La scena teatrale
Teatro e arti visive
Il sodalizio tra la scena e le arti visive, uno dei baluardi dell’avanguardia novecentesca rilanciato dalla ricerca sperimentale degli anni Settanta, si riconferma agli albori del nuovo secolo di piena attualità. Le messinscene di questo primo decennio seguono indirizzi diversi, strettamente legati all’individualità e alle poetiche degli autori, trovando, tuttavia, un orientamento comune nel forte risalto attribuito ai valori visivi dell’allestimento. È come se, superati i furori della neoavanguardia che ha interessato le ultime decadi del secolo appena trascorso, la valorizzazione dell’immagine in funzione drammaturgica sia divenuta ormai un dato scontato, largamente introiettato all’interno della scrittura scenica. Questo è particolarmente vero per i registi provenienti dall’area del teatro di ricerca che proseguono un loro discorso fortemente angolato sul piano visivo e in stretto rapporto con le pratiche artistiche, ma si può riscontrare anche in autori di diversa formazione come Luca Ronconi e Massimo Castri che preferiscono, tuttavia, affidarsi alla collaudata esperienza di scenografi professionisti da molti anni al loro fianco, come Margherita Palli o Maurizio Balò, in grado di evocare con l’immagine scenica le idee guida dell’interpretazione registica.
Tra gli artisti che oggi si misurano con l’esperienza teatrale si nota la tendenza a stabilire una sorta di osmosi tra pratica artistica e intervento scenografico, trasferendo dall’uno all’altro contesto gli elementi linguistici del loro bagaglio espressivo, in una sorta di autocitazione. L’attuale proliferazione nel campo dell’arte di nuovi media e procedimenti operativi e la mancanza di una tendenza dominante fanno sì che anche sul fronte scenico si confrontino esperienze estremamente distanti, irriducibili a un comune denominatore. Si può notare comunque la diminuita importanza della piantazione tradizionale e della scena costruita, che cedono il passo di fronte alle nuove risorse spettacolari offerte dalla tecnologia avanzata. Su un altro fronte, alcuni artisti trasformano e reinventano lo spazio attraverso la dislocazione di segni visivi ed elementi tratti dal mondo reale, investiti di valore metaforico, seguendo una logica che è senza dubbio spettacolare, ma la cui matrice originaria va ricercata non tanto nel teatro quanto nell’ambito delle arti visive e identificata con la pratica dell’installazione o dell’environnement.
L’installazione scenica
Questo è, per es., il caso di Mimmo (propr. Domenico) Paladino (n. 1948) il cui lavoro contrassegnato da immagini arcaiche ed elementari, quasi reperti di un lontano passato, non disdegna di misurarsi con prelievi dal quotidiano, assumendo oggetti di uso comune e materiali poveri e scabri come elementi di un suo alfabeto personale con cui comporre un tracciato di segni allusivi, fatto di raccordi e rimandi metaforici, di volta in volta reinventato a seconda della situazione e del contesto ambientale. Dall’ambito artistico egli trasferisce questa pratica anche nel lavoro scenografico, come, per es., nell’Edipo re (2000) di Sofocle, che rappresenta il suo esordio in campo teatrale a fianco di Mario Martone (n. 1959), uno dei registi più innovativi uscito dalle fila della neoavanguardia, fornendo con il suo intervento un contributo decisivo al progetto della messinscena. In questa occasione Paladino aveva addirittura svuotato una parte della platea del Teatro Argentina di Roma per lasciare posto all’azione scenica e aveva ingabbiato la zona dei palchetti con una serie di impalcature lignee su cui erano attaccati fogli di dimensioni e formato diversi recanti immagini arcaiche, sigle e misteriosi geroglifici. Eliminate le tradizionali distinzioni, non vi era più un luogo deputato per l’azione ma era coinvolta l’intera struttura teatrale, mentre gli spettatori, espropriati delle loro postazioni privilegiate, potevano solo osservare dall’alto gli accadimenti, indirizzando lo sguardo attraverso le barriere lignee e le fragili intercapedini di carta come se si affacciassero dagli spalti di una fortezza, entrando in tal modo a far parte della scena. Su questa linea si attesta anche l’allestimento dell’Edipo a Colono, sempre di Sofocle, realizzato nuovamente con Martone al Teatro India di Roma nel 2004. Qui, nello spazio fatiscente e grandioso di un vecchio complesso industriale, venuti meno i condizionamenti di un tipico teatro all’italiana qual era l’Argentina, Paladino ha avuto modo di muoversi in piena libertà, disegnando con il suo intervento i luoghi dell’azione che si svolge con ripetuti passaggi tra esterno e interno, in una sorta di percorso per stazioni. All’aperto un grande disco, su cui compaiono tracce fantasmatiche di immagini umane bruttate dal colore, affiorante per metà da una fossa scavata nella terra, quasi a evocare una dimensione ctonia, segna la prima postazione da cui prende il via lo spettacolo. Di fronte, una vasta parete di mattoni è solcata da innumerevoli sagome di legno a forma di piede, i vecchi modelli dei calzolai, che, confitte sul muro come gli ex voto sulla parete di un tempio, sembrano alludere con la loro iterazione alle migrazioni di Edipo e alla sua infermità. È questa, per l’appunto, la soglia da varcare che introduce alla sala interna, ovvero alla città santa di Colono. Dopo aver atteso all’aperto l’arrivo di Edipo accompagnato dalla figlia, gli spettatori entrano insieme agli attori e vengono fatti sedere intorno al luogo dell’azione, a stretto contatto con gli interpreti e mescolati con il coro. Annullate le tradizionali distinzioni, spettatori e coro formano un corpo unico, ripristinando in questo modo l’antica struttura assembleare che presiedeva il rito teatrale.
