La scienza bizantina e latina: la nascita di una scienza europea. Aspetti etici e sociali della medicina
Aspetti etici e sociali della medicina
di Chiara Crisciani
Il complesso di pratiche sociali, di valori e di rappresentazioni connesso alla malattia e alla salute nell'Alto Medioevo ‒ di cui qui è possibile delineare soltanto le coordinate principali, diffuse del resto in tutta l'Europa cristiana ‒ è definito essenzialmente da due caratteri: l'indifferenziazione e la valorizzazione religiosa. Indifferenziazione significa innanzi tutto che ‒ come segnala il lessico stesso di testi agiografici, di opere pastorali e di cronache ‒ l'area sociale e semantica coperta dal termine infirmitas è assai ampia e ha contorni fluidi; in essa non si riconoscono distinzioni nette tra povero, malato o pellegrino, né tanto meno s'identificano quadri clinici precisi o puntuali patologie definite da categorie mediche; il termine designa piuttosto una complessiva condizione di sofferenza (a volte dettagliatamente descritta a fini edificanti), di debolezza fisica, di dipendenza materiale, di privazione di dignità e di status. In secondo luogo, e soprattutto, l'indifferenziazione è riferita al fatto che lo stesso discrimine tra sani e infirmi appare assai labile; un peccato che provoca il flagello punitivo di Dio sotto forma di morbo e deformità ‒ o una carestia, o un inverno troppo rigido ‒ può repentinamente far passare il singolo o una comunità intera da uno stato all'altro. Nel sociale, d'altra parte, gli infirmi non sono oggetto di pratiche specificamente terapeutiche e neppure segreganti; con la loro presenza ossessiva e quotidiana, essi si mescolano ai sani nelle piazze e nelle fiere, nelle occasioni liturgiche e nelle chiese, nei pellegrinaggi sulle strade verso i santuari. Malattia e debolezza fisica non appaiono dunque come momentanei e rimediabili scarti o squilibri rispetto alla norma della salute; sono esse stesse la norma, tanto determinata da un ecosistema estremamente precario, quanto prontamente riconosciuta dalle categorie dell'antropologia religiosa. L'infirmitas infatti, e la malattia, sono uno dei tria mala che caratterizzano la natura e la storia dell'uomo da quando Adamo, con il peccato, ha perduto per sé e per la sua progenie anche l'integrità del corpo di cui godeva.
Connessa intimamente allo stato di degrado, e tuttavia alla speranza di salvezza dell'uomo caduto e viator, collocata all'intersezione tra corpo e anima, in quanto manifesta visibilmente nella debolezza e nel dolore fisici gli effetti e la punizione di peccati, l'infirmitas è dunque attraversata da una valorizzazione religiosa profonda e ambivalente che fa perno sulla polarità tra salute e salvezza; si radica pertanto nella gerarchia tra i primari fini dell'anima e gli inferiori bisogni del corpo, e promuove infine una pedagogia della sofferenza e della carità. Il malato infatti è al tempo stesso eletto e reietto; come espressione vivente del peccato, è esecrabile, ma è inteso anche come 'farmaco' e 'medico' perché ‒ monito per gli altri della fulminea e severa giustizia divina ‒ è un salutare esempio che può indurre a non peccare; diventa inoltre oggetto di atti caritatevoli con cui i sani, provvedendo misericordiosamente a lenire le sue sofferenze, si fanno in ciò imitatori di Cristo compassionevole e potenziano così la loro propria salute spirituale. Il malato manifesta il Peccato (e un suo peccato), ma esibisce sia la sua somiglianza con Cristo sofferente, dei cui patimenti diventa l'immagine speculare indefinitamente riproposta, sia la predilezione amorosa di un Dio giusto ma misericorde, che corregge duramente proprio coloro che ha più cari e i cui colpi risultano tanto più salutari (per l'anima) quanto più il malato, consapevole delle proprie colpe, sopporta la correzione tacitus e paziente.
Nel malato si condensano dunque valori e atteggiamenti discordi (ribrezzo e compassione, misericordia e punizione, ribellione colpevole e silenziosa pazienza), ma riorientati dalla finalità della salvezza dell'anima; nella figura di Cristo (il vertice da cui dipende questa rappresentazione) trovano coerenza simbolica le ambivalenze che segnano malattia, terapia e guarigione. Cristo è il vero e sommo medico perché riporta alla salute l'umanità inferma a causa del peccato (e di questa complessiva funzione soteriologica i suoi 'miracoli di guarigione' sono soltanto un segno), e al tempo stesso è 'malato' (avendo assunto pienamente l'infermità della carne dell'uomo), 'farmaco' salutare (per gli effetti salvifici della passione) e, infine, con la Risurrezione, pegno del riscatto (anche del corpo) per tutti gli uomini. Nel suo sempre compassionevole e talora miracoloso chinarsi sugli infermi, nella tacita sopportazione dei disagi della carne, dei tormenti e della morte, è il modello che tutti i cristiani ‒ sani e malati ‒ devono imitare nel finalizzare le sofferenze e le debolezze del corpo, proprio o altrui, alla forma più vera e salda di salute, quella dell'anima.
Laddove la malattia è un valore come farmaco spirituale (nel VI sec. è il papa Gregorio Magno, seguito poi da molti altri, a ricordare con insistenza quanta salus cordis sit molestia corporali), le cure del corpo e la stessa guarigione non sono da ricercarsi, a meno che non rientrino anch'esse in un più complessivo piano di salvezza, orientato dall'imitazione di Cristo o sorretto dalla potenza e dalle imperscrutabili scelte di un Dio giusto, severo e pietoso. Di qui il rilievo particolare dato nell'Alto Medioevo ai miracoli di guarigione, che fulmineamente risanano il singolo che si pente, o preservano una comunità di fedeli orante nella chiesa mentre è minacciata dalla morìa; di qui il ruolo curativo delle reliquie e della doppia terapeutica ‒ per l'anima e per il corpo ‒ che disegna la mappa dei santuari e dei pellegrinaggi; di qui, infine, anche il dovere di assistere gli ammalati, di soccorrere i sofferenti, di visitare languentes, dovere che alcuni esercitano in forme più istituzionali ‒ sacerdoti e monaci ‒ ma che tutti i cristiani, anche i più poveri, hanno comunque. Si esprime così ‒ prima ancora di essere definita nella struttura settenaria delle opere di misericordia, che si imporrà a partire dal XII sec. ‒ una carità tanto indiscriminata e generica, quanto indifferenziata: l'infirmitas. Dato che è condensazione di valori ambivalenti, sul malato si concentrano iniziative diverse, a vario titolo 'salutari': pratiche liturgiche, ammonimenti fermi alla sopportazione (le Admonitiones ad aegros di s. Gregorio Magno), interventi miracolosi, atti di misericorde assistenza, e soltanto raramente procedure propriamente terapeutiche, per lo più presentate come fallaci e inefficaci.
In questo quadro, infatti, ottengono poca considerazione le pretese, avanzate da una medicina intesa come scienza profana (presente benché immiserita quanto a testi e dottrine, e talora vista come contigua a pratiche superstiziose o a residui rituali pagani), di conseguire con mezzi tecnici la salute del corpo; le terapie che i medici propongono sono descritte come incerte e inaffidabili rispetto alla prontezza e all'efficacia dell'intervento curativo miracoloso di Dio e dei santi, e sono giudicate prodotto di futile curiositas, quindi inutili: soltanto Dio ha il potere di guarire. Le terapie mediche sono addirittura giudicate nocive, visto che interferiscono con l'uso 'farmaceutico' della sofferenza, vera medicina spirituale (lo rileva, ancora nel XII sec., il severo Bernardo di Chiaravalle in una lettera ai confratelli infermi). Si ritiene infatti che i consigli e le prescrizioni del medico, nell'apparente neutralità dei loro criteri, essendo centrati solamente sul benessere del corpo, possano favorire l'insorgere di peccati di gola, di lussuria, di incontinenza e di impazienza, e che in questo modo, con presunzione e curiosità, i medici finiscano per danneggiare, mentre pretendono di curare, la salute dell'anima propria e del paziente.
Nei santuari e negli ospizi, monaci e sacerdoti in un certo senso cumulano due funzioni terapeutiche; la cura dell'anima e un generico ristoro del corpo, dettato dall'imperativo della carità, si sovrappongono infatti in uno stesso luogo che si apre all'intervento specifico del medico soltanto più tardi e in condizioni mutate. Il vescovo Raterio di Verona (X sec.), annullando con una incalzante requisitoria qualunque pretesa di autosufficienza del medico, gli ricorda che ogni sua presunta competenza, ogni suo eventuale successo terapeutico sono di fatto sospesi direttamente e solamente alla volontà divina, di cui il medico al massimo può considerarsi un umile e grato strumento. Ancora nel XII sec., specialmente in ambienti monastici, risuonano valutazioni estremamente critiche sulla medicina profana, che contrappongono la schola Hippocratis, che cerca la salute, alla schola Salvatoris, che conduce invece alla salvezza.
I tratti di questo quadro si modificano in modo radicale proprio a partire dal XII sec.; resta però il coordinamento tra salute e salvezza, quali che siano gli aggiustamenti che si verificano nei rapporti tra medicina e religiosità. I nessi tra 'caduta', infirmitas e Cristo medico, individuati da un'antropologia religiosa di lunga durata, restano sullo sfondo della concezione della scienza medica e condizionano, con maggiore o minore incisività, aspetti rilevanti della professione e soprattutto i rapporti tra medici del corpo e medici dell'anima, tra medici e sacerdoti; essi costituiscono comunque il presupposto per l'elaborazione di varie forme di 'medicina spirituale', che resteranno valide ben oltre il Medioevo.
L'affermazione della medicina come scienza e professione
Il rinnovamento complessivo che si avvia con slancio nel XII sec. e si consolida nel XIII comporta effetti molto rilevanti nell'ambito della medicina; innanzi tutto, in presenza di articolazioni sociali più complesse, incomincia a sciogliersi l'indifferenziazione delle condizioni e delle relazioni intrecciate e riassunte nell'infirmitas. Povero e malato non si sovrappongono più quasi automaticamente; la povertà ‒ rileva per esempio Umberto da Romans, quinto generale dei domenicani, nella sua analisi antropologica della società cristiana del XIII sec. ‒ si può aggiungere alla malattia e ne aggrava la condizione, ma quest'ultima ha ormai caratteri propri. Carità e assistenza, prima indiscriminate verso ogni misero, tendono a definirsi in forme di carità 'ordinata', teorizzate accuratamente dai teologi, per cui si prevede che vadano privilegiati in primo luogo i congiunti e coloro che ci sono più vicini nella comunità.
Le pratiche e le istituzioni assistenziali diventano selettive (si distingue tra veri e falsi malati, tra malati colpevoli o innocenti) e si trasformano ‒ soprattutto tra il XIII e il XIV sec. ‒ in strutture e organizzazioni molto articolate, destinate a diversi tipi di bisognosi, infermi, invalidi, malati da curare in ospedali o da segregare in appositi spazi. La stessa costitutiva infirmitas dell'uomo continua certo a definirne la natura dopo la 'caduta', ma ai suoi effetti debilitanti si può ovviare, almeno parzialmente, con le arti meccaniche o tecniche e con la stessa medicina; il corpo e il suo benessere hanno infatti acquisito un relativo valore, anche agli occhi degli uomini di Chiesa, impegnati ora in compiti pastorali complessi nella nuova e più dinamica realtà sociale. Il corpo è sempre uno strumento da utilizzare per la salvezza dell'anima, però non più soltanto tramite la sua sofferenza e la mortificazione della carne, in quanto occorre, invece, garantire il buon funzionamento di questo fragile ma indispensabile involucro con cui si agisce nel mondo, per essere in grado di assolvere al meglio le funzioni e i compiti cui Dio ci destina.
Vanno in questa nuova direzione, soltanto per citare alcuni esempi significativi, le preoccupazioni di Pietro il Venerabile (1092-1156), abate di Cluny, circa una dolorosa affezione alla gola per la quale consulta il medico Bartolomeo da Salerno (uno dei principali maestri di questa scuola, in piena fioritura nel XII sec.); per quanto salutare per l'anima, il malanno ‒ così Pietro giustifica la richiesta di consulto ‒ gli impedisce di esercitare con efficienza il suo ministero. Più decisi e fermi sono gli avvertimenti e i rimproveri che alla metà del XIII sec. Umberto da Romans (nell'Expositio regulae beati Augustini) esprime contro quei confratelli, superbi nella loro ansia di mortificazione o pigri in colpevole trascuratezza, che rifiutano le cure mediche anche quando sono necessarie e come tali previste dalla Regola. Infine, sono molto significative le lodi di Francesco per 'frate corpo'; esso ci ricorda, sì, la nostra debolezza e le nostre colpe, ma è anche 'un amico fedele' che ci aiuta a servire Dio e i cui lamenti e bisogni vanno ascoltati.
Sempre in relazione alle più diversificate attività pastorali e di studio in cui gli uomini di Chiesa sono impegnati, si scioglie anche l'intreccio di funzioni e l'egemonia sulle due forme di salute che monaci e sacerdoti avevano detenuto; dal 1139 (II Concilio del Laterano) delibere conciliari vietano ai monaci, ai canonici regolari e ai sacerdoti che ricavano la propria sussistenza dalle cure pastorali (ma non ai chierici degli ordini minori) di dedicarsi allo studio e alla pratica di discipline profane e specificamente della medicina. Queste misure non puntano tanto a condannare la professione medica, quanto piuttosto a far sì che i sacerdoti si concentrino sugli studi teologici, e curino la loro preparazione specialistica e lo sviluppo delle competenze proprie dei medici dell'anima, evitando sovrapposizioni di compiti con i medici del corpo.
Anche il sapere medico consegue, tra il XII e il XIII sec., un alto livello di definizione disciplinare; il medico perviene a una specificazione più rigorosa delle proprie competenze e prerogative. La medicina si basa ormai su un patrimonio testuale ampio e ben articolato, incrementato dall'intenso lavoro di traduzione che ha reso disponibili le dottrine mediche greco-arabe; un continuo impegno di riflessione epistemologica provvede a coordinare questo sapere specialistico con la strumentazione concettuale e le teorie biologiche del sistema naturalistico aristotelico, anch'esso ormai pienamente acquisito. La trasmissione di questo sapere avviene ora secondo uniformi tecniche didattiche nell'ambito di un curriculum prefissato e ordinato, e si svolge all'interno delle nuove strutture istituzionali ‒ le Scuole di Salerno e di Montpellier nel XII sec., e poi soprattutto le università ‒ nelle quali la formazione del futuro professionista è verificata e sanzionata da un esame pubblico selettivo. Non è ovviamente più possibile ignorare, o svilire come frutto di curiositas, una disciplina che spicca ormai per la sua solidità testuale, per i legami che rivendica con le arti liberali e con la filosofia naturale, e che si presenta, specialmente in alcune università italiane, come il culmine del sapere naturalistico. Tanto più che fin dal XII sec. ‒ proprio col contributo dei nuovi testi e dell'approccio filosofico e scientifico dei medici ‒ si è imposta una prospettiva che consolida un piano di mediazione nei rapporti tra Dio, Natura e sapere (si ricordi l'orientamento filosofico e teologico innovativo della Scuola cattedrale di Chartres). I fenomeni naturali non sono più considerati come dipendenti direttamente da un atto puntuale e immediato della volontà divina, ma si concatenano, invece, in una rete di stabili regolarità e di nessi secondo cui Dio ha strutturato la Natura creandola, così come ha dotato l'uomo di una ragione in grado di indagare la razionalità che pervade la Creazione.
Nel caso specifico della medicina questa prospettiva comporta che Dio non intervenga più (o non primariamente) col miracolo, con il dono immediato della guarigione o col flagello punitivo del morbo, ma piuttosto conceda ad alcuni uomini il donum scientiae (cioè, per il medico, la capacità di indagare la struttura dell'organismo umano, il suo regolare funzionamento, le sue prevedibili disfunzioni e le terapie possibili), così come ha conferito alle erbe virtù salutari che il medico deve scoprire e utilizzare con la sua arte. La guarigione ottenuta con tecniche profane diventa così un valore, e la scienza che la propizia può qualificarsi come legittima per il suo radicarsi, benché mediato, pur sempre nella generosità divina. Essa si presenta anche come relativamente autonoma e suscettibile di incrementi; fondata su un dono di Dio, la medicina non ne contrasta i disegni, ne è piuttosto mediatrice. I doni di Dio sono, d'altra parte, soltanto potenzialità (capacità di ricercare e di scoprire; proprietà naturali celate da indagare) che il medico ha il compito di sviluppare e attualizzare con criteri razionali appropriati e autonomi, arricchendo continuamente il proprio sapere.
Il passaggio dalla valorizzazione esclusivamente religiosa dell'infirmitas a quella della dottrina e della perizia, l'approdo a una concezione della guarigione come frutto legittimo di un sapere specialistico dell'uomo (anche se garantito in ultima istanza da Dio), sono indicati chiaramente da una significativa sostituzione; prima del XII sec., nei discorsi sulla medicina è spesso ribadito il restrittivo monito di Esodo, 15, 26: "Io sono il Signore, colui che ti guarisce"; in seguito, si fa sempre più frequente il rinvio al mediato appello di Ecclesiaste, 38, 1, che invita: "Onora il medico come si deve secondo il bisogno, anch'egli è stato creato dal Signore".
Medici del corpo e medici dell'anima
Proprio sulla base del rilievo dottrinario indiscutibile che la medicina manifesta tra il XII e il XIII sec., si avvia a soluzione uno tra i più inquietanti problemi etico-professionali per il medico cristiano: quello della liceità di una mercede, cosa che appunto lo definirebbe come un professionista che offre il suo sapere specialistico come un servizio collegato a un prezzo, a una tariffa. Qui la professione medica entra in contrasto con quell'aspetto dell'ideologia religiosa che aveva appena contribuito a legittimare il sapere del medico in quanto proveniente in parte dalla generosità divina. Se infatti questo sapere è, almeno alla radice, donum Dei e se ciò che è di Dio non si può vendere, in qual modo il medico giustificherà il compenso che chiede? Inoltre, proprio la pretesa di una mercede contrasta con l'obbligo della carità verso i malati poveri che il medico ‒ come professionista costoso ‒ di fatto elimina come suoi pazienti e che invece ‒ come cristiano ‒ dovrebbe soccorrere caritatevolmente sull'esempio di Cristo, donando gratuitamente ciò che gratuitamente ha ricevuto.
Tra questi impegni e queste esigenze contrastanti, sul finire del XII sec. è raggiunto un accettabile compromesso, che non sarà più messo in discussione; a definirlo contribuiscono moralisti e medici, come, per esempio, Jacques de Vitry e soprattutto Gilles de Corbeil, già studente a Salerno e successivamente promotore degli studi medici a Parigi. Si prospetta un raccordo tra l'etica della carità e dell'assistenza ‒ che struttura i rapporti del cristiano verso il prossimo ‒ e il vincolo del dono ‒ che regola i rapporti verticali di scambio tra uomo e Dio. La soluzione poggia sul rafforzamento del valore attribuito al sapere dottrinario e alla perizia tecnica, e approda a una messa in ordine di tutti i rapporti in cui il medico è coinvolto, con Dio, con i pazienti ricchi, con i potenti e con i bisognosi.
L'idea di fondo è che, certo, il medico ha ricevuto un dono da Dio, e proprio perciò non deve sprecare i 'talenti' ricevuti (la predisposizione agli studi, l'intelligenza), ma farli fruttare studiando con il maggior zelo possibile per rispondere grato alla scelta divina e per diventare un appropriato (competente) mediatore della guarigione quando Egli intende concederla. Gli studi severi, l'impegno intellettuale continuo e faticoso, rendono perciò lecita la richiesta di mercede, perché il medico non fa pagare la guarigione in sé ma lo sforzo e il gravoso lavoro che ha compiuto e continua a compiere per non vanificare il dono ricevuto; infatti, Gilles de Corbeil afferma che la grazia di guarire non è una merce. Se nel corso del XIII sec. le prospettive teologiche sistematiche di Alberto Magno e di Tommaso, usando anche i testi politici di Aristotele, preciseranno lo statuto particolare della medicina come servizio oltre che come sapere, resta il fatto che ancora nei primi anni del Quattrocento il canonico inglese Giovanni di Mirfeld ribadirà come concetto ormai ovvio e diffuso che il medico non recipit pecuniam pro sanitate danda, cum illud sit gratia, sed pro labore suo; è per questo che il compenso non va detto pretium ma honor (l'attuale 'onorario').
