La Rivoluzione scientifica: modelli di conoscenza. Scienza e teologia
Scienza e teologia
All'inizio dell'Età moderna il dibattito sul rapporto tra scienza e teologia era particolarmente vivo. I nuovi progressi registrati in entrambi i campi sembravano invalidare la sintesi tra filosofia aristotelica e teologia cristiana operata nel XIII sec. da Tommaso d'Aquino. Il graduale riconoscimento della validità dell'astronomia eliocentrica di Niccolò Copernico (1473-1543) implicava il rifiuto di numerosi aspetti dell'aristotelismo fondati sulla cosmologia geocentrica. Seguendo Copernico, gli astronomi iniziarono a interpretare le teorie astronomiche come realtà fisiche, invece di considerarle semplici ipotesi matematiche, come avevano fatto Tolomeo e i suoi seguaci medievali. Dal momento che la filosofia aristotelica permetteva la spiegazione teologica di importanti dottrine cristiane, per esempio quelle relative alla natura dell'anima umana, all'Eucaristia e al ruolo della provvidenza divina, le tesi contrarie all'aristotelismo sembravano minacciare una serie di principî teologici irrinunciabili.
Anche dalle nuove filosofie della Natura, con le quali ci si proponeva di sostituire quello che era ormai percepito come arido scolasticismo, emergevano novità inquietanti. La cosmologia astrologica, legata alla tradizione ermetica, sembrava mettere in discussione la libertà di Dio e dell'uomo. La filosofia chimica prevalentemente ricondotta alle teorie di Paracelso (Philipp Theophrast Bombast von Hohenheim, 1493-1541) e dei suoi epigoni attribuiva alla materia un principio di attività innato che, rendendo superflua l'azione divina, sembrava aprire la strada al materialismo. Le teorie meccaniciste elaborate da René Descartes (1596-1650) e Pierre Gassendi (1592-1655) rischiavano di condurre alla negazione della provvidenza divina, al materialismo e addirittura all'ateismo.
In campo teologico, il dibattito successivo alla Riforma protestante sollevò una serie di questioni relative all'esegesi biblica. I riformatori tendevano a privilegiare l'interpretazione letterale e ad abbandonare la lettura allegorica del testo sacro. Inoltre, l'esegesi di Martin Lutero (1483-1546), di Giovanni Calvino (1509-1564) e dei loro seguaci violava la secolare tradizione che riconosceva soltanto alla Chiesa cattolica romana l'autorità di interpretare la Bibbia. La Chiesa rispose con il Concilio di Trento (1545-1563), riaffermando la sua autorità esclusiva in materia di esegesi e ribadendo che le interpretazioni dei singoli passi del testo biblico dovevano concordare con quelle dei Padri della Chiesa e della tradizione conciliare. Questi eventi non furono privi di conseguenze sulle relazioni tra scienza e teologia, soprattutto quando i risultati delle indagini sulla Natura sembravano contraddire alcuni passi della Scrittura, come nella vicenda di Galilei.
L'analisi del rapporto tra scienza e teologia nella prima Età moderna non deve ignorare che il dominio delle due discipline è cambiato profondamente dal XVII sec. a oggi. In quel periodo la parola 'scienza' conservava ancora il valore scolastico di scientia, vale a dire di conoscenza dimostrativa dell'essenza delle cose. Nel corso del Rinascimento e del XVII sec. lo sviluppo delle indagini empiriche, soprattutto nel campo della storia naturale, aveva condotto a risultati tutt'altro che certi, rendendo sempre più difficile l'integrazione della filosofia naturale nel modello apodittico dell'aristotelismo. Molti filosofi naturali elaborarono teorie della conoscenza empiriste e probabiliste, che allontanavano ulteriormente le loro indagini dal modello aristotelico. Ancora nel 1690, John Locke poteva scrivere nell'opera An essay concerning humane understanding che la filosofia della Natura non avrebbe mai potuto essere una scienza.
Gli obiettivi disciplinari della filosofia della Natura derivavano dalla classificazione delle scienze di Aristotele, fedelmente rispecchiata nei curricula delle università medievali. Secondo la definizione della Metafisica aristotelica, la fisica, o filosofia della Natura, si colloca tra le scienze teoretiche e studia gli enti sensibili e mobili. Lo studio della filosofia della Natura include l'analisi delle cause prime di ciascuna cosa, relativamente ai quattro tipi di causa (materiale, formale, efficiente e finale), la causa del mutamento e del movimento in generale, il moto dei corpi ce- lesti, il movimento e l'alterazione degli elementi, la generazione e la corruzione, i fenomeni della parte superiore dell'atmosfera, immediatamente al di sotto della sfera lunare, e lo studio degli animali e delle piante. I campi d'indagine della filosofia della Natura non coincidevano con quelli studiati dalla scienza moderna, piuttosto si allargavano fino a includere argomenti quali l'immortalità dell'anima e l'azione della provvidenza nel mondo, ignorando invece temi che rientrano a pieno titolo nel dominio della scienza moderna, come le matematiche applicate, per esempio l'ottica e l'astronomia.
Nel Medioevo la filosofia della Natura era condizionata da una serie di presupposti teologici e le sue conclusioni influivano a loro volta su questioni teologiche importanti. La discussione sulle cause includeva, per esempio, la ricerca dell'origine dell'Universo e ruotava intorno alla questione della Creazione divina del mondo. Le speculazioni sulla materia e sul mutamento avevano importanti implicazioni per l'interpretazione dell'Eucaristia, e le discussioni sulla natura degli animali e sulle caratteristiche che li distinguono dagli esseri umani erano direttamente legate al problema dell'immortalità dell'anima umana.
Nonostante il rifiuto dell'aristotelismo fosse abbastanza diffuso, i filosofi naturali della prima Età moderna continuarono a misurarsi con gli stessi temi trattati dai loro predecessori. Gli autori dei trattati rinascimentali di filosofia della Natura tendevano a conformarsi al modello espositivo medievale, che prevedeva il commento dei libri di Aristotele sul mondo naturale. Anche i filosofi naturali del XVII sec. che rifiutavano apertamente Aristotele, come Gassendi, continuarono tuttavia a occuparsi dei temi d'indagine tradizionali, con l'intento di dimostrare che la nuova filosofia meccanica era in grado di sostituire integralmente il paradigma aristotelico.
Erede della tradizione esegetica tardo-antica e patristica, nel Medioevo la Chiesa aveva elaborato un complesso approccio all'interpretazione della Scrittura, in base al quale esistevano quattro diversi livelli di lettura per ogni passo del testo biblico. Il primo senso coincideva con l'interpretazione letterale o storica. A esso si aggiungevano il senso morale o tropologico, che indicava il modo di regolare la condotta, il senso allegorico, che riguardava la vita della Chiesa o altre questioni teologiche e il senso anagogico o escatologico, che interessava gli eventi che si sarebbero verificati al momento della parusia, o ritorno di Cristo, e del rinnovamento del mondo, annunciati nel libro dell'Apocalisse. L'autorità di leggere e interpretare il testo biblico era riconosciuta esclusivamente al clero. I riformatori del XVI sec. sfidarono questa autorità ed estesero le prerogative del sacerdozio a tutti i credenti, concedendo pertanto a tutti gli individui il diritto di interpretare la Scrittura. Nello scritto An den christlichen Adel deutscher Nation (Alla nobiltà cristiana di nazione tedesca) Martin Lutero difese il sacerdozio universale in base al dettato della Bibbia che riconosceva a tutti i credenti la capacità esegetica:
poiché tutti siamo sacerdoti […] e tutti possediamo un Vangelo, una fede e gli stessi sacramenti, come sarebbe possibile che non avessimo il potere di sentire e giudicare quello che è giusto o ingiusto nella fede? […] Dobbiamo sentirci fatti arditi e liberi, né permettere che le false parole del papa atterriscano lo spirito di libertà, come lo chiama S. Paolo, ma giudicare arditamente tutto quello che essi fanno o tralasciano secondo la comprensione della Scrittura che ci viene dalla fede, e costringerli a seguire i migliori e non il proprio intelletto. (ed. Panzieri Saija, pp. 138-139)
La Chiesa cattolica romana formulò la sua risposta alla Riforma nel Concilio di Trento, mantenendo una ferma posizione conservatrice su tutte le questioni dottrinali discusse dal mondo riformato. Benché non avesse affrontato direttamente problemi relativi alla filosofia naturale, il Concilio aveva tuttavia riaffermato l'autorità della Chiesa in materia di esegesi e, nel periodo immediatamente successivo della Controriforma, essa si mostrò intransigente anche su quel terreno. Dopo il Concilio, i dotti europei di tutte le confessioni si trovarono quindi ad affrontare con rinnovata urgenza il problema del rapporto tra Scrittura e conoscenza.
