La Rivoluzione scientifica: luoghi e forme della conoscenza. Osservatori, laboratori e orti botanici
Osservatori, laboratori e orti botanici
di Mara Miniati
Per comprendere il ruolo che osservatori e laboratori ricoprirono nel corso del Seicento, è opportuno accennare alle condizioni culturali che resero possibile l'attività di queste istituzioni, permettendo la formazione di 'luoghi' dove la ricerca e l'elaborazione teorica di scienziati, specialisti e semplici 'amatori' coesistevano con l'attività di abili artefici impegnati a realizzare le apparecchiature più idonee alle nuove ricerche sperimentali.
Quando Tycho Brahe (1546-1601) lasciò per sempre la sua terra natale, la Danimarca, portò con sé, tra le altre cose, i suoi strumenti, quei dispositivi di misura da lui ideati che costituivano un insieme originale, oltre che una straordinaria apparecchiatura per le osservazioni a occhio nudo. La precisione che questi strumenti garantivano aveva permesso all'astronomo danese di calcolare la posizione e le dimensioni di numerosi corpi celesti. Da soli rappresentavano la dotazione più cospicua dell'osservatorio di Uraniborg (castello del cielo), da lui creato sull'isola di Hveen. In questo luogo Tycho, notte dopo notte, osservava le stelle; qui riceveva i suoi numerosi ospiti aiutato dalla sorella Sophia, ricordata come perita matheseos e studiosa di astronomia e astrologia; qui l'astronomo aveva perfezionato il quadrante, strumento principe, così chiamato perché rappresenta, appunto, un quadrante di cerchio, cioè la quarta parte del quadrato in cui è inscritto un cerchio. Il lato, diviso in 90°, fu arricchito da Tycho con una divisione, nota come 'scala ticonica' ‒ che forse risale all'astronomo ebreo Lēwī ben Gēršōn (1280-1344) ‒ destinata a misurare i secondi di ciascun grado.
Tycho aveva letto attentamente il De revolutionibus orbium caelestium di Copernico, pubblicato a Norimberga nel 1543, pochi giorni dopo la morte del suo autore. In questo libro era riproposta l'antica ipotesi pitagorica che il Sole si trovasse al centro del mondo e che i pianeti, Terra compresa, gli ruotassero intorno, ipotesi ammissibile perché permetteva la semplificazione di calcoli astronomici assai complessi. Tycho non ebbe difficoltà ad accettare che il sistema tolemaico fosse poco probabile ed estremamente difettoso. D'altra parte, la Terra mobile sembrò al danese inaccettabile, sia perché questa ipotesi contrastava con le Sacre Scritture sia perché era inimmaginabile che un corpo tanto grande e pesante "potesse muoversi velocemente nello spazio" (Shea 1991, p. 172). Tycho immaginò invece una terza possibilità, un sistema che combinava le due ipotesi senza contrastare nessun principio fisico o religioso. La Terra restava immobile al centro, e intorno a essa ruotavano Luna e Sole. Quest'ultimo, a sua volta, diveniva il centro della rotazione degli altri pianeti. Le osservazioni che Tycho aveva compiuto non contrastavano con questo sistema che fu ben visto anche in ambiente ecclesiastico.
Tycho aveva osservato e misurato a occhio nudo, essendo scomparso prima di poter conoscere il cannocchiale che di lì a poco avrebbe rivoluzionato il sistema delle osservazioni astronomiche e le conoscenze del mondo celeste. Tuttavia la sua posizione è di grande importanza, alla base della futura Rivoluzione scientifica e delle successive ricerche, nonché del rinnovamento della strumentazione che costituì la dotazione, da un lato degli osservatori astronomici, dall'altro dei laboratori scientifici, impegnati su vari fronti e in differenti discipline a investigare e arricchire il sapere scientifico.
Collaboratore di Tycho per un paio di anni fu Johannes Kepler. A lui si devono fondamentali scoperte sui moti planetari, che trovarono la loro formulazione nelle leggi di Kepler. Esse furono possibili proprio muovendo dalle accuratissime osservazioni di Tycho. Inoltre, la scoperta delle possibilità offerte dal 'tubo ottico', dal 'cannone', dall''occhiale', come lo chiamò Galileo Galilei, ovvero dal 'telescopio', come lo denominarono gli accademici dei Lincei, fu determinante per lo sviluppo scientifico seicentesco. Questa scoperta è legata al nome di Galilei, il quale compì straordinarie osservazioni prima a Padova e poi a Firenze, che avviarono lo sviluppo dell'astronomia intesa come disciplina osservativa, dando impulso anche alla creazione di veri e propri osservatori dotati delle necessarie apparecchiature. Decisiva per il riconoscimento della validità delle scoperte astronomiche fatte da Galilei con il cannocchiale fu la certificazione che ne diede lo stesso Kepler, dopo aver ricevuto uno strumento direttamente dallo scienziato pisano. Già dagli ultimi anni del Cinquecento, Kepler era entrato in rapporto con Galilei: un sodalizio profondo, cementato dalla comune e appassionata adesione al sistema copernicano, che per primo Kepler confermò con osservazioni precise, sforzandosi nel contempo di elaborare una spiegazione fisica dei moti planetari.