Secondo i consigli di Gilles de Corbeil (nei quali riecheggiano posizioni galeniche, e che sono poi ripresi da medici e chirurghi, e avallati dai teologi), il professionista non chiederà compensi ai prìncipi e ai potenti; i doni che costoro gli fanno, la fama che il medico ricava da queste frequentazioni sono già ricompense sufficienti e di per sé produttive (a parte la difficoltà di vincolare con patti personaggi dalla posizione così elevata); chiederà invece il più possibile ai malati ricchi della 'classe di mezzo', e il rapporto tra il medico e questi pazienti sarà sanzionato da garanzie (e in seguito da un vero e proprio patto notarile). Il medico cristiano sarà allora in grado ‒ sulla base di una sicurezza economica lecitamente conseguita ‒ di elargire gratuitamente le sue prestazioni ai poveri, assistendoli caritatevolmente. Tra dono e mercede, tra tariffa e carità, si inserisce dunque una sorta di analisi socioeconomica e soprattutto è introdotta la mediazione del sapere, il cui possesso (che solo abilita alla riscossione di una mercede) d'ora in poi diventa il criterio primario secondo cui il medico cristiano imposta il proprio rapporto tra la salute (che quel sapere gli consente di promuovere negli altri) e la sua personale salvezza spirituale (cui sempre quel sapere, se autentico, lo può condurre). Non a caso, confessori, predicatori e teologi, quando censiscono le deviazioni morali o i peccati tipici delle varie professioni, collocano al primo posto, per il medico, l'ignoranza e l'imperizia (a causa delle quali egli può macchiarsi anche di omicidio); ai loro occhi questi peccati sono dunque più gravi della bramosia di lucro e della frode, su cui peraltro la letteratura moralistica religiosa e profana insiste con aneddoti e critiche feroci; da Giovanni di Salisbury, nel XII sec., a Francesco Petrarca e oltre, non a caso medicina e diritto sono dette 'arti lucrative'.
Sul valore di un sapere dottrinario efficace, moralmente legittimo e soprattutto specialistico, orientato a specifici obiettivi, e sull'articolazione, ormai riconosciuta e concordata, tra la salute del corpo e la salvezza dell'anima, si può ora impostare un rapporto di complementarità, talora di interferenza e di scambi reciproci ma non più di conflitto, tra il professionista della salute e un altro 'professionista', il curatore delle anime, il sacerdote, anch'egli dotato di specifiche competenze e incombenze; secondo quanto un medico, probabilmente Arcimatteo di Salerno, precisa nel XII sec. in un testo di istruzioni ai colleghi su come comportarsi nella visita al paziente, nella casa in cui soffre un malato cristiano il posto d'onore spetta sia al sacerdote sia al medico.
La contiguità dei fini e delle figure stesse del medico e del sacerdote era stata messa in evidenza già in testi patristici (nell'Epistula ad Nepotianum di Girolamo, nelle Variae di Cassiodoro), nei quali erano sottolineati però più i tratti etici e gli obblighi, i 'voti', che accomunano le due funzioni salutari e cioè il vincolo alla segretezza, il rispetto della castità, l'amore per il prossimo, il rapporto di responsabilità e di dipendenza che si instaura tra coloro che amministrano la salute e la salvezza e chi ‒ subditus o patiens ‒ si volge loro. Specialmente a partire dal XII sec., dagli stessi uomini di Chiesa sono invece apprezzati proprio il comportamento professionale e la dottrina del medico, in quanto atti a fornire veri e propri orientamenti 'professionali' al medico dell'anima, specialmente nelle due pratiche eminentemente curative ‒ predicazione e confessione ‒ che testi pastorali contemporanei definiscono ormai topicamente con una fitta rete di metafore medicali, in termini di prevenzione, di diagnosi e di terapia per i mali dell'anima. Si elabora così una 'medicina spirituale' che fa leva sull'analogia di scopi e di intervento ‒ sull'anima e sul corpo ‒ di medici e di sacerdoti.
Va qui precisato che i riferimenti alla medicina ‒ diventati così frequenti nella pastorale a partire dal XII sec. ‒ sono quasi ovvi nel cristianesimo, religione soteriologica che orienta alla salvezza a partire dal male del peccato; infatti, nozioni mediche, o meglio il lessico nosologico-terapeutico, hanno da sempre costituito ‒ come si è visto ‒ un serbatoio di termini, di metafore e di allegorie utilizzate, sia nella esegesi scritturale sia nelle opere teologiche e spirituali, per descrivere le vicende e i vizi dell'anima peccatrice e il suo riscatto in termini di vulnera, di languores, di remedia e di antidota. Per esempio, il Libro XIX dei Decretorum libri XX di Burcardo di Worms, dell'XI sec., segnala già nel titolo ‒ Corrector et medicus ‒ il carattere medicale della poenitentia cui il testo è dedicato, e sviluppa un dettagliato inventario di peccati-malattie con le rispettive correctiones, che sono appunto animarum medicinae; in alcuni opuscoli (De quinque septenis, De septem donis Spiritus Sancti) di Ugo di San Vittore (m. 1141) metafore mediche coordinate tra loro servono a inquadrare e a illustrare problematiche teologiche. Oltre alla confessione e alla predicazione, anche la tematica della scomunica e la teologia sacramentale sono ambiti in cui la metafora medica è largamente adottata.
Tuttavia, in alcuni testi del XII sec. ‒ per esempio nel De medicina animae attribuito a Ugo di Foulloy, canonico agostiniano, e nel Liber poenitentialis di Alano di Lilla, teologo a Parigi e poi monaco cistercense ‒ le metafore si sviluppano in analogie più articolate, e si evidenzia un'attenzione meno generica per alcuni aspetti specifici della medicina, a testimonianza appunto del credito e dell'influenza di cui ora la medicina gode come scienza e come professione. In entrambi i testi si apprezza infatti il sapere ben fondato e lo strutturato codice di comportamento del medico, e si rileva con rammarico che spesso i sacerdoti non hanno acquisito altrettanta perizia e non sono quindi in grado di assolvere i loro compiti (si parla di prelati responsabili di una comunità nel caso di Ugo, di confessori e predicatori nel caso di Alano). Nel De medicina animae si fa riferimento soprattutto al sapere fisiologico-naturalistico del medico (che Ugo sembra conoscere a sufficienza). L'utilizzazione delle dottrine mediche qui non va interpretata nel senso di una spiegazione causale (per cui, per es., la complessione sanguigna può dar conto di certi comportamenti peccaminosi); invece tutto è risolto in rinvii puramente analogici, per cui le caratteristiche di una complexio o di una disfunzione sono il primo termine dell'analogia nell'ambito di una complessiva similitudine tra corpo e anima, e servono a delineare struttura e patologia della sfera spirituale. Così, i vari tipi di cefalea e i loro sintomi illustrano, con un'analogia molto puntuale, una malattia dell'anima, cioè i vizi connessi all'attaccamento ai beni terreni; l'olio rosaceo, per esempio, che cura il mal di testa fisico, corrisponde al sacrificio dei martiri e, meditando su di esso, l'anima affetta da quei vizi può trovare ristoro. Il prelato ‒ lo spiritualis medicus ‒ dispone così di una speciale fisiopatologia dell'anima con cui può correggere i mali spirituali dei suoi subiecti, reggere il corpo della comunità e regolare le vicende della vita claustrale.
Nel Liber di Alano (strutturato quasi in due parti, una diagnostica e l'altra terapeutica) analogie e rapporto causale si intrecciano, e sono messe a frutto sia nozioni mediche sia, soprattutto, lo stile professionale del medico. Nella nuova personalizzata pratica della confessione e della penitenza non tariffaria non è più sufficiente disporre di una classificazione neutra di peccati-malattie e dei corrispondenti antidota; occorre invece ‒ proprio come fa il medico ‒ saper avvicinare il penitente, conquistarne la fiducia, interrogarlo con dolcezza ma in profondità sulle circostanze e le caratteristiche del suo peccare, connettere schemi generali e casi singoli per valutare l'effettiva gravità di un peccato, seguire il malato spirituale nell'intero decorso della sua malattia, dall'approccio alla diagnosi, alla terapia e alla convalescenza.
Alla luce del ruolo che nell'etica vanno assumendo l'inclinazione, l'intenzione e l'assenso, Alano insegna al confessore, a partire da notazioni fisiologiche fornite dalle teorie mediche, anche a tener conto della struttura complessionale del penitente, per meglio intendere la portata del peccato e calibrare la pena, e per non considerare colpe quelle che, senza assenso né intenzione, sono soltanto inclinazioni naturali moralmente neutre. La sua attenzione si concentra in maniera più decisa sull'articolata perizia, frutto di un solido sapere, di cui il medico dà prova nel rapporto col paziente e che sta alla base di diagnosi e di terapie efficaci. I sacerdoti, per lo più, non dispongono di questa attrezzatura, nella quale si integrano dottrina, comportamento codificato e sagacia; sono, appunto, imperiti e spesso quos debent sanare profundius vulnerant. Si regolino allora secondo il modello e l'esempio del medico: Sacerdos etenim debet gerere vicem
spiritualis medici; subditus vicem spiritualis aegroti; il primo dovrà dunque imitare (il rapporto analogico che Alano imposta con puntualità è prescrittivo oltre che descrittivo) la discrezione, la competenza nel concatenare le domande per ricavare una diagnosi sicura, la perizia nel graduare i rimedi e l'attenzione per la capacità di reazione del singolo paziente che ha di fronte, adottate dal materialis physicus e teorizzate nella sua professione.
Mentre l'esempio del sagace comportamento del 'medico perito' è riproposto nel canone del IV Concilio del Laterano (1215) che istituisce la confessione annuale, le istruzioni di Alano sembrano seguire, in più punti, proprio le norme che i medici stessi si danno in opuscoli come quel De instructione medici, attribuito ad Arcimatteo di Salerno, nel quale sono segnalate la presenza simultanea e la funzione complementare del medico e del sacerdote nella casa del malato.
Mandata Ecclesie: obblighi giuridici e valori etici
Occorre distinguere diverse componenti nella normativa e nell'etica della professione medica. Innanzi tutto, devono essere presi in considerazione quegli obblighi e quei divieti giuridicamente imposti e sanzionanti con i quali la Chiesa interviene a regolamentare l'esercizio della medicina; Umberto da Romans li definisce mandata Ecclesie; il chirurgo Enrico di Mondeville, che fu attivo a Montpellier e a Parigi nella prima metà del XIV sec., li nomina come documenta fidei catholicae; per Giovanni Gerson, cancelliere dell'Università di Parigi agli inizi del XV sec., sono, più tecnicamente, decretales medicorum. Si individuano inoltre orientamenti etici (monimenta) che sono proposti dai teologi alla coscienza dei professionisti in quanto cristiani, o che i medici stessi rielaborano dalla loro tradizione (di speciale importanza in questo senso sono alcuni testi del Corpus Hippocraticum, gli Aforismi di Giovanni Mesue e le parti iniziali delle principali Practicae arabe). Questi ultimi precetti si intersecano strettamente ‒ in una sintesi di etica e di etichetta ‒ con norme di comportamento professionale e di 'buone maniere' del professionista. Infine, giuridicamente vincolanti come i primi e frequentemente ripresi in forma più retorica e soggettiva nella precettistica professionale, vi sono leggi civili, decreti cittadini e statuti di corporazioni che regolano i rapporti tra professionisti diversi, tanto col paziente quanto con le autorità (v. oltre, par. 2).
Che il sacerdote sia convocato nel momento cruciale della malattia, quando appunto sono in gioco sia la salute sia la salvezza, è il principale mandatum che la Chiesa impone al medico, sanzionando così la doppia, simultanea e distinta, presenza e responsabilità dei due periti della salute. Nella delibera del IV Concilio del Laterano si rileva che "l'infermità del corpo a volte proviene dal peccato", e si ingiunge pertanto ai 'medici dei corpi', non appena si trovino presso un malato, di persuaderlo a chiamare i 'medici dell'anima'; conseguita la salute spirituale con la confessione, ed eliminata così anche una possibile causa di malattia, l'infermo potrà avvalersi con più efficacia della medicina del corpo. Questa normativa è nitida nel dettato e complessa nelle implicazioni. Se da un lato si ribadisce l'antico e primario nesso causale tra peccato e malattia, si riconosce, dall'altro lato, la specificità dell'intervento e anche delle preoccupazioni e delle esigenze proprie solamente del medico, che sono sottolineate in maniera esplicita; si afferma infatti che il sacerdote deve essere chiamato immediatamente, e non dopo la visita, affinché il malato non pensi che il medico dubiti di salvarlo, perda fiducia e finisca per aggravare, con la disperazione, il suo stato fisico.
Sull'importanza della fiducia-confidentia, dell'attivazione positiva dell'imaginatio del paziente ‒ che deve comunque essere indotto a sperare nella guarigione ‒ i medici insistono molto, presentandola come ingrediente terapeutico primario sia nelle trattazioni teoriche sia negli scritti sul comportamento professionale; non sempre però in questi casi è ricordato il decreto sull'obbligo della confessione; chi lo menziona ‒ per esempio, l'Anonimo salernitano del XII sec., o Arcimatteo o in seguito Nicolò Falcucci, rinomato professionista del tardo Trecento e autore dei Sermones medicinales septem, enorme testo di pratica medica ‒ lo fa rientrare nella più generale coerenza religiosa del medico cristiano, che deve essere in primo luogo fidelissimus cultor Dei, ministro di Dio e che, quando è presso il paziente, umilmente impetra la grazia di Dio ‒ primo e universale agente della guarigione ‒ e l'aiuto dell'angelo Raffaele. Benché questo imperativo sia correttamente inserito tra gli obblighi morali che il medico ha verso il paziente e non verso Dio ‒ così fa il sistematico Falcucci ‒, non risulta che i medici si curino di fissare peso e limiti di questa responsabilità, che è loro così perentoriamente addossata; il tema invece è dibattuto analiticamente nella letteratura pastorale delle Summe casuum (dall'Astesana all'Angelica e oltre): deve il medico consigliare o imporre la confessione? Il suo è solamente un obbligo di avviso formale, o deve accertarsi che il paziente obbedisca? Dovrà ‒ e quando, in quali circostanze ‒ abbandonare la cura di chi non provvede alla salute dell'anima? E così via. Si prevede del resto, almeno come suggerimento, che anche il sacerdote, una volta che abbia compiuta la confessione, esorti il malato a convocare il medico del corpo, pur non intromettendosi nella terapia.
Gli altri dettati conciliari relativi alla medicina e all'intreccio di salute e di salvezza sia per il professionista sia per il paziente riguardano il "non consigliare al malato per la sua salute corporea cose che si possono convertire in danno per l'anima" (Laterano IV), il divieto (largamente eluso, specie in alcune zone e in certi ceti) di fare ricorso a medici non cristiani ‒ che appunto più di altri potrebbero prescrivere atti contrari al bene spirituale ‒ e infine la ribadita proibizione a sacerdoti e monaci di esercitare la professione. Anche questi dettati sono analizzati ampiamente e discussi dalla casistica giuridico-penitenziale, e non particolarmente approfonditi ‒ anzi, quasi non menzionati ‒ dai medici. Quanto agli ultimi due, sono anche stati interpretati dagli storici come un sostegno della Chiesa, indiretto e forse consapevole, alla pretesa avanzata dai medici dottorati, formati nelle università, di conseguire il monopolio non soltanto nell'ambito della dottrina ma anche nell'attività professionale, così costosa e pertanto elitaria. Di fatto per tutto il Medioevo e nell'Età moderna diversi tipi di 'operatori' si confrontano sul mercato della salute, per cui questa pretesa dei medici è sempre insidiata da concorrenti di varia provenienza sociale; esisterebbe dunque una sorta di alleanza fatta di reciproci scambi tra i periti della salute del corpo e quelli dell'anima (v. par. 2).
Il fatto che da tempo comunque la Chiesa stessa abbia sancito ‒ e lo si è visto ‒ una netta divisione di compiti, e che non apprezzi che i religiosi si occupino della salute dei corpi attuando interventi che, 'distraendoli' dalle loro mansioni sacerdotali, sono spesso eticamente sconvenienti per il loro stato, nonché suscettibili di incoraggiare approcci che possono scadere nella superstitio, è testimoniato in maniera molto chiara dal Decem quaestiones de medicorum statu (del tardo XIV sec.), un'esaustiva discussione scritta da un teologo sui diversi aspetti etici della professione. Vi si legge che, senza alcun dubbio, gli apostoli hanno curato tanto l'anima quanto il corpo.
Per quanto riguarda l'altro obbligo, più direttamente incisivo e potenzialmente condizionante nella pratica del medico cristiano, ben presto i medici scolastici si curano di definire ‒ esprimendosi su problemi anche più rilevanti di questo ‒ i confini e i criteri propriamente profani del proprio sapere; le loro prospettive teoriche emergono da un punto di vista scientifico, apparentemente neutro e prettamente naturalistico, e sono finalizzate a un risultato efficace. Resta fermo che aborto, pozioni venefiche a fine delittuoso e interventi dannosi per il malato sono proscritti dal Giuramento ippocratico; benché talora variamente interpretati, questi divieti fanno comunque parte dell'etica del medico cristiano, proprio per questo apprezzata da alcuni autori religiosi. Non è però agevole valutare se, nella pratica quotidiana di visite e di direttive terapeutiche, le considerazioni fisiologiche su diete, digiuno e attività sessuale si traducessero poi in prescrizioni particolarmente attente ai rischi morali che potevano derivare dai suddetti suggerimenti igienici. Certo, qualcuno ne tiene esplicito conto; Bartolomeo da Montagnana, per esempio, docente illustre e professionista famoso a Padova nel XV sec., nei suoi Consilia rileva la dannosità dietetica del pesce, ma ne descrive poi tipi e modi di cottura giacché propter sacre legis reverentiam non semper licet comedere carnes.
Tuttavia ‒ che sia questa un'ormai topica ripresa di antiche diffidenze e contrapposizioni, o la critica di un'eccessiva autosufficienza naturalistica nella pratica terapeutica ‒ nel Florarium Bartholomei del canonico Giovanni di Mirfeld (dell'inizio del XV sec.) si rimarca ancora che raramente accade che i medici siano anche buoni cristiani: non enim in operibus suis ostendunt se esse discipulos Christi, sed Avicenne et Galieni; Giovanni, del resto, è piuttosto critico anche con i 'medici spirituali moderni', specie perché curano ignorando l'arte della 'medicina spirituale'.
Monimenta, deontologia ed etichetta
Qualora invece si passino in rassegna le qualità e le virtù che i medici ritengono di dover possedere e che consigliano, emerge un comportamento dal profilo etico assai elevato; tali indicazioni non sempre sono proposte in vista di un esplicito obiettivo di rettitudine etica o di salute dell'anima, ma sono sempre considerate utili anche soltanto per un esercizio corretto e proficuo sia dell'arte sia della professione. Molti comportamenti suggeriti, mentre sono raccomandabili in generale, risultano necessari soprattutto per potenziare tanto la concentrazione quanto la sagacia, entrambe indispensabili nella diagnosi, e per favorire rapporti ottimali con le molte figure con le quali il medico interagisce nel corso di una terapia. Questi testi sono scritti da medici professionisti come contributo isolato o come parti iniziali di opere più ampie che spesso presentano i caratteri di summae della medicina teorica e pratica. Sia nei trattatelli sia nei capitoli dedicati al comportamento del medico si tiene conto della tradizione precedente nell'alveo della quale i precetti si ripetono con notevole continuità, pur essendo variamente ordinati e commentati dai singoli autori.