Il teatro povero di Eimuntas Nekrosius
Di installazione è possibile parlare anche per il lavoro di Eimuntas Nekrosius (n. 1952), il geniale regista lituano che ha rivoluzionato con il suo stile visionario la messinscena dei classici di ogni tempo: da Shakespeare ai grandi autori russi. Lontano da ogni intento realistico o descrittivo, Nekrosius affida agli elementi visivi più che alla parola il compito di raccontare la storia, facendo affiorare attraverso una particolare qualità del movimento o l’iterazione del gesto il retroscena psicologico dei personaggi, mentre gli oggetti, estraniati dal contesto quotidiano e dalle loro funzioni abituali, perdono la loro riconoscibilità immediata per caricarsi di sensi molteplici da decifrare e interpretare, seguendo i movimenti della memoria e dell’immaginazione. Oltre agli oggetti, anche le materie povere ed elementari, sottratte al mondo della natura, possono divenire veri catalizzatori di senso: così nell’allestimento dell’Otello (2000) di William Shakespeare, ambientato sulla tolda di una nave, evocata da un palo e da grandi teloni bianchi sospesi a corde come vele, è l’acqua, versata da catinelle e bicchieri o raccolta nei secchi di metallo disseminati sulla scena, a suggerire la presenza del mare o a caricare di significato il rito dell’aspersione da parte dei congiunti sul cadavere di Desdemona. L’acqua ritorna nel Gabbiano (2000) di Anton P. Čechov, dove ancora una volta, con una tipica sineddoche, i secchi sgocciolanti sulla scena rinviano alla presenza del lago presso cui è ambientata l’azione. La metamorfosi degli oggetti, che cambiano di ruolo e funzioni secondo l’esigenza scenica, tocca il suo apice in Anna Karenina (2008) di Lev N. Tolstoj, dove grandi tamburi bianchi, che recano dipinto su una faccia il quadrante delle ore, punteggiano con la loro presenza ricorrente lo svolgersi di tutto il lavoro. Impiegati come strumenti musicali o come orologi, possono, all’occorrenza, con un semplice cambio di posizione, mutare di stato e suggerire in tal modo l’immagine di grandi ruote fatte rotolare sul palcoscenico a simulare l’arrivo del treno o di un mezzo di trasporto, oppure, capovolti per terra, trasformarsi in sedili. A supportare il gioco incessante delle metamorfosi contribuisce validamente la colonna sonora e rumoristica attentamente studiata in rapporto all’impaginazione visiva. Ma gli oggetti possono anche suggerire la psicologia di un personaggio: come nel caso dell’enorme cartella carica di scartoffie che Karenin si porta appresso come un ingombrante attributo che rinvia alla sua natura fredda e burocratica. In questo gioco di trasmutazioni incessanti che tende a equiparare tutti gli elementi visivi in gioco, ivi compresa la presenza fisica degli attori, anche l’uomo può assumere funzioni oggettuali. È quanto avviene nella struggente scena finale del suicidio di Anna, dove è un uomo, coperto da un grande mantello nero e munito di fanali luminosi, a impersonare il ruolo della locomotiva. Il suicidio di Anna, accolta e risucchiata dal grande mantello scuro, attenua così le sue connotazioni negative per assumere la valenza consolatoria di un approdo pacificato nelle braccia della morte.
Per un’arte totale
Al teatro povero di Nekrosius si contrappongono altre esperienze che giocano invece su uno spettacolare dispiegamento di immagini dove l’artigianato teatrale cede il passo all’impiego di sofisticate attrezzature tecnologiche. Rispetto al passato la tendenza emergente s’indirizza verso un impiego sempre più massiccio dei mezzi multimediali, dell’elettronica e, soprattutto, della tecnica digitale in grado di elaborare effetti speciali, visivi e sonori in vista di una totalità percettiva sinestetica. I nuovi linguaggi teatrali sembrano orientarsi verso il superamento della scena costruita per una progressiva smaterializzazione delle emergenze visive affidate soprattutto alle potenzialità costruttive e illusorie della luce e dell’immagine virtuale, recuperando, oltre all’arte, altre forme di espressione visiva, come il cinema e la televisione, fonti inesauribili di stimoli inventivi e procedimenti tecnici.
Negli ultimi decenni del 20° sec. la sperimentazione si era concentrata soprattutto sull’utilizzazione del video a teatro, analizzandone non solo le modalità d’impiego come elemento scenico, trasferendo fisicamente il monitor sulla scena, ma soprattutto tutte le possibili interazioni tra il corpo virtuale che agiva sullo schermo e il corpo reale attivo nello spazio con una serie di esperienze che hanno trovato la loro manifestazione più significativa negli spettacoli allestiti da Giorgio Barberio Corsetti insieme a Studio Azzurro. Oggi la ricerca si è spostata verso altri traguardi lasciando sempre più spazio alla tecnica digitale nella costruzione dello spettacolo. In questione è ancora l’immagine virtuale, ma affrontata mediante un’impostazione interattiva che combina fonti diverse con un’elaborazione in tempo reale e apre, in prospettiva, illimitate possibilità di applicazione e di sviluppo per il momento solo in parte sperimentate. Assistiamo in sostanza, in questi anni, a una trasformazione in atto della tecnica teatrale, che può trovare un termine di paragone solo nella grande rivoluzione legata all’avvento dell’elettricità che alla fine dell’Ottocento smantellò nel giro di pochi decenni l’impostazione tradizionale della scena. Il sogno ricorrente delle avanguardie di fondare una scena di pura visione, completamente automatizzata e riproducibile nel tempo al di là dell’aleatorietà del caso come dell’imperfezione umana, può considerarsi oggi una realtà pienamente acquisita, la cui importanza, comunque, non investe solo il livello del perfezionamento tecnico ma trova collocazione nell’ambito dei processi ideativi e poetici che presiedono l’evento teatrale, segnalando l’avvento di una nuova sensibilità percettiva.
La luce costruttiva di Bob Wilson
Va riconosciuta la grande importanza del contributo dato a questa direzione di ricerca da Bob (propr. Robert) Wilson (n. 1941), il padre putativo del cosiddetto Teatro Immagine, che al suo apparire sulla scena internazionale alla fine degli anni Sessanta sconvolse tutti i parametri della rappresentazione, inaugurando una nuova era di ricerca. Sempre attivo su scala internazionale con spettacoli di alto livello stilistico e algido rigore formale, Bob Wilson già da tempo utilizza le risorse visive e sonore dell’elettronica per creare un teatro visionario che trova nella luce l’elemento strutturante per definire lo spazio, l’immagine e lo stesso impianto drammaturgico. Giunto alla scena dopo studi di architettura e fortemente legato al contesto delle arti visive, Wilson nel corso del tempo ha giocato su un processo di sottrazione e di distanziamento dell’immagine, orientandosi verso l’astrazione pittorica, la Minimal Art, le suggestioni della cultura giapponese. Discostandosi dalla pratica tradizionale che attribuisce alla luce la funzione di illuminare il palco e gli attori, egli se ne serve come uno strumento per scolpire le forme e modellare lo spazio secondo un criterio che è di natura essenzialmente pittorica e che lo porta a controllare la disposizione dei diversi elementi scenici attraverso vari dispositivi luminosi, trattando il fondale, gli attori e gli oggetti, il palcoscenico come unità separate indipendenti l’una dall’altra. Tutto è limpido, netto, senza sbavature: dai fondali (spesso creati con il ricorso al ciclorama), costituiti da vaste campiture cromatiche di un colore terso e abbagliante che sfuma nel bianco verso la linea di orizzonte, agli attori e agli oggetti che, colpiti da una luce di taglio, si stagliano nitidi nello spazio con un risalto marcato che l’assenza di ombre contribuisce a enfatizzare. Anche il piano orizzontale del palcoscenico, illuminato in maniera uniforme e soffusa, entra a far parte della rigorosa definizione dello spazio da cui sono eliminate ogni dispersione, ogni incidenza fortuita, come le ombre proiettate. In alcuni spettacoli (come, per es., Monsters of Grace, 1998, diretto insieme a Philip Glass) egli ha sperimentato anche procedimenti di animazione mediante il ricorso a immagini computerizzate in tre dimensioni.