L'avvio di un nuovo tipo di ricerca, basato sull'osservazione diretta e sull'esperienza, sulla formulazione di ipotesi dipendenti dall'analisi dei fenomeni e non da teorie e affermazioni apodittiche, costituisce la base della cosiddetta Rivoluzione scientifica che caratterizzò il XVII secolo. L'attività pratica, l'impiego di apparecchiature costruite o perfezionate ad hoc, la costante messa in discussione di affermazioni e conclusioni portarono a modalità di ricerca e di acquisizione del sapere differenti rispetto al passato. Il rivoluzionario strumento ideato nel Seicento, il telescopio, comportò una diversa visione della realtà, sia di quella infinitamente grande sia di quella infinitamente piccola, e permise la creazione di 'gruppi di lavoro' intorno ai fenomeni rivelati da queste nuove apparecchiature e, insieme, la continua modifica e l'incessante perfezionamento, nonché la trasformazione di questi stessi strumenti.
Secolo tra i più ricchi e controversi, il Seicento si mosse tra le incertezze determinate dalla posizione della Chiesa e le novità che sconvolsero affermazioni e ordini precostituiti. Sin dai primi decenni del secolo, infatti, le fondamentali ricerche galileiane permisero la creazione e la diffusione di strumenti straordinari, come il telescopio prima e il microscopio poi, per esplorare gli spazi infinitamente grandi il primo, per osservare i corpi minuti il secondo. I due strumenti, chiamati da Galilei rispettivamente 'occhiale' e 'occhialino', necessitavano di manodopera qualificata che potesse costruirli e perfezionarli, e di ricercatori in grado di usarli, mettendo in pratica le idee innovative dello scienziato pisano.
Officine e laboratori divennero quindi luoghi necessari per la costruzione degli apparecchi e la realizzazione di esperienze, luoghi che determinarono anche la specializzazione e la professionalizzazione dei lavoranti nei diversi settori. Tali luoghi, peraltro, divennero comunemente diffusi in gran parte dell'Europa: laboratori ottici e meccanici si affermarono un po' ovunque e costituirono centri di richiamo sia per gli scienziati sia per i tecnici e i semplici curiosi. Gli apprendisti a loro volta impararono arti nelle quali poi acquistarono una padronanza tale da poterle agevolmente controllare, perfezionare e sviluppare. In Italia, però, questo fermento trovò non pochi ostacoli nell'atteggiamento di forte opposizione che, a partire dall'esito del processo galileiano, rischiò di rallentare sviluppi altrove rapidi e in costante trasformazione.
Osservatori
Alcuni luoghi dai quali furono compiute le prime osservazioni astronomiche con il nuovo dispositivo ottico non possono essere definiti 'osservatori' nel senso proprio del termine: torri, terrazze, finestre che si aprivano su vasti panorami, colline e montagnole isolate furono usate allo scopo e assunsero la connotazione di spazi scientifici soltanto grazie alla specifica attività che con una certa continuità vi si svolgeva. In realtà, caratteristiche di un osservatorio che possa fregiarsi di questo nome sono l'essere stato progettato per questo scopo e il possedere apparecchiature specifiche destinate alle osservazioni: sestanti e quadranti muniti di dispositivi ottici e, soprattutto, cannocchiali astronomici e orologi a pendolo, in particolare per quegli osservatori che applicavano l'astronomia alla risoluzione di problemi di navigazione, come il calcolo della longitudine.
Nel Seicento possiamo parlare di osservatori 'antichi', privi cioè del fondamentale strumento costituito dal cannocchiale, e di osservatori 'moderni'. L'ultimo degli osservatori antichi è quello fondato negli anni Venti del Seicento dal grande astronomo di Danzica Johannes Hevelius. Egli si dedicò soprattutto allo studio della Luna e disegnò le prime carte del satellite terrestre durante tutte le sue fasi, pubblicando nel 1647 un'opera fondamentale, la Selenographia. Costruì egli stesso telescopi, cercando di perfezionare la fabbricazione delle lenti; studiò anche le comete e le stelle fisse di cui cominciò, nel 1641, a compilare un catalogo. La sua opera più importante è la Machina coelestis, pubblicata tra il 1673 e il 1679.
Quasi contemporaneamente nacquero in Europa altri quattro fondamentali osservatori. Quello di Leida, voluto dall'Università della città, risale al 1632. Vi fu collocato, tra gli altri strumenti, un particolare dispositivo ideato dal matematico Willebrord Snell (Snellius, 1580-1626), nativo di Leida, professore di matematica e padre del metodo per misurare la Terra sulla base della triangolazione, che sta a fondamento della geodesia.