Nei testi più antichi le qualità e le virtù del buon medico sono abbastanza generiche, mentre dal XII sec. in poi la trattazione di queste tematiche diventa più puntuale, ampia e articolata, sia perché la professione si afferma e si struttura nella società urbana, sia perché, ovviamente, i medici partecipano dei profondi mutamenti dell'etica avviati in quest'epoca e devono tenere conto delle direttive anche pastorali sia, infine, perché hanno ora a disposizione anche i testi arabi e greci sull'argomento. Fra le trattazioni più rilevanti scritte tra il XII e il XV sec., meritano un'attenzione particolare: l'anonimo De adventu medici ad egrotum attribuito ad Arcimatteo di Salerno, di cui esistono versioni anteriori e versioni più tarde; il Flos medicinae, parte dell'ampia raccolta anonima salernitana in versi, il Regimen sanitatis, che si stratifica a partire dal XIII sec.; il De cautelis medicorum habendis, assai simile al testo di Arcimatteo, attribuito con poca fondatezza ad Arnaldo da Villanova, che invece è il sicuro autore dell'importante e originale Medicationis parabole, che si allontana decisamente dal tono abituale di questa trattatistica; il De cautelis medicorum habendis del medico bolognese Alberto Zancari (del XIV sec.); le Differentiae II e VII del Conciliator, il testo forse più celebre di Pietro d'Abano, docente di medicina, filosofia naturale e astrologia a Padova tra il XIII e il XIV sec.; alcuni notabilia, o capitoli speciali, della Cyrurgia di Enrico di Mondeville, nei quali l'autore, proprio come intende significare la scienza e l'arte della chirurgia, stabilisce anche le regole del comportamento professionale del chirurgo, soprattutto per quanto riguarda i suoi rapporti con i medici da un lato, e con i barbieri e gli empirici dall'altro lato; infine, il Sermo I di Nicolò Falcucci, che nei capitoli 9-13 fornisce una sistematica panoramica dei comportamenti corretti del medico verso Dio, verso sé stesso, la propria fama e salvezza, nonché verso i pazienti, i loro parenti e coloro che li assistono.
Oltre a ricordare gli imperativi ippocratici circa l'affabilità, la sollecitudine per il benessere del malato, il comportamento casto verso le donne della casa e la complessiva discrezione, tutti questi testi prescrivono che il medico non sia dedito al vino, lussurioso, iracondo e litigioso, troppo ambizioso e presuntuoso. Egli sarà invece capace di sottrarsi alle partigianerie cittadine, vivrà appartato e con frequentazioni impeccabili, non invischiato in transazioni mercantili ma conscio di svolgere un ruolo importante nella città; avrà stile di vita e comportamenti eticamente corretti, che al tempo stesso favoriscono gli studi e costruiscono un'immagine pubblica ineccepibile, fonte di buoni rapporti, di prestigio e di quella fiducia così indispensabile. Legate comunque a questa fiducia e alla prudenza che guida al successo, vi sono poi istruzioni ‒ a metà tra l'etica, la pratica scientifica e la prudente sagacia professionale ‒ in merito alla tempestività, alla durata della terapia, nonché alla pericolosità degli interventi.
Da tutte queste norme comportamentali emergono due rilevanti preoccupazioni del professionista, connesse alla confidentia che deve suscitare ma anche al suo prestigio e cioè la gestione della fama e dei rapporti umani durante la terapia mediante opportuni modi dell''apparire' e forme del 'comunicare'. Si tratta di aspetti retorici e per così dire 'spettacolari' della professione, ai quali i medici dedicano un'analisi minuziosa e attenta. Per l''apparire' ‒ già fondato dallo stile di vita anche eticamente valido e garantito soprattutto, al di là della più estrinseca apparenza, dalle doti intellettuali del medico, dalla sua scientia e dai successi terapeutici, valori posti sempre in primo piano ‒ basta suggerire alcuni elementi ulteriori che concernono propriamente l'aspetto esteriore, il volto atteggiato alla benevolenza e all'ottimismo, il gestire pacato, l'incedere non precipitoso e scomposto, il vestire ricco ma non pomposo, eventualmente un bel cavallo. Questi espedienti sono per lo più moralmente irrilevanti, ma socialmente significativi e retoricamente efficaci per favorire la considerazione, la fama e dunque un aumento di confidentia e di mercede. Il 'comunicare', legato pur sempre anche a questi fini ‒ nonché, più intimamente, al valore di verità del sapere ‒ comporta invece scelte etiche più consistenti, attentamente valutate infatti anche dai teologi; queste scelte sono tenute comunque presenti dai più cinici e pragmatici dettati del testo salernitano Flos medicinae ‒ in cui la comunicazione appare retta prevalentemente dalle regole della mercede ‒ al profondo impegno religioso e spirituale che anima le Medicationis parabole di Arnaldo da Villanova.
La gamma di sfumature tra verità e reticenza col paziente e coi congiunti, tra critica aperta e solidale copertura verso i colleghi professionisti ‒ specie se chiamati a consulto ‒ è accuratamente calibrata dal medico, il quale deve tenere conto contemporaneamente delle esigenze psicologiche del malato, della propria fama, delle effettive difficoltà scientifiche nel formulare diagnosi e prognosi, delle insidie della concorrenza, nonché dell'intromissione necessaria, ma talora improvvida, di parenti, di amici, di infermieri. Resta fermo il primo imperativo per cui Convenit esse medicum efficacem in opere, non loquacem; quia morbi, non vocibus, imo rerum essentiis aut viribus expelluntur (Arnaldo, Medicationis parabole, VI, 1). Un dettato, questo, che forse rinvia criticamente alle rudi istruzioni del Flos ‒ per cui il medico fornirà soltanto parole vane o erbe inutili a chi non paga ‒ e che è comunque proposto anche da autori religiosi come modello ai predicatori, che devono parlare sì, ma in forma efficace, sull'esempio dell'operare del medico; ciò è sintetizzato nelle parole di Umberto da Romans: Non quaerit aeger medicum eloquentem, sed illum qui sanare potest. Fatto salvo dunque un impegno non verboso ed efficace, la retorica del parlare e del tacere ha poi un peso professionale ed etico assai rilevante per il medico; egli sarà non loquax, non bilinguis, tardus ad loquendum, ma anche cautus in silendo, tacitus corrector degli errori altrui e non detractor, esplicito e pedante nelle istruzioni agli assistenti, segreto e muto su fatti e dati, patologici e non, che ha appreso dal paziente. Con quest'ultimo, in particolare, il medico sarà fermo ma dolce e affabile nel parlare, servendosi il più possibile di formule cautelative e vaghe, nonché di 'parabole'; non deve infatti vergognarsi di essere chiamato parabolanus, giacché l'evengelica lectio insegna che Cristo stesso, Summus Medicus, fu parabolano in parabolis loquendo (Arnaldo; Nicolò Falcucci).
Anche i testi di provenienza religiosa ‒ messi ovviamente in primo piano i mandata Ecclesiae e considerate anche le varie espressioni del peccato di frode, legalmente analizzato più in leggi e statuti che in scritti deontologici ‒ sono sensibili alle esigenze di honorabilitas del medico; secondo l'autore delle Decem quaestiones i medici devono essere certi de probitate morum et pericie artis, e chi, come loro, esercita un pubblico ufficio deve rifulgere per claritate morum et fame. Dal modello di predica per studenti in medicina proposto da Umberto da Romans alla oratio per coloro che hanno concluso il corso di studi medici formulata da Giovanni Gerson, tutti questi testi concordano pienamente con quelli dei medici nell'enfatizzare il valore anche etico del sapere dottrinale, condizione necessaria per evitare il massimo peccato del medico, l'ignoranza; le Summe casuum specificano poi che la competenza non è garantita solamente dal corso di studi, ma va valutata coscienziosamente dal medico in ogni nuovo caso, e va soprattutto continuamente aggiornata; pecca chi si accinge, per non minare il proprio prestigio, a intervenire in situazioni troppo difficili rispetto alla sua effettiva perizia in quel momento. Sostanzialmente in sintonia appaiono medici e teologi anche nella riserva ‒ netta ed eticamente motivata nei secondi, più oscillante e più di tipo scientifico-operativo nei primi ‒ sui rischi etici e terapeutici dell'introduzione di pratiche e di farmaci nuovi, non garantiti da autori, dall'uso e dal largo consenso della comunità scientifica.
Nel complesso, se si confrontano gli scritti di varia provenienza (professionale, giuridica, teologica) che tra il XII e il XV sec. concorrono a definire l'etica composita del medico, si constata in quest'ultima un'integrazione relativamente buona di nuclei tradizionali e di imperativi cristiani; le novità medievali sono principalmente costituite, oltre ai mandata, dall'assetto del problema della mercede e della cura gratuita dei poveri. Si riscontra inoltre una notevole coordinazione tra i due contesti; i teologi sembrano conoscere bene gli ambienti nei quali operano i medici, gli incontri e gli eventi che devono fronteggiare, e in buona misura riconoscono le loro esigenze professionali e sociali; i medici, a loro volta, accettano più o meno esplicitamente i decreti ecclesiastici, e incorporano i dettami morali, che per altro già rientrano per lo più nella loro tradizione deontologica.
Se le due serie di monimenta coincidono largamente e si coordinano nel proporre regole di comportamento, vanno notati, però, segni di distinzione pur nell'accordo di prospettiva; dove il punto di vista del teologo, nel delineare tali regole, mette ovviamente a fuoco possibili vizi, virtù, peccati (invidia e superbia con i colleghi, egoismo o carità col malato, amor proprio e ostentazione, orgoglio o umiltà intellettuale), il punto di vista medico le presenta in genere più secondo l'angolatura dell'etichetta professionale, e le lega alla preoccupazione del 'buon nome'; come afferma Enrico di Mondeville, il medico ad bonam famam quantumcumque potest laboret. Così, dove il teologo rimprovera sia la fretta sia la lentezza nella cura ‒ fonti di peccati di negligenza e di frode ‒ analoghi avvertimenti dei medici rinviano esplicitamente a difficoltà diagnostiche, a rischi operativi disdicevoli, al mantenimento di un contegno che incuta soggezione; così, ancora, tutti rammentano come ovvia l'assistenza gratuita ai poveri, ma Pietro d'Abano, per esempio, la connette, certo, ai doni divini gratuitamente ricevuti, ma anche all'auspicio che da gesti pietosi laudabilis consurgat fama.
Medici, salvezza e medicina spirituale
Contemporaneo di Pietro d'Abano, altrettanto influente sotto il profilo scientifico e accademico, Arnaldo da Villanova è professionista famoso, medico personale di papi e sovrani; docente autorevole dell'Università di Montpellier in cui promuove il rinnovamento degli statuti e del curriculum; fautore ‒ con le sue traduzioni ‒ della 'introduzione del nuovo Galeno'; impegnato, infine, nella riforma religiosa collegata al movimento dei francescani spirituali di Provenza. Rispetto a Pietro d'Abano, accusato di posizioni naturalistiche eterodosse e forse di determinismo astrologico, pur nella relativa somiglianza nelle basi dottrinali e nell'impegno scientifico, Arnaldo esprime tutt'altro senso di religiosità nella sua attività di professionista di grande successo. Egli infatti collega il suo impegno scientifico e professionale a personali e rischiose iniziative per una riforma religiosa, pur mantenendo una distinzione di principio tra la sua funzione di medico ‒ mai contestato ‒ e quella di profeta, zelatore dell'evangelica verità, accusato invece di eterodossia religiosa. Se condivide per lo più le usuali norme della tradizione deontologica, proprio come medico le radica in una più profonda consapevolezza religiosa, e ribadisce in varie forme sia l'ineludibile fondamento in Dio della scienza medica e del dono della salute sia l'ineluttabile inutilità, anzi nocività, di una pratica che sia animata da desiderio di lucro e non da sincera ansia di sapere, sia infine la necessità di operare essenzialmente ad honorem et gloriam Dei (Medicationis parabole).
Arnaldo è una figura troppo peculiare per essere emblematica; altri medici però, anche senza la sua ispirazione religiosa, sanno andare oltre le formule stereotipe e tradizionali di dipendenza dalla volontà divina per segnalare gli speciali rapporti che legano la medicina come scienza e come pratica a Dio, e per rivendicarne la particolare religiosità. Enrico di Mondeville, per esempio, deve rammentare a pazienti superstiziosi e ignoranti che non sempre e non tutte le malattie sono punizioni divine; che non è solamente Dio a sanare, ma anche i medici e i chirurghi, pur col suo aiuto, e si oppone a una lettura spiritualistica e metaforica dei versetti dell'Ecclesiaste, 38, 1. Recupera poi, per rafforzare i fondamenti della sua disciplina, il tema del Summus Medicus e rileva che Deus ipse fuit cyrurgicus quando, operando con le mani, creò Adamo e dalla sua costola la donna, e che Cristo, operando i suoi miracoli curativi con atti manuali, indubbiamente ha mostrato che opus cyrurgicum prae aliis approbatur. Teso tra due istanze da equilibrare per riconoscere sia la fondante potenza divina sia l'autonomia della propria scienza e arte, e al di là di queste retoriche rivendicazioni, anche Enrico di Mondeville sviluppa, come altri, il tema del rapporto privilegiato tra medico e Dio in termini di ministerium. Il medico è ministro di Dio perché incanala e media i suoi doni, accettando i propri limiti, egli non fa miracoli, ma segue e controlla la Natura. Sarà pertanto per il paziente un Deus terrenus, perché conosce gli archana Dei in secretis naturae, e il malato gli dovrà obbedienza come a un padre e a un maestro (Quaestio anonima, XV sec.).
Proprio sul rilievo della conoscenza teorica in prologhi e in orationes universitarie si specifica una peculiare istanza religiosa della medicina, specialmente nel XIII e nel XIV sec. e nelle università italiane, dove il rapporto tra medicina e filosofia naturale è istituzionalmente molto stretto, il medico acquisisce ampie conoscenze filosofiche, ed è per lo più pienamente padrone della filosofia aristotelica, non soltanto naturalistica. Già il sapere vero non può che accompagnarsi a costumi retti (per Gentile da Foligno il medico è vir scientificus bonis moribus adornatus); esso rende il medico-filosofo partecipe di un consortium divinum di intelletti uniti a Dio dalla luce della verità, e lo fa accedere a una forma di deificatio; per di più, penetrando le cause più latenti dei fenomeni naturali e occupandosi del corpo umano, vertice e fine del Creato, il medico più di altri riconosce la grandezza del Creatore. Il sapiente medico è Deus humanus, socius Dei e suo vicario, per il sapere che ha sviluppato da un Suo dono e con cui può meglio lodarlo, riconoscendo umilmente la propria pochezza. Non stupisce che, reinterpretando il De lege ippocratico un autore anonimo, nel Sermo de operatione medicina a Deo rilevi allora che la medicina inter artes maxime appropinquat scientie divine e verte su res sacre (Città del Vaticano, BAV, Vat. lat. 4464).
Se questa particolare accentuazione anche etica di quel bonum divinum che è il sapere delinea, in certi medici scolastici italiani, un percorso essenzialmente teoretico verso un 'sommo bene' e una 'salvezza' forse troppo filosofici, in realtà già da tempo anche i teologi indicano nello studio e nella scienza il fondamento dell'etica medica. Del resto i medici stessi rilevano che questo sapere è anche necessariamente operativo, forse il più utile di tutti perché concerne la salute del corpo, divenuta ora condizione di ogni altro bene e virtù. Pertanto, se il medico agisce con recta conscientia e sulla base di una recta scientia, e cura i poveri gratuitamente, non ha bisogno di offrire elemosine e fare pellegrinaggi. Come ricorda ai futuri chirurghi Enrico di Mondeville nella sua Chirurgia ex scientia vestra potestis salvare animas vestras et sine paupertate vivere atque mori […] et exultare, quoniam merces vestra copiosa est in coelis; se splende la perizia del medico e se lo anima la carità, con le sue opere apud Deum merebitur gratiam et ab hominibus et emolumentum.
La distinzione di funzioni, le delimitazioni di competenza e la fondazione scientifico-naturalistica della medicina, non impediscono dunque ai medici di declinare anche religiosamente aspetti e scopi della loro attività in termini di salvezza della propria anima, di valorizzare la potenzialità religiosa che l'analogia tra la salute e la salvezza da sempre comporta, e anche ‒ è il caso di Arnaldo ‒ di approfondire tale analogia in direzione di una medicina spirituale. Nel commento alle Medicationis parabole, egli afferma che il beneficium sanationis si ricerca in ogni tipo di caduta-mancanza, corporea o spirituale, in cui incorre il vivente (qualifica che include tanto il corpo quanto lo spirito). Alla lettera perciò la doctrina medicandi che Arnaldo propone riguarda il corpo, ma tramite la similitudo, o parabola, i suoi canoni convenienter possunt spiritualibus lapsibus adaptari: nam invisibilia per visibilia designantur (Commentum in quasdam parabolas, VI, 2). Va notato che Arnaldo, pur sviluppando motivi etico-religiosi rilevanti nel commento ad alcune parabole, non opera questo adattamento ma lascia ai lettori il compito e la libertà di capire per oportunas similitudines (di cui ha fornito il generico codice all'inizio) alia quae non sunt scripta. In molti altri suoi scritti devozionali, polemici e profetici, egli usa invece metafore e analogie mediche con un lessico notevolmente specialistico e con una certa abbondanza; in forma più perspicua certo, ma non diversa, per principio e quantità, dall'utilizzazione che teologi e pastori continuano a fare dei riferimenti così evocativi e convincenti che si possono trarre dalla medicina: segno che, anche nell'altra direzione, la separazione di compiti che ha progressivamente allontanato i sacerdoti dalla pratica medica non li allontana dalla medicina.
Proprio l'ampiezza e l'articolazione scientifica della medicina scolastica, il suo naturalismo filosofico e il suo stile di analisi assai dettagliato, se da una parte sono tra i fattori che, a partire dal XIII sec., portano a eliminare Galeno come interlocutore nei dibattiti teologici, dall'altra costituiscono anche la garanzia di una solida struttura disciplinare cui si può fare riferimento. Al di là della medicina spirituale, o dei puntuali rinvii a Galeno, è ancora tutto da valutare l'effettivo uso delle dottrine dei medici nella teologia del XIII e del XIV sec.; quest'uso sembra cospicuo, specialmente per quanto riguarda il problema dei rapporti tra anima e corpo. Del resto, se i sacerdoti e i medici hanno compiti diversi, nelle università e negli Studia è condiviso uno stile di formazione che rende più agevoli le informazioni reciproche e l'uso di una strumentazione, concettuale e comunicativa, omogenea.
Nell'ambito della medicina spirituale, tra i molti, si segnalano due casi significativi. Bonaventura intitola De medicina sacramentali la parte sesta del Breviloquium, e sviluppa nel testo quelle analogie tra morbo e peccati, sacramenti e medicamenta, rette dall'immagine di Cristo medico sommo ed espertissimo, che già si erano moltiplicate nel XII secolo. Se una generica metaforizzazione in teologia perdura anche nel XIII sec. e oltre ‒ e ciò non è certo privo di significato ‒ a essa corrisponde una più pregnante utilizzazione di analogie mediche nella pastorale; la Summa de exemplis del domenicano Giovanni da S. Gimignano ne è ricca in particolare nel Libro V, che illustra gli exempla traibili dal corpo umano. La più rilevante differenza con gli autori del XII sec. già esaminati sta proprio nell'adozione di un lessico medico di alto livello specialistico, nella conoscenza di dettagli e di autori (che sono citati con competenza) e soprattutto nella costruzione di analogie, funzionali o strutturali, che mantengono con relativa coerenza nell'ambito spirituale la corrispondenza dettata dal sistema corpo-medicina-cura (laddove Ugo di Foulloy, per esempio, aveva invece elaborato spesso corrispondenze meno perspicue e più governate dalla dominanza del tema dell'anima).
Riassumendo quasi un percorso secolare, agli inizi del Quattrocento Giovanni Gerson, nella sua commendatio della medicina ‒ lode prudente, anche ammonitiva ma ferma e ricca di argomenti ‒ riprende i temi dei decreti ecclesiastici, dei limiti entro i quali i medici devono mantenere la loro scienza, del valore etico del loro sapere, della fondazione divina della conoscenza medica (che è in un certo senso Verbum Dei). Ricorda, come già aveva fatto Umberto da Romans, che si possono distinguere tre forme di medicina spirituale: quella che, con la sofferenza del malato, permette di conseguire la salute dell'anima; quella che, a partire da nozioni mediche, consente di interpretare meglio i testi delle Scritture; infine, quella che sviluppa analogie tra l'anima e il corpo e le rispettive malattie e guarigioni, e che ai suoi occhi è senz'altro assai fruttuosa. Gerson nella sua Oratio pro licentiandis in medicine (IV, col. 715) rileva comunque, da un lato, le potenzialità religiose che la conoscenza e l'esercizio dell'arte comportano per i medici (la medicina manuducit ad elevationem mentis in causam primam et Leges aeternas, ad mores componendos et conquisitionem virtutum, si vera debitaque religiositate et pietate, qua decet, pertractetur); dall'altro, dedica un'intera sezione alla probabile utilità incomparabile della medicina come base di similitudini efficaci nell'ambito della curatio spiritualis: praedicatores exhortatoresque virtutum moralium, doctores sancti atque theologi vi hanno fatto ricorso, e giustamente continuano a farlo giacché, partendo dalla medicina, appare più facile il transito ad scribendum librum conscientiae.
di Jole Agrimi
Istituzionalizzazione e professionalizzazione
Il passaggio dal XII al XIII sec. segna una svolta decisiva nel consolidamento degli studi di medicina, nell'assestamento del ruolo sociale del medico e nella ridefinizione della sua funzione e della sua figura professionale. Con l'introduzione nell'insegnamento universitario, la medicina assume un assetto epistemologico e dottrinario originale e di lunga durata che caratterizzerà la professione come attività intellettuale e specialistica. In questo senso lo sviluppo professionale della medicina è stato forse il contributo più peculiare dell'università medievale alla medicina moderna (Bullough 1966).
