di Aldo Ferrari
Rispetto agli scenari di crisi e destrutturazione dell’odierno sistema internazionale la Russia e lo spazio eurasiatico sembrano essere almeno potenzialmente in controtendenza. La ricomposizione dello spazio post-sovietico in una forma più concreta di quella rappresentata dalla Cis è evidentemente un obbiettivo primario dell’agenda politica di Vladimir Putin. Negli anni in cui Putin è stato presidente o primo ministro sono stati compiuti diversi passi in questa direzione, dalla creazione nel 2002 della Csto (Collective Security Treaty Organization) alla nascita nel luglio 2011 dell’Unione doganale di Russia, Bielorussa e Kazakistan.
Tuttavia, dietro l’Unione doganale si intravede anche un progetto politico più ambizioso, quello di una Unione eurasiatica mirante non soltanto a rafforzare i legami economici tra i membri, ma anche a promuoverne una futura integrazione politica. Comunque lo si voglia valutare, questo progetto di ricomposizione economica e politica dello spazio eurasiatico costituisce effettivamente un elemento di notevole significato nella scena politica internazionale.
Il progetto di una nuova Unione eurasiatica (Evrazijskij Sojuz) venne annunciato da Putin nell’ottobre 2011, ancor prima di essere rieletto presidente per la terza volta. Il progetto è stato accolto con ostilità da alcuni, che lo hanno interpretato come un tentativo di ristabilire un controllo ‘neo-imperiale’ sugli stati postsovietici; e con scetticismo da altri, persuasi che Mosca non sia comunque in grado di perseguire un obbiettivo così ambizioso. Si tratta di reazioni legittime, ma che non devono impedire di prendere seriamente in considerazione l’importanza di questo progetto, al quale la dirigenza russa attribuisce una rilevanza fondamentale.
Occorre in primo luogo tener presente che l’espressione usata da Putin è tutt’altro che neutra nella tradizione storico-culturale e politica russa, in quanto evoca un movimento intellettuale – l’eurasismo (evrazijstvo) – che costituisce l’espressione più radicale della tradizionale aspirazione della Russia a individuare una via di sviluppo differente da quella europea e occidentale. Il movimento eurasista è nato nell’emigrazione russa degli anni Venti e Trenta del Novecento; gli esponenti più noti furono Nikolaj Trubeckoj, Roman Jakobson, Georgij Florovskij, Dmitrij Svjatopolsk-Mirskij, Georgij Vernadskij e Pëtr Savickij. Il presupposto è che la Russia non faccia parte né dell’Europa né dell’Asia, ma costituisca una specifica area geografica e storica. Ostracizzato per decenni in Urss, l’eurasismo è rinato nell’ultimo periodo sovietico attraverso la mediazione dello storico Lev Gumilëv, che in realtà si riallacciava solo in parte al movimento degli anni Venti e Trenta.
Il neo-eurasismo è oggetto di una serrata polemica in Russia e non gode di buona fama in Occidente. Oltre a essere entrato con forza nella piattaforma ideologica del Partito comunista di Gennadij Zjuganov, questo orientamento viene solitamente associato a politici dalle posizioni fortemente antioccidentali quali l’esoterista-geopolitico Aleksandr Dugin. La prospettiva eurasista è stata ripresa negli ultimi anni anche da numerosi studiosi – economisti, diplomatici, geopolitici, militari – che affrontano la questione della nuova collocazione della Russia nello scenario post-sovietico e postbipolare anche nell’ambito del cosiddetto ̒approccio di civilità’ (civilizacionnyj podchod), che rifiuta l’idea del valore assoluto della civiltà occidentale e propone una visione pluralistica della storia umana nonché una visione multipolare delle relazioni internazionali.
Il discorso neo-eurasista ha conosciuto una forte diffusione nel mondo post-sovietico, rappresentando l’espressione culturalmente più radicale, assai più del nazionalismo di tipo etnico, dell’orientamento antioccidentale della Russia. Inoltre, l’obbiettivo di riunire i territori che facevano parte dell’Impero russo e dell’Unione Sovietica è alla base di ogni progetto neo-eurasista, considerato da alcuni null’altro che una variante del tradizionale espansionismo imperiale russo.