A Copenaghen l'osservatorio fu istituito nel 1637, grazie al danese Christen Sørensen, latinizzato in Longomontanus, collaboratore di Tycho Brahe e poi primo professore di astronomia all'Università di Copenaghen. Nel 1610 egli ricevette fondi per acquistare strumenti e pare che, partendo da questa dotazione, iniziasse ad allestire un piccolo osservatorio domestico nella sua abitazione, la Rundetaarn (torre rotonda). Il primo direttore fu lo stesso Longomontanus. Successivamente, un altro grande astronomo danese, Ole Christensen Rømer ‒ che aveva collaborato dapprima con Jean Picard e poi era diventato membro dell'Académie des Sciences ‒ divenne direttore dell'osservatorio, nel quale collocò il planetario che aveva costruito a Parigi nel 1675. Fu proprio Rømer a introdurre in Danimarca l'impiego del telescopio e dell'orologio a pendolo come strumenti astronomici, nonché la riforma del calendario.
L'importanza crescente dell'astronomia, legata agli strumenti ottici sempre più perfezionati ‒ che permettevano, o sembravano permettere, navigazioni più sicure ‒ e alla possibilità di definire coordinate più precise, fece sì che gli osservatori divenissero sempre più necessari. L'Observatoire di Parigi fu costruito su un terreno acquistato il 7 marzo 1667. È opportuno ricordare che pochi mesi prima, il 22 dicembre 1666, l'Académie des Sciences, voluta dal re Luigi XIV e dal suo ministro Jean-Baptiste Colbert, aveva tenuto la sua prima seduta. Le due istituzioni sono strettamente legate: l'osservatorio, infatti, era destinato a servire da centro operativo dell'Académie, come luogo nel quale tenere le sedute e come laboratorio scientifico. L'edificio, progettato da Claude Perrault, fu terminato nel 1672; a partire dalla sua fondazione e fino agli anni della Rivoluzione francese, l'osservatorio fu diretto da quattro generazioni della stessa famiglia, i Cassini. Suo primo direttore fu Gian Domenico, nato a Perinaldo, in Liguria, astronomo di valore, al quale Colbert offrì, nel 1668, la carica di 'corrispondente' dell'Académie, invitandolo a soggiornare in Francia durante la costruzione dell'osservatorio. Cassini finì per restare a Parigi, compiendo numerose indagini astronomiche. A lui successero il figlio, il nipote e il pronipote. L'osservatorio fu la sede di importanti realizzazioni, quali la mappa della Luna, opera di Gian Domenico Cassini, e la determinazione della velocità della luce, calcolata qui per la prima volta da Rømer nel 1675.
Come accadrà di lì a pochi anni per l'Osservatorio di Greenwich, sin dalla nascita l'istituzione parigina ebbe non soltanto il compito di servire all'indagine scientifica pura, ma anche quello di aiutare la navigazione oceanica, sia con l'ideazione di strumenti e metodi per la determinazione delle posizioni geografiche in mare, sia con l'osservazione dei pianeti e degli astri per calcolarne in anticipo le posizioni e facilitare così le osservazioni astronomiche in mare.
Anche l'Osservatorio di Greenwich, in questo senso, tenne conto delle grandi conquiste scientifiche appena compiute, come, per esempio, la misura dell'arco di meridiano terrestre fatta da Jean Picard, e delle ricerche della Royal Society, interessata al problema del calcolo della longitudine, la cui soluzione avrebbe permesso navigazioni sicure e l'abbattimento dei notevoli danni economici dovuti alla frequente perdita di carichi commerciali. Furono i contatti, le osservazioni, i calcoli di personaggi come Samuel Morland (1625-1695) e, soprattutto, John Flamsteed (1646-1719) a consentire il decollo e l'affermazione dell'osservatorio inglese. Flamsteed studiò astronomia e divenne il primo astronomo reale al momento della fondazione dell'Osservatorio di Greenwich, nel 1675, sotto il regno di Carlo II d'Inghilterra. Egli preferì definirsi 'matematico regio', adottando lo stesso appellativo che Tycho Brahe aveva scelto per sé stesso quando si trovava a Praga. Le osservazioni a Greenwich iniziarono nel 1676; l'osservatorio era costituito all'epoca da un solo edificio il cui piano superiore, in un'unica stanza ottagonale, ospitava tutti gli strumenti astronomici. Solo molto più tardi, dopo l'adozione del meridiano passante per Greenwich come meridiano di riferimento (1884), la costruzione fu ampliata e arricchita di altri edifici per accogliere le nuove strumentazioni.
Per quanto riguarda l'Italia, a Roma funzionava regolarmente l'Osservatorio del Collegio Romano, dove Cristoforo Clavio sin dal 1572 aveva iniziato le sue osservazioni servendosi di un settore zenitale. Il Collegio Romano era il più importante dei collegi fondati dalla Compagnia di Gesù. Istituito dallo stesso Ignazio di Loyola nel 1551, nel 1567 aveva già un migliaio di studenti ed era divenuto sempre più importante fino a trasformarsi nell'Università Gregoriana, così chiamata in onore di papa Gregorio XIII, il riformatore del calendario. Tra i protagonisti dell'attività scientifica del Collegio Romano, Clavio occupa una posizione di particolare rilievo. Egli aveva fatto parte della commissione per la riforma del calendario, da lui fortemente voluta. Nel 1610 Galilei presentò a lui e agli altri docenti del Collegio Romano le scoperte realizzate con il telescopio. Clavio, che fu anche in corrispondenza con Galilei, osservò e confermò l'esistenza dei satelliti di Giove e verificò le fasi di Venere. Nonostante le difficoltà determinate dalla condanna e poi dall'arresto dello scienziato pisano, gli scambi epistolari e le ricerche compiute in seno a società e accademie scientifiche fecero sì che anche in Italia le osservazioni astronomiche continuassero con costanza e, accanto a esse, si sviluppasse l'attività di laboratori ottici specializzati.