Prima del XII sec. la pratica medica, al pari dell'istruzione, era appannaggio di operatori non professionisti come uomini di Chiesa nei santuari, nei monasteri e negli ospizi, empirici nelle aree urbane, guaritori e vecchiette nei villaggi. I primi assolvevano l'obbligo religioso di assistere i deboli e gli infermi, e il compito del 'chierico' di assicurare la conservazione e la trasmissione del sapere medico antico. Gli altri formavano un gruppo composito e disorganizzato di terapeuti illetterati che si tramandavano il 'mestiere' seguendo una tradizione familiare o le conoscenze accumulate dal sapere popolare, talora frammiste a pratiche superstiziose.
Nel corso del XII sec. il quadro complessivo appare già più variegato. La pratica curativa è ancora frammentata e indifferenziata, e tuttavia comincia a delinearsi un'attività terapeutica più articolata; oltre ai medici, generalmente formati nelle scuole episcopali e monastiche, e agli infirmarii, addestrati nelle infermerie dei monasteri e degli ospizi, i documenti lasciano emergere figure minori, per lo più operatori di salassi (phlebothomi, ventosarii, minutores, rasores). Si tratta di layci, che operano ai margini di quegli stessi spazi e praticano mestieri su cui si addensano ancora preoccupazioni e proibizioni della Chiesa (vagatio e curiositas) o tabù come quello del sangue; mestieri connotati per questo motivo negativamente, ritenuti vili perché manuali, mechanici (Le Goff 1977).
Professionalizzazione della medicina e istituzionalizzazione della formazione del medico costituiscono i due aspetti complementari di uno stesso importante processo, che si avvia fra la fine del XII e l'inizio del XIII sec. e che esprime profondi mutamenti in campo sociale, politico ed economico, come anche in quello culturale, ideologico e religioso. Determinanti sono alcune trasformazioni della 'mentalità' che riguardano la costruzione di un sapere sull'uomo e cioè l'attenzione per il corpo, fatto oggetto di conoscenza, di cura, di disciplina; la valorizzazione della salute psicofisica; la progressiva caduta del tabù del sangue. Esse orientano in modo nuovo, gerarchico (nobile, meno nobile, vile) più che oppositivo, l'antica polarità tra i mestieri leciti e illeciti, rendendo attuale la richiesta per il medico di una formazione dottrinaria e di una qualificazione professionale capaci di garantire contemporaneamente la padronanza dei principî teorici, delle conoscenze specialistiche e dei modi operandi da una parte, e l'osservazione diretta dei malati, l'esperienza delle malattie, la perizia diagnostica e prognostica, l'efficacia terapeutica dall'altra. Nascono così quegli 'specialisti del corpo', come li ha definiti Jacques Le Goff, che sono i medici e i chirurghi, con le loro rispettive competenze, e con una 'coscienza di sé' che si ricostruisce a poco a poco, attraverso la rivendicazione di una propria tradizione scientifica e professionale libera da interferenze religiose, e autonoma rispetto a forme di sapere e metodi di guarigione di tipo empirico, magico o popolare.
I divieti conciliari, che si susseguono per impedire al clero regolare l'esercizio professionale (ma non lo studio, né la pratica) della medicina, il riemergere di una medicina laica dotta ‒ litteralis ‒ favorita dall'istituzione di scuole 'libere' come a Montpellier e a Salerno, le spinte associative e poi corporative, accelerano la trasformazione di attività ancora saltuarie o troppo generiche, e di figure e funzioni non ben definite giuridicamente in gruppi organizzati e mestieri leciti. Anche la nomenclatura latina e vernacola per designare queste figure si arricchisce: medicus, physicus, cirurgicus, apothecarius, mire, mege, metge, medicho, phisico, ciroico, speziale, surgeon, physician, ecc. All'inizio questi termini non corrispondono a vere e proprie qualifiche, ma la discriminante della formazione universitaria diventa presto il criterio fondamentale in base a cui si distingue tra una generica attività terapeutica e la professione medica; si differenziano i livelli e si disegnano i profili professionali all'interno della pratica medica. Le università conferiscono titoli di studio che hanno un duplice valore professionale; infatti, essi abilitano contemporaneamente sia all'insegnamento sia alla pratica dell'arte di curare e guarire. A partire dal XIV sec. i professionisti, i medici come i giuristi e anche i teologi, hanno nell'istituzione e nella formazione universitaria, comunque in un'istruzione di tipo superiore, le ragioni della loro identità come comunità scientifica e professionale nonché la garanzia della loro promozione economica e sociale.
Nonostante il processo di 'accademizzazione' della professione medica sia in quest'epoca già molto marcato, soprattutto in Italia, in Francia e in Spagna, dove le facoltà mediche sono più numerose e potenti, per largo tratto la pratica medica presenta ancora una sovrapposizione di figure ‒ medici, chirurghi, barbieri, oculisti, cavadenti, mediche, levatrici ‒ al crocevia tra specialismo, generica polivalenza e semiprofessionalità. Del resto, la medicina medievale nella sua attività terapeutica resta in buona parte un mestiere, in cui non mancano occasioni di contatti e di convergenze, e non soltanto di concorrenza e di scontri, tra i medici licenziati o dottori e gli altri operatori della salute; la superiorità dei medici universitari consiste più nella padronanza di testi e di autorità che nell'accesso a un sapere e a un metodo di cura più efficaci. La circolazione delle conoscenze tecniche e dei rimedi crea così una cultura medica di base ‒ diffusa ancora alle soglie dell'Età moderna ‒ condivisa da tecnici e da 'profani': istruiti e non, uomini e donne, laici e chierici, cristiani ed ebrei. Per questo, potenti e gente del popolo si rivolgono a medici litterati e docti, o a guaritori e guaritrici, spesso indifferentemente, senza le censure scientifiche, ideologiche, religiose e sociali che prevarranno più tardi; l'unica vera discriminante, ma vale solamente per i poveri, continua a essere l'onorario del medico.
La polemica dei 'fisici' e dei chirurghi istruiti, rispetto ai gruppi di terapeuti dilettanti ‒ ydiotae ‒ è la conferma di una contiguità nella pratica medica che può diventare concorrenza; se da un lato essi rivolgono critiche radicali a quanti esercitano abusivamente la medicina, dall'altro lato continuano ad appropriarsi del sapere degli empirici, di rustici e di vecchie esperte, sia perché a causa della fiducia della gente è necessario che i loro rimedi siano conosciuti e usati, sia perché l'esperienza è ritenuta una delle fonti del sapere medico tecnico e farmacologico. In questo contesto il controllo della professione non è né rigido né automatico; il consenso che circonda empirici e guaritrici sarà, infatti, uno dei principali ostacoli all'attuazione dei provvedimenti restrittivi riguardo all'esercizio della medicina, intentati da facoltà e da corporazioni che pretenderanno interventi più incisivi da parte delle autorità civili ed ecclesiastiche. La varietà di tipi e di livelli di attività professionale nella pratica medica del Tardo Medioevo è anche in funzione del progredire delle iniziative pubbliche in materia assistenziale e sanitaria, che introducono importanti trasformazioni nel rapporto tra medico e cliente e aprono nuovi scenari professionali; al paziente privato si affianca la città, alla casa dell'infermo e alla bottega-officina del medico si aggiungono gli spazi 'comuni' della piazza e dell'ospedale.
L'evoluzione nel Medioevo della medicina come professione è dunque un processo complesso e non uniforme, intrecciato com'è sia alla storia delle istituzioni preposte all'insegnamento e alla formazione sia agli sviluppi, essi pure diversi a seconda delle coordinate regionali, delle istituzioni politiche, economiche, sociali, ecclesiastiche. Un vero e proprio milieu médical si afferma in Francia nel XV sec., quando i tre 'corpi' di medici, chirurghi e barbieri hanno ormai acquisito una propria identità e autonomia professionale, e per questo sono riconosciuti come appartenenti a una stessa 'arte', sia pure gerarchizzata al suo interno. Ma in Italia, già nel Trecento, nelle maggiori sedi universitarie si formano dinastie di medici, i cui destini si intrecciano sovente con quelli della città e del potere. Le biografie mediche, da quelle del cronista Filippo Villani a quelle del medico Michele Savonarola, rispecchiano questa specificità. I ritratti a tutto tondo di Taddeo Alderotti, Dino Del Garbo, Pietro Torrigiano e Tommaso Del Garbo nelle Vite d'illustri fiorentini; le reverenti immagini di Pietro d'Abano e Gentile da Foligno; i medaglioni di Marsilio di Santa Sofia e di Giacomo da Forlì; i profili di Giacomo Dondi, Antonio Cermisone, Mondino da Cividale, Giacomo Zanetini, Zambonino del Gazo, ecc., che si stagliano dal Libellus de magnificis ornamentis regie civitatis Padue, appartengono chiaramente a un genere letterario che si adatta alla rappresentazione e all'autorappresentazione di un ceto professionale emergente, specialmente in Italia, di 'sommi fisici' la cui attività, fama e gloria sono ripartite equamente tra università e corti, studenti e signori, e il cui prestigio intellettuale e professionale è lustro e ornamento per la città.
Contestualmente, anche le posizioni della Chiesa, attraverso le nuove disposizioni dei concili e le direttive dei prelati a medici e studenti di medicina, contribuiscono a rafforzare il modello etico e professionale del medico universitario, istituendo una proficua collaborazione tra i due 'periti' della salute dell'uomo, gli uni dotti ed esperti nella cura dell'anima, gli altri nella cura del corpo. Per Giovanni Gerson, il medico fisico formato nelle università è per la sua scienza e professionalità il più valido alleato del sacerdote contro la magia e la superstizione, ambiti in cui sconfinano pericolosamente le pratiche ambivalenti di profani, ciarlatani, guaritrici e vecchie sortileghe.
Formazione, coscienza di sé e stratificazione professionale
L'accertamento delle competenze, il monopolio sui meccanismi di formazione intellettuale e di riproduzione sociale costituiscono, anche dal punto di vista giuridico, la più rilevante novità nelle forme di normalizzazione professionale che l'istituzione universitaria produce. L'autorizzazione a esercitare la professione è vincolata alla licenza, rilasciata da autorità accademiche prima ancora che da autorità civili. I documenti enfatizzano la formazione accademica del medico: magister e doctor; in Italia, dove più forte è la consapevolezza del peso nella professione della continuità tra insegnamento e ricerca, la funzione docente occupa un posto di primo piano tramite le figure dei professores medicinae, presto anche professores cyrurgiae. La possibilità di aspirare a un elevato status professionale, sociale ed economico è connessa alla capacità di coniugare insegnamento e attività professionale, vale a dire di 'professare' la medicina.
La distinzione tra medicus e physicus, comparsa già nel XII sec. negli ambienti legati alla ripresa degli studi naturalistici presso la Scuola di Chartres, e alla riorganizzazione in senso laico e professionale degli studi medici nella Scuola di Salerno, non è più soltanto terminologica. La figura del fisico ‒ professionista di alto livello e, almeno potenzialmente, professore ‒ combina i tratti del modello ippocratico (un tecnico dotato di competenza specialistica e articolata) e di quello galenico (medico gratiosus e anche filosofo) con una nuova coscienza di sé, derivante dalla legittimazione di una formazione superiore e che nell'università ha assunto le caratteristiche dell'universalità della scienza. C'è continuità tra l'immagine della scienza che sorregge l'ideologia dell'intellettuale e quella della figura professionale che lo rappresenta.
La collocazione della medicina nel sistema delle scienze, come specie o parte della philosophia naturalis coordinata alla physica, spinge i medici universitari a occupare uno spazio istituzionale, culturale e anche professionale intermedio tra quello del filosofo della Natura, con cui condivide l'appellativo di physicus, e quello specialistico dell'artifex, qualificato come rationalis, sapiens e sensitivus (comunque, ben distinto dal mechanicus). Gli slittamenti, più o meno marcati a seconda delle tradizioni di scuola, verso l'uno o l'altro dei due poli caratterizzano scelte epistemologiche che si traducono in immagini professionali e talora anche in pratiche differenti. Il discorso sulla medicina come professione e sulla professionalità del medico, come era già avvenuto nella tradizione antica, è del resto indissolubilmente legato al dibattito sullo statuto di scienza o di tecnica della medicina, alle riflessioni sul rapporto tra teoria e pratica, ai diversi equilibri tra dottrina ed esperienza, fra tradizione e innovazione. Esemplari, per la polarità dei modelli, sono la medicina filosofica di Pietro d'Abano e il sistema di scienza operativa di Arnaldo da Villanova. Ogni università si mobilita alla ricerca di forme peculiari di istruzione professionale, adeguate alle finalità della medicina; alcuni statuti, per esempio quelli di Montpellier e di Federico II per Napoli, prevedono periodi di tirocinio pratico presso maestri di gran fama e di provata esperienza; altre facoltà, come quella padovana, elaborano strumenti didattici quali raccolte di ricette e di consulti-consigli che si pongono al crocevia tra gli atti professionali e i testi scolastici.
Col tempo il divorzio tra teoria e pratica, destinato a estendersi dall'insegnamento della medicina alla stessa attività professionale, si accentua e si generalizza (e globale sarà la condanna di Vesalio). Anche la gerarchia tra fisici e chirurghi rispecchia questa divisione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, che istituirà distinzioni dannose: nella pratica accademica, tra il professore che insegna l'anatomia leggendo il testo di Galeno o di Mondino e gli assistenti incaricati della dissezione (ostensio) e della demonstratio; nell'esercizio professionale, soprattutto in tempo di peste, tra il medico fisico, che scrive consigli spesso senza accedere al capezzale del malato, e il chirurgo o il barbiere, che palpano gli appestati e incidono ascessi.
La crescente differenziazione di titoli e di funzioni tra fisici, medici, chirurghi e barbieri sanziona la distanza che separa i medici formati nelle università, anche quelli che non vi hanno conseguito tutti i gradi, da altre figure di terapeuti la cui istruzione avviene ancora secondo forme di addestramento tecnico di tipo artigianale, da bottega. Ma nonostante i primi tentino di distinguere la medicina come scienza e professione dal 'mestiere' dei secondi, nella pratica queste categorie di operatori non sono del tutto separate; tra medici e chirurghi, ma anche tra medici e barbieri, non mancano contatti professionali che in certi casi, specialmente nei consulti, possono presentarsi come vere e proprie forme di collaborazione, in altri casi di subordinazione, in altri ancora di vera e propria concorrenza (Pesenti Marangon 1978).
Gli sviluppi interni ai singoli gruppi, legati sia a un processo di acculturazione sia all'ampliamento delle attività sanitarie, moltiplicano i tentativi da parte di figure subalterne ma qualificate e consolidate ‒ come i chirurghi, che più hanno visto mutare tra il XIII e il XV sec. il proprio status sociale ‒ di costruire una propria identità staccandosi da altri tecnici della salute, considerati marginali e mechanici. Per Bruno da Longoburgo come per Enrico di Mondeville e Guy de Chauliac, strumento di promozione intellettuale e sociale è la rivendicazione di un regolare percorso di studi e di uno statuto disciplinare anche per la chirurgia. In Italia le università provvedono tempestivamente all'istituzione di cattedre e all'istituzionalizzazione di curricula ed esami. Di fatto, gli statuti dell'Università di Bologna del 1405 ratificano una consuetudine di insegnamento della chirurgia che, avviata nelle scuole già alla metà del Duecento, si era consolidata nel Trecento attraverso la prassi della lettura della sezione chirurgica del Canone di Avicenna (famoso è il commento di Dino Del Garbo).
L'accesso al latino, e quindi ai testi della tradizione, alla doctrina e alla scrittura, è il requisito per l'identificazione e la coesione della nuova comunità scientifica e professionale. Anche se le testimonianze di Lanfranco (espulso da Milano dai Visconti), di Enrico di Mondeville (chirurgo di Filippo il Bello) e di Guy de Chauliac (chirurgo di papa Clemente VI) circa un insegnamento ufficiale della chirurgia in Francia sono da verificare, la loro rappresentazione di un percorso formativo e dottrinale di tipo universitario per il chirurgo, litteratus ma ancora felicemente sospeso tra l'uomo di scienza e il lavoratore manuale, diventa un fattore importante di riconoscimento disciplinare e di crescita professionale. Per Guglielmo da Saliceto la conoscenza dei nomi delle malattie e delle parti del corpo, delle operazioni e degli strumenti, stabilisce i confini di questa appartenenza professionale forte: delimitata verso il basso dai layci (il cui lessico volgare va confrontato e corretto con la terminologia scientifica dei testi degli autori) e orientata sempre più verso l'alto, sulla base della distinzione tra medici razionali (cui l'autore della celebre Summa curationis et conservationis corporis sente con orgoglio di appartenere) e vulgares, operatori dotati di capacità tecniche generiche, che adottano procedimenti casuali o frutto di esperienze non rielaborate teoricamente. La sua Cyrurgia sarà tradotta in volgare (come succederà più tardi in altri paesi per i testi di altri chirurghi famosi) a uso dei chirurghi empirici e dei barbieri, per fornire loro le basi di un'istruzione specifica che consentirà ai mechanici di essere più consapevoli delle competenze e del patrimonio di conoscenze del proprio mestiere.
La polemica contro gli empirici, condotta da fisici e da chirurghi istruiti con forme di denigrazione e procedure di esclusione di cui i processi contro gli illicite practicantes sono il manifesto pubblico, non è soltanto la risposta a una reale concorrenza; essa è indispensabile alla formazione di quell'immagine e di quel ruolo di professionista colto e competente che viene acquistando un posto di rilievo e di crescente responsabilità nella società medievale, specialmente nelle grandi città del sapere e del potere quali Parigi, Bologna, Padova, Firenze, Venezia, Milano, Avignone. Ma gli empirici non sono tutti incolti e ciarlatani. Come la separazione fra medici e chirurghi, anche quella tra professores cyrurgiae e medici ciroici spesso configura più una distinzione di censo e di ceto, che di attività o di cultura. Emarginati dal mondo accademico, talora autoesclusi, comunque ricercati dai pazienti, anche ricchi e potenti, chirurghi e 'ciroici' mirano a un modello di sapere alternativo, più aperto e congeniale ad assicurare un'indipendenza dottrinale e un'autonomia professionale. Enrico di Mondeville non disdegnava di paragonarsi agli operai che ristrutturano gli edifici, e descriveva i campi di battaglia come luoghi di addestramento pratico e di formazione permanente, decisivi per sviluppare conoscenze tecniche e competenze professionali. Un secolo dopo, Leonardo Buffi da Bertipaglia, rifiutando di terminare gli studi universitari a Padova, esprime la disapprovazione sua e di altri chirurghi per una formazione accademica lunga e costosa ma incapace di preparare alla professione e di garantire condizioni di pari dignità con i fisici, mentre enfatizza il valore dell'esperienza acquisita attraverso i viaggi e una pratica ininterrotta, e propone una stima di sé fondata sul successo professionale e sociale.
Alla fine del Medioevo l'ambiente medico è ben delineato, ma anche più stratificato; da un lato vi è un ceto professionale di medici e chirurghi colti, che ha raggiunto nelle città uno status economico e sociale di tutto rispetto; dall'altro lato, gruppi di operatori, anche organizzati ma illetterati come i barbieri, cui si affidano sempre più le attività manuali tecnicamente più facili e più umili: salassi, incisioni di ascessi, estrazione di denti, suture semplici. Sono i presupposti per la trasformazione, all'alba dell'Età moderna, di una distinzione gerarchica, sociale e professionale, di funzioni e di pratiche in vera e propria opposizione tra due medicine: la medicina come scienza e come professione, incarnata per i cittadini da medici e chirurghi, e la medicina profana di barbieri e semplici 'ciroici', che con erboristi e guaritrici rappresentano la medicina dei poveri e del contado.