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In questa ottica non può sorprendere che l’ascesa di un leader come Putin venisse sin dall’inizio collegata alla prospettiva eurasista. In alcuni casi il timore che il nuovo uomo forte di Mosca potesse realmente far sua la concezione culturale e geopolitica dell’eurasismo ha assunto talvolta toni isterici. Particolare inquietudine ha suscitato un discorso pronunciato da Putin già il 10 novembre del 2000 e che cominciava con le parole: «La Russia si è sempre sentita un paese eurasiatico» (Rossija vsegda oščušala sebja evraziatskoj stranoj). Si trattava in realtà di un testo lucido e pragmatico, pronunciato alla vigilia di un vertice dell’Asian-Pacific Economic Cooperation (Apec), in cui Putin constatava il collocamento prevalentemente asiatico della Russia e indicava una serie di potenzialità economiche da sfruttare: dai vantaggi offerti dalle rotte aeree russe per i collegamenti tra Asia, Europa e Nordamerica alla costruzione di ‘ponti energetici’ tra la Russia, il Giappone e la Cina, sino alle diverse opportunità di cooperazione tecnologica con i paesi asiatici. Il senso dell’intero discorso era costituito dalla prospettiva di una Russia che riuscisse infine a sfruttare la sua collocazione geografica per divenire un centro di interazione economica e stabilità politica tra Asia, Europa e America. Benché questi argomenti riprendessero alcune indicazioni avanzate già da uno dei fondatori dell’eurasismo, il padre della geopolitica russa Pëtr Savickij, il discorso di Putin sembrava basarsi più sul dato – difficilmente contestabile – del collocamento eurasiatico della Russia che su un suo orientamento ideologico specificamente eurasista. Ciò non ha peraltro impedito a Dugin di ‘arruolare’ il presidente tra i sostenitori della concezione eurasista già all’indomani di questo discorso e di offrirgli il suo appoggio al momento della fondazione – nella primavera del 2001 – del suo Movimento Eurasia.
Tuttavia, l’inserimento di Putin all’interno della prospettiva politica e ideologica eurasista, da parte di Dugin come dei sempre numerosi russofobi occidentali, sembra poco adeguato a descriverne la figura e il reale progetto politico. Anche se si è continuato a scrivere molto per capire se soprattutto la sua politica estera potesse essere considerata eurasista, Putin ha in effetti voluto perseguire sin dall’inizio una linea politica sostanzialmente de-ideologizzata, inclusiva, mirante essenzialmente al rafforzamento statale della Russia e al recupero dello status perduto sul piano internazionale. Putin ha in realtà incarnato pienamente per diversi anni il «modello geopolitico del consenso, … [che] può essere definito come moderatamente patriottico, in quanto il suo scopo è quello di rafforzare la statualità russa e di rafforzare la posizione del paese nell’arena mondiale … [e] si propone tuttavia di evitare gli estremismi del nazionalismo russo, della scuola neo-eurasiatica e dell’occidentalismo in quanto concezioni geopolitiche inadeguate alla situazione reale e persino rischiose» (Kolosov, 2001).
Peraltro, non si può certo sottovalutare la portata della ben nota affermazione di Putin del 25 aprile 2005, quando dichiarò di considerare la dissoluzione dell’Urss «la più grande catastrofe geopolitica del 20° secolo». La ricomposizione dello spazio post-sovietico in una forma più concreta di quella rappresentata dalla Cis è evidentemente un obbiettivo fondamentale della sua agenda politica, che da questo punto di vista può essere accostata alla visione neo-eurasista, senza però necessariamente coincidere con essa.
In ogni caso, negli anni in cui Putin è stato presidente o primo ministro sono stati compiuti diversi passi in questa direzione, dalla creazione nel 2002 della CSTO (Collective Security Treaty Organization, comprendente Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Russia) alla nascita nel luglio 2011 dell’Unione doganale di Russia, Bielorussa e Kazakistan, divenuta Spazio economico comune il 1° gennaio 2012, che copre tre quarti dello spazio post-sovietico e riunisce 165 milioni di persone.
Quest’ultima iniziativa costituisce il principale punto di partenza per un’ulteriore integrazione politica. In effetti il legame tra economia e politica è fortissimo nei progetti di ricomposizione eurasiatica e Mosca sta esercitando forti pressioni su diversi paesi per indurli a partecipare. Il primo successo l’ha ottenuto con l’Armenia, che per la sua delicata posizione geopolitica ed economica dipende completamente da Mosca e ha pertanto accettato nel settembre 2013 di entrare a far parte dell’Unione doganale eurasiatica. Ad analoghe pressioni sono sottoposti anche il Tagikistan ed il Kirghizistan, che per la loro debolezza politica ed economica hanno tuttavia un’importanza relativa. La partita decisiva per il successo del progetto eurasiatico si gioca invece in Ucraina. E anche in questo ambito Mosca sembra aver segnato un importante punto a suo favore, inducendo il presidente ucraino Janukovyč a non firmare il trattato di associazione con l’Unione Europea nel summit di Vilnius del 28-29 novembre 2013. La questione è peraltro tutt’altro che chiusa e l’Ucraina rimane ancora in bilico tra l’opzione europea e quella russo-eurasiatica.
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Alla luce di quanto si è detto, il progetto di Unione eurasiatica presentato da Putin due anni fa non dovrebbe apparire sorprendente né ricevere un’interpretazione troppo ideologica. Come ha osservato l’analista russo Fëdor Luk’janov, «… gli entusiasti dell’ideologia eurasista – secondo la quale la Russia costituisce una civiltà a se stante, contrapposta all’Europa e con la missione di unire gli immensi spazi dell’Eurasia – sono stati galvanizzati dall’idea di Putin, ma né nel suo articolo né nelle successive spiegazioni, peraltro limitate e poco concrete, vi è nulla della metafisica eurasista nello spirito di Trubeckoj, Gumilëv o Dugin… L’Unione eurasiatica proposta non è ciò che vi vedono dall’esterno. Non è un’incarnazione della grande steppa né una rinascita dell’Urss e solo in minima parte un’alternativa all’Unione Europea. Se il progetto continuerà, e la volontà in questo senso è molto forte, il suo involucro dovrà riempirsi di un contenuto molto concreto e i vantaggi che possono trarne i partecipanti li spingeranno a cercare un’intelaiatura ideologica. Al momento l’Unione eurasiatica non è che l’ennesima chiara illustrazione della situazione di transizione della coscienza ideologica russa, che inizia a distaccarsi chiaramente dalla precedente matrice imperiale, ma ancora non può e non vuole ammetterlo» (Luk’janov 2012).
