La rivoluzione siriana scuote il Medio Oriente
Soprattutto dopo l’invasione dell’Iraq di Saddam Hussein, la Siria ha accentuato il suo ruolo di paese perno del Levante: il più forte degli Stati confinanti con Israele, regista occulto degli ultimi 35 anni di storia libanese, interlocutore dell’Arabia Saudita, alleato della Repubblica islamica dell’Iran. Tra tutti i paesi coinvolti nella ‘Grande rivolta araba del 2011’, la Siria esercita un’influenza regionale seconda solo a quella dell’Egitto.
Le conseguenze di un possibile rovesciamento del regime di Bashar al Assad (n. Damasco, 1965) sul precario equilibrio del Medio Oriente potrebbero perciò essere difficilmente arginabili, e lo stesso perdurare dell’instabilità interna alla Siria eleva drammaticamente i rischi del riaccendersi del conflitto arabo-israeliano e dell’avvio di un’ennesima guerra civile in Libano. La Siria non è nuova a clamorosi tentativi di scuotersi di dosso il giogo baathista e della famiglia Assad, che detiene il potere saldamente dal 1971.
Nel 1982, in occasione di una gigantesca rivolta patrocinata dalla Fratellanza Musulmana nella città di Hama, proprio Hafiz al Assad, padre dell’attuale presidente (1930-2000), fece bombardare la città provocando circa 20.000 morti. Da allora, il potere degli Assad e del clan alawita di cui sono espressione (una piccola setta vicina allo sciismo, considerata eretica dai sunniti più rigorosi) è stato assicurato da una capacità repressiva capillare, in grado di prevenire o stroncare sul nascere qualunque forma di dissenso. Non a caso anche nell’edizione 2010 del suo rapporto, Freedom House collocava la Siria tra i paesi in cui la libertà e la dignità umana erano più diffusamente e violentemente calpestate. Nonostante questo gigantesco apparato repressivo e la capacità degli Assad di giocare con abilità la carta della «resistenza contro l’entità sionista», il 15 marzo del 2011 la rivolta contro il regime ha preso avvio nella città meridionale di Deraa, dilagando poi in tutto il paese, con un nuovo epicentro simbolico a nord, nella ‘città martire’ di Jisr ash Shugur (nei pressi del confine turco). Da quel 15 marzo, ogni venerdì, dopo la preghiera, centinaia di migliaia di siriani hanno sfidato la violenza più efferata delle forze di sicurezza fin nella stessa Damasco, innescando una escalation di proteste-opposizione (oltre 1300 morti accertati nei primi tre mesi) che ricorda quella della rivoluzione iraniana del 1978-79, sia pure in assenza di un leader carismatico come Khomeini. Sono diverse le componenti dello sfaccettato movimento che anima la rivoluzione siriana. La prima, di matrice sunnita, è riconducibile ai Fratelli Musulmani: chiede la cessazione del potere alawita e la fine del monopolio politico del partito Baath. La seconda è composta dagli stessi alawiti che contestano il potere degli Assad e chiedono una riforma all’interno della Repubblica laica. La terza, di ispirazione laica, facendo propri gli slogan di tutta la ‘primavera araba’, rivendica «libertà, dignità e giustizia». Per quanto il regime siriano abbia peculiarità sue proprie, ciò che lo accomuna alla pressoché totalità degli altri regimi della regione è il suo carattere di neopatrimonialismo, in forza del quale «chi governa il paese, possiede il paese».
Detto altrimenti, l’accesso a condizioni non svantaggiate al circuito economico dipende dall’accesso privilegiato al circuito politico: una sovrapposizione che rende impossibile scindere i temi economici da quelli della riforma politica, alimentando un gioco a somma zero, in cui a fronte dell’immobilismo è possibile solo la rivoluzione. Le difficoltà di autoriforma da parte del regime, anche dovute a resistenze esercitate dai numerosi titolari di rendite politiche, che in una simile ipotesi vedrebbero sacrificate le proprie posizioni, hanno rapidamente messo fuori gioco quella parte del movimento (concentrata soprattutto nella capitale) che, per prudenza, opportunismo o in funzione meramente tattica, sembrava inizialmente orientata a mantenere il sostegno al presidente a condizione che questi avesse offerto garanzie per un’evoluzione legalitaria liberalizzante del regime.
La tragedia di Hama
Nel 2011 Hama è stata teatro di manifestazioni di protesta contro il regime di Bashar al Assad; tuttavia, essa viene ricordata soprattutto per il tragico assedio del 1982, narrato in maniera magistrale dal grande inviato di guerra britannico Robert Fisk in alcune delle pagine più terribili del suo Pity the nation: Lebanon at war (1990; Il martirio di una nazione. Il Libano in guerra, 2010). Diretto ad Aleppo, il giornalista si trovò infatti a passare per la storica città che sorge sull’Oronte e vi raccolse le testimonianze dirette di soldati e civili, che descrivevano vividamente la durezza degli scontri e delle distruzioni: «Si era trattato solo di una visita assolutamente rapida e superficiale, ma era sufficiente a provare che i combattimenti continuavano, che erano di proporzioni grandissime…».
Rischio Iraq?
Guidata, come lo era l’Iraq di Saddam Hussein (1937-2006), dal partito Baath – una variante socialista del nazionalismo arabo – la Siria è oggi sotto il controllo di una élite reclutata quasi interamente fra la ridotta minoranza alawita (una confessione eterodossa dell’islam sciita). Quest’ultima costituisce il 7% della popolazione, ma fornisce al regime il 70% degli ufficiali dell’esercito e delle forze di sicurezza. La maggioranza della popolazione siriana è invece sunnita, e tutte le minoranze presenti nel paese – non solo gli alawiti ma anche i drusi, i cristiani, i curdi e gli sciiti ortodossi – hanno ragione di temere per le loro sorti nel caso di un rovesciamento del regime. A rinfocolare questi timori ha certamente contribuito l’esposizione pressoché diretta – anche attraverso l’afflusso di un gran numero di rifugiati – alla tragedia che ha investito l’Iraq dopo il 2003, quando il paese è stato teatro di scontri settari tra la maggioranza sciita e la minoranza sunnita, un tempo dominante. Non è quindi improbabile che molti siriani, soprattutto fra gli appartenenti alle minoranze, che totalizzano un quarto della popolazione del paese, temano il replicarsi di uno scenario iracheno in caso di caduta del regime, e lo scoppio di una nuova e più violenta guerra civile. L’intera storia della Siria è stata del resto caratterizzata da contrasti tra la maggioranza sunnita da un lato e le minoranze dall’altro, sin dall’epoca in cui il paese era sotto controllo francese.
Alawiti: discendenti di Ali
Il termine è stato coniato dall’amministrazione francese per indicare la setta musulmana sciita dei Nusairi che abitava in Siria la regione fra Tripoli e Laodicea. Staccata dal Libano nel 1920, nel 1922 la regione entrò a far parte della Federazione siriana, dalla quale uscì nel 1924 ricostituendosi come Territorio autonomo degli alawiti, poi divenuto (1930) Governatorato autonomo di Laodicea. Prefettura della Repubblica siriana dal 1935, di nuovo territorio autonomo nel 1939, con la cessazione del mandato francese (1945) è stata reincorporata nella Siria.