Tornato a confrontarsi con il testo, sostituito nei suoi primi spettacoli da forme di comunicazione non verbale, Wilson si indirizza oggi verso opere drammaturgiche di forte impianto simbolico, sottratte all’ipoteca del naturalismo, più congeniali al suo particolare mondo poetico. Restringendo il campo alle opere realizzate in questa prima decade del nuovo secolo ci limitiamo a citare il Woyzeck di Georg Büchner allestito nel 2000 a Copenaghen, Il sogno di August Strindberg, realizzato a Londra nel 2001, Les fables de La Fontaine presentato alla Comédie Française nel 2004, il Peer Gynt di Henrik Ibsen messo in scena a Oslo nel 2005 in occasione del centenario ibseniano. Particolarmente significativo per la sua relazione con le arti visive è il Woyzeck realizzato con una compagnia danese, il Betty Nansen Teatret. Scartata la partitura di Alban Berg, Wilson si è rivolto per la musica al compositore Tom Waits, già suo collaboratore in precedenti spettacoli. Seguendo una linea di semplificazione estrema, che è diventata la sua attuale cifra stilistica, Wilson crea una scena astratta, inondata dal colore, dove un gioco di proiezioni luminose disegna una trama di figure geometriche sghembe e giganteschi segnali visivi, quasi ad alludere al disorientamento dell’individuo in un mondo che ha perso ogni equilibrio. Anche gli oggetti sono piccole sculture geometriche di sapore minimale, funzionali alle esigenze di scena, ma che escludono qualsiasi volontà di ricostruzione ambientale. Unico richiamo al mondo culturale dell’autore è il riferimento alla pittura espressionista, largamente citata nel taglio dei costumi asimmetrici dalle linee spezzate e puntute, direttamente ispirati alle immagini pittoriche di Ernst L. Kirchner, nell’andamento sghembo dei riquadri geometrici proiettati sui telai scenici, nella violenta accensione dei rossi e dei gialli che scandiscono le sequenze dell’azione, nell’impasto cromatico di segni aspri ed elementari disseminati su uno dei fondali scenici, quasi a rendere un vero e proprio omaggio ai dipinti del gruppo Die Brücke. In questo spazio vuoto di sapore astratto, gli attori si muovono con gesti controllati e angolosi, componendo un tracciato di linee tra luce e controluce. Riprendendo alcuni tipici espedienti della tecnica cinematografica, il regista texano fa svolgere l’azione attraverso un montaggio di sequenze cromatiche, non trascurando di ricorrere all’effetto di ‘primo piano’, illuminando in alcuni momenti con tinte smaccatamente artificiali il viso oppure alcune parti del corpo. Allontanandosi dalle versioni correnti del Woyzeck, Wilson elimina ogni concessione al patetico, prendendo le distanze dal melodramma attraverso un rigoroso controllo mentale di tutti gli elementi in gioco. Ne deriva uno spettacolo di straordinaria bellezza visiva, dove la storia, lineare nella sua semplicità, è consegnata a una suggestiva partitura di immagini e alla forza trainante della tensione espressiva offerta dal colore e dal suono.
Le favole crudeli della Socìetas Raffaello Sanzio
In qualche modo apparentato a Wilson (al primo Wilson) per il carattere visionario delle immagini è il lavoro della Socìetas Raffaello Sanzio, una compagnia teatrale nata nel 1981 all’interno del teatro di ricerca e oggi largamente affermata in campo internazionale. Diretta da Romeo Castellucci (n. 1960), di formazione pittore e scenografo, la Raffaello Sanzio pone tra i suoi obiettivi prioritari l’intento di creare uno spettacolo visivo e sonoro che intercetti tutte le arti e si rivolga agli organi della percezione, coinvolgendo l’intera sfera del sensorio. Nelle loro creazioni drammaturgiche la parola ha un ruolo secondario, mentre è l’immagine con il suo impatto folgorante a farsi portatrice di senso e a instaurare un rapporto di comunicazione immediata con lo spettatore. Questi caratteri hanno trovato una dimostrazione esemplare nel ciclo della Tragedia Endogonidia che si è sviluppato nell’arco di tre anni, tra il 2002 e il 2004, attraverso la messinscena di undici episodi allestiti in diverse città italiane ed europee. Il ciclo è stato concepito come un sistema drammatico in crescita, senza pause, in cui ognuno degli episodi nasce in rapporto a un contesto urbano particolare, captando frammenti di storie, di luoghi, di situazioni, privi, tuttavia, di una riconoscibilità immediata. Dissolto l’impianto narrativo, lo spettacolo si affida alla forza epifanica delle immagini che, supportate dal tessuto sonoro, si stagliano in spazi vuoti, asettici, commentati da luci abbaglianti. Misteriose come apparizioni, contrassegnate da attributi inquietanti, le immagini si susseguono prive di nessi e concatenazioni logiche in un regime alterato, giocato su salti di scala e contaminazioni aberranti che le sottraggono alla presa sul reale. In questa dimensione visionaria, che sembra recuperare i procedimenti di spostamento e condensazione tipici dell’esperienza onirica, accanto a figure in costume che sembrano uscire da un contesto favolistico fuori dal tempo si inseriscono altre presenze: animali, bambini che, con la loro fisicità e l’imprevedibilità dei comportamenti, immettono un soffio di vita nel disciplinato quadro degli accadimenti. E il richiamo alla fisicità, al di fuori di ogni finzione scenica, è ulteriormente accentuato dall’esibizione di corpi esposti nella loro indifesa nudità. Con un richiamo alle esperienze consumate nell’ambito della Body Art, la Raffaello Sanzio non ricerca nell’esposizione del nudo l’esaltazione della bellezza fisica, ma sceglie di operare con i corpi imperfetti di obesi, di handicappati, con corpi bruttati di sangue o segnati dalla violenza che non rappresentano altro che sé stessi e testimoniano la loro appartenenza al mondo, sconvolgendo ogni rassicurante tentativo di omologazione. La ferocia, la malattia, la morte, condizioni della tragedia contemporanea, introducono così una nota dissonante in una scrittura visiva di forte violenza espressiva che non fornisce alcuna chiave di lettura precostituita, ma pone soltanto interrogativi che spetta allo spettatore decifrare secondo la sua sensibilità e la sua intelligenza.