L'involontaria sfida della scienza all'autorità della Chiesa in materia di esegesi portò allo scontro tra Galilei e l'Inquisizione. I primi problemi emersero dopo la pubblicazione del Sidereus nuncius (1610), in cui lo scienziato rendeva note le scoperte effettuate grazie all'impiego del cannocchiale. Benché non fornissero prove concrete della validità del copernicanesimo, le sue avvincenti osservazioni dei monti della Luna, dei satelliti di Giove e delle fasi di Venere invalidavano il geocentrismo della cosmologia aristotelica e dell'astronomia tolemaica. L'osservazione delle montuosità della superficie lunare si scontrava con la dottrina aristotelica secondo la quale i cieli erano costituiti da una materia diversa rispetto alla Terra, l'etere. La scoperta delle lune di Giove toglieva alla Terra il privilegio esclusivo di avere un satellite orbitante. Le fasi di Venere, infine, non trovavano alcuna spiegazione all'interno di un sistema geocentrico. Questo breve trattato scatenò accese discussioni sul copernicanesimo e sul suo potenziale contrasto con la Bibbia, che in molti passi sembrava corroborare la soluzione geocentrica tolemaica.
Indotto dal suo discepolo Benedetto Castelli a prendere parte al dibattito, Galilei pubblicò la Lettera a madama Cristina di Lorena, granduchessa di Toscana, concernente l'uso delle citazioni bibliche in fatto di scienza (1615). In questo testo, Galilei si richiama al principio dell'accommodatio, sostenendo che nei casi in cui un passo biblico sembra contraddire la conoscenza scientifica, bisogna interpretarlo in senso figurato. Il testo sacro, infatti, è scritto in un linguaggio adatto, ossia 'accomodato' alle persone semplici. Sulla base dello stesso principio, Galilei offriva una lettura copernicana del miracolo di Giosuè: in questo passo il messaggio della Bibbia è di carattere spirituale e non astronomico, e il problema non è, dunque, stabilire se il Sole giri intorno alla Terra o il contrario, ma riconoscere la possibilità dell'intervento divino nell'ordine naturale. Nel contesto del dibattito sull'interpretazione della Scrittura successivo alla Riforma e della riaffermazione dell'autorità della Chiesa in materia di esegesi sancita dal Concilio di Trento, la pretesa di Galilei di interpretare autonomamente la Bibbia risultava provocatoria.
La controversa opera di Galilei fu sottoposta al giudizio del cardinale Roberto Bellarmino, l'insigne teologo ispiratore della teologia della Controriforma. In precedenza, rispondendo allo scritto filocopernicano del carmelitano Paolo Antonio Foscarini, Bellarmino aveva affermato che la teoria eliocentrica poteva essere ammessa solo come semplice ipotesi matematica: dimostrare che l'ipotesi che collocava il Sole al centro dell'Universo e la Terra nei cieli salvava le apparenze, non equivaleva a dimostrare che essa fosse valida nella realtà. Il cardinale difese la sua posizione richiamandosi all'autorità delle Sacre Scritture e all'interpretazione dei Padri della Chiesa.
Nel 1616, Bellarmino convocò Galilei e nel corso dell'udienza gli comunicò che la dottrina attribuita a Copernico era contraria alla Scrittura e che pertanto non poteva essere difesa né insegnata. Alcune irregolarità contenute nei verbali di questa breve seduta causarono gravi problemi a Galilei quando, sedici anni più tardi, fu costretto a presentarsi davanti all'Inquisizione. Negli anni successivi all'incontro con Bellarmino, Galilei evitò di difendere apertamente il copernicanesimo. Ma dopo il 1623, incoraggiato dall'elezione al soglio pontificio di Urbano VIII, al secolo Maffeo Barberini, suo amico oltre che di molti altri scienziati, intraprese la stesura della sua opera più importante sul copernicanesimo, il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, data alle stampe nel 1632. Subito dopo la pubblicazione del Dialogo, Galilei fu invitato a comparire davanti all'Inquisizione che, dopo averlo processato, lo ritenne colpevole di aver sostenuto la verità del copernicanesimo, violando l'ingiunzione del 1616. Lo studioso dovette abiurare le sue tesi e fu relegato a vita nella sua residenza. Benché il contrasto che oppose Galilei alla Chiesa sia divenuto un caso emblematico del conflitto tra scienza e teologia, contrariamente a quanto alcuni studiosi hanno sostenuto nel passato, la sua condanna non pregiudicò lo sviluppo del pensiero scientifico e filosofico.
La metafora dei due libri, cioè il libro della parola di Dio, la Bibbia, e il libro dell'opera di Dio, la Creazione, era un luogo comune nella visione medievale della Natura. Gli autori che ricorrevano a questa metafora ritenevano che il vero senso della Scrittura non potesse essere compreso senza conoscere il significato degli oggetti a cui le parole del testo biblico si riferivano. Ugo di San Vittore (m. 1141), per esempio, aveva asserito che l'intero mondo sensibile è una sorta di libro scritto dalla mano di Dio ‒ creato, cioè, dalla potenza divina ‒ e che ogni creatura particolare è, per così dire, una rappresentazione figurata, una manifestazione visibile dell'invisibile sapienza di Dio. Entrambi i libri erano interpretati sulla base di una complessa teoria, secondo la quale le parole si riferiscono alle cose e le cose ai significati imposti da Dio. Questa concezione dell'opera e della parola di Dio rappresentava, inoltre, il nucleo della dottrina delle segnature, secondo la quale ogni ente naturale reca il segno, o marchio, della sua posizione e del suo scopo nell'economia della Creazione. La pratica dell'interpretazione allegorica della Bibbia presupponeva l'esistenza di un legame tra le parole della Scrittura e gli enti naturali.
Nella prima Età moderna, la metafora dei due libri subì profondi cambiamenti. Galilei e Kepler ritenevano entrambi ‒ con alcune differenze significative ‒ che Dio avesse scritto il libro della Natura in caratteri matematici e che trovando la chiave di questo linguaggio si potessero decifrare il Creato e gli stessi attributi divini. Galilei espose questa teoria nel Saggiatore (1623), opponendola ai tradizionali argomenti di autorità: "la filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un'aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto" (EN, VI, p. 232).
La dimostrazione matematica, secondo Galilei, è dunque la chiave per la conoscenza della Creazione divina. La conoscenza umana, come si legge nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, procede attraverso un ragionamento per gradi, muovendo da una conclusione all'altra, mentre la conoscenza divina è pura intuizione.
L'uso che Kepler fa della stessa metafora è più legato alla sua visione teologica: Dio è un divino geometra che ha creato il mondo seguendo un disegno matematico. Egli credeva che la sua intuizione della relazione tra le orbite planetarie del sistema copernicano e i cinque solidi di Platone, inscritti uno dentro l'altro ‒ teoria che pubblicò per la prima volta nel Mysterium cosmographicum del 1596, e alla quale rimase fedele per tutta la vita ‒, rivelasse il disegno divino del Cosmo. La base teologica e metafisica di questa teoria risiede nella profonda convinzione di Kepler che l'Universo sia l'immagine perfetta di Dio: "Le tre cose principali, delle quali indagavo con pertinacia le cause e il perché stessero così e non diversamente, erano il numero, la misura e il movimento delle orbite. Quella bella armonia di corpi in quiete, il sole, le stelle fisse e l'intermedio, con Dio Padre, Figlio e Spirito Santo, mi ha spinto a osare tanto" (Prodromus dissertationum cosmographicarum, ed. Duncan, p. 62).
La sua fede nel mondo come incarnazione della matematica divina è all'origine degli sforzi meticolosi per accordare perfettamente la sua teoria astronomica con i dati dell'osservazione. Sebbene oggi Kepler sia noto soprattutto per la scoperta delle orbite planetarie ellittiche, egli vedeva in queste regolarità la chiave per comprendere il disegno divino dell'Universo.
I riformatori protestanti rifiutavano la pratica medievale dell'interpretazione allegorica della Scrittura. A loro parere, infatti, dal momento che ogni individuo illuminato era in grado di leggere e interpretare il testo biblico, non era necessario ricorrere a interpretazioni complesse, esoteriche ed equivoche. Essi privilegiavano invece l'interpretazione letterale della Scrittura e i passi che si riferivano a eventi storici o ad aspetti del mondo naturale dovevano necessariamente contenere verità relative alla storia e alla Natura. Associato a un uso esteso del principio dell'accommodatio, necessario a spiegare le evidenti anomalie della narrazione scritturale, questo approccio capovolgeva il metodo allegorico medievale, secondo cui il significato degli eventi naturali e storici non doveva essere utilizzato per spiegare la Scrittura. Alcuni esempi illustrano con chiarezza l'emergere di questo nuovo atteggiamento circa le relazioni tra Natura e Scrittura. Robert Boyle ricercava nel mondo naturale la traccia del disegno divino. Nel trattato intitolato A disquisition about the final causes of natural things: wherein it is inquired, whether, and (if at all) with what cautions, a naturalist should admit them? (1688), Boyle sostenne che i filosofi naturali potevano e dovevano ricercare le cause finali nella Natura, intendendole come scopi divini, e portò la Scrittura a sostegno della sua tesi.