Regolamentazione della pratica e autorità pubbliche: tra mestiere e professione
Nelle città in cui le facoltà mediche hanno il monopolio della formazione pratica, è scarso il controllo del potere civile sulla professione e sull'accesso a essa; dove invece i percorsi formativi non sono ancora istituzionalizzati è l'autorità pubblica che presto si assume il compito di vigilare sull'arte, stabilendo commissioni per esaminare gli aspiranti medici, chirurghi o farmacisti, e assegnando patenti. L'affermazione di questi gruppi è legata anche alle peculiarità del fenomeno corporativo, per cui uomini che esercitano uno stesso mestiere ne detengono il monopolio attraverso strutture associative, meno forti come le confraternite ‒ diffuse soprattutto tra medici e chirurghi non universitari e per lo più dedicate ai santi medici Cosma e Damiano ‒ o più forti, come le corporazioni di medici e di farmacisti nei Comuni dell'Italia centrosettentrionale.
A poco a poco si delinea una sinergia tra corporazioni e autorità comunali per un controllo più rigoroso e una gestione più efficace delle competenze professionali, anche dal punto di vista deontologico. La nuova normativa pare rispondere a un bisogno generalizzato della comunità, e non solamente dei ceti meno abbienti, di difendersi dall'esosità dei medici e dalle frodi di farmacisti e speziali, non sempre 'compensate' da conoscenze e capacità tecniche adeguate. Vizi ed errori, equamente spartiti tra i vari professionisti considerati 'mercanti della salute', nonostante i tentativi di normalizzazione rimarranno al centro di una letteratura medica contemporanea che, dal Flos medicinae ai De cautelis medicorum habendis (di Arnaldo da Villanova, Alberto Zancari e altri), continuerà a scaricare la responsabilità sui farmacisti, accusati di ignoranza e di mancanza di scrupoli. Ruggero Bacone nel De erroribus medicorum tenterà di trasformare queste critiche e questo disagio in un programma di riforma radicale del sapere medico e farmacologico, ma senza molto successo.
Per quanto concerne la regolamentazione, a Venezia i Giustiziari del Comune nel 1258 redigono un capitolare di undici regole "acciocché i medici fisici e i chirurghi possano legalmente esercitare la loro arte senza peccato" (Agrimi 1980, pp. 209-211). Il medico deve innanzi tutto giurare, in ottemperanza alle prescrizioni conciliari del 1215, di non assumere in cura infermi prima che questi si siano confessati; inoltre, deve impegnarsi a osservare i precetti morali e le 'etichette' dell'arte con pazienti e colleghi, rispettando il principio della collaborazione anche con empirici e farmacisti; questi ultimi, dal canto loro, non usurperanno le funzioni del medico, somministrando le medicine senza una prescrizione o esprimendo giudizi sulle urine.
La corporazione fiorentina dei medici e degli speziali, costituita con un'ordinanza di giustizia nel 1293 come una delle sette Arti maggiori, nel 1314, in accordo con gli statuti cittadini, stabilisce l'obbligo di esame da parte di un'apposita commissione per esercitare la medicina; e le norme statutarie, con cui l'Arte si riorganizza come federazione di tre membri (medici, farmacisti e speziali), rafforzate nel 1349, non regolano soltanto i rapporti tra colleghi (consulti e concorrenza tra fisici e chirurghi) e tra membri (sorveglianza dei medici sulle preparazioni dei farmacisti e sui prezzi e lo stato di conservazione delle droghe), ma riconoscono alla corporazione il diritto di esercitare anche il controllo sugli 'esterni'. Esse stabiliscono infatti che "medicanti in fisica o cerusica, e aconcianti ossa, e medicanti bocche nella città o contado di Firenze" devono tutti giurare ed essere sottoposti all'Arte; gli empirici così non sono esclusi dalla pratica, e sono spinti a progredire sul piano culturale e tecnico. Sul modello della pratica universitaria del conventus, lo statuto stabilisce poi che nessun medico, fisico o chirurgo, possa esercitare la professione nel territorio prima di essere stato 'conventato', sottoposto cioè a un esame da parte dei consoli medici e di altri quattro medici della corporazione (Park 1985).
Il sistema di concessione della licenza professionale adottato da molte città dell'Italia settentrionale e centrale tiene conto sia dei gradi universitari sia dell'esame della corporazione; nelle città economicamente e politicamente forti ma prive della Facoltà di medicina ‒ Milano, Venezia, e Firenze prima del 1349 ‒ si promuovono, su questa base, strutture permanenti come i 'collegi' dei medici, ufficialmente riconosciuti alla fine del XIV sec. e con funzioni soltanto parzialmente analoghe a quelle dei collegi universitari dei professori o dei promotori: garantire preparazione e reputazione professionali attraverso iniziative differenziate, attività intellettuali e di formazione permanente (dispute, dissezioni), misure più rigorose per l'ammissione alla pratica e anche forme di controllo sulla professionalità dei farmacisti, che saranno più tardi istituzionalizzate. In tempi di epidemia saranno i collegi medici delle varie città ad avere la responsabilità di informare le autorità e dare consigli. Nelle regioni meridionali, dove l'amministrazione statale è più centralizzata, la regolamentazione delle professioni mediche e paramediche è prerogativa regia; secondo le Constitutiones Regni Siciliae emanate da Federico II nel 1231, il medico giurerà di osservare le norme della Curia. Di queste norme, due sono a carattere 'pubblico' ‒ la vigilanza sulle confezioni dei farmacisti, con obbligo di denuncia di incompetenti o speculatori, e il consulto gratuito per i poveri ‒ altre regolano il rapporto privato del medico col paziente (numero delle visite, tariffe degli onorari) o con altri professionisti (divieto di fare società con farmacisti e di aprire una bottega da speziale). Altre norme, infine, riguardano i farmacisti e impongono condizioni più restrittive per la concessione della licenza e per la preparazione e la conservazione dei farmaci, per la fissazione del prezzo giusto e del guadagno lecito.
Tra il Trecento e il Quattrocento, per il convergere di queste spinte diverse, si getteranno le basi per la definizione di un vero e proprio codice etico-professionale dei farmacisti. Alla fine del Quattrocento il Collegio dei medici di Firenze sarà incaricato di redigere il primo testo ufficiale di farmacopea; contemporaneamente, la rappresentazione ideale del farmacista, modellata sulla ormai topica figura scientifica e professionale del buon medico, rispecchierà la gerarchia tra i due gruppi di operatori, pur riconoscendone i rispettivi specialismi e garantendone le competenze reciproche, in una più matura forma di collaborazione che ha per scopo solamente il bene del paziente, come emerge dal Compendium aromatariorum del medico Saladino da Ascoli.
Se in Italia il sistema corporativo sembra favorire insieme alla crescita professionale di medici e di chirurghi anche quella degli altri operatori della salute, in altri paesi, dove la situazione professionale è differente, o più arretrata, le iniziative pubbliche di regolamentazione risultano più deboli e comunque diverse. In Francia, gli empirici stentano a trovare un qualsiasi riconoscimento legale, e a Parigi la Facoltà di medicina fa pressione sulle autorità politiche ed ecclesiastiche per combattere legalmente, con multe, scomuniche e arresti, la loro concorrenza. Per i chirurghi, invece, che pure resteranno a lungo esclusi dalle università, l'accesso alla professione avviene, come per altri mestieri di tipo corporativo, dopo un esame sostenuto davanti a un collegio nominato dalle autorità; a Parigi, secondo l'ordinanza del 1311, esso è costituito da sei chirurghi 'giurati' e presieduto allo Châtelet dal chirurgo del re; nelle altre città la licenza è accordata da una commissione designata dall'autorità locale. A Montpellier nel 1418 è altresì stabilita una settimana di prova dell'aspirante presso ciascuno dei maestri componenti la giuria. Provvedimenti analoghi saranno presi anche per i barbieri.
In Inghilterra, dove la pratica medica è diffusa, con una radicata tradizione laica popolare, ma meno regolamentata ed esercitata per lo più al di fuori di contesti istituzionali forti, la medicina (come segnalano anche la scarsa caratterizzazione terapeutica degli ospedali e i tardivi tentativi pubblici di organizzazione sanitaria) rimarrà in buona parte, e fino all'inizio dell'Età moderna, al di qua di una vera e propria professionalizzazione; si parlerà, infatti, di trade e di mestiere, non di profession e di carriera.
Lo sviluppo delle professioni legate all'arte della salute è dunque fortemente intrecciato a situazioni e scelte che incidono sugli atteggiamenti pubblici e non soltanto sulla sensibilità privata e collettiva nei confronti della realtà sociale dei malati e delle malattie. La solidarietà di ceto, che aveva ispirato le confraternite di medici empirici, chirurghi e barbieri, cede il passo, man mano che il potere politico si consolida e cresce il senso di responsabilità dei governi nei confronti della collettività, a forme di intervento che mirano a rafforzare i rapporti tra le varie istanze professionali e le istituzioni ossia, strutture assistenziali, corti di giustizia, organismi che sembrano assolvere già ai compiti di una embrionale 'polizia sanitaria'. Le commissioni istituite dalle autorità civili e religiose per l'esame e il bando dei lebbrosi dalla società civile sono composte da medici e da chirurghi, e in questo caso la loro perizia e abilità diagnostica è al servizio di un programma di controllo sociale più che sanitario.
Dal punto di vista dell'efficienza degli interventi e dell'efficacia terapeutica l'istituto dei medici condotti ‒ figura giuridica comprensiva di medici physici et plagarum ‒ costituisce sicuramente una tappa fondamentale nella storia della sanità pubblica negli ultimi secoli del Medioevo. L'esperienza matura in Italia: risale al 1214 il contratto del Comune di Bologna con il medico chirurgo Ugo Borgognoni da Lucca perché accompagni, dal 1218 al 1221, l'esercito bolognese alla quinta Crociata; e Venezia chiamerà Taddeo Alderotti, il fondatore della Scuola medica bolognese. A metà del Trecento, anche in concomitanza della peste e della necessità di consolidare le strutture sanitarie e il controllo sociale sulle epidemie, la condotta medica è ormai un'istituzione standard, dalla Toscana alla Sicilia. Il medico condotto, di solito forestiero ma con l'obbligo di residenza, spesso al vertice della professione, non è ancora un pubblico ufficiale ma è stipendiato dal Comune in nome del bene comune; la sua attività è rivolta all'intera comunità cittadina, ma i veri destinatari sono gli indigenti. Venezia provvederà a tali finalità istituendo medici per i poveri e medici per i patrizi.
Il medico condotto, come i medici stipendiati per le visite negli ospedali ‒ a volte le due figure coincidono ‒ ha tra i suoi compiti l'esame delle urine e la vigilanza sulle confezioni dei farmacisti; visite, esami e consulti avvengono presso la sua casa o in luoghi pubblici: sotto i portici, nelle piazze o davanti al Broletto. A volte i medici condotti sono docenti di medicina pratica (come Giacomo Albini nel Trecento o Antonio Guaineri nella prima metà del Quattrocento), spesso però, specialmente dopo la peste, sono chirurghi. Stipendiati dal governo sono pure i medici e i chirurghi incaricati di perizie legali e di funzioni di giustizia nelle carceri e presso i tribunali; anche in questi casi a volte si tratta di professori, autorizzati a portare con sé discepoli e assistenti (un'altra forma di addestramento pratico che moltiplica le occasioni di intreccio tra insegnamento e professione).
Ma la novità più importante è costituita dalla progressiva presa in carico da parte delle autorità civili, non più soltanto ecclesiastiche, della gestione sanitaria degli ospedali: spazi che imprimono una svolta nella professione medica, connotandola rispetto ai pazienti anche come attività pubblica e non più solamente di carattere privato, e favorendo rapporti più stabili tra il medico e la città. Le prestazioni negli ospedali, almeno all'inizio, sembrano estranee ai livelli più alti della professione, mentre contribuiscono alla crescita delle professioni 'minori'. In molte città della Francia, della Germania, dell'Italia e dei Paesi Bassi, i contratti stipulati con le autorità municipali da parte dei medici, ma soprattutto dai chirurghi e dai barbieri, contengono precise clausole circa i loro compiti negli ospedali. A Parigi un'ordinanza reale obbliga i chirurghi giurati dello Châtelet a curare i malati poveri dell'Hôtel-Dieu; in Italia il processo di laicizzazione e di ristrutturazione dell'assistenza interferisce più direttamente con la carriera di medici e di chirurghi (Guglielmo da Saliceto trascrive nella Cyrurgia i casi più difficili seguiti durante questi incarichi). Secondo i dettami della tradizione araba, anche un 'medico filosofo' come Pietro d'Abano raccomanda al medico di frequentare tutti gli spazi della malattia per acquistare perizia, dalle case dei ricchi e dei potenti agli ospedali; nonostante questa raccomandazione, che nel caso di Pietro sa più di retorica che di pratica professionale, e nonostante la retorica dell'assistenza che anima iniziative e anche testimonianze letterarie, la pretesa eguaglianza dei malati di fronte al medico, vincolato alla cura dei poveri da regole deontologiche, precetti cristiani e obblighi civici, non trova sempre riscontro nella realtà. Gli elementi più tecnici e professionali della medicina restano ai margini delle nuove strutture ospedaliere; ancora nel Quattrocento nella maggior parte di esse la cura è generica, non individualizzata, e affidata per lo più a operatori subalterni, chirurghi e barbieri.
Solamente in situazioni particolari il presidio medico si presenta più stabile e diversificato nelle funzioni. A Siena l'Ospedale di S. Maria della Scala, il 'Pellegrinaio', rifondato in senso medico all'inizio del Trecento, prevede l'assunzione regolare di chirurghi, di medici e di speziali; qui vigono una divisione e un'organizzazione quotidiana del lavoro che il pittore Domenico di Bartolo ha immortalato nell'affresco Cura e governo degli infermi. I medici esaminano il polso e le urine prescrivendo le diete; i chirurghi medicano piaghe e ferite; la distinzione professionale, sancita dagli statuti, tra medici physici e medici de plagis, così come i fondamentali elementi diagnostici che costituivano da tempo il rituale della visita medica privata (al centro della precettistica deontologica dei vari De adventu medici ad aegrotum) entrano negli ospedali in quanto spazi pubblici, anche se connotati ancora religiosamente per il loro carattere di opera di misericordia. Nel XV sec., a Siena non soltanto cresce il numero dei medici che si dividono tra l'ospedale e l'università, ma il primo mette a disposizione della seconda alloggi e borse per gli studenti allo scopo di consentire agli aspiranti medici e chirurghi un tirocinio pratico; bisognerà attendere il Cinquecento perché l'ospedale si specializzi, almeno nei programmi più ambiziosi, e con esso anche i professionisti chiamati a operare al suo interno. L'Ospedale Maggiore di Milano, progettato dal Filarete e destinato alla cura dei malati gravi, uomini e donne, poveri, nobili e patrizi, richiede personale medico e paramedico qualificato, organizzato secondo la distinzione dei malati e delle malattie: "quattro physici, uno per braccio della crociera, ed altri tanti chirurghi similmente distribuiti", uno specialista nel "mal della pietra" (i calcoli), uno nella cura dei bambini tignosi, uno per i malati di ernia.
Soprattutto in Italia, tra il Trecento e il Quattrocento, si diffonde così un sistema che moltiplica e rafforza i rapporti tra le diverse istanze professionali della medicina e le istituzioni; un sistema integrato di prestazioni mediche ‒ articolate per funzioni, spazi, clienti, pazienti e malattie ‒ e di iniziative sanitarie pagate dalla comunità, che mira a conciliare l'efficacia terapeutica, l'etica della carità e il controllo sociale. Questo sistema si basa non soltanto sul salario (alto quando si vuole attrarre medici di fama, lustro per un potere che deve dimostrare di operare per il bene comune) ma anche su una serie di benefici (cittadinanza, esenzione dalle tasse, ecc.), che rafforzano il ruolo dei medici nella società e il loro prestigio; difesa corporativa dei privilegi e selezione di censo produrranno così genealogie professionali, come i Santa Sofia a Padova, i Del Garbo a Firenze.
In questo nuovo contesto, le riflessioni e le strategie deontologiche messe a punto da Gilles de Corbeil per aggirare il nodo della mercede vanno rielaborate: salario e assistenza pubblici hanno spostato il problema, così come la coscienza professionale e cristiana del medico, dal piano dell'etica individuale a quello dell'etica civile. La contrattazione tra Taddeo Alderotti e il papa Onorio IV, narrata da Filippo Villani, ne è un chiaro esempio: Taddeo ha chiesto al papa un compenso di cento ducati al giorno e il papa trova la richiesta indelicata ed esosa, ma l'illustre fisico non recede. Non è in discussione la professionalità di Taddeo; ciò che sorprende l'autorevole 'cliente' è proprio la transazione economica sull'onorario. Alla fine il pontefice "consentì a' piaceri di Taddeo, per desiderio della sua sanità", ma una volta di fronte al medico gli rimprovera "durezza e avarizia". Taddeo finge meraviglia; signori e tiranni gli hanno spontaneamente donato cinquanta ducati al dì, e "il principale signor tra' cristiani" gliene negherebbe cento? La conclusione della storia apre uno squarcio sui nuovi modi di coniugare mercede, giusto prezzo, obblighi cristiani e dovere civico: "Guarito il sommo pontefice, ovvero per merito della cura, o per purgare il sospetto dell'avarizia, donò ad esso Taddeo diecimila ducati, i quali tutti l'uomo di santa vita, essendo ritornato a Bologna, spese a edificar chiese e spedali" (Agrimi 1980, pp. 213-214).
Il rapporto tra medico e paziente, che costituisce il fulcro della professionalità e della deontologia del medico, si carica così di valori ambivalenti che producono un forte impatto ideologico, sociale ed economico. L'evento drammatico della peste nel 1348 sarà anche da questo punto di vista un momento di crisi senza precedenti per la professione medica, ma segnerà l'avvio per un profondo ripensamento del ruolo del medico nella società e dei suoi codici di comportamento.
La peste: una svolta per la professione
La peste, con le sue grandi morie, non rappresentò soltanto un ostacolo epistemologico per la scienza medica; essa introdusse anche rilevanti elementi di disturbo nelle dinamiche professionali tradizionali. L'incapacità del sistema ippocratico-galenico a spiegare il contagio e l'epidemia alimentò le prime dure critiche a un sistema di formazione scientifica e professionale dominato dal valore della doctrina, spingendo la ricerca medica verso un metodo basato sull'osservazione, sulla pratica e sulla sperimentazione. Tuttavia, nonostante le orgogliose affermazioni del medico Giovanni da Borgogna sulla superiorità dei maestri moderni "più esperti nelle malattie pestilenziali epidemiche di quanto lo siano stati tutti i dottori e autori di medicina da Ippocrate in poi" (Agrimi 1980, pp. 300-301), la peste costituirà per lungo tempo lo scacco teorico e pratico del medico scolastico. Il cronista lo riconosce con sgomento: "E non valeva né medico, né medicina, o che non fossero ancora conosciute quelle malattie, o che li medici non avessero sopra quelle mai studiato" (ibidem, pp. 78-81).
L'esperienza della peste determina una nuova rivalità tra i 'fisici' e i chirurghi. I primi ricercano le cause universali e particolari nelle congiunzioni astrali e nella 'fisica' degli umori, e redigono consigli, che si consolideranno in genere letterario, il più importante dei quali è come preservarsi dal contagio fuggendo i luoghi della 'pistolenza'. I secondi, invece, mettono in evidenza lo scarto tra questa elaborata eziologia e una terapia medica inadeguata a base di dieta e di pozioni; più sicuro appare il terzo strumento della medicina antica, la chirurgia appunto.
Per il chirurgo, come per il cronista, lo scacco professionale dei medici universitari è anche deontologico; Guy de Chauliac descrive con dovizia di particolari tipi e fasi della nuova malattia, osservati nella frequentazione degli appestati ad Avignone, dove si trovava nel 1348 come chirurgo di Clemente VI. Egli ricorda il numero impressionante di morti ("la carità era morta, la speranza vinta") per colpa anche dei medici, che fuggivano gli appestati, mentre soltanto chirurghi e barbieri osavano avvicinarsi alle case infette a rischio della propria vita; forse, come Guy stesso confessa, più per sfuggire al discredito che per vera pietà.