Le contaminazioni linguistiche di Robert Lepage
In questa rapida rassegna, che procede per exempla, non si può dimenticare il lavoro del canadese Robert Lepage (n. 1957) che assomma nella sua persona le funzioni di regista, attore, scrittore, tecnico della luce e del suono, riunificando competenze diverse in un’esperienza teatrale totale. Fondata nel 1993 a Québec City la compagnia di produzione multimediale Ex Machina, Lepage cerca di rinnovare il linguaggio teatrale attraverso forme di comunicazione più adeguate alla sensibilità di un pubblico di massa, attingendo largamente su un piano linguistico e formale al cinema e alla televisione. Abolite le distinzioni tra le arti, egli tende a fondere insieme i diversi specifici dando vita a spettacoli di straordinaria suggestione visiva. Diversamente da Wilson, Lepage non ama i colori netti, gli stacchi abbaglianti, ma immerge la scena in una penombra atmosferica rischiarata dalle immagini videoelettroniche che si succedono sul grande schermo del fondale in un processo di costante trasformazione tra avvicendamenti di luce e ombra. I personaggi in scena dialogano così con le immagini che animano lo sfondo, conferendo alla composizione un’impronta pittorica che l’assimila a un quadro. Se nel passato egli tendeva a utilizzare l’espediente del sogno per esprimere il suo mondo interiore, da La face cachée de la lune (2000) preferisce attingere i materiali per le sue storie dalle sue esperienze reali, innestando spesso nei lavori una componente autobiografica. È quanto avviene in The Andersen project (2005) in cui la figura del protagonista, Frédéric Lapointe, un canadese giunto a Parigi nel 1867, l’anno dell’Esposizione universale, per realizzare, su invito dell’Opéra, un libretto sulle fiabe di Andersen, riflette, a partire dalla nazionalità, elementi autobiografici del regista come il tema della solitudine affettiva e della difficile infanzia. Unico attore in scena, Lepage con l’ausilio di parrucche e costumi interpreta tutti i ruoli, calandosi nella veste dei personaggi che il protagonista incontra nella capitale francese in una frenetica carrellata di situazioni e ambienti diversi. Il lavoro intercetta vari piani di narrazione in cui intervengono anche personaggi tratti da due racconti di Andersen L’ombra e La driade, quest’ultima evocata in scena da un manichino femminile riccamente abbigliato con una veste ottocentesca.
Più direttamente ispirato alle arti visive è Casa azul (2001), dedicato alla tragica vita della famosa pittrice messicana Frida Kahlo. Qui Lepage trae spunto dalle opere della Kahlo per illustrare gli episodi salienti della sua esistenza: trasformata la scena in un grande schermo di fronte e dietro al quale agiscono gli attori, egli ricrea mediante l’ausilio delle luci e del colore dei veri e propri quadri viventi di grande intensità drammatica.
Dallo spettacolo musicale all’opera lirica
L’importanza attribuita al sonoro nelle odierne rappresentazioni mette in risalto un orientamento comune agli operatori teatrali di oggi, sempre più indirizzati verso una riunificazione delle arti e interessati verso forme spettacolari come l’opera lirica o la danza in cui la musica assume un ruolo decisivo. Un fenomeno in atto già da tempo e che ha portato registi di estrazione teatrale a contribuire in maniera determinante al rinnovamento del linguaggio scenico dell’opera lirica, per tradizione più conservatore e restio all’immissione di nuove modalità di rappresentazione. Con questo non intendiamo riferirci solo alle esperienze, spesso superficialmente provocatorie, di attualizzazione dei capolavori del passato in veste moderna, ma soprattutto al tentativo di rileggere, attraverso il filtro della sensibilità contemporanea, il nucleo interiore dell’opera lirica, rivelandone attraverso l’espressione visiva i motivi latenti. In questa direzione si stanno muovendo in numero sempre crescente non solo i giovani registi, ma anche una serie di artisti che non si limitano al solo intervento scenografico ma talvolta si misurano con lo stesso allestimento.
Il contributo di Bob Wilson nel campo dell’opera lirica
Anche in questo campo Wilson ha fatto da battistrada e da decenni ormai tende ad alternare le regie teatrali a quelle operistiche con allestimenti che hanno fatto scalpore, ma anche suscitato non poche critiche da parte dei puristi della musica. In questa prima decade del 21° sec. il suo lavoro sui palcoscenici del teatro lirico è stato veramente impegnativo e, dopo averlo visto alle prese con l’universo wagneriano mediante gli allestimenti di L’oro del Reno (2000) e La caduta degli dei (2002), lo ha portato recentemente a misurarsi con La donna senz’ombra (2007) di Richard Strauss, su libretto di Hugo von Hofmannsthal, allestita all’Opéra Bastille di Parigi. Si tratta di un esperimento pienamente riuscito che ha messo finalmente a tacere le voci dissenzienti e lo ha riconciliato con quella parte della critica che finora si era dimostrata ostile nei suoi confronti. Gran parte del merito va ancora una volta attribuito alla impareggiabile magia delle luci che hanno contribuito a sottolineare la spiritualità disincarnata dei personaggi che si muovono lungo traiettorie astratte senza incontrarsi mai, seguendo un loro percorso individuale di evoluzione interiore. Ma in connessione con la luce il vero motore dello spettacolo è stata la musica, cui Wilson ha attribuito la funzione di regolare il tempo, nonché quella di fissare i cambi di scena e i movimenti degli attori, partendo da un accurato studio della partitura, indagata attentamente sin nelle minime sfumature.