Ma qual è questo contenuto concreto di cui dovrebbe riempirsi l’Unione eurasiatica? Sempre secondo Luk’janov l’obbiettivo principale del progetto sarebbe in realtà il recupero dell’Ucraina, assai più importante per la realizzazione di questo nuovo processo di integrazione di quanto lo siano i paesi dell’Asia centrale, in particolare quelli economicamente deboli come Tagikistan e Kirghizistan, mentre soltanto il Kazakistan ha un ruolo di rilievo nel progetto alla luce delle sue grandi risorse energetiche.
Senza dubbio la mancata partecipazione dell’Ucraina pregiudicherebbe notevolmente i progetti di reintegrazione economica e politica di Mosca. Al tempo stesso, però, non si dovrebbe sottovalutare la rilevanza della ‘dimensione orientale’ dell’Unione eurasiatica. L’enorme crescita del peso economico della Cina e dell’Estremo Oriente in generale è effettivamente per Mosca un’opportunità decisiva e sinora non sfruttata. Inoltre, la prospettiva di fare della Russia un ponte eurasiatico tra l’Europa e l’Estremo Oriente è da tempo ampiamente presente nel dibattito politico, economico e culturale russo e, come si è visto, lo stesso Putin ne aveva parlato all’inizio del suo primo mandato.
In questi anni, però, assai poco è stato fatto in tale direzione, in primo luogo a causa dell’insufficienza delle infrastrutture nelle regioni asiatiche del paese, ma anche per il persistente eurocentrismo culturale, politico ed economico dell’élite russa. La Russia non è stata sinora capace di partecipare attivamente alla trasformazione epocale determinata dallo spostamento verso il Pacifico dell’asse politico-economico globale. Le immense e ancora insufficientemente valorizzate regioni asiatiche della Russia potrebbero divenire invece il principale volano dello sviluppo del paese. Negli ultimi tempi le dichiarazioni in tal senso di Medvedev e Putin si sono intensificate e nel mese di maggio del 2012 è stato istituito un ministero per lo sviluppo dell’Estremo Oriente russo. Una ricerca realizzata da alcuni importanti studiosi russi come Oleg Barabanov e Timofei Bordachev (2012) riassume così il nuovo orientamento: «La Russia dovrebbe risolutamente riorientare i propri sforzi verso i nuovi mercati asiatici. Tale transizione sarebbe dovuta avvenire da tempo. Innazitutto, il paese deve ripensare la sua tradizionale mentalità eurocentrica per cogliere le opportunità e le sfide che vengono dai mercati orientali e prendere consapevolezza dello spostamento del centro economico e politico globale verso la regione del Pacifico. Tuttavia, le relazioni della Russia con l’Europa dovrebbero rimanere il principale riferimento della sua dimensione culturale e ideologica. Anche i suoi forti legami economici con l’Europa andrebbero preservati. Allo stesso tempo, la creazione di un proprio nucleo di integrazione basato sull’Unione euroasiatica dovrebbe divenire una componente della nuova politica estera della Russia. Chiamiamo questo parziale riorientamento la nuova globalizzazione della Russia».
Senza dunque prevedere la riduzione dei rapporti politici e culturali con l’Europa, l’eventuale creazione dell’Unione eurasiatica appare piuttosto in stretto collegamento con una nuova strategia per lo sviluppo della Siberia e dell’Estremo Oriente russo in un’ottica diversa da quella imperiale e sovietica, mirante invece a fare della Russia una potenza globale moderna, capace di trarre vantaggio dalla sua favorevole posizione bicontinentale. Il carattere innovativo di questo progetto sta anche nella sua apertura all’esterno, in particolare riguardo alla volontà di rifiutare ogni suggestione autarchica, puntando invece esplicitamente sulla possibilità di attrarre investimenti stranieri (Eu, Usa, Cina, Giappone, Corea del Sud) per lo sviluppo economico dei territori asiatici, senza però perderne il controllo politico. Secondo questi studiosi, affinché tale riorientamento abbia un impatto realmente decisivo sarebbe addirittura opportuno un trasferimento della capitale russa sulle coste dell’Oceano Pacifico, con una scelta analoga – anche se geograficamente opposta – a quella compiuta tre secoli fa da Pietro il Grande con la fondazione di San Pietroburgo.