Nell'introduzione all'opera di Francis Willoughby, Ornithologia (1676), John Ray chiarì la sua posizione e quella dell'autore sul ruolo della Scrittura nella storia naturale: "poiché il nostro scopo principale è descrivere accuratamente, distinguere e ordinare secondo la classe e il genere tutte le specie, per eliminare ogni oscurità e confusione, abbiamo omesso tutto ciò che riguarda omonimie, sinonimie, racconti moralizzati o mistici, apologhi, presagi e tutto ciò che attiene alla Teologia, all'Etica, alla Grammatica e alle lettere, e abbiamo stabilito di cercare e di proporre solo le cose che attengono propriamente alla storia naturale".
In altre parole, Ray e Willoughby rifiutavano esplicitamente qualsiasi tipo di interpretazione allegorica o emblematica del mondo naturale. In un lungo brano dell'opera The wisdom of God manifested in the works of the creation (1692), che conobbe una grande popolarità, Ray sostenne che era possibile individuare gli scopi divini nella Creazione e che le cause finali dovevano svolgere un ruolo di primo piano nella nostra comprensione della Natura.
Nel corso dei secc. XVI-XVII, molti filosofi naturali abbandonarono l'aristotelismo, da cui la scienza e la teologia avevano desunto i loro fondamenti metafisici ed epistemologici fin dal XIII sec., in favore di teorie alternative, fra cui il meccanicismo. I filosofi meccanicisti tentavano di spiegare i fenomeni naturali in termini di configurazioni, movimenti e collisioni di particelle di materia, tanto piccole da sfuggire all'osservazione. Una delle caratteristiche distintive del meccanicismo era la dottrina delle qualità primarie e secondarie, secondo la quale la materia sarebbe dotata soltanto di un numero ristretto di qualità primarie e tutte le altre (come il colore, il sapore e l'odore) deriverebbero dall'impatto delle qualità primarie sui nostri organi sensoriali. Questo approccio aprì la strada alla matematizzazione della Natura e, allo stesso tempo, fornì una risposta alla critica scettica della conoscenza sensibile, mettendo in luce la natura soggettiva delle qualità secondarie.
Il meccanicismo, inteso come dottrina che spiega i fenomeni naturali in termini di materia e di movimento e che esclude qualsiasi tipo di azione a distanza, era nato nell'Antichità classica con Epicuro e Democrito. Epicuro scrive che il fine della vita è l'intensificazione del piacere e la riduzione del dolore e che, prescindendo dal dolore fisico, le principali cause dell'infelicità umana devono essere ricercate nel timore degli dèi e nella paura della morte. Per neutralizzare le cause della sofferenza, egli nega l'intervento degli dèi nelle vicende umane e tenta di risolvere tutti i fenomeni naturali in termini di collisioni casuali di atomi materiali, infiniti di numero ed eterni, in uno spazio vuoto. Epicuro sostiene la materialità dell'anima umana, costituita da atomi estremamente piccoli e veloci; dopo la morte l'anima non sopravvive, perché gli atomi che la compongono si disperdono nell'aria come fumo. L'epicureismo, dunque, benché non fosse una filosofia ateista, rifiutava l'idea che gli dèi potessero intervenire nel mondo naturale e in quello umano ed escludeva quindi ogni spiegazione di tipo provvidenzialistico. Tale filosofia non ebbe molto credito durante il Medioevo cristiano, perché fu considerata atea e materialista. La sua fortuna fu alquanto diversa nel Rinascimento, quando, insieme a molti altri testi classici, furono pubblicate le opere di Epicuro e del suo seguace romano Lucrezio.
Il meccanicismo esercitava una grande attrattiva sui pensatori che si richiamavano alla tradizione di Galilei e di William Harvey (1578-1657) ma, allo stesso tempo, poneva gravi problemi a coloro che rimanevano legati a una visione cristiana del mondo. I filosofi naturali schierati su posizioni ortodosse temevano che, negando la dottrina della Creazione e quella della provvidenza divina, il meccanicismo finisse per aprire la strada al materialismo o al deismo. Poiché la validità della sintesi tomista di teologia cristiana e filosofia aristotelica, dominante nel mondo cattolico, era stata riconfermata dal Concilio di Trento, il rifiuto dell'aristotelismo continuò a essere percepito come una minaccia alla dottrina della transustanziazione.
I filosofi meccanicisti cristiani adottarono diverse strategie per eludere questo problema. Essi ricorsero frequentemente all'argomento secondo cui l'ordine dell'Universo è una prova delle relazioni provvidenziali che legano Dio al mondo creato; si adoperarono per dimostrare l'esistenza di un'anima umana immateriale e immortale e tentarono inoltre di spiegare la presenza divina nell'Eucaristia in termini puramente meccanicistici.
Riscoperto dagli umanisti rinascimentali, l'atomismo di Epicuro era più vicino allo spirito della nuova astronomia e della nuova fisica. Tra i primi esponenti del meccanicismo si distinsero David van Goorle, Sébastien Basson e alcuni membri del Northumberland Circle, come Walter Warner, Thomas Harriot e Nicholas Hill. Questi studiosi privilegiarono diverse versioni dell'atomismo, rifacendosi anche alla tradizione democritea, ma nessuno di essi elaborò una filosofia sistematica, né affrontò i problemi teologici connessi all'adozione di questa antica filosofia. L'olandese Isaac Beeckman (1588-1637) propose una concezione meccanicista della Natura, descritta dettagliatamente nel suo diario, pubblicato solo nel XX secolo. Beeckman, tuttavia, esercitò una vasta influenza personale che si rivelò decisiva nell'incoraggiare sia Gassendi sia Descartes ad adottare il meccanicismo.
Furono proprio Gassendi e Descartes a pubblicare le prime e più influenti presentazioni sistematiche del pensiero meccanicista, indicandone i principî fondamentali e descrivendone gli aspetti pratici. Essi ritenevano che tutti i fenomeni fisici dovessero essere spiegati in termini di materia e di movimento, ma non concordavano sui dettagli di questa spiegazione. Gassendi, adottando lo stile espositivo degli umanisti rinascimentali, si proponeva di restaurare la filosofia di Epicuro. Profondamente interessato alle idee eterodosse del filosofo greco, questo canonico cattolico tentò di modificare l'antico atomismo in modo da renderlo accettabile per i cristiani del XVII secolo. A tal fine, Gassendi sostenne che Dio ha creato un numero finito di atomi e che esercita una continua azione provvidenziale sul Creato, ponendo l'accento sull'esistenza della libera volontà, umana e divina, e di un'anima umana immateriale e immortale che Dio ha infuso in ogni individuo al momento del concepimento.
Gassendi crede che Dio abbia creato atomi indivisibili, a cui avrebbe poi impresso il movimento; entrando in collisione tra loro nello spazio vuoto, essi costituiscono i componenti semplici del mondo fisico. Nella parte dedicata alla fisica del voluminoso Syntagma philosophicum, pubblicato postumo nel 1658, egli si propone di spiegare tutte le qualità della materia e tutti i fenomeni che si verificano nel mondo in termini di atomi e di vuoto. Gassendi, infatti, tenta di dimostrare l'esistenza del vuoto ‒ una tesi a quel tempo molto controversa, a suo parere confermata sia da argomenti razionali sia da prove empiriche ‒ richiamandosi ai recenti esperimenti eseguiti con il barometro da Evangelista Torricelli e da Blaise Pascal. Egli ritiene che gli atomi siano dotati di tre qualità primarie, la grandezza, la forma e il peso, ed enuncia una teoria empirista del metodo scientifico, i cui risultati dovevano essere considerati, nel migliore dei casi, probabili.