Laboratori
Tra il Cinquecento e il Seicento molte famiglie nobili, tra cui i Medici, gli Asburgo, gli Hohenzollern, avevano organizzato laboratori, soprattutto alchemici. Vi lavoravano alchimisti e farmacisti, artefici di diversa formazione e spesso anche alcuni membri appartenenti alle stesse famiglie nobili. Si producevano farmaci rari, si tentava di ricavare l'oro, si trattavano i metalli, si tingevano vetri e porcellane. In alcuni casi questi laboratori costituirono parte integrante di una riforma materiale, intellettuale e spirituale che accomunava figure diverse nella realizzazione di uno stesso fine. La prima testimonianza di un'attività di questo tipo all'interno di un corso universitario si trova a Marburgo nel 1609: si trattava di un laboratorio di attività pratica, connesso alla cattedra di chymiatria, nel quale per oltre dieci anni gli studenti appresero le tecniche di laboratorio e le preparazioni medicinali. A Parigi, invece, esistevano sin dal Cinquecento corsi pubblici per farmacisti nei quali si insegnava a preparare medicinali.
Il termine 'laboratorio' acquistò però un senso particolare quando le accademie e le società scientifiche seicentesche, all'interno di una generale riforma delle modalità di divulgazione e di apprendimento del sapere, cominciarono a fondarsi proprio sull'attività di laboratorio per verificare ipotesi, formulare questioni, indagare i processi scientifici e i fenomeni. Tra queste: l'Accademia del Cimento a Firenze, la Royal Society a Londra, l'Académie des Sciences a Parigi. A partire dalle idee esposte negli scritti di autori come Francis Bacon, Tommaso Campanella e Johann Valentin Andreae, i laboratori ebbero un ruolo centrale nei progetti di riforma del sapere. La pratica permise un approccio totalmente nuovo alla conoscenza: l'esperimento si poteva ripetere, le conclusioni potevano essere contraddette e poi riconfermate, le conquiste dovevano essere sottoposte a verifica. Il laboratorio diveniva l'espressione concreta dell'unificazione del sapere e del superamento delle barriere tra teoria e pratica.
Per quanto riguarda l'Accademia del Cimento, "spetta indubbiamente alla famiglia regnante, soprattutto al granduca Ferdinando II e al principe Leopoldo de' Medici, il ruolo di attori principali di questa storia" (Galluzzi 2001, p. 12). Dopo il processo e la condanna di Galilei, l'eredità scientifica dello scienziato pisano trovò nelle iniziative dell'Accademia del Cimento l'occasione per una nuova affermazione.
L'Accademia contribuì a creare il "mito di Galilei fondatore o 'padre' del metodo sperimentale, un mito per molti aspetti falsificante della genuina eredità del Pisano" (Galluzzi 2001, p. 13). Tra coloro che parteciparono alle attività di laboratorio dell'Accademia, si segnalarono il messinese Giovanni Alfonso Borelli, l'ultimo discepolo di Galilei, Vincenzo Viviani, Francesco Redi, Lorenzo Magalotti e Carlo Renaldini; ma vi presero parte anche scienziati che occasionalmente si trovarono a Firenze, come il danese Niels Steensen (Stenone), che vi giunse nel 1666 e compì fondamentali ricerche anche dopo la chiusura dell'Accademia (1667).
Per l'Accademia del Cimento furono 'soffiati' vetri di impiego scientifico destinati ai diversi esperimenti compiuti nei dieci anni di attività: termometri e termoscopi per gli studi sul calore e sugli 'agghiacciamenti', misuratori di densità dei liquidi, igrometri per misurare l'umidità, bilancette di delicata fattura e altri straordinari pezzi che testimoniano l'abilità dei 'gonfia', come venivano chiamati i soffiatori del vetro, e la progettazione di apparecchiature originali.
La Royal Society nacque nel 1660, per iniziativa di un gruppo di scienziati che si riunivano al Gresham College di Londra. Fu Robert Boyle, chimico, a volerne la costituzione per promuovere la scienza matematica e sperimentale, sulla scia dell'insegnamento baconiano. Il 15 luglio 1662, l'istituzione fu riconosciuta da Carlo II d'Inghilterra. Nonostante il diritto di nomina del presidente spettasse alla Corona, la Royal Society mantenne la propria autonomia, anche economica, non essendo finanziata dalla monarchia, e, nel 1665, avviò la pubblicazione delle "Philosophical Transactions", primo periodico scientifico europeo e organo di diffusione delle nuove idee scientifiche. Membri della Royal Society furono numerosi illustri scienziati, tra i quali Robert Hooke ‒ inventore e costruttore di strumenti scientifici, oltre che brillante pensatore, assistente di Boyle e per molti anni segretario dell'istituzione ‒ e Isaac Newton, che ne fu presidente e che proprio sulle "Philosophical Transactions" pubblicò la celebre memoria sulla luce e sui colori (1672).