La rilettura wagneriana di Tiezzi-Paolini
Un veterano delle scene liriche può considerarsi anche Federico Tiezzi (n. 1951), il regista della compagnia teatrale Il Carrozzone (fondata nel 1972), dal 1979 chiamata Magazzini Criminali, oggi Compagnia Lombardi-Tiezzi. Orientato verso una poetica largamente interdisciplinare sin dai suoi inizi nell’ambito del teatro di ricerca, Tiezzi oltre alle messinscene della Carmen (1995) di Georges Bizet e dell’Iris (2006) di Pietro Mascagni si è confrontato in questo decennio per la prima volta con il poderoso mondo wagneriano, allestendo nel 2005 La valchiria e nel 2007 il Parsifal per il Teatro San Carlo di Napoli. In entrambe le occasioni il compito di scenografo è stato affidato a Giulio Paolini (n. 1940), uno dei più significativi esponenti italiani dell’arte concettuale. Per Paolini, che aveva già lavorato in passato come scenografo a fianco di Carlo Quartucci, si è trattato del primo impegno nel campo dell’opera lirica, un compito certamente arduo, quasi una sfida, che ha messo a confronto due mondi apparentemente inconciliabili: da una parte il suo linguaggio artistico di impronta fortemente analitica, dall’altra l’universo poetico wagneriano pervaso di romanticismo.
Portato a coniugare costantemente tradizione e contemporaneità, Tiezzi ha operato una rilettura della Valchiria attraverso la mediazione di Mann e di Ibsen, assumendola come un grande dramma della decadenza, ambientato nel tardo Ottocento. Ne è derivata una messinscena sobria e asciutta, attraversata da sottili implicazioni psicanalitiche, dove ogni elemento (dai movimenti controllati degli interpreti, all’uso della luce e del colore) ha mirato a raffreddare la temperie espressiva escludendo facili effetti spettacolari. Paolini ha assecondato questo risultato, restituendo in termini di sapore quasi astratto una visione allusiva dell’interno borghese. Rifacendosi alla pratica della citazione, una costante del suo lavoro, ha utilizzato, inoltre, immagini del suo lessico artistico che, trasferite in questo contesto, assumono una spiccata valenza metaforica. Tali, per es., il fondale con le immagini degli astri e dei corpi celesti, che rinviano alle potenze cosmiche, i calchi in gesso degli eroi, il grande telaio metallico con gli emblemi relativi ai tre atti: l’albero, la spada, le rocce della montagna.
Più rarefatto e mentale l’intervento di Paolini nel successivo allestimento del Parsifal, dove, in piena sintonia con le idee registiche di Tiezzi, ha inteso ambientare l’opera in uno spazio ideale, ‘un Museo di scienze spirituali’, in cui elementi astronomici, geologici, archeologici, i reperti della storia, rinviano a un sapere stratificato nel tempo da riconquistare alla coscienza contemporanea. Uno spazio tutto mentale che si sottrae ai condizionamenti fisici, al peso della materia per proiettarsi nella continuità spazio-temporale. Così nel primo atto la raffigurazione canonica dello spazio euclideo, esemplificato nell’immagine tipo della prospettiva, entra in collisione con la teoria di colonne che si librano in sospensione nell’aria sopra i pilastri di sostegno, in totale assenza di forza gravitazionale. A rendere più enigmatico il quadro concorre una figura pensierosa in atteggiamento melanconico dipinta in primo piano sul velario, mentre, dietro, la statua dell’Ermes di Prassitele, emblema della perfezione classica, sembra indicare la strada da seguire per raggiungere la salvazione. Senza smentirsi, Paolini ancora una volta fa largo uso della citazione nel ricondurre in scena immagini tipiche del suo repertorio – dalla scena prospettica, ai calchi in gesso della statuaria classica, alle immagini in movimento dei pianeti – intrecciando un gioco di rimandi intellettuali, di attraversamenti e sospensioni metafisiche. La regia di Tiezzi ha giocato magistralmente nel fondere i diversi livelli dello spettacolo, rimescolando la quotidianità del gesto alla tensione mistica, ma soprattutto nello scavare nelle risonanze interiori, nei significati occulti della partitura musicale che la scena di Paolini contribuisce a dilatare e a evidenziare in trasparenza, come nell’intreccio di una filigrana. Dal Male al Bene, l’itinerario di Parsifal è reso visivamente attraverso un progressivo passaggio dal buio alla luce che trova infine la sua apoteosi nella luminosità intensa e diffusa del finale.
Mimmo Paladino e l’opera lirica
Un altro artista che si è avvicinato in tempi recenti all’opera lirica è il già citato Mimmo Paladino, sempre più orientato a dare una valenza scenografica al suo lavoro con interventi ambientali nello spazio urbano o installazioni che lo hanno visto collaborare con esponenti del mondo della musica come Brian Eno. Il passaggio all’opera è stato siglato nel 2002 con le scene realizzate per il Tancredi di Gioacchino Rossini al Teatro San Carlo di Napoli ed è proseguito con la collaborazione all’allestimento dell’Oedipus Rex di Igor Stravinskij e La cavalleria rusticana di Mascagni realizzati nel 2007 da Roberto Andò al Teatro Regio di Torino. Tornato a confrontarsi con la figura di Edipo, dopo la sua collaborazione con Martone, Paladino ha scelto in questa occasione di conferire alla scena una disposizione rigidamente frontale in carattere con l’opera stravinskiana redatta in forma di oratorio. Ancora una volta semplicità e arcaismo contraddistinguono il suo intervento visivo. La scena, delimitata da una sorta di grande impalcatura lignea fondata su assi ortogonali che la separano dal pubblico, è costituita da una gradinata che mette in risalto la statura degli interpreti. Al di là della barriera architettonica che si delinea in controluce, un’illuminazione intensa e diffusa si concentra sulla zona dove agiscono i cantanti caratterizzati da stati di immobilità alternati a lenti movimenti ieratici. In primo piano, a livello dell’orchestra, è posizionato il coro, che siede in ranghi compatti di file sovrapposte, il volto coperto da un’anonima maschera bianca.
Molto semplice e spoglia la scena ideata per La cavalleria rusticana. Una fila di sedie impagliate disposte a semicerchio e, a lato, una sorta di trespolo coperto da un panno bianco costituiscono tutto l’arredo scenico che cerca di ricreare l’atmosfera di una comunità contadina senza indulgere tuttavia a facili compiacenze folkloristiche.
