fautori dell'uso degli strumenti, uno dell'inizio e uno della fine del XVII sec., Galilei e Hooke. Galilei era un matematico pratico che si dedicò agli strumenti matematici, ma applicò le proprie conoscenze anche a quelli destinati all'ottica e alla filosofia naturale. Si trattava di due nuove categorie di strumenti, e Galilei, oltre a realizzarli praticamente e materialmente, dovette affrontare lo scetticismo e il sospetto con cui furono accolti, dando vita, nel contempo, a una nuova figura di scienziato che legittimava l'integrazione di conoscenze tanto diverse. Hooke fu forse il più entusiasta fautore della strumentazione della sua epoca e si occupò di una gamma sconfinata di congegni, che rispecchiava la vastità dei suoi interessi. Sul finire di un secolo che aveva dato un impulso decisivo all'evoluzione degli strumenti, Hooke poteva guardare con illimitata fiducia ai potenziali sviluppi futuri, dando ormai per scontato lo stretto rapporto intercorrente fra strumentazione, esperimento, meccanica e Natura.
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