Gassendi ritiene che la libertà di azione di Dio nell'Universo da Lui liberamente creato sia illimitata, e che, nel caso in cui lo desiderasse, Dio potrebbe violare o capovolgere le leggi di Natura che Egli stesso ha stabilito. Il solo limite posto alla libertà divina è rappresentato dal principio di non contraddizione. La libertà di Dio nel mondo presuppone inoltre l'esistenza del libero arbitrio dell'uomo: se le azioni umane fossero il risultato necessario di condizioni antecedenti, anche la libertà di azione di Dio sarebbe limitata. Gassendi rifiuta la spiegazione della libertà umana offerta da Epicuro, secondo cui essa sarebbe la conseguenza di una deviazione imprevedibile e casuale degli atomi dei quali è costituito l'uomo, perché ritiene che la sua validità non sia provata. Egli tenta invece di dimostrare l'esistenza di un'anima umana immateriale e immortale che coincide con la sede delle più elevate facoltà mentali.
Nel corso del Medioevo l'immortalità dell'anima era stata considerata un fondamento indiscutibile della dottrina cristiana, in particolare dai seguaci di Agostino di Ippona. Dopo la rinascita aristotelica del XIII sec., questo principio tornò a essere oggetto di discussione sulla base delle opere di Averroè e di alcuni averroisti i quali negavano che Aristotele avesse sostenuto l'immortalità dell'anima individuale. Nel Rinascimento le discussioni si concentrarono sulla provocazione lanciata da Pietro Pomponazzi (1462-1525), un naturalista aristotelico che aveva messo in dubbio le tesi agostiniane, insegnando che per i filosofi della Natura la ragione naturale e l'esperienza sono i soli criteri di verità. Pomponazzi rifiuta la dottrina averroista, secondo la quale l'immortalità sarebbe una prerogativa dell'anima superindividuale, falsamente attribuita dal suo ideatore ad Aristotele e che, secondo Pomponazzi, degrada gli esseri umani, riducendoli al livello degli animali. Egli critica anche la posizione tomista, basata anch'essa, a suo avviso, su un'interpretazione fuorviante del pensiero di Aristotele e la considera indifendibile da un punto di vista esclusivamente razionale. Nel trattato De immortalitate animae Pomponazzi giunge infine alla conclusione che l'anima umana "essendo nobilissima tra le cose materiali e quasi sul confine della materialità, ha per così dire, un certo sapore di immaterialità da cui le derivano l'intelletto e la volontà" (ed. Toscani, p. 110). L'anima umana si distingue dall'anima animale e dalle forme delle piante e delle pietre per la sua attitudine alla conoscenza intellettuale. Profondamente influenzato da Alessandro di Afrodisia, Pomponazzi ritiene che "l'anima umana, essendo materiale, è una sostanza deperibile che, tuttavia, in virtù della sua perfezione, è suscettibile di partecipare alla conoscenza intelligibile" (Gilson 1961, p. 189). L'anima, cioè, è mortale, anche se, grazie alla sua natura di soggetto della conoscenza, può trascendere la mortalità. Oltre a negare l'immortalità dell'anima, nel Tractatus Pomponazzi rifiuta l'idea della perfetta compatibilità tra aristotelismo e teologia cristiana.
Nel 1513, le tesi relative alla mortalità dell'anima enunciate da Pomponazzi furono condannate dal V Concilio del Laterano, che stabilì il dogma dell'immortalità dell'anima ed esortò tutti i filosofi cristiani a impegnarsi per dimostrare che questa verità poteva essere colta non solo dalla fede, ma anche dalla ragione naturale. Le controverse concezioni di Pomponazzi e la loro condanna da parte della Chiesa costituirono il retroterra intellettuale di molte discussioni sull'immortalità dell'anima nel XVII sec., periodo in cui alcuni filosofi meccanicisti si sentirono obbligati a sostenere la tesi dell'immortalità dell'anima per evitare di essere accusati di materialismo e ateismo.
Gassendi accettò questa sfida, integrandola nel suo progetto di cristianizzare l'atomismo e l'edonismo epicurei, per quanto la negazione dell'immortalità dell'anima fosse uno degli aspetti più inquietanti della dottrina epicurea. Nel Syntagma egli tenta di dimostrare l'esistenza di un'anima materiale e sensibile, costituita da particelle particolarmente sottili, che si muovono molto velocemente. Quest'anima materiale, o anima (di cui sono dotati anche gli animali), è responsabile della vitalità, della percezione e dei livelli meno astratti della conoscenza, e si trasmette di generazione in generazione nel corso del processo biologico della riproduzione. Oltre a quest'anima 'materiale', gli esseri umani sono i soli a possedere un'anima immateriale e immortale, l'animus. Gassendi tenta di dimostrare l'immaterialità dell'animus basandosi sulla constatazione che, contrariamente agli animali, gli esseri umani sono in grado di riflettere sullo statuto metafisico delle loro idee astratte. Costituito da una sostanza immateriale, l'animus non può essere diviso e, di conseguenza, risulta indistruttibile e immortale. Questo argomento non fu utilizzato solo da Gassendi, ma svolse un ruolo di primo piano anche nelle opere di altri filosofi della Natura, come Kenelm Digby (1603-1665) e Henry More (1614-1687).
Anche Descartes nei Principia philosophiae (1644) elaborò una filosofia meccanicista sistematica, ma proponendo idee molto diverse da quelle di Epicuro. Contrapponendosi alla concezione atomistica, Descartes sostiene che la materia occupa l'intero spazio ed è divisibile all'infinito, negando così sia l'esistenza degli atomi sia quella del vuoto. Egli ritiene che la materia sia dotata di una sola qualità primaria, l'estensione geometrica e, basandosi su questa convinzione, tenta di analizzare la Natura in termini matematici. Nelle Meditationes de prima philosophia e nel Traité de l'homme, rimasto inedito e pubblicato postumo, Descartes opera una rigida distinzione tra materia, res extensa, e pensiero, res cogitans. Come la dottrina dell'immortalità dell'anima di Gassendi, il concetto di res cogitans di Descartes segna i confini estremi della possibilità di un'interpretazione meccanicista del mondo.
La filosofia meccanicista di Descartes deriva direttamente da considerazioni di ordine teologico. La sua epistemologia razionalista si basa sulla convinzione che, dal momento che Dio non può ingannarci, la sua esistenza rappresenta la sola garanzia della possibilità di conoscere la Creazione, a partire dalle idee chiare e distinte presenti nel nostro intelletto. Poiché i concetti geometrici sono modelli delle idee chiare e distinte, è possibile giungere alla conclusione che il mondo fisico è dotato di proprietà geometriche. Basandosi su questa argomentazione, Descartes giustifica la tesi secondo cui la materia è divisibile all'infinito. Anche i tentativi dei Principia di dimostrare le leggi del moto si fondano sull'esistenza degli attributi divini. Egli, infatti, si richiama all'immutabilità dell'azione di Dio per giustificare la legge della conservazione del moto e la formulazione del principio di inerzia, che costituiscono i fondamenti della sua fisica.
Descartes, come Gassendi, pensava che la sua filosofia fosse in grado di sostituire l'aristotelismo; sperava che i Principia fossero adottati nei collegi dei gesuiti come libro di testo per lo studio della fisica, in sostituzione dei testi aristotelici ancora in uso. Le sue speranze, tuttavia, erano destinate a infrangersi: dopo la sua morte, nel 1662 i Principia furono condannati e l'anno successivo, a causa della spiegazione meccanicista dell'Eucaristia, furono inseriti nell'Index librorum prohibitorum.
Le differenze che emergono dal confronto tra la filosofia di Descartes e quella di Gassendi riflettono le diverse posizioni assunte dai due pensatori nei confronti della nozione di provvidenza, cioè del rapporto di Dio con la Creazione. Gassendi è un volontarista e ritiene che la Creazione dipenda interamente dal volere di Dio, limitato solo dal principio di non contraddizione. Il carattere di contingenza del mondo esclude la possibilità di elaborare qualsiasi tipo di epistemologia razionalista, poiché la capacità di conoscenza a priori implicherebbe l'esistenza di un rapporto di necessità, per esempio, tra le idee dell'intelletto e il mondo. L'empirismo e il probabilismo di Gassendi, così come la sua convinzione che la materia sia dotata di proprietà conoscibili solo attraverso metodi empirici, sono un riflesso della sua teologia volontaristica. Al contrario di Gassendi, Descartes crede che, pur avendo creato il mondo in completa libertà, Dio abbia liberamente impresso il carattere di necessità ad alcune cose (per es., alle verità eterne) che gli uomini possono conoscere a priori e in modo certo. La concezione della materia di Descartes, secondo cui essa è dotata solo di proprietà geometriche che possono essere conosciute a priori, deriva da questa epistemologia razionalista. Sia la teoria della conoscenza sia la teoria della materia formulate da Descartes sono quindi strettamente legate alla sua posizione teologica.