L'Académie des Sciences fu fondata nel 1666, sotto il regno di Luigi XIV e per volere di Jean-Baptiste Colbert, che intese imprimere un forte impulso sia alla ricerca teorica sia allo sviluppo delle arti. A differenza della Royal Society inglese, l'Académie dipendeva totalmente dalla Corona, che la finanziava, ne stabiliva l'organizzazione, il numero dei membri, la divisione in aree disciplinari. Vi presero parte i più grandi scienziati francesi dell'epoca, ma costituì un richiamo anche per gli stranieri. L'olandese Christiaan Huygens (1629-1695) partecipò alle attività dell'Académie per oltre vent'anni. Dopo la revoca dell'editto di Nantes (1685), molti scienziati abbandonarono la Francia e l'Académie attraversò un periodo di crisi, superato alla fine del Seicento, quando fu completamente riorganizzata. L'attività di ricerca dell'istituto interessò diversi settori: fu studiato il sistema per misurare l'arco di meridiano terrestre, si progettarono e perfezionarono apparecchiature destinate al calcolo e alle osservazioni, rilanciando l'attività degli scienziati e dei tecnici sia francesi sia provenienti da altri paesi. È il caso dell'italiano Gian Domenico Cassini che, come abbiamo visto, fece dell'Observatoire di Parigi un centro di ricerche e, contemporaneamente, un laboratorio di produzione di apparecchiature ottiche.
In Italia, laboratori di rilievo non legati ad accademie o a società scientifiche furono, per esempio, quelli degli ottici Giuseppe Campani (1635-1715) ed Eustachio Divini (1610-1685). Campani si era trasferito in gioventù a Roma, dove aveva conquistato una certa fama come orologiaio, meccanico e ottico. In oltre cinquant'anni di attività, produsse molti strumenti ottici, fra i quali microscopi composti e cannocchiali di grande qualità, dotati di lenti eccellenti, che furono ricercati dai più prestigiosi acquirenti del tempo. Anche l'Observatoire di Parigi acquistò telescopi di Campani, che furono utilizzati da Cassini. Abbinando l'attività di ottico a quella di astronomo, Campani osservò la rotazione di Giove e individuò la suddivisione degli anelli di Saturno.
Eustachio Divini era già noto come artefice di strumenti ottici intorno alla metà del Seicento. Anch'egli esercitò la sua attività a Roma e, come Campani, costruì cannocchiali e microscopi di elevata qualità. Scrisse, inoltre, opere astronomiche, come la Brevis annotatio in Systema Saturnium Christiani Eugenii, dedicata al cardinale Leopoldo de' Medici, fratello del granduca di Toscana, e pubblicata a Roma nel 1660, nella quale rivendicò, contro Christiaan Huygens, la priorità nell'osservazione e nella scoperta dei satelliti di Saturno.
L'attività degli osservatori e quella dei laboratori sono in sostanza due aspetti diversi di uno stesso innovativo metodo di indagine scientifica. L'accurato e non sempre facile lavoro di ricerca compiuto dalle accademie e dalle società attive nel Seicento trova in entrambi fondamentali risorse per formulare ipotesi nuove e alimentare un dibattito scientifico ricco e complesso. Strumenti essenziali per lo sviluppo delle scienze e per l'affermazione di nuovi dispositivi di osservazione e di misura, gli osservatori e i laboratori seicenteschi sono anche segni del potere delle corti che ne promossero la fondazione e ne sostennero l'attività.
di Alessandro Tosi
Scrivendo nell'estate del 1545 a Pier Francesco Riccio, maggiordomo del granduca di Toscana Cosimo I de' Medici, il naturalista imolese Luca Ghini ha cura di riferire delle escursioni condotte sull'Appennino per raccogliere "molte piante per ponere nel giardino a Pisa". Proseguendo supplica Riccio "che mi faccia gratia acconzare il giardino politamente, perché desidero di fare e spero, se non ho la fortuna adversa, che farò un giardino, che serà di piacere a S.E. et d'utile alli scolari".
Il riferimento al Giardino dei Semplici, istituito proprio nel 1544 contestualmente alla Lectura Simplicium coperta dallo stesso Ghini presso lo Studio pisano (riaperto da Cosimo I nel 1543 come epicentro della politica culturale del granducato), va ben oltre l'importanza documentaria. Il giardino botanico, infatti, era nato per volontà e diletto del granduca ("di piacere a S.E."), ma anche e soprattutto per essere "utile alli scolari". Finalità ribadite due secoli più tardi da Giovanni Targioni Tozzetti (1712-1783), che ricorderà come Cosimo I avesse pensato "saggiamente a destinare in Pisa un Luogo Pubblico, dove a spese sue si coltivassero le Piante native di climi e paesi differentissimi, affinché i Giovani Studenti le potessero in breve spazio di luogo, con facilità e prestezza imparare a conoscere" (Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, ms. Targioni Tozzetti 189, t. VI, f. 13).