Da questo punto di vista lo svolgimento in una Vladivostok radicalmente ristrutturata del vertice Apec ai primi del settembre 2012 – durante il quale Putin ha ribadito il suo progetto eurasiatico – sembra assumere un forte valore simbolico all’interno di un progetto che intende valorizzare appieno il ruolo della Russia come ‘ponte’ tra Europa e Asia. Un ruolo che, per quanto dettato dalla stessa geografia, è stato sinora insufficientemente sfruttato e che appare in effetti particolarmente significativo nell’odierna congiuntura politica ed economica. In questa prospettiva, l’effettiva valorizzazione delle regioni siberiane ed estremo-orientali del paese nell’ambito dell’impetuosa crescita politica ed economica dell’Asia potrebbe realmente contribuire in maniera decisiva al processo di modernizzazione e crescita della Russia, determinando la specificità dell’intero progetto eurasiatico.
Non a caso questo tema è stato ripreso nell’ultimo discorso di Putin all’assemblea federale , il 12 dicembre 2013: «Guardiamo a obiettivi come lo sviluppo della Siberia e dell’Estremo Oriente. Queste sono le nostre priorità nazionali per il 21° secolo».
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Tanto la già costituita Unione doganale quanto il progetto di una Unione eurasiatica possono dunque costituire un’ambiziosa risposta strategica alla sfida posta da una situazione internazionale in cui il rischio di una progressiva marginalizzazione della Russia è molto alto, nonostante le sue ricchezze energetiche, soprattutto alla luce del gap tecnologico di cui questo paese continua a soffrire rispetto a numerosi altri attori della scena internazionale. Pur senza poter escluderne completamente la tendenza neo-imperiale, la ricomposizione politica ed economica dello spazio post-sovietico appare sotto molti aspetti auspicabile in un contesto globale che impone dinamiche di sempre maggiore integrazione. Se la fine del sistema ideologico sovietico non può che essere valutata positivamente, la dissoluzione dell’ecumene politica, economica e culturale formatasi per secoli intorno alla Russia ha avuto esiti ampiamente negativi per quasi tutti i paesi coinvolti e il tentativo di ricomporla non può essere aprioristicamente rifiutato. Occorre invece domandarsi se e in quale maniera tale percorso sia effettivamente praticabile. Non si tratta soltanto delle resistenze che potrebbero venire dall’esterno: in particolare dagli Stati Uniti, sempre ostili a ogni forma di ricomposizione dello spazio post-sovietico. Ma anche dalla Cina, il cui peso sta rapidamente crescendo in Asia centrale e i cui rapporti con la Russia sono estremamente complessi. Altrettanto problematica appare l’effettiva possibilità di coinvolgere in questo progetto le altre repubbliche post-sovietiche. A parte Bielorussia e Kazakistan – peraltro desiderosi di un’effettiva parità all’interno di tali progetti, che non si sa quanto Mosca sia disposta a riconoscere – gli altri stati non sembrano particolarmente entusiasti di una prospettiva che implica la rinuncia a una quota importante di sovranità. Salvo l’Armenia, paesi come l’Azerbaigian, il Kirghizistan e il Tagikistan appaiono più o meno scettici, mentre Georgia, Moldavia, Turkmenistan e Uzbekistan sono sostanzialmente contrari.
La perplessità maggiore riguarda pertanto proprio la capacità di Mosca di realizzare questo progetto di nuova integrazione, che richiede un’attitudine ‘creativa’ – sia verso l’interno, in particolare verso i territori asiatici della Federazione Russa, sia verso i paesi post-sovietici – di cui la dirigenza russa non ha sinora dato prova. Senza una svolta di questo genere i progetti di integrazione eurasiatica resteranno poco attraenti per diverse repubbliche post-sovietiche e difficilmente potranno assumere un contenuto adeguato alle ambizioni di chi li ha proposti.
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Nei primi anni della sua azione politica Putin aveva voluto collocarsi al centro dello schieramento politico russo, al di fuori di ogni etichetta ideologica, mantenendo sia da presidente che da primo ministro una linea il più possibile inclusiva, mirante in primo luogo al rafforzamento statale della Russia. Nel corso del suo terzo mandato presidenziale, invece, Putin ha iniziato a promuovere con crescente intensità una campagna ideologica in senso conservatore e antioccidentale, quasi una ‘guerra culturale’. Nel discorso pronunciato il 19 settembre 2013 al forum del Valdai Club, Putin ha significativamente affermato: «Vediamo che molti paesi euro-atlantici stanno attualmente rifiutando le loro radici, inclusi i valori cristiani che sono alla base della civiltà occidentale. Stanno negando i principi morali e tutte le identità tradizionali: nazionali, culturali, religiose e persino sessuali. Stanno portando avanti politiche che pongono sullo stesso piano le famiglie e le unioni omosessuali, la fede in Dio e quella in Satana». Anche nel discorso alla nazione del 12 dicembre Putin ha ribadito un approccio esplicitamente conservatore, ponendo la Russia come baluardo dei valori tradizionali. Questa svolta conservatrice sembra destinata non solo ad aumentare la distanza tra la Russia e i paesi occidentali, ma anche a porre il Cremlino in contrasto con una parte consistente della società russa, in particolare con quella più istruita e dinamica delle grandi città. Anche se l’opposizione politica sembra ancora divisa e incapace di contrastare efficacemente la posizione di Putin, in questi ultimi anni si è manifestata in Russia una vera e propria ‘cultura della protesta’ che appare destinata a rafforzarsi. Da questo punto di vista non sbaglia chi pensa che proprio la cultura possa costituire uno dei principali problemi che Putin dovrà affrontare nel suo terzo mandato. Il rischio, ben presente a chi conosce le dinamiche storiche del paese, è che il paese si stia preparando a un duello tra cultura e potere simile a quello che caratterizzò gli ultimi decenni della Russia zarista, dal quale tutti uscirono sconfitti.