Le tesi di un altro filosofo meccanicista, Thomas Hobbes, gettarono nello sgomento molti suoi colleghi, schierati su posizioni più ortodosse. Prescindendo dalle convinzioni religiose del suo ideatore, la teoria di Hobbes era considerata dai lettori del XVII sec. pericolosamente materialista, determinista e perfino atea. Nel De corpore (1655), Hobbes presentò una dottrina filosofica sistematica ‒ che prendeva in esame la materia, l'uomo e lo Stato ‒ basata sui principî del meccanicismo. I dettagli della sua filosofia non suscitarono un grande interesse tra i filosofi della Natura, ma la spiegazione di tipo meccanicistico dell'anima umana e la descrizione rigorosamente determinista del mondo naturale misero in allarme i pensatori più ortodossi.
I filosofi naturali della generazione successiva si sentirono tenuti a operare una scelta tra l'atomismo di Gassendi e la teoria del plenum di Descartes. È in questo contesto che furono elaborate le teorie della Natura di due celebri filosofi attivi nel corso della seconda metà del XVII sec., entrambi profondamente interessati alle implicazioni teologiche delle loro concezioni fisiche, Boyle e Isaac Newton.
Boyle è noto soprattutto per il tentativo di integrare la chimica nella teoria meccanicista. La sua filosofia corpuscolare ‒ in cui non si opera una chiara scelta tra la tesi secondo cui la materia è divisibile all'infinito e quella secondo cui la materia è costituita da atomi indivisibili ‒ si fonda infatti su una concezione meccanicista della materia. La riluttanza a pronunciarsi sulla natura della materia è il risultato del timore di incoraggiare l'ateismo, allora ancora associato all'epicureismo, ma deriva anche dalla convinzione che alcune questioni rimangono impenetrabili per la ragione umana. Secondo Boyle, i corpi materiali sono costituiti da particelle estremamente piccole, che si combinano tra loro formando insiemi di diverse dimensioni e forme; le configurazioni, i moti e le collisioni di questi insiemi di particelle producono le qualità secondarie della materia, incluse quelle chimiche. Boyle effettuò numerose osservazioni e molti esperimenti con l'intento di dimostrare che le diverse proprietà chimiche della materia potevano essere spiegate con il meccanicismo. Eseguì inoltre una lunga serie di esperimenti utilizzando uno strumento di recente ideazione, la pompa pneumatica, per dimostrare che le proprietà dell'aria ‒ e soprattutto la sua 'elasticità' ‒ potevano essere spiegate in termini meccanicistici.
Boyle era profondamente religioso e discusse a lungo le implicazioni teologiche della sua teoria corpuscolare. L'ipotesi è che Dio abbia creato la materia inerte e le abbia impresso il movimento; le leggi di Natura sono stabilite da Dio che, tuttavia, come dimostrano i miracoli biblici, può violarle a piacimento. Oltre alla materia, Dio ha creato l'anima umana infondendola in ogni embrione, così come gli angeli e i demoni, che sarebbero entità spirituali e non materiali.
Al pari di altri filosofi della Natura di questo periodo, Boyle ritiene che la pratica della filosofia della Natura abbia anche un valore devozionale: consentendo agli osservatori più accorti di constatare direttamente la saggezza e la benevolenza con cui Dio ha progettato il mondo; essa apre la strada a una più profonda conoscenza del Creatore. Gli os- servatori più acuti sono infatti in grado di individuare in ogni aspetto della Natura gli scopi di Dio. Gli uomini, tuttavia, non possono conoscere Dio in modo completo e neppure i suoi fini. Boyle fissa accuratamente i limiti della ragione umana in campo teologico, come del resto, in quello della filosofia naturale, dove a suo parere, la conoscenza umana ha un'estensione limitata e non è mai certa. Egli si richiama all'ideale del 'cristiano virtuoso' che indaga le profonde connessioni esistenti tra la filosofia naturale e la teologia cristiana; si spinge inoltre fino a considerare come la filosofia della Natura sarà perfezionata nell'aldilà, fino al momento della Resurrezione finale, quando Dio darà vita a un nuovo cielo e a una nuova Terra, modificando probabilmente tutte le leggi di Natura in vigore nel presente.
Nelle sue ultime volontà, Boyle dispose uno stanziamento di fondi a favore dell'organizzazione delle Boyle Lectures, una serie di otto conferenze annuali, il cui obiettivo doveva essere quello di confutare l'ateismo. Molti insigni filosofi naturali figurano fra i relatori degli incontri: Richard Bentley, Samuel Clarke, William Whiston e William Derham.
Newton, la cui fama è legata agli straordinari risultati conseguiti nel campo della fisica matematica e dell'ottica, accettò i principî del meccanicismo fin dai suoi anni di studio a Cambridge. Lo dimostra un taccuino compilato verso la metà degli anni Sessanta del XVII sec., in cui lo scienziato registrava le sue riflessioni sui fenomeni naturali, tentando di spiegarli nei termini della filosofia meccanicista. Egli ideò diversi esperimenti che avrebbero dovuto consentire di operare una scelta tra Descartes e Gassendi riguardo alla spiegazione di alcuni fenomeni. La gravitazione, la riflessione e la rifrazione della luce, la tensione superficiale, la capillarità e certe reazioni chimiche, per esempio, opponevano un'accanita resistenza a qualsiasi spiegazione fondata esclusivamente sui principî del meccanicismo. Dopo aver tentato, senza successo, di spiegare tali fenomeni ricorrendo a ipotesi sugli eteri submicroscopici, Newton giunse alla conclusione che è possibile individuare l'esistenza di forze di attrazione e di repulsione tra le particelle di cui sono costituiti i corpi; un'idea, questa, nata dai suoi studi alchemici. La più importante scoperta di Newton, la legge di gravitazione universale ‒ con cui si giunse a una spiegazione unitaria della meccanica terrestre e di quella celeste, e che segna l'apice dello sviluppo iniziato verso la metà del XVI sec. con la rivoluzione copernicana ‒ si fonda su questo concetto di forza di attrazione. Se ad alcuni contemporanei sembrava un ritorno alle vecchie teorie dell'azione a distanza rifiutate dal meccanicismo, il concetto di forza, elaborato nelle varie edizioni dei Principia, consentì a Newton di operare la riduzione della fisica in termini matematici.
Accanto alla fisica e alla matematica, Newton coltivò per molti anni l'alchimia e la teologia. Alcune recenti ricerche suggeriscono che le indagini dello scienziato in questi tre campi fossero guidate da una motivazione comune di ordine teologico, quella di dimostrare l'azione di Dio nel mondo. Dal punto di vista teologico, Newton era un seguace dell'arianesimo e quindi negava la natura divina di Cristo e la dottrina della Trinità. La trascendenza del Dio dell'arianesimo, tuttavia, sembrava condurre al deismo, dottrina che lo scienziato rifiutava. Egli si dedicò alla ricerca delle prove dell'attività divina nel mondo, rinvenendole nella materia attiva degli alchimisti, nella realizzazione storica delle profezie bibliche e nella gravitazione della materia. Essendo di per sé inerte, la materia non può generare il movimento, né deviare dal moto rettilineo uniforme senza l'intervento di forze motrici esterne. I moti orbitali dei pianeti sono deviazioni dal moto inerziale che Newton spiega in termini di forza gravitazionale. Nel corso di tutta la vita, Newton tentò di dare una spiegazione della gravitazione, negando che questa forza fosse una proprietà innata della materia e cercando di spiegarla coerentemente sia con la sua posizione teologica sia con la sua filosofia naturale. Nella prima fase della carriera, Newton fece ricorso a espedienti meccanici come il gradiente di densità dell'etere nel manoscritto De aere et aethere. Negli anni Settanta del XVII sec., rinunciò tuttavia a spiegare la gravità in termini esclusivamente meccanicistici, riconoscendo che questa soluzione comportava l'idea di un regresso all'infinito. Inoltre, come dimostrò nei Principia, anche la presenza del più rarefatto etere meccanico nello spazio opporrebbe una resistenza al moto dei pianeti, provocando il collasso del Sistema solare. In numerose Queries dell'Opticks, Newton tornò su questo problema, suggerendo prima l'esistenza di un etere non suscettibile di ostacolare il moto dei pianeti, composto di particelle dotate sia di forza di attrazione sia di forza di repulsione, e poi ipotizzando che la gravitazione derivi dall'azione diretta di Dio sulla materia. Egli riteneva che la sua fisica e la sua cosmologia fossero inseparabili da un discorso più ampio che, a partire dalla constatazione dell'ordine dell'Universo, conduceva necessariamente al riconoscimento dell'esistenza di un Creatore sommamente intelligente e potente.