Alla base dell'istituzione dell'Orto botanico di Pisa, il primo in Europa, era quindi la piena consapevolezza di una sua funzione pubblica, di ricerca e didattica. A differenza del giardino rinascimentale in villa o in palazzo, impiantato secondo intenti principalmente estetici e simbolici, raccogliendo e sviluppando l'eredità dell'hortus medicus dei monasteri medievali, l'orto botanico nasceva per "imparare a conoscere" le piante attraverso una quotidiana pratica di ostensione. Utilità e decoro si fondevano, del resto, nel progetto dell'Orto botanico di Padova, messo a punto dal nobile veneziano Daniele Barbaro. La nascita dell'orto botanico nel 1545 seguiva l'istituzione della cattedra di Lectura Simplicium, collocandosi all'interno della politica di potenziamento dell'ateneo patavino promossa dal governo della Serenissima.
Non è certo casuale che l'istituzione di numerosi orti botanici alla metà del XVI sec. ‒ a Firenze nel 1545, a Pavia nel 1558, a Bologna nel 1568 e forse a Ferrara nel 1577 ‒ avvenisse nel momento in cui il rinnovamento delle scienze naturali si andava imponendo come uno dei momenti decisivi di una più ampia 'rinascenza' scientifica. Si pensi all'impatto di opere quali l'Herbarum vivae eicones (1530) di Otto Brunfels o il De historia stirpium (1542) di Leonhart Fuchs, in grado di aprire orizzonti nuovi per la conoscenza, la classificazione e la raffigurazione della realtà naturale, o alla moderna rilettura di Dioscuride destinata a dominare il panorama editoriale europeo cinquecentesco grazie ai Commentari (1544) del medico senese Pierandrea Mattioli.
Il ruolo didattico e di ricerca degli orti botanici passava quindi attraverso l'attività dei maggiori naturalisti del tempo come Luca Ghini, Andrea Cesalpino, Ulisse Aldrovandi ‒ coinvolto direttamente nelle vicende dell'orto bolognese ‒ e ancora Matteo Caccini, Giuseppe Casabona (Goedenhuize), Mathias de Lobel, Rembert Dodoens e Charles de L'Écluse. La fitta rete di rapporti epistolari in una comunità scientifica improvvisamente allargata, e in cui rientravano anche semplicisti, giardinieri, floricoltori, collezionisti e 'curiosi della natura', consentiva una straordinaria circolazione di idee, esemplari, immagini. Se è ampiamente documentato il ruolo avuto da Aldrovandi o de L'Écluse, rimane, invece, ancora da valutare, in tal senso, l'eredità lasciata da Luca Ghini, cui si devono intuizioni fondamentali per l'affermazione di nuove metodologie di ricerca, dall'importanza data all'hortus siccus come strumento didattico e di ricerca, al parallelo interesse per la mineralogia e altre discipline di storia naturale.
Sul finire del XVI sec. l'orto botanico si impone come centro istituzionale in grado di rispondere pienamente alle rinnovate esigenze della moderna cultura scientifica. Esemplari sono le vicende dell'Orto di Leida, l'Hortus Academicus Lugduno-Batavus, la cui fondazione nel 1587 rispondeva al progetto dell'università di mostrare dal vero le piante e le erbe agli studenti di medicina. Mentre un primo schema del giardino avrebbe dovuto seguire quello di Padova, secondo il disegno fornito da Bernardus Paludanus (Berent ten Broeke) e immatricolato nello Studio patavino nel 1575, il suo crescente prestigio internazionale si deve all'attività di Charles de L'Écluse. Grande viaggiatore ed 'erborizzatore', botanico e curatore dei giardini imperiali di Massimiliano II a Vienna, de L'Écluse, nominato nel 1593 praefectus horti a Leida, riuscì a imprimere all'istituzione una forte connotazione scientifica.
Come documenta l'Index stirpium del 1594, il primo inventario manoscritto dell'Orto, le piante erano studiate come vero e proprio materiale botanico e non necessariamente ed esclusivamente medico; inoltre si accoglievano provenienze sia locali sia esotiche. A de L'Écluse, autore nel 1601 della Rariorum plantarum historia stampata ad Anversa dal celebre editore Christophe Plantin, si deve per esempio la prima descrizione della patata, come anche l'introduzione del tulipano, destinato a incidere profondamente sulla cultura, il gusto e l'economia europea seicentesca.