L’Organizzazione dell’accordo sulla sicurezza collettiva (OASC, più nota con l’acronimo inglese CSTO, in russo ODKB) è un’alleanza politico-militare siglata da alcuni paesi post-sovietici nel 2002, sulla base di un accordo sottoscritto già nel 1992. Fanno attualmente parte di questa organizzazione Russia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Armenia. La principale struttura operativa di questa organizzazione militare è costituita dalle forze operative di reazione collettiva, create nel 2009 per operazioni rivolte alla lotta contro il terrorismo, l’estremismo politico e religioso, il narcotraffico e così via. L’efficacia di questa organizzazione, al cui interno la prevalenza russa è schiacciante, appare dubbia. Per esempio non è riuscita a evitare la caduta del presidente kirghizo Bakiev nel 2010 in seguito a una rivolta interna nella quale la CSTO non è affatto intervenuta. Proprio per questa ragione è stata criticata dal presidente bielorusso Lukašenko. Nel 2012 l’Uzbekistan, in una delle sue frequenti oscillazioni di politica estera, è uscita dalla CSTO. Inoltre, la mancata partecipazione dell’Ucraina limita fortemente il significato di questa organizzazione, il cui significato deve tuttavia essere valutato anche in una prospettiva più vasta, come elemento di rilievo dei progetti di ricomposizione dello spazio post-sovietico. Un banco di prova dell’efficacia della CSTO potrebbe essere costituito dalle potenziali minacce alla sicurezza dell’Asia centrale che potrebbero insorgere con il ritiro delle forze ISAF dall’Afghanistan nel 2014.
La decisione del presidente ucraino Janukovycˇ di non firmare, contrariamente a quanto annunciato in precedenza, l’accordo di associazione con l’Unione Europea nel corso del vertice di Vilnius del 28-29 novembre 2013 ha riportato il paese in una situazione di elevata conflittualità politica. Soprattutto la capitale Kiev è scossa da imponenti manifestazioni di protesta da parte delle opposizioni che richiamano molto da vicino la situazione che portò nel 2004 alla cosiddetta ‘rivoluzione arancione’. Indipendentemente dall’evoluzione di questo scontro politico, si tratta dell’ennesima dimostrazione di quanto il paese sia lacerato tra le posizioni filoeuropee, forti soprattutto nella capitale e nella parte occidentale del paese, e quelle filorusse, radicate soprattutto nelle regioni orientali. L’Ucraina indipendente è, sin dalla sua nascita nel 1991, divisa tra queste due anime, la cui esistenza deriva dalla stessa storia di questo paese. Se intorno a Kiev si è creata nel Medioevo la civiltà slavo-orientale e ‘russa’ in senso lato, nei secoli successivi le regioni occidentali dell’odierna Ucraina sono state inserite nello stato polacco e poi nell’Impero asburgico, mentre quelle orientali hanno fatto parte dello stato russo. La storia, l’economia e la geografia non consentono un’effettiva conciliazione delle due anime dell’Ucraina. Da parte europea si tende a solidarizzare con le ragioni delle opposizioni, che gridano nelle piazze il loro desiderio di avvicinarsi all’Unione Europea. Ma gran parte della popolazione dell’Ucraina condivide solo parzialmente questa aspirazione. In più, la complessa situazione economica in cui versa attualmente l’Unione Europea difficilmente può corrispondere alle necessità ucraine. Gravi potrebbero poi rivelarsi le ripercussioni nei rapporti con la Russia, che resta un indispensabile partner strategico.
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Approfondimento
«Il conservatorismo non impedisce il movimento in avanti e verso l’alto, ma blocca il movimento all’indietro e verso il basso, verso il buio caotico, il ritorno allo stadio primitivo». Prendendo in prestito le parole del filosofo Nikolaj Berdjaev, il presidente Vladimir Putin ha cominciato a disegnare l’ideologia sulla quale desidera fondare la Russia del futuro, la ‘sua’ Russia. Viene naturale chiedersi all’interno dello spazio post-sovietico che ruolo avranno i movimenti di protesta e di espressione, che hanno già trovato le loro icone nelle Pussy Riot e negli attivisti di Greenpeace.
Analizzando la realtà russa lasciando da parte le lenti occidentali, ci si rende conto che il timore di assistere alla nascita di una nuova dittatura fondata sullo strapotere del capo del Cremlino è infondato. Lo dimostra la storia. Il passato insegna che tutti i movimenti di opposizione e di protesta nel mondo si sono rafforzati e hanno fatto proselitismo proprio laddove capi di stato e di governo avevano scelto la strada della ‘conservazione’. È successo negli Stati Uniti di Ronald Reagan, che portò ai massimi livelli il tasso di conflitto con gli attivisti per i diritti umani e civili, e probabilmente accadrà anche nella Russia di Putin.