I filosofi meccanicisti cristiani si trovarono ad affrontare anche il problema di conciliare la filosofia naturale con la narrazione biblica della storia della Terra. Tra le diverse soluzioni, è particolarmente degna di nota quella proposta da Thomas Burnet in The theory of the earth (1684). Fondandosi sulle linee generali del racconto biblico, Burnet tenta di offrire una spiegazione meccanicista della Creazione, del Paradiso terrestre, del Diluvio universale, della conflagrazione finale, del rinnovamento del mondo e del compimento di tutte le cose. Dopo aver stabilito una cronologia basata sull'Apocalisse, egli ricorre ai principî del meccanicismo per spiegare la sequenza di questi eventi.
All'inizio dell'Età moderna, la provvidenza e la natura delle relazioni che legano Dio alla Creazione erano tematiche centrali della riflessione dei filosofi naturali. Molti identificavano la provvidenza con la capacità di 'prevedere' nell'ordinare e avere cura della Creazione. La dottrina tradizionale distingueva la provvidenza generale ‒ l'ordine e la prescienza impressi da Dio nel momento della Creazione originale ‒ dalla provvidenza speciale, ovvero la cura costante per l'umanità. I pensatori del XVII sec., tuttavia, operarono una distinzione anche tra provvidenza ordinaria (l'ordine divino della Creazione) e straordinaria (l'intervento miracoloso nell'ordine naturale). Nel periodo della Rivoluzione scientifica, si imposero all'attenzione due questioni legate al concetto di divina provvidenza: in primo luogo, bisognava assicurarsi che la sollecitudine di Dio per la Creazione e il suo rapporto con essa seguitassero a svolgere un ruolo di primo piano in qualsiasi nuova filosofia della Natura e, in secondo luogo, occorreva stabilire la natura di questo ruolo.
Assicurare alla provvidenza un ruolo nel mondo era un problema, ma la questione dell'interpretazione del rapporto tra Dio e la Creazione aveva implicazioni ancora maggiori per la comprensione dello statuto metafisico ed epistemologico delle leggi di Natura. Dio è limitato dalla sua Creazione, o rimane sempre libero di intervenire e di cambiare ciò che ha creato? La risposta che il XVII sec. diede a questa domanda ha le sue origini nel dibattito seguito all'introduzione della filosofia aristotelica nel pensiero europeo tra il XIII e il XIV secolo. Nella teologia medievale esisteva un delicato equilibrio tra la razionalità dell'intelletto divino e la sua assoluta libertà di esercitare potenza e volontà. Teologi intellettualisti, come Tommaso d'Aquino, che ponevano l'accento sulla razionalità divina, erano più propensi ad accettare elementi di necessità nella Creazione rispetto ai teologi volontaristi, come Guglielmo di Ockham, che sottolineava l'assoluta libertà di Dio e, di conseguenza, la radicale contingenza del mondo. Nel XVII sec. le varie posizioni sul rapporto tra Dio e la Creazione originarono teorie diverse sullo statuto metafisico ed epistemologico della conoscenza umana e delle leggi naturali. Per gli intellettualisti le leggi di Natura descrivono l'essenza delle cose e possono essere conosciute a priori. Le interpretazioni del sapere scientifico di indirizzo empirista e probabilista adottate dai teologi volontaristi producevano invece un modello di contingenza che escludeva l'esistenza delle essenze in senso platonico e aristotelico. Da questo punto di vista, le leggi di Natura non sono altro che semplici descrizioni delle regolarità dei fenomeni osservati. Il potere di Dio di intervenire nella Creazione non ha dunque limiti e le leggi naturali sono verità contingenti, sempre passibili di alterazione.
Nel Syntagma philosophicum il volontarista Gassendi descrive un mondo radicalmente contingente e dipendente dalla volontà divina. Questo contingentismo si manifesta nella convinzione che il metodo empirico sia l'unica via per attingere alla conoscenza del mondo naturale e che la materia, di cui tutti gli enti fisici sono composti, possegga alcune proprietà che possono essere conosciute solo empiricamente. Le leggi di Natura, secondo Gassendi, sono semplici generalizzazioni di origine empirica che Dio può cambiare secondo la sua volontà, come dimostrano i miracoli.
Il razionalista Descartes descrive invece nei Principia un mondo dotato da Dio di relazioni necessarie, alcune delle quali consentono all'uomo di avere una conoscenza a priori di importanti aspetti del mondo naturale. La possibilità della conoscenza a priori si estende anche alla natura della materia che, come Descartes si propone di dimostrare, è dotata solo di proprietà geometriche. Le leggi di Natura sono verità necessarie che derivano direttamente dall'immutabilità dell'azione divina. I platonici di Cambridge, come Henry More nei Divine dialogues del 1668, si richiamarono a una forma ancora più estrema di razionalismo, in base alla quale la libertà di Dio è limitata dal concetto di bene assoluto e dalle relazioni matematiche che esistono indipendentemente da Lui.
I meccanicisti tracciavano una rigida linea di demarcazione tra materia e spirito; perciò si riteneva che la loro filosofia conducesse ai modelli antiprovvidenzialisti del materialismo e, di conseguenza, all'ateismo. Secondo Descartes, la materia si distingue nettamente dalle entità incorporee, la mente e Dio. Analogamente, anche se in modo meno elegante, l'atomismo cristianizzato di Gassendi implica una rigida distinzione tra entità corporee (costituite da atomi indivisibili) e incorporee (l'anima razionale, Dio, gli angeli e i demoni). L'esistenza di un legame storico tra atomismo ed epicureismo, una filosofia esplicitamente antiprovvidenzialista, contribuiva ad alimentare questo tipo di preoccupazioni.
Gli esiti antiprovvidenzialistici del meccanicismo si realizzarono nella dottrina di Hobbes, che per il suo materialismo e determinismo divenne un caso emblematico dei rischi di natura teologica insiti nell'adozione delle teorie meccaniciste. La paura di cadere nel meccanicismo hobbesiano indusse altri pensatori a interpretare il meccanicismo in senso chiaramente provvidenzialistico. Gassendi, che aveva modificato l'atomismo in modo da liberarlo degli elementi materialistici e atei derivanti dal suo legame con l'epicureismo, integrò volutamente il concetto di divina provvidenza nella sua versione del meccanicismo, in parte come reazione a Hobbes. Attraverso un uso estensivo dell'argomento dell'ordine osservabile nell'Universo, egli tentò di dimostrare che il mondo non è stato originato da una casuale collisione di atomi, come sostenevano gli antichi atomisti e Hobbes, ma da un'entità intelligente. Gassendi, che rifiutava sia la dottrina epicurea del caso, o fortuna, sia quella stoica del fato, ridefinì queste nozioni in senso provvidenzialistico, interpretando la fortuna come l'espressione della preveggenza e della provvidenza divine e il fato come giudizio di Dio.
Inizialmente attratto dalla versione del meccanicismo proposta da Descartes, a cui aveva riconosciuto il merito di aver conferito allo spirito lo stesso statuto ontologico della materia, More finì per sviluppare un atteggiamento decisamente critico nei confronti di questa filosofia. Il meccanicismo, teorizzando una profonda separazione tra lo spirito e la materia, poteva facilmente condurre, secondo More, al materialismo. Per evitare questo rischio, decise di arricchire la filosofia meccanicista di Descartes, inserendo nella sua descrizione del mondo una nuova entità, lo spirito della Natura. More riteneva che alcuni fenomeni non potessero essere spiegati esclusivamente in termini di rimescolamento della materia; tra questi includeva l'inclinazione costante dell'asse terrestre sul piano dell'orbita e la sequenza delle stagioni che essa determina, la gravità, i risultati conseguiti da Boyle attraverso i suoi esperimenti con la pompa pneumatica e tutte le prove dell'esistenza di un disegno rinvenibili nella struttura e nel modo di vivere degli esseri animati. Questi fenomeni, che si erano rivelati irriducibili a spiegazioni di tipo meccanicista e che sembravano dimostrare l'esistenza di un'intelligenza ordinatrice, convinsero More della necessità di far ricorso allo spirito della Natura, un'entità incorporea, estesa e indivisibile, un agente causale attraverso cui si realizza il piano provvidenziale di Dio.
Nicolas Malebranche, sacerdote cattolico e teologo francese, risolse il problema del ruolo della provvidenza divina in un mondo meccanico, combinando la filosofia cartesiana con la teologia di Agostino di Ippona. Lo scopo primario di ogni aspetto della sua filosofia era quello di assicurare il ruolo attivo di Dio nel mondo. Egli accettava il dualismo cartesiano di materia e spirito, come anche una versione leggermente modificata del meccanicismo di Descartes. Spinto dalla paura dello scetticismo, nella Recherche de la vérité (1674-1675) Malebranche sviluppò un'epistemologia incentrata sul problema agostiniano di come l'uomo possa conoscere le verità eterne, piuttosto che sul problema cartesiano della percezione. Adottò la teoria agostiniana secondo cui le idee che operano nella percezione umana sono in realtà le idee di Dio.