Le scene virtuali di Kentridge e Lepage
Tra i nuovi adepti affacciatisi al mondo della lirica va segnalato William Kentridge (n. 1955), il famoso videoartista sudafricano che, dopo essersi fatto conoscere per i suoi film di animazione dedicati al grave problema dell’apartheid, ha cominciato dal 1998 a interessarsi di regia operistica. Recente è l’allestimento del Flauto magico di Mozart, presentato nel 2005 al Théâtre de la Monnaie a Bruxelles e nel 2006 al San Carlo di Napoli. Rivoluzionando totalmente i criteri scenografici, attraverso una contaminazione multimediale di disegno, cinema, teatro, Kentridge costruisce un film di animazione che ‘anima’ i fondali e interagisce con gli attori mediante stupefacenti effetti spettacolari. Le scene virtuali, mobili e in continua trasformazione sono giocate su un’alternanza di bianco e nero, luce e ombra, positivo-negativo, rinviando alla tecnica fotografica. Ed è stato, per l’appunto, nella fase di montaggio dei disegni preparati per la videoproiezione che Kentridge si è reso conto della possibilità di giocare su due aspetti della stessa immagine, ispirandosi al rapporto tra la foto e il suo negativo. Di qui l’idea di utilizzare la macchina fotografica come grande metafora attraverso cui rileggere il capolavoro mozartiano, adattando la tecnica grafica alla tematica dell’opera, dominata dal conflitto tra la Regina della Notte e Sarastro, il sacerdote della Luce. Una scelta che ha portato di conseguenza alla necessità di spostare l’ambientazione dell’opera dalla fine del Settecento al 20° sec., l’epoca della nascita della fotografia. I sacerdoti di Sarastro, a questo punto, più che iniziati e adoratori di Iside assumono l’aspetto di scienziati di fine Ottocento, mentre l’emblema del compasso massonico è sostituito dall’immagine di un metronomo. La scelta della metafora fotografica è denunciata dal regista sin dal primo atto, quando le tre dame osservano Pamino svenuto attraverso l’obiettivo di un vetusto apparecchio montato su cavalletto. I passaggi dalla luce all’ombra, particolarmente suggestivi, raggiungono una speciale intensità nella scena dell’arrivo della Regina della Notte sullo sfondo di un cielo stellato animato dal movimento dei pianeti. Attingendo a repertori iconografici diversi, Kentridge non manca di recuperare significative immagini dell’arte contemporanea, mostrando un particolare interesse per le opere di Max Ernst, citato sia nelle raffigurazioni del bosco e dei templi, sia soprattutto nell’icona di un grande occhio, abbinato al metronomo, che campeggia gigantesca sul fondale al fine di evocare misteriose e suggestive simbologie occulte.
Se Kentridge ha utilizzato il referente fotografico per montare la sua coinvolgente macchina scenica, Lepage con lo scenografo Carl Fillion (n. 1966) non ha esitato a trasformare il palcoscenico in un vero e proprio set cinematografico. È quanto avvenuto di recente con 1984 (2008), di Lorin Maazel, su libretto di J.D. McClatchy e Thomas Meehan tratto dall’omonima opera di George Orwell, messa in scena al Teatro alla Scala di Milano. Giocando, come d’abitudine, con immagini filmiche registrate, effetti speciali e luci, Lepage costruisce un fantastico racconto visivo che si snoda in perfetta assonanza con la partitura musicale. Agli attori in scena si contrappongono le presenze virtuali che agiscono sugli schermi, tra cui dominante l’immagine ossessiva del Grande Fratello.
Le scene della danza
Particolarmente interessante dal punto di vista visivo l’impostazione scenografica degli spettacoli di danza che oggi, soprattutto nell’ambito delle esperienze di Teatrodanza, tende ad abbandonare i fondali pittorici o le rarefatte atmosfere costituite dalle proiezioni luminose per introdurre sulla scena oggetti, elementi costruiti, reperti del naturale che non funzionano più da semplice sfondo ma interagiscono con i corpi dei ballerini, ponendosi come ostacolo o termine oppositivo di confronto. Non mancano, tuttavia, anche in questo contesto, esperienze diverse che, a seconda delle poetiche dei vari gruppi o del singolo danzatore-coreografo, si indirizzano, invece, verso una rarefazione degli elementi visivi affidandosi ai mezzi multimediali e creando scene virtuali che si trasformano a vista, affiancando e talvolta duplicando il dinamismo dei corpi danzanti in un intreccio visivo dagli esiti spesso sorprendenti e paradossali. In molti casi è lo stesso coreografo a occuparsi personalmente delle scenografie, delle luci e dei costumi, attribuendo agli elementi visivi un ruolo di primo piano nella costruzione coreografica. In altri casi questi compiti sono delegati ad artisti che intervengono nello spazio scenico secondo un progetto e una sensibilità comune ai diversi piani di competenze. Si tratta di una situazione estremamente mobile e in continua evoluzione che non si lascia cogliere da una sola angolazione e resta aperta ai più diversi stimoli e a tutte le possibili interazioni disciplinari.
Le provocazioni di Jan Fabre
Nell’ambito del Teatrodanza le esperienze più stimolanti per quanto riguarda il rapporto con le arti visive provengono soprattutto dal Belgio. Tra i protagonisti della nuova danza fiamminga emerge in maniera perentoria la personalità di Jan Fabre (n. 1958), artista polivalente che, oltre ad affermarsi come uno dei coreografi di punta della sua generazione, è anche regista, scenografo, costumista, ideatore delle luci e persino autore di testi letterari. Anarchico e dissacrante, portato verso una concezione della danza violentemente fisica, Fabre ha posto da anni al centro della sua ricerca l’esplorazione del corpo, analizzato impietosamente nella sua struttura fisiologica, nella sua precarietà e caducità, nelle sue capacità di resistenza e di protesta. Dopo aver realizzato nell’ultimo decennio del secolo appena trascorso una trilogia del corpo, esaminato nelle sue valenze spirituali, fisiche ed erotiche, Fabre ha aperto con Je suis sang, presentato nel 2001 al Festival di Avignone, una fase di ricerca ancora più estrema dedicata al corpo in rivolta. E il sangue, ma anche tutti i fluidi vitali (tra cui le secrezioni e gli escrementi), sono stati al centro dello spettacolo avignonese dove, in una sarabanda macabra, teorie di lottatori e una schiera di spose con una vistosa macchia rossa a intaccare il candore immacolato dell’abito si sono alternate a scene di onanismo e di violenza, scandite dall’esibizione di coltelli di macelleria e apparecchi da elettrochoc, per concludersi infine con l’apparizione di un muro di acciaio con 18 tavoli da obitorio. Uno spettacolo visionario ed eccessivo che non ha mancato di suscitare scandalo, confermando la sua fama di ‘provocatore’. Un’etichetta da cui Fabre non si dissocia, ma di cui contesta il significato negativo. Per lui provocare significa soprattutto liberare gli uomini dalla patina di cinismo e di indifferenza, dall’anestesia provocata dai mezzi di comunicazione di massa, per risvegliare le coscienze e indurle a riflettere. Con una opposizione radicale contro le aberrazioni della genetica, il potere mediatico, i miti della tecnologia avanzata come l’uomo cibernetico o il corpo virtuale, Fabre rivendica la centralità del corpo fisico, il corpo in rivolta che non ha altra volontà che essere natura e incarnare ciò che è rimosso e obliterato nei comportamenti sociali come le infezioni, le secrezioni, la presenza della morte. Al centro della sua poetica è il tema della metamorfosi che domina il mondo della natura e dell’essere umano inscritto in un ciclo di nascita-vita-morte e rinascita. In questa prospettiva il sangue e i fluidi vitali sono ricollegati al concetto di individualità e di metamorfosi, strumenti di trasformazioni potenziali soprattutto a livello sessuale, ma anche incarnazione di flussi spirituali che possono portare alla trasfigurazione della condizione umana. Queste riflessioni sono alla base di tutti gli spettacoli realizzati nei primi anni del 21° secolo. Al 2000 risale As long as the world needs a warriors’s soul, presentato l’anno successivo al Teatro Argentina nel corso del Romaeuropa festival, in cui è sviluppato il tema della resistenza del corpo ai tentativi di omologazione e ai condizionamenti di massa. La scena è disseminata di bambole, non semplici oggetti di arredo ma immagine metaforica dell’idea stessa che pervade lo spettacolo. Tra di loro un gruppo di personaggi nudi lotta e dà vita a una serie di azioni animate da sentimenti contrapposti: da una parte coloro che vogliono divenire bambole, liberandosi dal peso del corpo con i suoi condizionamenti fisici ed emozionali, dall’altra i guerrieri che rifiutano la condizione di asservimento e passività della bambola rivendicando la propria individualità e opponendosi al processo di disumanizzazione.