L’apparente paradosso si spiega con l’analisi del passaggio da una società chiusa a una società aperta. La caduta del Muro di Berlino nel 1989 ha spaesato gli oppositori dell’ex regime sovietico. Improvvisamente, il grande ‘mostro’ contro il quale avevano combattuto per una vita non c’era più. La società, economicamente fragile, doveva trovare una nuova unità e darsi nuovi obiettivi. Meglio: una pluralità di obiettivi che prima erano inimmaginabili.
Una democrazia appena nata cammina sulle gambe fragili di un bambino. Così, nel corso degli anni dominati prima da Boris El’cin e poi da Vladimir Putin, la società russa è cresciuta e, contemporaneamente, ha visto crescere l’orizzonte delle sue possibilità, di pari passo con quello delle sue necessità.
Non si può parlare di ‘libertà di espressione’ in Russia senza osservare qual è la forza che tiene insieme i diversi gruppi di protesta, quali sono le loro idee, qual è la loro visione del mondo, quali sono – in sostanza – i loro desiderata. Greenpeace, Pussy Riot, opposizioni politiche al Cremlino, omosessuali che combattono per i loro diritti: la Russia del dopo-Muro si trova a vivere un caleidoscopio di realtà diverse che, oltre a volersi affermare, chiedono di più. Più riconoscimento, più diritti, più libertà.
È un processo che hanno attraversato tutte le democrazie del mondo. Il braccio di ferro tra Vladimir Putin e i movimenti di protesta che sono esplosi in Russia alla fine del 2011 non si configura come un banale scontro tra un uomo di potere autoritario e una massa che chiede libertà. Ma costituisce invece un passaggio fondamentale e necessario per raggiungere la piena apertura di una società che solo fino a qualche anno fa era trincerata dietro una cortina di ferro, ed era oppressa al suo interno da quegli stessi meccanismi con i quali si difendeva dall’esterno.
Conservatorismo non significa dittatura e, come dice Berdjaev, non impedisce il movimento in avanti e verso l’alto. E questo non lo sa solo la politica, ma lo confermano anche i dati economici. La Russia ha già oltrepassato la linea rossa del reddito pro capite di 10.000 $, un limite superato il quale – come sanno bene i sociologi – la popolazione generalmente si aspetta una maggiore democratizzazione del sistema.
Da qui il fiorire di gruppi e movimenti di opposizione e l’esplosione di proteste di piazza. Ma parlare di una ‘Primavera russa’ sulla falsariga delle rivoluzioni del mondo arabo non è corretto e presta il fianco a previsioni da bancarella e a scenari da fantascienza.
Se andiamo a guardare la realtà, scopriamo che la popolarità di Vladimir Putin in Russia è molto alta, nonostante i brogli fisiologici di un sistema democratico ancora giovane. E, inoltre, Mosca non è certo Tunisi o Tripoli, dal momento che nella capitale della Federazione esiste un’incredibile abbondanza di opportunità economiche da cogliere. Da qui, l’impossibilità di una rivoluzione violenta contro lo stato autoritario e, allo stesso tempo, la necessità della nuova classe media russa di darsi una direzione e di riempirsi di contenuti e di valori, in un paese dove finalmente ognuno può scegliere in cosa credere o non credere, cosa seguire oppure no.
Certo, non possiamo chiudere gli occhi di fronte alla palese tendenza del capo del Cremlino ad accentrare nelle sue mani ogni ramificazione del potere, da quello legislativo a quello giudiziario e dell’informazione, ma allo stesso tempo proprio questa sua propensione nettamente ‘conservativa e conservatrice’ produce l’effetto di fortificare le opposizioni e gli stessi movimenti di protesta, che avranno la possibilità di strutturarsi meglio per combattere il potere centrale.
Sarà un processo lungo, ma non si tornerà al caos e alle antiche purghe staliniane, come molte Cassandre sostengono. Il passato sovietico è sepolto sotto il Muro e la vitalità dei movimenti di espressione e di protesta in Russia aumenterà con il passare del tempo e favorirà il consolidarsi del pluralismo e di una dialettica sociale indispensabile per la vita di una democrazia moderna. E questo lo sa bene anche Vladimir Putin.
di Evgeny Utkin
Approfondimento
La marginalizzazione internazionale patita dalla Federazione Russa nei primi anni della sua esistenza è stata associata a una drammatica perdita di status. È alla luce di questo declassamento da super-potenza durante la Guerra fredda ad attore periferico alla fine del bipolarismo che deve essere decifrata la proiezione esterna della Russia. Beneficiando di una consistente crescita economica fondata sui proventi delle esportazioni di petrolio e gas, il paese è riuscito ad affermarsi come una potenza del sistema internazionale, in grado di esercitare la propria influenza non soltanto in un’area tradizionalmente di sua pertinenza, come lo spazio post-sovietico, ma anche in altri scacchieri geopolitici. In Medio Oriente, il rafforzamento della posizione russa è stato speculare all’indebolimento degli Stati Uniti che, dopo gli attacchi terroristici del 2001, hanno reagito intervenendo in Afghanistan e in Iraq. Il loro attivismo nell’area, che ha richiesto anche il sostegno logistico di Mosca, non ha sinora condotto a una stabilizzazione dell’area.