Malebranche sviluppò una teoria metafisica, l'occasionalismo, che mostra come ogni singola cosa dipenda direttamente da Dio che ne mantiene l'essere istante dopo istante. Egli considera Dio come la causa diretta di tutti gli eventi naturali, facendo appello a diversi argomenti. La causalità, secondo Malebranche, dipende dall'esistenza di una connessione necessaria tra la causa e l'effetto. L'esistenza di simili connessioni tra Dio e le cose da Lui create, incluso il movimento dei corpi, non significa che esse possano sussistere anche tra due corpi. Nel mondo fisico, quindi, non si dà alcuna vera causalità. Inoltre, poiché nell'Universo cartesiano la materia è inerte, essa è passiva e, dunque, non può dare origine ad alcun movimento. L'anima, essendo completamente separata dal corpo, non è in grado di muoverlo direttamente. Per essere efficace poi, una causa deve sapere come produrre un effetto; Malebranche conclude quindi che solo Dio possiede una simile conoscenza ed è l'unica causa veramente efficace nel mondo.
Malebranche riteneva che l'occasionalismo offrisse una base metafisica alla fisica cartesiana; accettava il modello meccanicista di Descartes e tentò persino di correggere i difetti delle regole dell'urto. Le modifiche si basavano sull'idea che Dio dovesse applicare una forza per mantenere i corpi in movimento, ma non per mantenerli in stato di quiete. Partendo da questo presupposto fondamentale, Malebranche sentenziò che tre delle regole di Descartes erano errate. I suoi suggerimenti aprirono una lunga controversia sulle regole dell'urto con Gottfried Wilhelm Leibniz.
Nella filosofia di Leibniz, una fisica di tipo meccanicista conviveva con l'insistenza sulla centralità della provvidenza divina. Anche se adottava una versione della filosofia meccanicista per spiegare i fenomeni naturali, la sua filosofia era permeata da numerosi principî metafisici strettamente legati alla visione teologica. Nel Discours de métaphysique (1686) Leibniz sostiene che Dio ha creato il migliore dei mondi possibili perché, in quanto razionale, ha scelto sempre la cosa migliore per una buona ragione. Questo principio postula l'esistenza di un bene assoluto, che esiste indipendentemente dalla Creazione del mondo. L'Universo creato deve quindi essere retto da leggi generali, come il principio di ragione sufficiente, il principio della continuità della Natura, e una teoria della causalità secondo cui la causa considerata nella sua totalità deve contenere almeno un grado di potenza uguale all'effetto considerato nella sua totalità.
Questi principî erano alla base sia della filosofia naturale di Leibniz sia della sua concezione dei rapporti tra Dio e il mondo creato. Anche se accetta la distinzione tra qualità primarie e secondarie, un punto chiave della posizione meccanicista, Leibniz rifiuta l'identità cartesiana di materia ed estensione geometrica. Nella Monadologia spiega come gli enti fisici siano composti da monadi, l'unità costitutiva ultima del mondo. Create da Dio, le monadi non possono essere né create né distrutte senza il suo intervento diretto. Esse non hanno estensione e contengono in sé stesse i semi di tutte le loro proprietà. Ciascuna monade, in ogni istante, percepisce o riflette l'intero Universo. Gli aggregati di questi elementi semplici compongono tutti i corpi. La sua concezione della materia condusse Leibniz a criticare il principio della conservazione del moto (mv) di Descartes e a sostituirvi quello della conservazione di ciò che egli chiamava vis viva (mv2).
L'armonia tra le cose è possibile perché ogni individuo, in ogni momento, ha in sé l'immagine del mondo intero. Da questa armonia derivano almeno due importanti corollari. Il primo è la corrispondenza tra l'anima e il corpo; l'altro è che i miracoli possono essere considerati come il risultato di un piano armonico di Dio che il mondo porta in sé fin dalla sua Creazione. Entrambe queste possibilità ‒ un'armonia prestabilita fra anima e corpo e, su un altro piano, tra il mondo spirituale e quello fisico ‒ derivano dall'atto creativo originale di Dio. Non esiste dunque alcuna necessità che Dio intervenga direttamente nel corso degli eventi. Leibniz rifiuta in questo senso sia l'occasionalismo di Malebranche, sia il volontarismo di Newton. La provvidenza divina nasce dal fatto che un Dio perfettamente razionale ha creato il migliore dei mondi possibili seguendo principî assolutamente razionali, in primo luogo il principio di ragion sufficiente.
Anche Newton, come abbiamo visto, ritenne di dover modificare il meccanicismo in modo da assicurare un ruolo di primo piano alla provvidenza e all'attività divina nel mondo naturale, attribuendo direttamente a Dio quelle forze attive e passive con cui aveva arricchito la filosofia del meccanicismo. Nell'Universo di Newton Dio è letteralmente presente in ogni luogo e lo studio della filosofia naturale diventa un'argomentazione forte per la dimostrazione della sua esistenza, a partire dall'osservazione dell'ordine dell'Universo. La celebre controversia che si svolse tra il 1715 e il 1716 tra il portavoce di Newton, Samuel Clarke, e il suo antagonista Leibniz si imperniò sul dibattito relativo alle interpretazioni volontariste e razionaliste della provvidenza. Leibniz, che era un razionalista, sosteneva che l'insistenza di Newton sull'attività divina lasciava intendere che l'opera di Dio fosse così imperfetta da richiedere il suo costante intervento riparatore nella Natura. Un artefice tanto abile avrebbe invece dovuto creare un mondo in grado di funzionare armoniosamente per l'eternità senza il suo intervento. Clarke, che difendeva l'interpretazione volontarista della provvidenza, sostenne invece che la visione di Leibniz implicava un'inaccettabile limitazione della libertà e del potere di Dio, dal momento che comportava l'idea che Dio fosse soggetto a principî indipendenti da Lui.
Questo dibattito tra due figure centrali della filosofia naturale della fine del XVII sec. può essere considerato il momento culminante del confronto tra teologia e scienza nella prima Età moderna. La filosofia naturale era ancora indissolubilmente legata alla teologia; in alcuni casi il suo dominio di indagine includeva problemi che gli scienziati attuali lascerebbero allo studio dei teologi, e gli esiti teologici di alcune filosofie della Natura furono decisivi per determinare la loro accettabilità.
Ariew 1999: Ariew, Roger, Descartes and the last Scholastics, Ithaca (N.Y.), Cornell University Press, 1999.
Armogathe 1977: Armogathe, Jean-Robert, Theologia cartesiana. L'explication physique de l'eucharistie chez Descartes et Dom Desgabets, Den Haag, Nijhoff, 1977.
Barker 2001: Barker, Peter - Goldstein, Bernard R., Theological foundations of Kepler's Astronomy, "Osiris", s. II, 16, 2001, pp. 88-113.
Biagioli 1993: Biagioli, Mario, Galileo courtier. The practice of science in the culture of absolutism, Chicago, University of Chicago Press, 1993.
Blackwell 1991: Blackwell, Richard J., Galileo, Bellarmine, and the Bible. Including a translation of Foscarini's letter on the motion of the earth, Notre Dame (Ind.), University of Notre Dame Press, 1991.
Boas 1952: Boas, Marie, The establishment of the mechanical philosophy, "Osiris", 10, 1952, pp. 412-541.
Brandt 1928: Brandt, Frithiof, Thomas Hobbes' mechanical conception of nature, transl. by Vaughan Maxwell and Annie I. Fausbøll, Copenaghen, Levin & Munksgaard, 1928.
Brooke 1991: Brooke, John H., Science and religion. Some historical perspectives, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1991.
Debus 1977: Debus, Allen G., The chemical philosophy. Paracelsian science and medicine in the sixteenth and seventeenth centuries, New York, Science History Publications, 1977, 2 v.
Des Chene 1996: Des Chene, Dennis, Physiologia. Natural philosophy in late Aristotelian and Cartesian thought, Ithaca (N.Y.), Cornell University Press, 1996.
Dick 1982: Dick, Steven J., Plurality of worlds. The origins of the extraterrestrial life debate from Democritus to Kant, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1982.
Dijksterhuis 1961: Dijksterhuis, Eduard J., The mechanization of the world picture, transl. by C. Dikshoorn, Oxford, Clarendon, 1961 (ed. orig.: Mechanisering van het wereldbeeld, Amsterdam, Meulenhoff, 1950; trad. it.: Il meccanicismo e l'immagine del mondo dai presocratici a Newton, Milano, Feltrinelli, 1971).