Da Pisa a Leida, da Padova a Lipsia (1580), da Heidelberg a Montpellier (1598), l'orto botanico si caratterizzava quindi come 'luogo del sapere' secondo precise coordinate programmatiche che ne definivano la fisionomia e le finalità. L'intento didattico e sperimentale trovava diretta rispondenza in uno schema strutturale ispirato a principî di linearità geometrica, laddove la rinuncia all'abbondanza degli elementi decorativi dei pleasure gardens ‒ statue, grottesche, fontane ‒ traduceva il privilegio dato all'ostensio simplicium. La chiarezza progettuale si legava all'importanza conferita alle collezioni di piante, in cui gli esemplari provenienti dalle erborizzazioni sul territorio si univano alle specie provenienti dalle parti del mondo di recente scoperta (il girasole, l'agave, l'ananasso, il pomodoro, ecc.). Principî che si ritrovano nel progetto dell'Orto botanico di Padova o di quello di Leida, così come nell'Orto botanico pisano (di cui rimane una preziosa testimonianza documentaria nel manoscritto Libro di compartimenti di giardini conservato nella Biblioteca Universitaria di Pisa), ma che vanno letti anche in rapporto alle escursioni botaniche di 'prefetti' e giardinieri, come nel caso di Giuseppe Casabona, giardiniere del granduca Ferdinando I de' Medici, celebre per la spedizione a Creta fatta allo scopo di rifornire gli Orti di Pisa e Firenze.
L'orto botanico solitamente includeva anche una "fonderia" ‒ il laboratorio chimico-farmaceutico per la preparazione dei farmaci ‒, una biblioteca e una galleria di storia naturale in cui venivano conservati naturalia, artificialia e curiosa, ovvero prodotti dei tre regni della Natura accanto a manufatti e rarità di ogni genere. Dopo una visita all'Orto botanico di Pisa, John Raymond, nel suo An itinerary containing a voyage (1648), scrive: "Arrivammo al Giardino dei semplici che è concepito molto più per l'utile che per il dilettevole; sebbene vi siano gradevoli viali, e giochi d'acqua che ci fecero bagnare per bene, tuttavia è per la maggior parte dedicato ai semplici e alle piante esotiche, e vi è annessa una Galleria molto utile per le pratiche mediche, ripiena di ogni curiosità della natura, pietre, minerali, e qualsiasi curiosità prodotta dalle più lontane Indie" (pp. 21-22). Rinomato era anche l'Ambulacrum dell'Orto di Leida in cui si ammiravano i numerosi reperti naturalistici, il Cabinet d'histoire naturelle dell'Orto di Montpellier, il 'Museo' dell'Orto di Messina, le collezioni del Jardin des Plantes di Parigi, mentre un "bellissimo e meraviglioso Museo" era previsto a Padova.
Pur riflettendo il gusto del collezionismo enciclopedico delle Wunderkammern e delle Raritatenkammern, le gallerie annesse ai giardini botanici, oggetto di meraviglia e curiosità da parte dei viaggiatori seicenteschi, dialogavano con le aiuole per ricreare, in un sottile rapporto di intus ed extra, un autentico theatrum naturae et sapientiae. Del resto, oltre ai reperti si conservavano anche opere d'arte e immagini di piante e animali. Il crescente interesse per l'immagine naturalistica che caratterizza la cultura scientifica dell'Età moderna trova infatti pronta rispondenza in alcune 'botteghe artistiche' attive presso gli orti botanici tra XVI e XVII secolo. A Pisa, a Firenze, a Leida e in molti altri giardini europei, valenti artisti avevano il compito di riprodurre dal vivo gli esemplari botanici e zoologici sotto la guida degli scienziati.
È pertanto su questi modelli, e contestualmente all'affermarsi di una più moderna cultura scientifica, che in alcune delle principali realtà universitarie europee sorgono altri rinomati orti botanici. Dopo un viaggio a Padova e Leida ‒ colpito dalla meraviglia dei due orti botanici ‒ Henry Danvers, poi conte di Danby, ordinava e finanziava nel 1621 la costruzione di un giardino botanico presso l'Università di Oxford, nel terreno adiacente al Magdalen College. Lo sviluppo del giardino si lega alle figure di Jacob Bobart, il primo horti praefectus, e del figlio Jacob jr che arricchirono l'orto di molte specie di alberi e piante, grazie ai numerosi acquisti e scambi di semi e campioni di essenze vegetali con corrispondenti sparsi in tutta Europa. Nel 1669 vi veniva chiamato come professore di botanica Robert Morison, autore della Plantarum historiae universalis oxoniensis (1680).
Il giardino voluto da Luigi XIII nel 1626 come 'Jardin royal des plantes médicinales' annesso al Collège Royal era affidato a Guy de la Brosse, il medico personale del sovrano, che ne riteneva fondamentale la costruzione per la coltivazione delle piante medicinali. Inaugurato solo nel 1640, dopo che nel 1635 un nuovo e più significativo editto reale ne aveva sancito la costruzione, il Jardin des Plantes per tutto il secolo mantenne la funzione di formare i futuri medici e farmacisti. Finalità analoghe caratterizzano anche il Giardino di Chelsea impiantato nel 1673 e legato alla Apothecaries' Society di Londra. "Vi è una collezione di innumerevoli rarità", annotava John Evelyn nel suo Diary il 6 agosto 1685, attestandone la dimensione di grande rilievo nel panorama degli studi medici e farmacologici del tempo.