Ancora il tema dell’individualità (ricondotto, questa volta, alla posizione dell’artista diviso tra esigenza di interiorità ed esposizione pubblica) è alla base di Angel of death (2003), un lavoro ispirato ad Andy Warhol e dedicato al grande danzatore e coreografo William Forsythe, allora direttore del Balletto dell’Opera di Francoforte. La scena è costituita da quattro video su cui compare l’immagine di Forsythe, ripreso mentre danza come un angelo e mentre recita il testo scritto da Fabre che dà il titolo al lavoro, all’interno del Museo anatomico di Montpellier con le sue immagini di morte. Una danzatrice, Ivana Jozic, si muove tra le pareti video, interagendo con quanto avviene sugli schermi e con la musica dal vivo eseguita dal sassofonista Eric Sleichim. All’inizio il corpo della donna è immobile e rannicchiato su sé stesso per animarsi all’accensione dei video, mentre nel finale, quando Forsythe si congeda allontanandosi nei corridoi del Museo, si immobilizza come una scultura. L’appello di Forsythe prima di congedarsi è rivolto agli Angeli della morte, ovvero gli artisti, gli unici che hanno l’effettiva capacità di opporsi all’omologazione, creando bellezza e restituendo vita alla morte.
Il corpo e la città
Orientato in senso largamente interdisciplinare è il lavoro di Frédéric Flamand (n. 1946), un altro protagonista della nuova danza belga che, dal suo centro di Charleroi/Danses, ama portare avanti la sua attività di coreografo in stretto contatto con operatori provenienti dal vasto circuito delle arti visive. Anche per lui, come per Fabre, elemento centrale della ricerca è l’esplorazione del linguaggio del corpo, sempre più insidiato dal confronto con le macchine, dai nuovi mezzi di comunicazione di massa, dall’egemonia tecnologica. Lontano dagli eccessi che caratterizzano gli spettacoli del suo connazionale, Flamand preferisce affidarsi all’arma dell’ironia nel denunciare i comportamenti spesso nevrotici e ripetitivi che caratterizzano il corpo vivente contemporaneo, dilaniato tra le frontiere dell’organico e del meccanico, tra presenza reale e presenza mediatica. A differenza di Fabre, tuttavia, pur mantenendo un atteggiamento fortemente critico, Flamand non rifiuta il confronto con l’universo tecnologico, sempre presente a livello tematico nei suoi spettacoli, e ne utilizza largamente le risorse nella creazione registica e coreografica. Il confronto con la tecnologia è stato favorito dall’incontro con il videoartista Fabrizio Plessi (n. 1940) con cui, a metà degli anni Novanta, ha realizzato ben tre produzioni. Da allora il suo discorso si è ampliato a esplorare altri orizzonti, passando dall’analisi del corpo macchina al corpo immagine, per approdare all’inizio del Duemila al corpo urbano. In stretta relazione con l’evoluzione del suo lavoro è cambiata la rosa dei collaboratori che oggi sono soprattutto architetti, i creatori dello spazio urbano. A loro Flamand non chiede una semplice scenografia, ma di mettere a punto in stretta collaborazione un progetto, in cui le due arti dello spazio – la danza e l’architettura – possano interagire tra loro. Questo obiettivo è stato perfettamente centrato in Metapolis – Project 972 (2000) in cui la struttura scenografica, ideata da Zaha Hadid, è costituita da tre ponti mobili in alluminio e fibra di vetro che supportano e al tempo stesso ostacolano il movimento dei danzatori, ridisegnando di volta in volta con i loro spostamenti la tipologia dell’allestimento. Grazie al ricorso al blue screen, inoltre, immagini della città vengono proiettate sullo sfondo o si inscrivono nel corpo del danzatore, alludendo al condizionamento che lo spazio urbano ha sulla corporeità umana. La mobilità e la costante trasformazione degli elementi architettonici entrano così a far parte integrante della coreografia alla pari dei danzatori, quasi a suggerire l’idea di uno spazio che danza.
Un rapporto importante è stato poi quello con Jean Nouvel (n. 1945), con cui tra il 2000 e il 2001 Flamand ha realizzato ben tre spettacoli dedicati al tema del lavoro, analizzando in maniera fortemente critica i condizionamenti corporei indotti dalle varie professioni. In Body/Work/Leisure (2001), in cui al tema del lavoro è associato quello del tempo libero, Nouvel aveva progettato una struttura architettonica che inscatolava in qualche modo i danzatori, esercitando una costrizione sui loro movimenti. L’impianto scenografico era costituito da un’impalcatura in acciaio formata da due piani di assi ortogonali, attraversati da una rampa in pendenza. L’architettura era inoltre corredata da una serie di pannelli mobili, di specchi e di schermi che di volta in volta nascondevano o rivelavano parti della struttura. Lo svolgimento del lavoro era giocato sull’interazione tra due arti dello spazio, l’architettura e la coreografia, una fissa e inamovibile, l’altra effimera e mobile. I danzatori si sono trovati a lottare contro uno spazio che tendeva a sopraffarli e a limitare le possibilità di movimento e il loro sforzo è stato quello di cercare di superare i condizionamenti e di riuscire con uno scatto ludico a imporsi sulle costrizioni della struttura.