La recrudescenza delle epidemie alimenta vecchie polemiche e nuove alleanze tra i diversi gruppi impegnati in attività terapeutiche. A Padova, per esempio, ai tempi di Leonardo Buffi da Bertipaglia, 'fisici' e barbieri fanno fronte comune contro i chirurghi, che minacciano la posizione sociale dei primi e contendono la clientela dei secondi. La maggiore concorrenza, con la crescente rivalità tra gli operatori della salute, trova riscontro anche in alcune decisioni assunte dalle autorità pubbliche; molte città in epoca di epidemia, mentre concedono ai medici condotti di allontanarsi ‒ ma non troppo ‒ dai luoghi malsani, incaricano gli ufficiali di sanità di trovare un sostituto, un 'medico della peste', tra chirurghi, barbieri, e persino donne anziane.
Vetulae e guaritrici
La peste, dunque, rende visibile e in qualche misura legittima la partecipazione delle donne alla pratica della medicina: una pratica che non è semplicemente circoscritta a un ambito di sapere e di competenze tecniche particolari riguardanti il corpo femminile, come i medici presto tenteranno di dimostrare. Nel Basso Medioevo, le donne coinvolte in attività mediche sono per lo più figlie, mogli o vedove di medici e chirurghi, licenziati e non, che acquisiscono per via parentale la possibilità di accedere alle professioni minori e a volte, anche se più raramente, alle corporazioni. Ma mentre per gli uomini l'esercizio dell'arte è stabile, e almeno ai livelli superiori si identifica con la professione e la carriera, per le donne si tratta di un'occupazione in massima parte subalterna e non continuativa, in quanto interrotta dai parti e dall'allevamento dei figli.
Naturalmente, però, non mancano le eccezioni; se molte esercitano il mestiere come lavoro senza essere autorizzate, altre ottengono anche delle patenti dalle autorità competenti, soprattutto in Italia e in alcune regioni di Francia e di Spagna. In Italia le donne che praticano la medicina e la chirurgia aumentano dopo la peste, quando medici e chirurghi sono decimati dal contagio e le terapie mediche ufficiali si rivelano inefficaci; il riconoscimento delle loro funzioni è sanzionato anche da atti pubblici, specialmente nelle grandi città prive di università. Altrove, per esempio a Parigi, il riconoscimento è affidato al consenso popolare, al successo con i pazienti, non sempre poveri e non solamente donne. Negli atti dei processi intentati negli anni 1320 e 1322 dalla Facoltà di medicina contro un gruppo di empirici ed empiriche, la figura di maggiore spicco è quella di Jacoba Felicia: medica esperta secondo i malati da lei guariti, che hanno sperimentato con successo le sue terapie dopo che le cure dei 'fisici' si erano dimostrate vane, è elogiata oltre che per la sua competenza anche per il forte senso dell'etica professionale. Jacoba ha un'alta stima di sé: si sente una professionista. Come i 'fisici' ella esamina il polso e le urine, palpa e osserva il corpo del paziente, lo visita più volte al giorno, si fa pagare solamente a guarigione avvenuta, non interviene soltanto su ulcere e su ferite, ma anche su malattie interne somministrando personalmente i farmaci; la sua attività terapeutica segue la via maestra della tradizione medica, articolata in dieta, pozioni e chirurgia. Cura certamente più donne, di cui rispetta il naturale pudore, ma anche uomini, che ripongono fiducia in lei, nei suoi rimedi e nel suo 'segreto professionale'. Nonostante le testimonianze e la sua difesa piena di dignità, Jacoba è condannata; la competenza nell'arte, sia pure accertata, non è stata riconosciuta ufficialmente tramite esami e quindi non rispetta i canoni della formazione professionale. Il suo sapere, acquisito per caso, configura un potere sui pazienti esercitato illecitamente, e pericolosamente, per il corpo e soprattutto per l'anima.
È sicuramente vero che le stesse accuse, limitazioni e interdizioni sono rivolte a tutti gli empirici, uomini e donne, che operano senza licenza o appartenenza a una corporazione; tuttavia, tra i gruppi impegnati ai livelli più bassi delle categorie professionali, la presenza femminile è più sensibile. Se le donne hanno minori opportunità dei colleghi a causa della loro condizione familiare e della loro esclusione da forme di istruzione superiore e anche di mestiere ('in bottega'), la loro marginalità ha però una contropartita ben avvertita dalla concorrenza maschile: costano meno e sono più ricercate dai poveri. Per questo, e perché partono comunque svantaggiate, le donne, soprattutto vecchie e guaritrici, sono un bersaglio da colpire e diventano progressivamente una sorta di etichetta con cui identificare dapprima una pratica non regolamentata e quindi non professionale, in seguito un corpo di conoscenze ritenuto troppo parziale, e per questo pericoloso, e infine un sapere deviante e inquietante.
Guy de Chauliac elenca sette 'scuole' diffuse ai suoi tempi tra gli operatori della salute; l'ultima è la 'setta' delle donne e di gran parte del volgo, che si affidano all'aiuto di Dio e dei santi piuttosto che alla competenza tecnica. Non è un caso che i cataloghi più dettagliati delle diverse categorie di empirici che usurpano l'arte del guarire siano predisposti da chirurghi, i quali con la polemica culturale cercano una legittimazione istituzionale alla propria richiesta di promozione sociale e di riconoscimento professionale; Enrico di Mondeville, per esempio, accomuna in una stessa condanna barbieri, alchimisti, ciarlatani, levatrici, meretrici, mezzane, ebrei convertiti, vecchie. La pratica terapeutica femminile, all'inizio interstiziale come quella di altri gruppi di empirici, e per questo temuta, col tempo appare più indifferenziata o ambigua; medici e chirurghi cercano infatti di confondere figure e ruoli e parlano genericamente di vetulae, comari, levatrici, sempre meno tecnicamente obstetricae, sempre più genericamente sages femmes, matrone o assistenti; la cura, il trattamento medico è dominio legittimo degli uomini, alle donne spetta legittimamente una funzione di assistenza.
La delegittimazione della pratica medica femminile è un processo che si compie con un sofisticato uso di strumenti culturali, ideologici e sociali; in primo luogo, la sottrazione della scrittura (emblematico è il caso, storico e letterario, di Trotula, v. oltre), quindi la marginalizzazione progressiva del sapere e della pratica delle donne, ritenute tutt'al più esperte nella cura quotidiana di altre donne e dei bambini, o detentrici di segreti e astuzie femminili troppo spesso sconfinanti in pratiche illecite (aborti) oppure in esperimenti magici (filtri d'amore), ben lontani non soltanto dagli esperimenti 'scientifici' dei medici, ma anche da quelli tecnicamente corretti degli empirici.
Il sapere e la pratica di guaritrici, herbariae e vecchie in particolare, appaiono pericolosi; esse, infatti, usano formule e si servono di incantamenti; da depositarie di un sapere antico e popolare, diventano detentrici di conoscenze ambigue nei fini e nei mezzi, superstiziose, sostanzialmente diaboliche. La loro collocazione, e in ciò concordano ecclesiastici come Gerson e medici come Guaineri, non è più tra barbieri ed empirici, ma tra sortileghi, falsi religiosi, prostitute e streghe; del resto Giovanni XXII, nel 1325, stigmatizza le vecchie guaritrici come sorcières. Dopo la grande paura della peste, questo è uno degli esiti più inquietanti della normalizzazione delle professioni mediche e dell'assistenza sanitaria, normalizzazione che sarà programmaticamente perseguita e finalmente attuata nel Quattrocento.
di Monica H. Green
Nell'Europa medievale quella parte della medicina che ha per oggetto lo studio delle malattie delle donne è stata profondamente condizionata sia dal modo in cui era considerato il corpo femminile sia dalle strutture sociali che regolavano le relazioni tra i due sessi. L'acquisizione delle conoscenze mediche e le loro applicazioni pratiche erano più complicate nel caso dello studio delle malattie delle donne, perché da una parte esse erano escluse dagli ambienti eruditi, all'interno dei quali avrebbero potuto apprendere metodi formali di analisi medica, mentre dall'altra agli uomini non era consentito esaminare a fondo il corpo delle loro pazienti. In altre parole, gli uomini avevano una conoscenza limitata del corpo femminile, e le donne avevano una scarsa conoscenza dei principî generali della medicina.
Benché queste difficoltà di carattere sociale siano state aggirate dalla pratica ‒ già diffusa nell'Antichità e nella Tarda Antichità ‒ di formare donne in grado di operare nel campo della scienza ginecologica e ostetrica, nell'Europa medievale i testi medici destinati alle donne sono sopravvissuti solamente perché erano divenuti oggetto di studio da parte degli uomini. A eccezione dei parti regolari, non vi era un monopolio femminile della cura delle donne. L'esame delle esperienze vissute dalle donne come pazienti risulta quindi limitato dal fatto che la grande maggioranza dei documenti relativi alla medicina pervenutici dall'Europa medievale sono stati redatti da uomini. Ciò significa che lo storico non dispone di molti strumenti per ricostruire le opinioni delle donne stesse, e per identificare le conoscenze che erano trasmesse esclusivamente per via orale.
Il corpus dei testi dedicati al corpo femminile
Le informazioni scritte sul corpo femminile potevano assumere forme diverse. Nel corso del Medioevo hanno circolato soltanto pochi testi interamente dedicati alla medicina delle donne. Tuttavia, oltre che in queste opere specialistiche, alcune informazioni erano reperibili nei testi medici enciclopedici e, in particolare, in quelli in cui il materiale era ordinato secondo uno schema a capite ad calcem (dalla testa ai piedi). In questi ultimi casi, l'esame delle malattie cui andavano soggette le donne era quasi sempre affrontato nelle sezioni dedicate alle malattie del tratto urinario e del sistema riproduttivo.
Nell'Alto Medioevo era in circolazione un gruppo eterogeneo di testi ginecologici; molti di questi derivavano dall'antico Corpus Hippocraticum, grazie al quale la conoscenza delle più importanti ricette mediche e delle teorie ippocratiche relative al corpo femminile si era diffusa nell'Occidente latino. Gli studiosi altomedievali, in cerca di informazioni riguardanti sia la fisiologia femminile sia le malattie cui andavano soggette le donne, potevano inoltre consultare la sezione dedicata all'argomento negli Aforismi ippocratici nonché i commenti da cui erano accompagnati.
Un altro importante gruppo di testi ginecologici derivava dai Gynaecia di Sorano di Efeso (prima metà del II sec. d.C.), il più insigne rappresentante della scuola medica cosiddetta metodista. Tra questi scritti figuravano le opere di Celio Aureliano, di Teodoro Prisciano (entrambi attivi tra la fine del IV sec. e l'inizio del V) e di Muscio (V o VI sec.). Questi tre autori, tutti di origine nordafricana, ridussero creativamente l'ampio testo greco di Sorano in composizioni più brevi, per adattarlo alle effettive esigenze del pubblico dell'Africa settentrionale della Tarda Antichità, rivolgendosi esplicitamente alle levatrici (alle quali sembra fossero affidate tutte le cure ginecologiche e ostetriche). Muscio, in particolare, confessa di essere stato costretto non soltanto ad abbreviare, ma anche a semplificare la sua opera, in considerazione di quelle che definisce le più limitate facoltà intellettive delle donne. Infine, oltre a molti testi di origine oscura ‒ tra cui, per esempio, i Gynaecia della Pseudo-Cleopatra, accompagnati dal De passionibus mulierum ‒, erano disponibili diverse enciclopedie che risalivano alla Tarda Antichità, tra cui quelle compilate da Cassio Felice (attivo nel 447), da Oribasio (326-403, la cui opera fu tradotta dal greco nel VI sec.) e, più tardi, quella di Paolo d'Egina (VII sec.), la cui opera fu tradotta nel X secolo.
A partire dalla metà dell'XI sec., quindi, in Europa occidentale era disponibile una quantità non trascurabile di materiale relativo alla ginecologia. Tuttavia, a eccezione degli Aforismi, non sembra che queste opere abbiano conosciuto una larga diffusione. I testi in circolazione erano utilizzati, a quanto pare, più come fonti di informazioni empiriche (riguardo ai rimedi da adottare nei singoli casi) che di conoscenze teoriche relative al funzionamento del corpo femminile. I Gynaecia di Muscio, per esempio, furono ridotti due volte, forse nel corso dell'XI sec., in nuove composizioni molto più brevi, eliminando la maggior parte delle informazioni generali e teoriche (incluse quelle che riguardavano i principî originali della medicina di Sorano).
L'arrivo di Costantino l'Africano (1015 ca.-1087 ca.) nell'Italia meridionale segnò l'inizio di una nuova era nella storia della letteratura ginecologica. Benché non avesse portato con sé testi specificamente dedicati alla ginecologia (la quale, infatti, nel mondo arabo non era considerata una particolare specializzazione), Costantino tradusse dall'arabo in latino le sezioni dedicate alla ginecologia di due importanti enciclopedie: il Kitāb kāmil al-sinā῾a al-ṭibbiyya (in latino, Pantegni) di ῾Alī ibn al-῾Abbās al-Maǧūsī (m. 994 d.C.) e il Kitāb zād al-musāfir (in latino, Viaticum) di Ibn al-Ǧazzār (m. 979/980 d.C.), opere che in seguito furono alla base di molte discussioni sull'anatomia e sulle malattie delle donne.
Nei decenni successivi alle traduzioni di Costantino, nell'Italia meridionale apparve un nuovo gruppo di testi sulla medicina delle donne che rese effettivamente obsolete le vecchie opere della Tarda Antichità di derivazione ippocratica o soranica. Uno di questi, il De curis mulierum, raccoglieva gli insegnamenti di una terapeuta salernitana chiamata Trota o Trocta. La natura empirica del De curis mulierum contrasta con quella di un altro testo ‒ probabilmente anch'esso di origine salernitana ‒, il Liber de sinthomatibus mulierum, quasi interamente derivato da altri scritti. La principale fonte di quest'opera è il Viaticum di Costantino, ma alcune indicazioni di ricette sono tratte anche da altri scritti, tra cui, per esempio, il Liber de muliebria, un trattato ippocratico redatto all'inizio del Medioevo. Risale a questo periodo anche quello che probabilmente è il primo testo latino del Medioevo dedicato alla cosmesi, il De ornatu mulierum, una compilazione in cui le conoscenze tradizionali salernitane sull'arte della bellezza sono presentate accanto a quelle musulmane. Successivamente questi tre testi furono combinati in un unico scritto, intitolato inizialmente Trotula. Ben presto però si diffuse la credenza che questo titolo indicasse in realtà un nome di persona, tanto che Trotula divenne celebre in tutta l'Europa medievale come autrice del primo compendio che aveva armonizzato l'interpretazione araba della medicina galenica con le concezioni tradizionali europee sul corpo femminile. Non a caso, la traduzione del Trotula in quasi tutte le lingue volgari europee facilitò la diffusione in Occidente dei modelli di analisi di Galeno.
Dopo i testi del Trotula ‒ risalenti al XII sec. ‒ pochissimi altri trattati ginecologici furono redatti in latino. Molti di questi affrontano quasi esclusivamente il problema della sterilità, come, per esempio, un opuscolo anonimo redatto a Montpellier nel XIV sec., e il Tractatus de conceptione et generatione praecipue filiorum scritto nel 1488 da Bernard Chaussade per Anne de Beaujeau. Tuttavia, più che ai trattati specialistici si preferiva ricorrere al genere più popolare delle enciclopedie universali, sia mediche sia chirurgiche. Tra queste figuravano le grandi enciclopedie redatte dagli autori arabi ‒ al-Maǧūsī, Avicenna e al-Zahrāwī (m. 1109 ca.), le ultime due tradotte dall'arabo da Gherardo da Cremona (1114 ca.-1187) ‒ e i compendi latini desunti da queste opere. Venti capitoli del Compendium medicine ‒ redatto verso il 1230 da Gilberto Anglico ‒ sono specificamente dedicati alla salute delle donne e, in particolare, ai problemi mestruali, alle dislocazioni e alle lesioni dell'utero, ai sintomi della gravidanza, ai parti difficili e al tumore del seno. Anche i nuovi testi ginecologici del XIV e del XV sec., il De membris genitalibus di Nicolò Falcucci (m. 1411) e il Tractatus de matrice di Antonio Guaineri (m. 1448), sono in realtà semplicemente sezioni delle loro vaste summae dedicate alla ginecologia, che finirono per circolare autonomamente.
I problemi legati alla cura delle malattie delle donne erano affrontati anche nei consilia, un nuovo genere di testi medici che risale al XIII sec., in cui sono riportati gli autorevoli pareri di medici esperti, spesso espressi in occasione di un consulto su un caso difficile. L'importanza di questi testi per lo studio delle cure mediche a cui erano sottoposte le donne deve ancora essere valutata. Tuttavia, dal momento che sono quasi sempre dedicate all'esame di casi particolari, queste brevi opere potrebbero offrire importanti informazioni sociologiche e nosologiche sulle pazienti.
Durante il Medioevo, il latino è rimasto la sola lingua delle trattazioni mediche formali e universitarie. Tuttavia, tra il XII e il XV sec., ai margini delle università, hanno iniziato ad assumere una crescente importanza molte lingue volgari. L'ebraico (che per molti ebrei europei non era un vernacolo bensì una lingua colta) è stato la prima lingua in cui sono state tradotte e adattate alle esigenze di un particolare gruppo le conoscenze ginecologiche latine. Sono apparsi poi diversi testi ginecologici anche in olandese, in inglese, francese, tedesco e in italiano (in gran parte traduzioni del Trotula), in un ristretto numero di casi esplicitamente destinati alle donne.
Le teorie sulla struttura, le funzioni e le disfunzioni del corpo femminile
The knowyng of womens kynd chyldynd, un testo ginecologico redatto in middle english, si apre con l'indicazione delle principali differenze esistenti tra il corpo maschile e quello femminile: la forma della capigliatura, le dimensioni del torace e la conformazione degli organi genitali. Ildegarda di Bingen (1098-1179), la celebre religiosa benedettina, offre una più approfondita analisi delle differenze tra i sessi, ravvisandole un po' ovunque: nel modo di invecchiare, nel comportamento sessuale e persino nelle caratteristiche emozionali. Tuttavia, soltanto pochissimi autori medievali di testi medici sono stati così espliciti nell'articolare le loro concezioni sulle caratteristiche distintive dei sessi. La maggior parte di essi in realtà considera il corpo maschile la norma, e menziona le strutture anatomiche, i processi fisiologici o le specifiche condizioni patologiche femminili solamente come eccezioni alla regola.
Per quanto riguarda l'anatomia, le concezioni medievali del corpo femminile sono rimaste sostanzialmente simili a quelle dell'antichità e, in particolare, a quelle degli anatomisti alessandrini che nel III sec. a.C. avevano descritto le caratteristiche fondamentali dei genitali interni, precisate e approfondite successivamente da Galeno. Si riteneva che quella del corpo maschile fosse la forma perfetta, mentre quella del corpo femminile, benché simile dal punto di vista anatomico, fosse meno sviluppata. In altre parole, la donna non era altro che una versione introflessa dell'uomo, come testimonia il frequente ricorso all'espressione 'testicoli femminili' per designare le gonadi femminili. Propria della concezione medievale dell'anatomia femminile è l'idea che l'utero sia diviso in sette cavità. Già nel II sec. Galeno, le cui osservazioni anatomiche erano limitate ai corpi animali, aveva supposto che l'utero umano fosse costituito da due cavità. A partire da questa differenza strutturale, egli aveva formulato un'elaborata teoria fisiologica secondo cui i feti di sesso maschile si formavano nella cavità destra e quelli di sesso femminile nella cavità sinistra dell'utero. Anche in base alla teoria secondo cui l'utero è costituito da sette cavità ‒ probabilmente introdotta nell'Occidente latino dallo pseudogalenico De spermate (forse di origine araba) ‒ la differenziazione sessuale era determinata dalla posizione occupata dal feto nell'utero. Naturalmente, l'introduzione di altre cinque cavità consentiva una maggiore diversificazione delle caratteristiche sessuali, tra cui figuravano anche quelle degli ermafroditi che si riteneva nascessero dal seme caduto nella cavità centrale.