Dobbs 1975: Dobbs, Betty J. Teeter, The foundations of Newton's alchemy or, 'The hunting of the greene lyon', Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1975.
‒ 1991: Dobbs, Betty J. Teeter, The Janus faces of genius. The role of alchemy in Newton's thought, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1991.
Duhem 1969: Duhem, Pierre, To save the phenomena. An essay on the idea of physical theory from Plato to Galileo, transl. by Edmund Doland and Chaninah Maschler, Chicago, Chicago University Press, 1969 (ed. orig.: Sózein ta phainomena. Essai sur la notion de théorie physique de Platon à Galilée, Paris, Hermann, 1908).
Fantoli 1993: Fantoli, Annibale, Galileo per il copernicanesimo e per la Chiesa, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1993 (trad. ingl.: Galileo. For Copernicanism and for the Church, Vatican City, Vatican Observatory Publications, 1994).
Field 1988: Field, Judith V., Kepler's geometrical cosmology, Chicago, University of Chicago Press, 1988.
Finocchiaro 1989: The Galileo affair: a documentary history, edited and transl. by Maurice A. Finocchiaro, Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press, 1989.
Force 1999: Newton and religion. Context, nature and influence, edited by James E. Force and Richard H. Popkin, Dordrecht-Boston, Kluwer, 1999.
French 1996: French, Roger - Cunningham, Andrew, Before science. The invention of the friars' natural philosophy, Aldershot-Brookfield, Scolar, 1996.
Funkenstein 1986: Funkenstein, Amos, Theology and the scientific imagination from the Middle Ages to the seventeenth century, Princeton (N.J.), Princeton University Press, 1986.
Gabbey 1990: Gabbey, Alan, Henry More and the limits of mechanism, in: Henry More (1614-1687). Tercentenary studies, edited by Sarah Hutton, Dordrecht-Boston, Kluwer, 1990, pp. 19-37.
Garber 1992: Garber, Daniel, Descartes' metaphysical physics, Chicago, University of Chicago Press, 1992.
‒ 1998a: Garber, Daniel, Leibniz, Gottfried Wilhelm (1646-1716), in: Routledge encyclopedia of philosophy, general editor Edward Craig, London-New York, Routledge, 1998, 10 v.; v. V, pp. 541-562.
‒ 1998b: The Cambridge history of seventeenth-century philosophy, edited by Daniel Garber, Michael Ayers, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1998, 2 v.
Gilson 1961: Gilson, Étienne, Autour de Pomponazzi. Problématique de l'immortalité de l'âme en Italie au début du XVIe siècle, "Archives d'histoire doctrinale et littéraire du Moyen-Âge", 28, 1961, pp. 163-279.
Grant 1996: Grant, Edward, The foundations of modern science in the Middle Ages. Their religious, institutional, and intellectual contexts, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1996.
Harrison 1998: Harrison, Peter, The Bible, protestantism, and the rise of natural science, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1998.
Hutchison 1983: Hutchison, Keith, Supernaturalism and the mechanical philosophy, "History of science", 21, 1983, pp. 297-333.
Hutton 1990: Henry More (1614-1687). Tercentenary studies, edited by Sarah Hutton, Dordrecht-Boston, Kluwer, 1990.
Jedin 1951-57: Jedin, Hubert, Geschichte des Konzils von Trient, Freiburg, Herder, 1951-1957, 2 v.
Kargon 1966: Kargon, Robert H., Atomism in England from Hariot to Newton, Oxford, Clarendon, 1966.
Kessler 1988: Kessler, Eckhard, The intellective soul, in: The Cambridge history of Renaissance philosophy, general editor Charles B. Schmitt, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1988, pp. 485-534.
Lampe 1969: The Cambridge history of the Bible, edited by Geoffrey W.H. Lampe, Cambridge, Cambridge University Press, 1963-1970, 3 v.; v. II: The West from the Fathers to the Reformation, 1969.
Lennon 1998: Lennon, Thomas M., The Cartesian dialectic of creation, in: The Cambridge history of seventeenth-century philosophy, edited by Daniel Garber, Michael Ayers, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1998, 2 v.; v. I, pp. 331-362.
Lohr 1988: Lohr, Charles H., Metaphysics, in: The Cambridge history of Renaissance philosophy, general editor Charles B. Schmitt, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1988, pp. 537-638.
MacIntosh 1991: MacIntosh, John J., Robert Boyle on Epicurean atheism and atomism, in: Atoms, pneuma, and tranquillity. Epicurean and Stoic themes in European thought, edited by Margaret J. Osler, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1991.
Mamiani 1994: Mamiani, Maurizio, La scienza esatta delle profezie, in: Isaac Newton, Trattato sull'Apocalisse, a cura di Maurizio Mamiani, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, pp. VII-XLI.
‒ 1999: Mamiani, Maurizio, Introduzione a Newton, Roma-Bari, Laterza, 1999.
McGuire 1972: McGuire, James E., Boyle's conception of nature, "Journal of the history of ideas", 33, 1972, pp. 523-543.
Michael 1989: Michael, Emily - Michael, Fred S., Two early modern concepts of mind: reflecting substance vs thinking substance, "Journal of the history of philosophy", 27, 1989, pp. 29-48.
Mintz 1962: Mintz, Samuel I., The hunting of Leviathan. Seventeenth-century reactions to the materialism and moral philosophy of Thomas Hobbes, Cambridge, Cambridge University Press, 1962.
Nadler 1988: Nadler, Steven M., Arnauld, Descartes, and transubstantiation. Reconciling Cartesian metaphysics and real presence, "Journal of the history of ideas", 49, 1988, pp. 229-246.
‒ 1993: Causation in early modern philosophy. Cartesianism, occasionalism, and preestablished harmony, edited by Steven M. Nadler, University Park (Pa.), Pennsylvania State University Press, 1993.
‒ 1998: Nadler, Steven M., Malebranche, Nicolas (1638-1715), in: Routledge encyclopedia of philosophy, general editor Edward Craig, London-New York, Routledge, 1998, 10 v.; v. VI, pp. 56-66.
Oakley 1984: Oakley, Francis, Omnipotence, covenant, and order. An excursion in the history of ideas from Abelard to Leibniz, Ithaca (N.Y.), Cornell University Press, 1984.
Osler 1992: Osler, Margaret J., The intellectual sources of Robert Boyle's philosophy of nature. Gassendi's voluntarism and Boyle's physico-theological project, in: Philosophy, science, and religion, 1640-1700, edited by Richard Ashcraft, Richard Kroll, Perez Zagorin, Cambridge, Cambridge University Press, 1992, pp. 178-198.
‒ 1994: Osler, Margaret J., Divine will and the mechanical philosophy. Gassendi and Descartes on contingency and necessity in the created world, Cambridge, Cambridge University Press, 1994.
‒ 2001: Osler, Margaret J., Robert Boyle on the knowledge of nature in the afterlife, in: The millenarian turn. Millenarian contexts of science, politics and everyday Anglo-American life in the seventeenth and eighteenth centuries, edited by James E. Force and Richard H. Popkin, Dordrecht, Kluwer, 2001, pp. 43-54.
Ozment 1980: Ozment, Steven, The age of reform, 1250-1550. An intellectual and religious history of late Medieval and Reformation Europe, New Haven (Conn.), Yale University Press, 1980.
Redondi 1987: Redondi, Pietro, Galileo heretic, transl. by Raymond Rosenthal, Princeton (N.J.), Princeton University Press, 1987 (ed. orig.: Galileo eretico, Torino, Einaudi, 1983).
Sarasohn 1988: Sarasohn, Lisa T., French reaction to the condemnation of Galileo, "The catholic historical review", 74, 1988, pp. 34-54.
Schaffer 1987: Schaffer, Simon, Godly men and mechanical philosophers. Souls and spirits in Restoration natural philosophy, "Science in context", 1, 1987, pp. 55-86.
Shanahan 1988: Shanahan, Timothy, God and nature in the thought of Robert Boyle, "Journal of the history of philosophy", 26, 1988, pp. 547-569.
Wallace 1988: Wallace, William A., Traditional natural philosophy, in: The Cambridge history of Renaissance philosophy, general editor Charles B. Schmitt, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1988, pp. 201-235.
Westfall 1958: Westfall, Richard S., Science and religion in seventeenth-century England, New Haven (Conn.), Yale University Press, 1958.
‒ 1971: Westfall, Richard S., Force in Newton's physics. The science of dynamics in the seventeenth century, London, MacDonald; New York, Elsevier, 1971.
‒ 1989: Westfall, Richard S., Essays on the trial of Galileo, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1989.
Wojcik 1997: Wojcik, Jan W., Robert Boyle and the limits of reason, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1997.