Con l’apertura del fronte siriano, come effetto del contagio delle rivolte nei paesi del Nord Africa, le potenze occidentali hanno riconosciuto alla Russia un importante ruolo di mediatore nel persuadere Bashar al-Assad a porre fine alle violenze contro il suo popolo e ad accettare una ‘soluzione alla yemenita’, ossia un accordo tra governo e opposizione con una fuoriuscita morbida del presidente siriano. L’ostinazione di al-Assad ha vanificato però l’impegno diplomatico russo. Il Cremlino tuttavia non ha ceduto al fronte occidentale, propenso a misure punitive contro Damasco. Alla luce dell’esito della crisi libica, Mosca temeva che eventuali risoluzioni delle Nazioni Unite potessero essere manipolate per legittimare un intervento volto a un mutamento di regime. In Siria, inoltre, il potere centrale è più forte e capace di resistere e reagire a una opposizione frammentata e infiltrata da elementi jihadisti che, qualora conquistassero la guida del paese, costituirebbero, tramite i loro robusti legami con gruppi terroristici caucasici, una minaccia per la stessa Russia. Il regime di al-Assad è infatti sostenuto dagli alawiti (un segmento degli sciiti presenti anche in Iran) e una sua rimozione potrebbe rafforzare la componente sunnita (al-Qaida, i Fratelli musulmani, Hamas) con due gravi conseguenze. Da una parte, una eventuale ripresa dei movimenti secessionisti che all’interno della Russia sono promossi dai wahhabiti (appartenenti ai sunniti) e una saldatura di questi con i movimenti islamici radicali (questione su cui Putin ha richiamato l’attenzione della comunità internazionale dopo l’esplosione delle bombe alla maratona di Boston ad opera di due fratelli di origine cecena). Dall’altra, un indebolimento eccessivo dell’Iran, dove prevalgono gli sciiti. Nella crisi siriana la Russia ha voluto anche tutelare l’Iran, una pedina strumentale, per mantenere in tensione le relazioni con Washington e rafforzare il proprio potere negoziale.
Quando però gli Stati Uniti, a seguito del ricorso ad armi chimiche da parte dell’esercito di al-Assad, assieme al Regno Unito hanno optato per una rischiosa escalation della tensione, il ruolo della Russia è stato salvifico. Un intervento militare esterno nella regione avrebbe potuto contagiare l’intera area mediorientale, esacerbando contrasti trasversali agli stati (sunniti/sciiti; tradizionalisti/modernisti), e propagare ondate di tensione a livello sistemico.
Ecco perché l’opposizione russa all’uso della forza – sebbene ufficialmente biasimata da Washington e da altre capitali europee – e il suo adoperarsi per una soluzione diplomatica hanno alla fine sollevato gli Stati Uniti dalla grave responsabilità di un’azione bellica. È grazie in particolare all’azione diplomatica condotta dal ministro degli esteri russo Sergej Viktorovic ˇ Lavrov che il presidente siriano ha acconsentito alla distruzione dell’arsenale chimico. Gli Stati Uniti in primis hanno riconosciuto che «la sola soluzione alla crisi siriana è un processo politico senza esclusioni, diretto dai siriani » e hanno sostenuto, assieme alla Russia, la convocazione di una conferenza internazionale (Ginevra 2, dal 23 al 31 gennaio 2014) che riunisse i rappresentanti del regime e dei ribelli e, così come richiesto da Mosca, tutti i paesi della regione e i vicini della Siria, inclusi Arabia Saudita e Iran. L’obiettivo della conferenza era concordare una road map per la nuova Siria e raggiungere un accordo per un governo di transizione. Il primo round si è concluso con un nulla di fatto.
In Siria, il Cremlino difende certamente anche i suoi interessi economici e geopolitici, in linea con un approccio pragmatico alle relazioni internazionali. Dalla fine della Guerra fredda la Russia è diventata il più importante fornitore di armi della Siria (il 75% delle armi siriane sono di fabbricazione russa), anche se il mercato siriano non è tra quelli primari per Mosca: la Siria è solo il settimo paese cliente. Di rilievo geostrategico nel Mediterraneo, invece, la piccola base logistica dotata di un sistema radar sofisticato che la Russia mantiene dai tempi dell’URSS nel porto siriano di Tartus.