Oltre a queste singolari teorie, la nuova medicina araba di impronta galenica, introdotta in Europa da Costantino l'Africano e da Gherardo da Cremona, aprì una nuova prospettiva allo studio delle malattie delle donne. Mentre per la concezione metodista (così come è esposta nelle opere di derivazione soranica della Tarda Antichità) i corpi maschili e femminili erano sostanzialmente identici nei loro processi fisiologici fondamentali, la teoria galenica (attribuibile non soltanto a Galeno, ma anche ad autori di testi medici bizantini e arabi) si fondava sull'idea che la donna fosse fisiologicamente molto diversa dall'uomo, proprio a causa del fenomeno mestruale. Si riteneva infatti che gli uomini fossero caldi e le donne fredde (alcuni teorici ipotizzarono perfino che le donne più calde sarebbero state comunque più fredde degli uomini più freddi). Le nozioni di caldo e di freddo non si riferivano però tanto alla temperatura corporea (che nel Medioevo non poteva essere misurata con strumenti adeguati), quanto alle capacità dei corpi maschili e femminili di bruciare i residui della digestione. Le donne, dal momento che erano più fredde e meno attive, non potevano consumare interamente tutto ciò che ingerivano, tanto più che non disponevano di mezzi alternativi per espellere i residui, quali una forte sudorazione o una grande quantità di peli sul volto e sul corpo: era dunque il mestruo lo sbocco alternativo per tali residui. Questa credenza era così diffusa che si pensava che le perdite di sangue dal naso potessero servire a sostituire il mestruo.
Dal momento che la regolarità delle mestruazioni era fondamentale per la salute della donna, ogni irregolarità era reputata patologica. L'assenza o l'eccesso delle mestruazioni non erano considerati sintomi di altre patologie, ma vere e proprie malattie. L'amenorrea era concettualmente interpretata non come un'assenza ma come una ritenzione del flusso mestruale, per cui l'eccesso del flusso si giustificava con la necessità di espellere quanto era stato ritenuto. Data la funzione assolutamente vitale attribuita al mestruo per la salute della donna, si comprende l'uso continuo di rimedi atti a stimolare le mestruazioni. Infatti, benché spesso riconoscano che gli emmenagoghi sono usati anche come abortivi, gli autori di testi medici affermano esplicitamente che l'irregolarità del flusso mestruale è il principale ostacolo al concepimento, poiché l'utero può accogliere e nutrire il seme solamente quando è perfettamente depurato.
Un'altra malattia molto diffusa era la suffocatio matricis (soffocamento dell'utero). Gli antichi testi ippocratici ritenevano che l'utero fosse in grado di muoversi all'interno del corpo, causando gravi danni alle parti del corpo con cui era a contatto. Benché sia Galeno sia gli antichi anatomisti alessandrini avessero fermamente rifiutato questa credenza, ritenendola impossibile per semplici ragioni anatomiche, si seguitava a credere che l'utero potesse nuocere ad altri organi (secondo Galeno, emettendo vapori velenosi che raggiungevano le altre parti del corpo). Nonostante le argomentazioni degli anatomisti, l'idea secondo cui l'utero poteva spostarsi seguitò a sopravvivere nell'Occidente latino, come dimostrano in modo estremamente pittoresco gli esorcismi ‒ ben documentati nel corso dell'Alto Medioevo ‒ nei quali si ordinava all'utero di ritornare nella posizione che Dio gli aveva assegnato. Anche nell'XI sec., quando le teorie galeniche furono reintrodotte in Occidente, gli autori di testi medici seguitarono inavvertitamente a inserire elementi della teoria dell'utero 'errante' nelle loro discussioni sull'onnipresente questione del soffocamento uterino.
Nei trattati medici medievali si prendono in esame anche altre malattie dell'apparato genitale, come cancri, lesioni, tumori, sofferenze generiche dell'utero. Nella maggior parte dei casi, l'intervento dell'ostetricia ‒ così come è descritto da autori di sesso maschile ‒ era limitato al regime prenatale e alla somministrazione orale di rimedi nel caso di ritardo delle doglie o di problemi relativi al periodo successivo al parto. Del resto, a eccezione del De curis mulierum di Trota ‒ che, tra l'altro, spiega come suturare le fistole ano-vaginali che si possono formare dopo il parto ‒ e di alcune opere derivanti dai Gynaecia di Muscio (tra cui, per es., due testi inglesi tardo-medievali, uno dei quali contiene i disegni di Muscio sulle posizioni assunte dal feto rispetto al collo dell'utero durante le doglie) le cure ostetriche sono descritte molto raramente.
Naturalmente, i medici medievali non disponevano di molti strumenti diagnostici. In assenza dei raggi X, degli stetoscopi e forse anche dello specolo, gli unici sintomi che potevano essere osservati al di là di quanto le donne stesse affermavano sulle loro sofferenze, erano indizi esterni tra cui, per esempio, i gonfiori o le perdite vaginali, oppure l'assenza di certe funzioni come nel caso della sterilità o dell'interruzione del flusso mestruale. Le poche e non decisive modifiche nella classificazione e nella descrizione delle malattie femminili, introdotte nel corso di questi secoli nella letteratura ginecologica, sembrano quindi essere il frutto delle nuove prospettive teoriche, più che i segni di cambiamenti della realtà biologica vissuta dalle donne.
Per capire fino a qual punto il corpo femminile fosse considerato diverso da quello maschile è sufficiente chiedersi se di fronte a una donna e a un uomo che presentavano gli stessi sintomi, il medico avrebbe emesso la stessa diagnosi. Anche se le raccolte di consilia, che potrebbero rivelarsi molto utili in questo senso, non sono state ancora esaminate dal punto di vista della differenziazione delle diagnosi, il registro di un medico inglese del XV sec., Thomas Fayreford, chiarisce il ruolo che le nozioni di fisiologia e di patologia femminile potrebbero aver svolto nella formulazione delle diagnosi dei medici. Fayreford elenca le cure somministrate a più di cento pazienti, tra cui figurano almeno quarantadue donne, per trentasei delle quali è definita una diagnosi. In dieci casi, circa un quarto del totale delle pazienti esaminate, Fayreford diagnostica la suffocatio matricis, il che induce a supporre che Fayreford ricorra alla suffocatio matricis come diagnosi onnicomprensiva per tutti i disturbi di carattere ginecologico o, più in generale, per quelli a cui non riesce a dare un'altra spiegazione.
Le cure riservate alle donne
La questione del modo in cui erano eseguite le cure mediche si rivela cruciale nel caso delle pazienti, dal momento che la maggior parte di coloro che esercitavano la professione medica erano uomini e la concezione medievale della morale sessuale rendeva necessariamente problematico il contatto fisico tra uomini e donne. Grazie ad alcune illustrazioni e prove documentarie sappiamo, per esempio, che nella maggior parte dei paesi europei, ai medici pratici era consentito appoggiare le dita della mano sul polso delle pazienti per esaminarne il battito o tastare le loro estremità. Sembra persino che fosse lecito esaminare e medicare direttamente il seno femminile. Tuttavia, le cose andavano diversamente quando si trattava del contatto diretto, manuale od oculare, con i genitali. I medici pratici spesso aggiravano questi problemi ricorrendo ad assistenti donne che eseguivano esami manuali e interventi sotto il loro controllo. L'autore anonimo di un testo francese del XIV sec., per esempio, suggerisce ripetutamente ai praticanti di far eseguire certe procedure (faire saigner, faire appliquer les plumes, faire baigner), invece di effettuarle personalmente. Quando nel testo si reputa necessario ricorrere alla manipolazione diretta del corpo della paziente, fa improvvisamente la sua comparsa una 'matrona'.
Tuttavia, il ricorso a mani femminili che operavano sotto la direzione del medico non era sempre la soluzione ideale, e gli autori di testi medici talvolta riconoscono che con questo metodo era praticamente impossibile eseguire certe procedure complesse (come, per es., l'incisione per la rimozione dei calcoli renali) sul corpo di pazienti donne. Nell'Italia meridionale, infatti, un certo numero di donne era abilitato a eseguire operazioni chirurgiche con l'esplicita giustificazione che, dal punto di vista della morale pubblica, era preferibile che le donne fossero operate da altre donne. In ogni caso è chiaro che in tutti i paesi europei le donne erano abitualmente curate da uomini. È probabile che l'interazione tra il medico e la paziente fosse caratterizzata da un "impudico e sottile interrogare e indagare", per riprendere l'espressione di un autore inglese di testi ginecologici. Un certo numero di autori riconosce esplicitamente che le donne stesse erano riluttanti a mostrare i loro mali, e soprattutto quelli di natura ginecologica, agli uomini che esercitavano la professione medica. Considerate queste barriere sociali e culturali, che rendevano impossibile la libertà di dialogo e di contatto fisico tra le pazienti e gli uomini che le dovevano curare, sorgono molti dubbi circa la qualità delle cure mediche a cui erano sottoposte le donne.
Non sappiamo in quale misura le donne provvedessero autonomamente alla cura della propria salute. Come abbiamo già osservato, le donne potevano sia esercitare indipendentemente la professione medica sia lavorare come assistenti dei medici. Il lavoro delle levatrici è invece molto più difficile da documentare e sembra che, almeno fino al Tardo Medioevo, le cure ostetriche fossero eseguite da amici e vicini più che da specialisti. Talvolta, i testi ginecologici e ostetrici, soprattutto quelli redatti in volgare, si rivolgono alle donne, ma non tanto alle levatrici o ad altre specialiste quanto alle pazienti stesse. Tuttavia, non sembra che le donne in grado di leggere e di scrivere considerassero prioritario il possesso di testi medici. È stato dimostrato che solamente un ristretto numero di donne possedeva opere di carattere medico, e che nella maggior parte dei casi si trattava di regimi salutari e di raccolte di ricette, più che di trattati formali di teoria o di prassi. Senza dubbio, molte conoscenze mediche erano trasmesse oralmente, e nel tentare di ricostruire il modo in cui le donne riuscivano a prendersi cura della propria salute e di quella dei loro familiari non si può non tenere conto di questo sapere tradizionale.
di Graziella Federici Vescovini
Una storia della fisiognomica medievale deve individuare almeno due tradizioni che risalgono al mondo classico. La prima comprende i libri biologici di Aristotele, un passo degli Analytica priora (70b), la Physiognomica dello Pseudo-Aristotele e il De physiognomia liber di un anonimo latino ‒ a lungo identificato con Apuleio ‒, forse un medico vissuto nel IV sec. d.C. Quest'ultima opera si presenta come un compendio delle teorie fisiognomiche del medico Losso, del filosofo Aristotele e del retore Polemone. La seconda tradizione comprende invece la Tetrabiblos di Tolomeo nell'interpretazione dei filosofi e degli astrologi arabi. Costui istituisce una relazione strettissima tra le malattie, i temperamenti, le inclinazioni psichiche, la struttura somatica, ossia l'intera fisiognomica, e le influenze planetarie delle natività individuali. La differenza fra la tradizione aristotelica e quella tolemaica risiede appunto nel fatto che quest'ultima, mettendo in relazione fisiognomica e astrologia, introduce un dato completamente assente in Aristotele, la cui dottrina invece si basa sull'analogia fra i comportamenti (éthos) degli animali e i costumi degli uomini (Historia animalium, 488b, 12).
Nella tradizione medievale si affermò la concezione astrologica della fisiognomica propria di Tolomeo, a cui gli Arabi avevano dato largo sviluppo. Per meglio comprendere il nesso strettissimo tra astrologia, fisiognomica e medicina bisogna ricordare la fortuna dello pseudotolemaico Centiloquium, che fra i secc. XIV e XV fu ampiamente commentato. Secondo alcuni dotti latini la fisiognomica è da classificare fra le 'arti' della divinazione, perciò essa stentò a entrare nell'insegnamento scolastico della filosofia e della medicina. Soltanto molto tardi, verso la seconda metà del XIV sec., quando gli scritti biologici di Aristotele ‒ la Historia animalium e i Parva naturalia ‒ e le diverse redazioni dell'Expositio de physiognomia Aristotelis di Giovanni Buridano cominceranno a essere letti nelle scuole, essa, a livello istituzionale, fu accettata dopo essere stata 'liberata' dai fondamenti astrologici arabi. Molto faticosamente si affermarono anche i commenti alla Physiognomica pseudoaristotelica tradotta da Bartolomeo da Messina, come testimoniano le anonime Quaestiones de physiognomica (Bruges, Bibliothèque de la Ville, 489, ff. 51r-55v). Ancora durante il Medioevo, a latere dell'insegnamento ufficiale, conobbero una grande risonanza il Liber compilationis physiognomiae di Pietro d'Abano e lo Speculum physionomiae di Michele Savonarola, opere di fisiognomica astrologica. Ben poco sappiamo invece dell'inedita Physiognomia, da attribuire forse a Guglielmo di Aragona, e di quella di Guglielmo de Mirica. Una delle innovazioni più importanti di queste fisiognomiche sarà lo sviluppo delle teorie mediche galenico-ippocratiche delle complessioni.
A partire dal XIII sec. i trattati più famosi di physiognomica furono il Liber physionomiae di Michele Scoto (1175 ca.-1236), la compilazione arabo-latina del Secretum, nonché alcuni trattatelli anonimi di carattere astrologico. Sia nel Liber physionomiae di Michele Scoto sia nel Secretum la fisiognomica è definita come la scienza della Natura in generale. Secondo Michele Scoto, essa si configura come una scienza medica che tende a determinare la complessione di un individuo e a ritrovare l'umore dominante. Delle componenti psicologiche della fisiognomica egli parla nel terzo libro del suo Liber introductorius. I nessi con le influenze astrologiche sono sviluppati soprattutto per spiegare la crescita dell'embrione, ma non sono trattati in modo così articolato come nell'opera di Pietro d'Abano. Invece, il commento di Ruggero Bacone al Secretum, con la sua ampia discussione sulla fisiognomica intesa come scienza della Natura sia fisica sia biologica, non ha avuto una grande circolazione, anche perché il Secretum fu inserito tra i libri illeciti con il titolo di Epistula Aristotelis ad Alexandrum o anche Mors animae, e in quanto tale condannato. D'altronde, la fisiognomica rientrava tra le scienze divinatorie superstiziose, ed era stata esclusa da Tommaso d'Aquino dalle scienze lecite.
L'idea della physiognomica come scienza medico-psicologica ben definita, inserita in un preciso contesto astrologico, nacque con il fortunato Liber compilationis physiognomiae di Pietro d'Abano (1250 ca.-1315). Si tratta di un'opera redatta a Parigi nel 1295 per il capitano generale di Mantova Bardelone de Bonacossi, e destinata ad avere larga fortuna fino al XV sec. (e oltre), quando ne uscì la prima edizione a stampa a Padova nel 1474. Pietro d'Abano, pur intitolando la sua opera 'compilazione' di fisiognomica ‒ termine che ricorda le compilazioni tratte da Losso, Polemone e Aristotele ‒ si richiama espressamente ai fondamenti astrologici della Tetrabiblos di Tolomeo, e cita anche un aforisma del Centiloquium per escludere ogni determinismo astrologico: l'anima del sapiente domina per mezzo delle stelle (anima sapientis sideribus dominetur). Come Pietro stesso afferma nella classificazione delle scienze presente nel suo Lucidator dubitabilium astronomiae (v. anche cap. XX, par. 3), la fisiognomica non è una disciplina generica, ma rientra nella scienza della Natura, come legge che regola i rapporti armonici tra anima e corpo, e prende il nome da phýsis (Natura) e da nómos (legge). Questa legge di Natura è individuata nei principî espressi nella Tetrabiblos di Tolomeo, secondo cui le disposizioni naturali dell'individuo, le combinazioni dei suoi umori e la sua complessione fisica sono legati al luogo e al tempo della sua nascita, così com'è descritto nella carta del cielo (oroscopo, natività). Secondo Tolomeo, infatti, l'astrologia è una disciplina tecnica che parte dallo studio del temperamento di ciascun uomo, così come esso emerge dal suo cielo di nascita, e dunque si configura come una scienza medica fisico-psicologica in grado di studiare le disposizioni naturali e il temperamento individuale.
In realtà, all'indagine delle nascite di Tolomeo Pietro d'Abano aggiunge tutto l'arricchimento derivante dalla teoria delle complessioni e dei temperamenti di Galeno e di Avicenna, completando ciò con la dottrina medico-fisica delle complessioni dei pianeti rielaborata da Abū Ma῾šar che attribuiva ai pianeti le quattro qualità (caldo, freddo, umido, secco) proprie degli elementi e delle loro combinazioni. Questa dottrina fu oggetto di grandi discussioni da parte degli aristotelici più fedeli, come gli averroisti, per i quali le nature celesti, essendo composte da un quinto elemento, non possono avere le qualità degli elementi del mondo sublunare. Secondo Pietro d'Abano, gli effetti che provengono dalle complessioni fisiche dei pianeti (caldo, freddo, umido o secco) non dipendono dalle loro nature sostanziali, ma dalle loro azioni o qualità, alle quali corrispondono le complessioni e i temperamenti degli individui, secondo una ben determinata tipologia fisiognomico-astrologica: i marziali (Marte), i gioviali (Giove), i malinconici o saturnini (Saturno), i lunatici (Luna), i venusiani (Venere) e così via. La sua fisiognomica ha quindi l'intento di fornire una psicologia descrittiva degli individui, sulla base dei segni somatici derivanti dalla nascita, tra i quali non si privilegia soltanto la forma della testa, ma anche quella di tutte le altre parti del corpo.
In questo modo Pietro d'Abano modificò la fisiognomica aristotelica, dando poca importanza all'analogia tra la fisiognomica umana e quella animale, e contemporaneamente discostandosi dal contenuto della cosiddetta Epistula Aristotelis ad Alexandrum. Il fondamento scientifico della sua fisiognomica resta però assicurato dalla teoria medica, risalente a Galeno, delle complessioni corporee (De complexionibus), schematicamente suddivise in base al prevalere di uno dei quattro umori: la flemmatica (flegma), la sanguigna (sangue), la biliosa (bile gialla) e la malinconica (bile nera). Proprio allo scopo di approfondire la dottrina galenica Pietro, non soddisfatto della traduzione dall'arabo, tradusse dal greco il libro del De complexionibus di Galeno dedicato alla complessione temperata. Nel testo greco egli ritrovò il termine symmetría a proposito delle proporzioni e dell'armonia fra le componenti qualitative, quantitative e umorali della complessione temperata. Questo concetto 'estetico' è applicato alla conformazione fisica dell'uomo di temperata o anche 'iustiziale' natura. In questo modo Pietro d'Abano sviluppò la dottrina di Galeno delle 'complessioni' ‒ criticando, tra l'altro, l'interpretazione che ne aveva dato Avicenna ‒, fino a elaborare una teoria generale nella quale è privilegiata una sola complessione, quella che rappresenta la norma ideale dell'universa natura, detta da Galeno eukrasía: la complessione 'temperata' o 'ben equilibrata', che egli chiama 'media', e che costituisce la regola dell'uomo perfetto e, perciò, saggio, sano e bello. Tuttavia, in quanto tale, questa complessione è rarissima (rarissime inventa), poiché richiede la cooperazione di transiti favorevoli dei pianeti maggiori come Saturno e Giove all'inizio dell'Ariete, e l'aiuto della volontà divina: non a caso, essa fu propria di Gesù Cristo.
La descrizione che Pietro d'Abano teorizzò della simmetria del corpo umano si inquadra dunque nella teoria astrologica delle complessioni dei pianeti dominanti nella 'natività radicale' degli individui. Secondo tale dottrina la durata della vita, le malattie e le guarigioni sono collegate alle caratteristiche fisiche dei pianeti di nascita dell'individuo, e si esprimono in determinati segni della fisionomia individuale secondo le diverse complessioni. La simmetria propria dell'uomo di temperata natura che la fisiognomica di Pietro d'Abano descrive rientra, dunque, in quella che è stata chiamata la 'teoria delle proporzioni', fondata sull'idea di un'armonia cosmica tra cielo e Terra, individuo e pianeta.
In questa prospettiva il filosofo padovano, sviluppando in modo più articolato rispetto alle fisiognomiche arabe medievali la teoria astrologica delle corrispondenze tra individui e astri, sostenne che le caratteristiche dei pianeti e dei segni zodiacali, classificate secondo precise teorie astrologiche, permettono di ordinare la molteplicità dei segni fisici e di interpretarli psicologicamente. Determinate differenze, per esempio, nei tratti della forma della testa, della forma o del colore degli occhi, del naso, e così via, sono ricondotte alla complessione generale, la quale, a sua volta, è fatta risalire alle influenze dei pianeti dominanti sull'individuo al momento della nascita. Questi tratti rivelano in realtà i moti fondamentali dell'anima, cioè i caratteri psicologici e, più in generale, la natura dell'individuo che li possiede. Ciò non significa, tuttavia, che i moti dell'anima siano determinati da quelli del corpo, perché ‒ afferma Pietro d'Abano ‒ la potenza razionale dell'anima può trattenere tutte le inclinazioni del corpo. L'anima, infatti, anche se è in sanguine fore fundata, lo è solamente per le sue operazioni e non per la sua essenza, la quale è divina e separata dal corpo. Essa, pertanto, può sempre porre un freno agli eccessi e agli impulsi disordinati del corpo, per divenire sobria e moderata.