In Italia particolarmente significative sono le vicende dell'Orto botanico di Messina, fondato e diretto dal botanico romano Pietro Castelli. Discepolo di Andrea Cesalpino e direttore degli Orti farnesiani di Roma (forse proprio a lui si deve l'Exactissima descriptio rariorum quarundam plantarum quae continentur Romae in horto Farnesiano, stampata a Roma nel 1625 dall'editore linceo Jacopo Mascardi), Castelli, appena arrivato a Messina, richiese l'impianto di un orto botanico per l'illustrazione e l'utilizzo dei semplici. Istituito nel 1638, secondo uno schema progettuale a pianta rettangolare suddivisa in quattordici settori (hortuli), ciascuno dei quali ripartito a sua volta in numerose aiuole, l'Hortus Messanensis si arricchì ben presto di specie siciliane ed esotiche. Alla morte di Castelli, avvenuta nel 1661, fu affidato a Marcello Malpighi, il celebre fondatore dell'anatomia microscopica e figura di straordinaria rilevanza nel panorama scientifico seicentesco, per essere poi distrutto negli anni della rivolta dei messinesi contro gli Spagnoli, durata dal 1674 al 1678.
Mentre prestigiosi giardini sorgevano anche a Uppsala (fondato da Olof Rudbeck nel 1654), Edimburgo (1670) e Amsterdam ‒ il cui direttore, Jan Commelin, pubblicava tra il 1697 e il 1701 il catalogo Horti medici amstelodamensis rariorum plantarum ‒ fu tuttavia agli inizi del Settecento che le nuove urgenze classificatorie e sperimentali riuscirono a imprimere una svolta decisiva nell'organizzazione e funzionalità dei giardini, sfumandone i legami con la farmacologia in direzione di una maggiore valenza scientifica.
Esemplare il percorso del Jardin des Plantes, punto di riferimento imprescindibile nel panorama degli studi naturalistici di fine Seicento grazie all'attività di Joseph Pitton de Tournefort e agli stretti legami con l'Académie des Sciences, ma che solo intorno al 1718 abbandonava l'originario carattere essenzialmente medico. Non più definito 'Jardin royal des plantes médicinales' ma 'Jardin du Roi', l'istituzione parigina si trasformava infatti in un luogo di studio e ricerca nelle scienze naturali e fisico-chimiche, tanto che nel 1729 l'antica spezieria era soppiantata dal Cabinet d'histoire naturelle, mentre nel 1739 veniva nominato intendant Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon.
Anche l'Orto botanico di Oxford vide risollevate le proprie sorti grazie all'opera di William Sherard, succeduto a Bobart nel 1719 e curatore di un importante erbario con specie raccolte da lui stesso e dai maggiori botanici del tempo, e di Johann Jacob Dillenius. Nello stesso periodo a Firenze, grazie all'attività del botanico Pietro Antonio Micheli, veniva istituita la Società botanica fiorentina, la prima di tal genere in Europa, la cui nascita nel 1717 segnava un momento fondamentale per la cultura scientifica italiana.
La figura forse più emblematica di una Res publica eruditorum pronta a individuare nel giardino uno dei luoghi privilegiati del sapere e del commercio delle idee è quella di Philip Miller, il più importante giardiniere inglese del XVIII sec., curatore dell'Apothecaries' Physic Garden a Chelsea e autore della monumentale opera Gardeners dictionary (1731). In contatto con Joseph Banks, Sir Hans Sloane, James Petiver, Samuel Dale, John Martin, ma anche con il celebre medico e botanico Herman Boerhaave, membro della Società botanica fiorentina, Miller seppe rendere quello di Chelsea uno dei giardini più rinomati e forniti d'Europa, grazie a una nuova e più moderna concezione delle pratiche orticulturali e dei rapporti con la Natura e il paesaggio. Proprio il Physic Garden, del resto, diventerà anche uno dei maggiori centri dell'illustrazione botanica settecentesca, ospitando valenti artisti come Jacobus van Huysum, Georg Dionysius Ehret e Elizabeth Blackwell.
Nel 1736 era il giovane Linneo (Carl von Linné), al servizio di George Clifford, a incontrare Miller a Londra e Dillenius a Oxford. Appena l'anno prima aveva visitato l'Orto botanico di Amsterdam e quello di Leida, dove aveva conosciuto Boerhaave e Adrian van Royen, per divenire alla fine del 1735 medico personale di Clifford, curando il catalogo dello splendido giardino a Hartekamp, vicino Haarlem (Hortus Cliffortianus, 1738). Se ancora nel 1738 si recava a Parigi, per visitare il Jardin du Roi e incontrare i due fratelli de Jussieu, nel 1741 Linneo veniva nominato professore di botanica e medicina all'Università di Uppsala. Egli contribuì al recupero e alla riorganizzazione del giardino botanico locale, di cui pubblicava il catalogo (Hortus Upsaliensis, 1748), poco prima di dare alle stampe, nel 1753, le Species plantarum, opera in cui per la prima volta era usata la nomenclatura binomia.
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