La strategia del Cremlino, volta a prendere tempo attraverso un controllato incremento della tensione, ha consentito al paese di dettare le regole della gestione della crisi secondo i suoi obiettivi. La Russia, così facendo, ha dimostrato il suo peso sul piano internazionale e ha consolidato il suo status di potenza globale, riscattandosi in parte dallo smacco subito in Libia. Questo successo relativo riportato dalla leadership russa ha effetti positivi anche sul piano interno. Il calo di consenso registrato dalla terza presidenza di Putin non consente cedimenti sull’arena internazionale, che potrebbe invece diventare un fattore rilevante di compattamento dei russi intorno alla leadership.
di Serena Giusti
Approfondimento
La Russia ha ereditato dal periodo sovietico un sistema di ricerca e innovazione con alcune punte di eccellenza, per lo più finalizzate allo sviluppo militare e aerospaziale. Una ricerca di base di alto livello spesso trovava difficoltà a materializzarsi in innovazioni destinate a essere commercializzate e utilizzate dal grande pubblico. Nel caso delle scienze biomediche e dell’alimentazione lo dimostrano gli scarsi risultati ottenuti in termini di vita attesa. Nel 1990, prima del tracollo causato dalla transizione, l’aspettativa di vita era comunque bassa (69 anni).
Il settore attualmente trainante dell’economia russa è quello energetico e più in generale quello delle materie prime. Negli ultimi venti anni non ha probabilmente potuto sviluppare appieno il proprio potenziale, dapprima per il caos che ha contraddistinto la Russia in transizione, e poi per la percezione da parte degli investitori esteri che la Russia non fosse pienamente uno stato di diritto e che il clima non fosse favorevole. Questa percezione è stata rafforzata da alcuni arresti di natura politica e dalla tendenza delle controparti russe a cambiare i termini di contratti precedentemente sottoscritti (si veda per esempio il caso del progetto Sakhalin II: gli investitori stranieri furono costretti a vendere a Gazprom nel 2006). Fino al 2013 le maggiori società petrolifere internazionali sono state caute nell’investire massicciamente in Russia e sopratutto a mettere a disposizione della Russia le loro tecnologie. I prezzi interni dei prodotti energetici, per ragioni politiche, sono parzialmente sussidiati, grazie alla tassazione dei produttori. Ma vengono comunque calmierati e questo riduce i redditi dei produttori, in particolare quelli pubblici, e li induce ad investire meno in nuove tecnologie. A ciò si aggiunga un continuo esodo dei capitali russi (4,5% del PIL nel 2011), i cui proprietari non si fidano delle leggi russe. Gli investimenti sono così stati inferiori a quelli delle altre economie emergenti e sono stati destinati al settore energetico, tecnologicamente non molto avanzato. Anche se i redditi delle società legate a Internet crescono del 30% all’anno, lo sviluppo tecnologico è bloccato anche da eventi collaterali, come arbitrari interrogatori di polizia ai danni dei manager di nuove aziende o di fondi di venture capital e il limitato rispetto dei diritti degli azionisti di minoranza. Se è vero che negli ultimi anni alcuni russi hanno ricevuto il Nobel per la fisica (Andre Geim e Konstantin Novoselov) o la medaglia Fields (Grigori Perelman), e che è teoricamente russo il cofondatore di Google, Sergey Brin (vive negli USA da quando ha sei anni), è altresì vero che la capacità della Russia di trattenere e attrarre innovatori resta assai bassa. Il terzo mandato presidenziale di Vladimir Putin è stato ottenuto grazie al voto delle campagne, dei gruppi meno istruiti, dei cittadini più anziani e di chi si è lasciato affascinare dalla retorica nazionalista russa. Questi gruppi difficilmente potranno essere promotori e sostenitori di una società che favorisce lo sviluppo tecnologico. A ciò si aggiunga che l’aspirazione a una società omogenea, ispirata ai valori della tradizione ortodossa e poco aperta verso gli immigrati e gli omosessuali, può ulteriormente rallentare l’accettazione di standard moderni. Nel 2010 l’allora presidente Medvedev lanciò il progetto del Centro dell’innovazione di Skolkovo. Al progetto sono stati destinati 4,2 miliardi di dollari. Nel centro dovrebbero sorgere laboratori di ricerca, trovare accoglimento corsi di studio avanzato, nuove imprese innovative e potenziali investitori. La Russia è il quarto mercato al mondo in termini di venture capital impegnato (2 miliardi di dollari nel 2012). Il progetto di Skolkovo rientra nelle priorità che il governo insegue nel campo dell’innovazione: ITC, scienze biomediche, efficienza energetica, ricerca spaziale e nucleare e nanotecnologie. La correttezza dell’impostazione e l’efficacia del progetto Skolkovo sono state però messe in dubbio da alcuni osservatori. A lasciare perplessi non è ovviamente il fatto che si tratti di un’iniziativa pubblica, quanto le lacune culturali del background: mancano una società che apprezzi l’inventiva e il senso pratico, un sistema economico che offra opportunità di investimento, un sistema legale che protegga la proprietà intellettuale, un sistema politico che incoraggi l’innovazione e il successo personale. La regressione politico-sociale del paese e la resistenza ai principi democratici contribuiscono ad aumentare le ombre.
Ci vorranno dieci-quindici anni per poter verificare se le promesse legate al centro di Skolkovo saranno mantenute e sopratutto se gli sforzi riusciranno a trasformare la Russia da pressoché esclusiva produttrice di materie prime in importante promotrice di innovazione tecnologica.
di Gustavo Rinaldi