Se si confronta il testo di Pietro sia con l'opera attribuita ad Aristotele sia con il Secretum, emerge subito uno degli aspetti che ne hanno assicurato il successo. Vi è espresso infatti in modo chiaro il principio della proporzionalità e dell'armonia tra psichico e fisico, quell'idea di equilibrio tra anima e corpo che avrà grande sviluppo nell'ideale di uomo del Rinascimento. Inoltre, proprio in base a un più alto concetto di umanità, è accantonata l'analogia aristotelica fra la fisiognomica dell'uomo e quella degli animali inferiori. La symmetría, o isometria, della natura umana temperata e ben equilibrata è, dunque, per Pietro d'Abano, in armonia con la volta celeste e in relazione con il passaggio dei pianeti. Nell'ultima parte del suo Liber compilationis physiognomiae egli sviluppò una ben articolata teoria degli influssi celesti sulle complessioni umane, da cui scaturì una tipologia fisiognomica generale che prescinde dalla distinzione tra uomo e donna. La teoria dell'influsso astrologico delle complessioni fu sviluppata secondo categorie filosofiche che risalgono alle dottrine della causalità proprie della tradizione neoplatonica e non di quella aristotelica. Ciò conferisce un fondamento filosofico alla fisiognomica di Pietro, la quale senza questa parte teorica generale rimarrebbe una pura descrizione dei segni che esprimono il carattere e la natura dell'uomo. Essa resterebbe infatti priva di un ordine e di una classificazione normativa e sistematica, la quale invece rientra fra gli intenti di Pietro d'Abano.
Tutti i principî generali ‒ medici e astrologici ‒ sviluppati da Pietro d'Abano si ritrovano nello Speculum physionomiae del medico padovano Michele Savonarola (1384-1468 ca.), redatto per Leonello d'Este a Ferrara. Anche per Michele Savonarola la fisiognomica è una scienza medico-psicologica fondata sull'astrologia, che stabilisce una relazione tra i tratti somatici caratteristici, le complessioni dei pianeti e le loro combinazioni. La sua fisiognomica medica ha origine in primo luogo dalla 'composizione' umana, la quale segue la 'complessione' corporea. Pertanto è necessario prima di tutto essere a conoscenza della teoria delle complessioni e poi, una volta acquisita questa, risalire alla causa universale, in quanto non si può avere nullius rei cognitio perfecta sine suarum causarum cognitione. Infatti, secondo i filosofi, le cose che si producono nel mondo inferiore hanno due cause: l'una universale e prima, l'altra particolare e seconda. Le realtà inferiori sono ordinate in modo tale che la causa seconda obbedisce alla prima. La causa seconda, o particolare, della composizione umana è la complessione, mentre la causa prima, o universale, è l'influsso del mondo superiore sulla 'natività' dell'individuo. Questo influsso universale ha due origini: la prima è ricavata dall'ascendente al momento della nascita, e la seconda è ricavata dal dominatore dello stesso ascendente.
Anche la fisiognomica del Savonarola si configura quindi come una scienza medico-psicologica, teorico-pratica, che classifica la tipologia umana secondo la dottrina ippocratico-galenico-avicenniana delle complessioni umorali degli individui, in base alle indicazioni fornite dalla loro natività radicale (radix) o genitura. Infatti, come aveva già teorizzato Pietro d'Abano, Savonarola sostiene che la prognosi medica è strettamente legata alla prognosi astrologica (o iudicium). Dal momento che ogni giudizio di natività è individuale, anche la complessione che ne deriva, strettamente connessa con la complessione planetaria, è individuale (Pietro d'Abano, Conciliator, diff. IX). Fra le proprietà essenziali inerenti alla natura umana che il medico deve considerare, sia Pietro d'Abano sia Michele Savonarola includono proprio la natività radicale, accanto alla complessione, alla composizione, alla consuetudo, alla persona e alla madre biologica (matrix).
La physiognomica rinascimentale del XV, XVI e XVII sec. abbandonerà questo fondamento astrologico tolemaico, e trascurerà le intermediazioni arabe per risalire alla tradizione biologica e psicologica elaborata da Aristotele.
L'analisi qui condotta presuppone il riferimento a due discipline, la medicina e la magia, sulla cui classificazione all'interno delle scienze il Medioevo ha visto schierarsi posizioni e dottrine diverse. Come si deve considerare la medicina? Una scienza razionale oppure una mera tecnica operativa, un'arte meccanica? Oppure la malattia è un castigo divino? Inoltre, quale definizione dare al termine magia?
Nel Medioevo le arti magiche e divinatorie ereditate dal mondo greco-latino si erano unite alle tecniche di una magia cerimoniale teurgica e astrologica ‒ derivate dal neoplatonismo e dall'ermetismo arabo-egiziano-persiano ‒ condannate da Agostino in quanto frutto dell'azione del diavolo e quindi illecite, superstiziose ed eretiche. Se col termine magia si intendeva un sapere operativo che si avvaleva di tecniche specifiche, per cui il mago era considerato come una sorta di stregone, oppure come un medico detentore di un potere capace di compiere manipolazioni della Natura, come la guarigione di una malattia, d'altra parte, per la maggior parte dei teologi e dei dotti medievali neppure la medicina era una scienza. Essa era considerata semplicemente un'arte 'meccanica', come sosteneva Averroè nella sua dottrina medica, ripresa negli ambienti cristiani da Tommaso d'Aquino e dai suoi seguaci, i quali però le riconoscevano anche un fondamento teorico.
Da una parte, quindi, vi erano coloro che ritenevano che la medicina avesse un carattere eminentemente operativo e dunque potesse essere avvicinata alla pratica della magia, dall'altra si collocavano i medici razionalisti, come Pietro d'Abano, i quali ritenevano che la medicina fosse una physica, ossia una scienza razionale della Natura, che includeva però anche pratiche operative; una scienza insieme teorica e pratica, esattamente come l'astronomia, la quale al suo interno aveva un aspetto teorico-matematico e uno applicativo. Infatti, nel caso della medicina le pratiche di manipolazione degli elementi naturali non erano considerate meri experimenta disordinati, ma operazioni che rispettavano i principî e le regole delle qualità delle diverse nature, per esempio delle piante, delle pietre e dei metalli. Come scrive Pietro d'Abano, seguendo il De mineralibus di Alberto Magno, si tratta in realtà di virtù fisiche occulte soltanto perché poco conosciute, ma che rientrano perfettamente nell'ordine della Natura.
Il rapporto tra medicina e magia cambia, ovviamente, a seconda delle diverse concezioni di queste discipline. Pietro d'Abano sostiene l'efficacia terapeutica delle immagini dei pianeti in base alla natività del paziente e all'efficacia psicologica dell''incantazione'; quest'ultima è un'operazione di plagio del tutto psichica, la quale agisce sull'immaginazione del malato e lo aiuta nella guarigione. La prognosi medica è quindi sempre prognosi o 'giudizio' astrologico. Infatti nessuna operazione, sia psicologica sia materiale, agit ultra suam speciem, il che esclude tutte le trasformazioni delle forme fisiche, come quelle operate dall'alchimia. L'orazione (o incantatio) in sé non è né vera, né falsa: ciò che conta è la sua intenzione di guarire. Sia per Alberto Magno sia per Pietro d'Abano le pietre e le piante utilizzate per confezionare amuleti e sigilli hanno virtù terapeutiche che non sono misteriose, ma naturali, in quanto date da Dio per la cura degli uomini. Le scuole di medicina astrologica si possono classificare secondo due tradizioni: una razionalista, rappresentata da Alberto Magno, Pietro d'Abano, Tommaso d'Aquino, per i quali le virtù terapeutiche sono naturali, e una costituita da quanti ritengono che tali virtù siano misteriose, cioè non razionali. Le dottrine di questi ultimi risalgono alla tradizione della magia ermetica, e sviluppano una iatromatematica fondata sul principio ermetico della corrispondenza fra microcosmo e macrocosmo, testimoniata dall'Asclepius latino e dal Picatrix, un trattato di magia cerimoniale di ispirazione arabo-spagnola.
Nel Medioevo si sviluppa una melotesia zodiacale, ossia una dottrina risalente a Vezio Valente, il quale nell'Anthologiarum libri novem attribuisce a ogni segno dello Zodiaco una parte del corpo, a sua volta associata a diversi pianeti. Come esempio si può portare quello dell'Ariete cui è assegnata la testa, a sua volta suddivisa in sette parti, corrispondenti ai sette pianeti: l'occhio destro al Sole, il sinistro alla Luna, le orecchie a Saturno, il cervello a Giove, la lingua e la glottide a Mercurio, l'odorato e il gusto a Venere, i vasi sanguigni a Marte. A questa melotesia planetaria si affianca la melotesia decanica, ossia quella che riguarda le influenze sulle diverse parti del corpo delle immagini planetarie corrispondenti ai tre 'decani di ciascun segno' (facies o immagini di dieci gradi in cui sono divisi i trenta gradi di longitudine celeste di ciascun segno zodiacale). La medicina ermetica non stabilisce soltanto i giorni critici, connessi principalmente con le fasi della Luna, e i periodi climaterici, ma prescrive anche le regole dell'assunzione dei farmaci nelle ore più propizie. Essa si associa pertanto alle tecniche delle electiones (ossia delle scelte del momento più favorevole). Queste indicazioni si trovano svolte in forma didascalica nel Centiloquium e nel Fructus (Karpos o De pomo). Il Centiloquium è una compilazione anonima costituita da cento aforismi su temi di medicina ermetica, tratti da tradizioni differenti dalla Tetrabiblos di Tolomeo.
Nei diversi opuscoli ermetici minori, come i vari Liber Veneris, Liber Lunae, Liber Iovis, sulla base della visione ermetica dell'Universo come organismo che contiene ed è tutte le cose, sono elencate specifiche tecniche magiche finalizzate a scopi terapeutici, che consistevano nella manipolazione di piante, di pietre e di animali, allo scopo di metterli in relazione con le entità celesti: si tratta degli aborriti libri imaginum. Questi scritti erano stati proibiti dalle autorità dottrinali latine, ed elencati tra le opere della matematica proibita da numerosi autori come Pietro d'Abano nel Lucidator dubitabilium astronomiae, lo Pseudo-Alberto Magno nello Speculum astronomiae o il maestro averroista Taddeo da Parma (1318) nel suo prologo all'Expositio della Theorica planetarum. Ciò significa che non soltanto i teologi, ma anche i filosofi e gli scienziati di quest'epoca dimostravano di rifiutare una concezione magica della medicina e dell'astrologia.
Pietro d'Abano, uno dei medici 'razionalisti' più autorevoli della fine del XIII sec. e degli inizi del XIV, critica la concezione magica della medicina, definendola 'empirica'. Egli, descrivendo la situazione dottrinale del suo tempo, afferma che la scuola dei medici è divisa in tre rami. Il primo è l'insegnamento dei medici 'metodici' o inartificiales, che considerano solamente la medicina generale, disprezzando i casi particolari. Il secondo è quello degli 'empirici' o sperimentali, che si interessano solamente dei particolari e non ritengono necessaria nessuna scienza generale. Il terzo ramo è costituito dai 'logici' o razionali i quali si collocano su una via di mezzo, poiché ritengono che i particolari debbano rientrare nelle regole universali. Pietro d'Abano si pone in quest'ultimo gruppo, insieme a Galeno. Egli ‒ come molti altri medici razionalisti del suo tempo ‒ faceva rientrare nella medicina empirica le pratiche delle vetulae simplices, le quali manipolavano a fini terapeutici le virtù delle piante, per ricavare filtri e pozioni con i quali guarire i malati (v. anche par. 2). Queste attività erano criticate sia dai medici 'razionalisti', come Bernardo di Gordon o Pietro d'Abano, sia dai teologi, i quali le ritenevano degli experimenta magica compiuti con l'aiuto del demonio. La vetula medica si trasformerà ben presto in vetula sacrilega, la quale opera il maleficium per mezzo del diavolo. D'altra parte, non tutti i medici erano d'accordo nel negare le virtù occulte delle piante o delle pietre. Per esempio, Nicola da Polonia (1271-1316), medico contemporaneo di Pietro d'Abano, non crede nella terapia naturale delle erbe, ma ritiene che da esse si sprigionino qualità non discernibili con la ragione.
Un altro uso molto diffuso nel Medioevo era quello delle immagini astrologiche per la costruzione di talismani e di amuleti. Tuttavia, se è sicuro che medici e filosofi, come Pietro d'Abano o Alberto Magno, utilizzavano immagini dei segni zodiacali (famosi tra tutti il sigillo del Leone e quello dello Scorpione), è incerto se essi ritenessero che la forza del pianeta imprigionata nel sigillo fosse puramente fisica, cioè naturale, oppure magica. Nel primo caso la magia è intesa come un'operazione naturale che non richiede l'intervento di spiriti o di entità necromantiche, mentre nel secondo ci troviamo di fronte a una concezione che unisce la medicina a una pratica magico-talismanica, propria della tradizione ermetica egiziana e della teurgia neoplatonica, come emerge dalla sezione dedicata alla medicina del Picatrix. Il rapporto tra medicina e magia riguarda dunque anche il carattere ‒ naturale o sovrannaturale, angelico o demoniaco ‒ da attribuire ai pianeti.
I medici più famosi del Medioevo ‒ anche per il loro impegno dottrinale e filosofico ‒, come Ruggero Bacone, Bernardo di Gordon e Pietro d'Abano, hanno cercato di espungere dalla medicina tutte le operazioni divinatorie della falsa mathematica, o 'mantica', riconducendo l'insegnamento medico alla conoscenza delle complessioni fisiche in relazione alle nature planetarie da cui sono regolate. Seguendo le indicazioni della Tetrabiblos di Tolomeo, Bacone afferma che gli uomini "se potessero ricevere dei buoni consigli da medici sapienti che conoscono l'astronomia, potrebbero cambiare in meglio le loro cattive complessioni" (Secretum, Introduzione, p. 5). La complessione infatti è individuata dal vero matematico, cioè l'astronomo, qualora "conosca l'età di un re e sappia l'anno, il giorno e l'ora in cui è stato concepito ed è nato" (ibidem); soltanto in questo caso egli può giudicare con certezza la complessione di base del paziente e da questa ricavare le sue attitudini e le sue disposizioni naturali al bene e al male. Bacone chiama tutta la sua scienza, compresa la medicina, scientia experimentalis, intendendo con ciò la conoscenza visiva di tutte le alterazioni e i cambiamenti che possono avvenire, nel presente come nel futuro, e che sono regolati dalle eclissi e dalle rivoluzioni planetarie. Tutte le virtù delle piante, delle erbe e delle pietre, le malattie e la salute infatti dipendono da queste influenze planetarie.
Se alcuni dotti, come Bacone e Pietro d'Abano, sulla scia dell'insegnamento di Alberto Magno sostenevano la validità di operazioni mediche associabili con l'idea di magia naturale, l'uso delle immagini degli 'spiriti' planetari a scopo terapeutico era ritenuto una pratica illecita. Era questo il caso della medicina necromantica professata da Cecco d'Ascoli (Francesco Stabili) durante il periodo dell'insegnamento bolognese (1324-1327) nel suo commento al De sphaera mundi di Giovanni di Sacrobosco. Questo tipo di medicina necromantica non ebbe molta fortuna, e fu fortemente avversato dalle istituzioni religiose e dottrinali che mandarono Cecco al rogo a Firenze nel 1327. I libri delle immagini astrologiche di ispirazione ermetica ‒ Liber Lunae, Liber Veneris, Liber Mercurii, ecc. ‒, in cui si insegnavano i rituali per invocare gli spiriti dei pianeti a fini terapeutici, furono messi al bando come mathematica illecita o prohibita. Pietro d'Abano, nel suo Lucidator dubitabilium astronomiae, ne fa oggetto di una precisa discussione; seguendo l'insegnamento di Tolomeo, che nella sua Tetrabiblos non aveva trattato né delle interrogazioni (ossia delle tecniche di risposta alle domande del richiedente) né delle elezioni (ossia della scelta del momento astrologicamente più favorevole per iniziare un'impresa), Pietro ritiene legittima soltanto la scienza delle semplici immagini astronomiche contrapposta a quella delle immagini magiche. Tuttavia, poiché è lecita e onesta soltanto la prima, si tende a contraffare la seconda, spacciando per oneste anche le immagini illecite.
In un'ottica parzialmente diversa si deve collocare la medicina astrologica di Arnaldo da Villanova (1240-1311 ca.) e la sua dottrina della costruzione dei sigilli dei segni zodiacali; tra questi vi era quello del Leone, amuleto privilegiato da Alberto Magno e Pietro d'Abano. Arnaldo, come quasi tutti i medici del tempo, seguiva i principî della medicina astrologica delle complessioni. A lui è attribuito un testo intitolato Capitula astrologiae de iudiciis infirmitatum secundum motum planetarum quantum ad utilitatem medicorum non modicam, un'opera di iatromatematica naturale, mentre si discute ancora sulla paternità del De sigillis, un trattato sui dodici sigilli dei segni zodiacali, in cui è contenuta anche la ricetta del sigillo del Leone, inviata a papa Bonifacio VIII. Essa fu sicuramente scritta da Arnaldo, il quale vi ha inserito anche i nomi di Gesù e dei santi, che invece non compaiono nella versione attribuita ad Alberto o in quella di Pietro d'Abano, né nei sigilli della tradizione ermetica di Picatrix.
Questo dato testimonia la sua differente concezione della pratica magico-medica dei sigilli. Arnaldo infatti vuol far credere che la virtù medica del sigillo del pianeta si accompagni a una corrispondente influenza dell'invocazione dei santi o dei profeti del Vecchio e del Nuovo Testamento. D'altronde in una sua opera, le Parabole, Arnaldo riteneva che per la guarigione fosse necessario l'aiuto del Salvatore. Tuttavia queste pratiche mediche, che mescolavano formule religiose a figure astrologiche, erano state condannate da Giovanni XXII, secondo una casistica precisa che comprendeva heresis, sortilegium, invocare demones, sacrilegium. È difficile stabilire se Arnaldo credesse nell'efficacia puramente psicologica degli amuleti astrologici ‒ anche grazie all'invocazione del santo ‒, oppure se ritenesse possibile l'azione di forze non lecite. Certamente egli conosceva ‒ e lo tradusse in latino ‒ l'altro testo di magia medica di origine araba, il De physicis ligaturis di Qusṭā ibn Lūqā, il quale, pur non credendo nell'efficacia fisica delle virtù delle pietre, delle piante e delle immagini, dava credito all'effetto della suggestione sulla psiche (effetto placebo) dovuto all'incantazione, in base al principio che le complessioni fisiche, e quindi le malattie che da esse dipendono, sono strettamente legate alle impressioni o suggestioni dell'anima. D'altronde, sull'effetto placebo dovuto alle orazioni o invocazioni, i medici, che seguivano le teorie della medicina razionale delle complessioni astrologiche, erano quasi tutti d'accordo, compreso Pietro d'Abano.
Nel Rinascimento, sia la medicina basata sulla magia naturale astrologica, sia quella fondata sulla magia cerimoniale necromantica, avranno un grande successo, grazie anche alla fortuna riscossa dal Picatrix, un'opera incentrata sulla descrizione dell'efficacia delle immagini astrologiche, ma prive dell'invocazione dei santi. Marsilio Ficino si ricollegherà a queste tradizioni, elaborando una medicina dell'anima che ricorrerà a terapie fondate sui sigilli dei pianeti. Le discussioni che si apriranno sulla vera o falsa magia, sulla vera o falsa astrologia, sulla vera o falsa medicina, investiranno i diversi concetti di Natura e porteranno a nuove concezioni della verità e del sapere. La scienza non sarà più una dottrina della Natura chiusa in un Cosmo finito, entro la sfera di Tolomeo e di Aristotele, dominata dalle combinazioni delle quattro qualità elementari e dall'azione dei pianeti, ma sarà animata dal soffio dello spirito perenne che unisce cielo e Terra, senza confini. Nascerà allora quella magia pneumatica che pervaderà larghi settori del pensiero europeo dei secoli XVI e XVII, fino al sorgere della scienza moderna con Galilei e Copernico.
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