La scena mobile e in trasformazione
Se la presenza massiccia del potere mediatico e dell’universo tecnologico è vissuta da alcuni esponenti del settore della danza fiamminga con un atteggiamento fortemente critico che giunge a prese di posizione ideologicamente motivate, in altri contesti, ivi compreso lo stesso Belgio, prevale una disposizione più aperta e disinibita, pronta a lasciarsi sedurre dalle nuove strategie comunicative e a utilizzarne l’immenso potenziale visivo in senso largamente spettacolare. Esemplare da questo punto di vista risulta l’operazione condotta dal gruppo francese Montalvo-Hervieu (José Montalvo, n. 1955, e Dominique Hervieu, n. 1962) che utilizza le risorse tecnologiche con l’intento di creare un mondo fantastico e in continua trasformazione, giocato sull’ironia, sulla leggerezza, sul gusto surreale delle libere associazioni.
Caratteri pienamente rispecchiati in On danse, presentato al Romaeuropa festival del 2005, uno spettacolo concepito come un omaggio al mondo galante e libertino di Jean-Philippe Rameau, alla morale del piacere tipica del Settecento. Nessuna ambizione restaurativa o criteri filologici alla base, quanto piuttosto l’intento di evocare lo spirito di Rameau nel presente, creando un percorso musicale in cui celebri brani delle sue composizioni per balletto dialogano con l’universo sonoro contemporaneo di Catherine Lagarde. Questo gusto ludico per le contaminazioni guida anche la scelta delle pratiche corporee in cui ballerini di diversa formazione (danza classica, contemporanea, hip-hop, danza africana) mescolano i loro stili, dando vita a un’originale scrittura coreografica ricca di invenzioni e audacie espressive. Fondamentale in quest’ottica irriverente e maliziosa, è il contributo scenografico condotto sull’immagine video che, grazie ai procedimenti di montaggio, collage, proiezione, crea uno sfondo mobile e in continua trasformazione, dove in un assemblaggio surreale convivono icone tratte dal grande repertorio dell’arte del passato, figure di animali, corpi nudi in un’incessante mutazione a vista. Così una statua di Venere si modifica sotto i nostri occhi assumendo le fattezze di un aitante giovanotto nero; i nudi si gonfiano a dismisura per poi esplodere; nella vasca dei pesci rossi nuotano le tigri. I corpi dei ballerini dialogano con le immagini creando associazioni impreviste e sorprendenti, condotte sul filo di un humour contagioso e vitale in un’esplosione di colori vivacissimi e di un commento sonoro raffinato e dal ritmo incalzante. L’espressione di leggerezza che pervade interamente lo spettacolo trova il suo apogeo nel finale, quando, grazie a un tappeto elastico, la teoria dei ballerini sembra spiccare il volo verso l’alto.
La drammaturgia della luce
In un’area posta al confine tra le arti visive, la danza e il teatro si colloca l’operazione di Fabrizio Crisafulli (n. 1948), artista attivo a Roma dove dirige la compagnia Il pudore bene in vista. Da molti anni ormai la sua ricerca si è orientata verso un’analisi delle modalità d’impiego della luce, utilizzata sia in funzione spazio-temporale sia come elemento drammaturgico nella costruzione dello spettacolo. Particolarmente interessanti per l’originalità dell’assunto sono gli interventi legati al progetto del cosiddetto teatro dei luoghi, nel quale un luogo reale, esplorato nelle sue caratteristiche tipologiche e nella sua identità, è assunto come testo e matrice del lavoro. Tra i diversi interventi realizzati in quest’ambito di ricerca si distingue, per la qualità poetica e l’intensa suggestione legata alle caratteristiche del sito prescelto, Numina (2000), realizzato nella necropoli etrusca di Cerveteri. Lo spettacolo è stato concepito come un itinerario notturno in cui la luce scaturiva dal paesaggio e dagli elementi che lo caratterizzavano, prendendo da essi forma, ma creando al tempo stesso nuove modalità di visione che incidevano sulla fruizione percettiva. Il percorso si snodava per stazioni, contrassegnate ognuna da un evento: dizioni di poesia, azioni danzate, interventi visivi condotti sulle preesistenze ambientali trasfigurate dalla luce come apparizioni. Ispirandosi alle arti divinatorie etrusche che comprendevano anche l’arte di leggere i fulmini, Crisafulli aveva concepito l’idea di un albero trafitto da linee spezzate di luce che evocavano l’immagine del fulmine. La luce era il vero motore dello spettacolo tutto costruito sull’inaspettato affiorare delle immagini dal buio lungo un percorso visionario che saldava gli eventi in atto allo spirito e alle memorie del luogo.
La poesia visiva della danza
Su tutto un altro piano più mentale e segreto, giocato sulla sottrazione e lo statuto effimero dei segni visivi, si colloca Métaphore (2006), uno degli ultimi spettacoli realizzato dalla coreografa e danzatrice Carolyn Carlson (n. 1943). L’evento, fondato sull’improvvisazione, ha riunito in scena le arti del tempo e dello spazio, come la danza, la musica, il canto, la pittura calligrafica che insieme hanno contribuito a creare una dimensione spirituale propizia alla rigenerazione dell’animo e al rifiorire delle emozioni. Affiancata dal suo antico compagno, Larrio Ekson, la Carlson ha dato vita a tutta una serie di azioni danzate sviluppate in armonia con il commento sonoro di canto e musica realizzato da un complesso che suonava dal vivo sotto la guida del compositore turco Kudsi Erguner. I movimenti danzati si sono trasformati in astratti arabeschi che un calligrafo, Hassan Massoudy, ha provveduto a tracciare sulla carta e a proiettare sullo sfondo in stretta contemporaneità con l’accadimento. Bandito qualsiasi tipo di ricorso alla tecnologia e a ogni pratica scenografica, il buio della scena era rischiarato soltanto da questi segni luminosi, effimeri e labili, come i gesti della danza, che inventavano uno spazio o meglio una dimensione non solo fisica, ma soprattutto di natura spirituale.
Bibliografia
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Opera per l’Ara Pacis – Mimmo Paladino/Brian Eno, a cura di A. Bonito Oliva, F. Pirani, J. Putnam, Museo dell’Ara Pacis, Prato 2008 (catalogo della mostra).
Si veda inoltre «Il Patalogo», Annuario del teatro, 2000-2008, 23-31.