La scienza bizantina e latina: la nascita di una scienza europea. L'alchimia nel Medioevo latino e greco
L'alchimia nel Medioevo latino e greco
L'alchimia consisteva in un insieme di pratiche e di teorie incentrate sull'idea di trasmutazione, un ambito all'interno del quale gli autori medievali individuavano quattro componenti, non tutte necessariamente presenti nelle diverse tradizioni e nelle differenti epoche. In primo luogo una serie di pratiche (practica) destinate a produrre, a partire da materiali vili, i due metalli nobili oro e argento, come pure, in via subordinata, le pietre preziose e, nella tradizione greca, la porpora; in secondo luogo, un complesso di teorie (theorica) sulla costituzione del mondo e della materia, così come sulla generazione dei metalli, che costituivano il fondamento teorico di queste pratiche; in terzo luogo, alcune pratiche e dottrine mediche volte ad applicare alla cura dei corpi affetti da malattie i metodi impiegati nella guarigione dei metalli imperfetti e, infine, le pratiche e le dottrine mistiche che estendevano il processo di trasmutazione all'anima dell'operatore.
L'etimologia del termine 'alchimia' rinvia alla prima componente di questa disciplina; il vocabolo latino alchimia, preso in prestito dall'arabo, è composto dall'articolo al e dal termine kīmiya᾽, che appare in greco nelle forme chēmeía, chymeía, chēmía, chymía; all'origine di queste varianti, che trovano una spiegazione nello iotacismo, si riconosce la radice del verbo chéō (fondere, colare i metalli); le pratiche alchemiche, infatti, consistevano soprattutto in un lavoro di fusione. Nel XVI sec. il ritorno all'etimo greco imporrà la generalizzazione della forma chymía; nel XVII sec. l'abbandono delle teorie trasmutatorie, il riproporsi al centro dell'attenzione di obiettivi medici e tecnici, così come l'integrazione nelle teorie della materia, daranno origine alla chimica moderna.
Le più antiche teorie alchemiche furono indubbiamente quelle cinesi, che tuttavia sembrano avere esercitato una certa influenza in Europa soltanto a partire dal XIII sec., attraverso vie di trasmissione ancora non identificate. Alcune tavolette assiro-babilonesi del VII sec. a.C. attestano del resto la conoscenza in quest'area di una serie di pratiche di colorazione dei metalli e delle pietre; tuttavia, l'idea di trasmutazione propriamente detta ‒ il passaggio dall''aurifinzione' all''aurifattura', per riprendere un'espressione di Needham ‒ è nata nell'Egitto ellenistico e romano. I testi 'degli alchimisti greci' sono stati pubblicati nel 1888 in un'opera curata da Marcellin Berthelot e Charles Emile Ruelle, ma quest'edizione non può essere considerata esauriente e la nuova edizione, intrapresa sotto gli auspici dell'Unione Accademica Internazionale, è ben lungi dall'essere terminata; risulta quindi ancora piuttosto difficile stabilire l'esatta cronologia degli autori e descrivere l'evoluzione delle dottrine e delle pratiche alchemiche.
Della tradizione greca sono sopravvissuti due papiri, tre vasti corpus diversi tra loro per data e contenuto, come pure alcuni trattati isolati: (a) il papiro X di Leida e il papiro di Stoccolma risalgono, a giudicare dal tipo di scrittura, al IV sec. e si tratta di due sezioni della stessa raccolta di ricette, relative all'oro, all'argento, alle pietre preziose e alla porpora; il nome più citato in questa raccolta, compilata a partire da opere anteriori, è quello di Democrito; (b) il corpus M, vale a dire il ms. gr. 299, conservato nella Biblioteca Marciana di Venezia, copiato nell'XI sec., probabilmente a Costantinopoli; purtroppo questo manoscritto è mutilo, ma, grazie a una vecchia tavola, possiamo ricostruire a grandi linee il suo contenuto originario e riconoscere che si tratta di una raccolta di scritti, molto probabilmente compilata alla corte di Eraclio (VII sec.), per iniziativa di un certo Teodoro, un dignitario di corte vicino a Stefano di Alessandria; (c) il corpus B, cioè il ms. gr. 2325 conservato nella Bibliothèque Nationale di Parigi, redatto nel XIII sec., il cui luogo di provenienza è sconosciuto; questo manoscritto contiene una raccolta di testi, forse costituita ai tempi di Michele Psello (1018-1078), la maggior parte dei quali, di carattere prevalentemente operativo, si ritrova anche nel corpus M; l'intera raccolta, del resto, sembra essere stata costituita per scopi pratici; (d) il corpus AL, vale a dire il ms. Parisinus 2327 conservato nella Bibliothèque Nationale di Parigi, che fu copiato nel 1478 nella città cretese di Hiràklion da Teodoro Pélécanos ed è composto da due sezioni, delle quali la prima corrisponde esattamente al manoscritto B, mentre la seconda riunisce una serie di testi, alcuni dei quali molto antichi e di origine sconosciuta; benché disposti in un diverso ordine, gli stessi testi si ritrovano anche in un manoscritto conservato nella Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, Plut. 86, 16 (=L), copiato nel 1492 in un luogo non identificato da Antonio Dranganas, che potrebbe essere sia una copia sia un gemello del precedente.
In questi tre corpus si succedono senza soluzione di continuità testi risalenti a periodi tra loro molto diversi; tuttavia, attraverso un'analisi critica interna ed esterna è possibile stabilire a grandi linee una cronologia e giungere alla distinzione di tre periodi. Il primo è quello degli 'antichi autori'. Gli autori dei testi alchemici concordano tra loro nel ritenere che i Physikà kaì mystiká (Le cose naturali e iniziatiche), attribuiti a Democrito, siano l'opera alchemica più antica. Questo trattato è mutilo; si ritiene, infatti, che in origine fosse composto da quattro libri dedicati all'oro, all'argento, alle pietre preziose e alla porpora. È difficile stabilire con esattezza la sua data di composizione, tuttavia, dal momento che Seneca e Plinio conoscevano alcune ricette alchemiche di Democrito, si può presumere che quest'opera risalga perlomeno all'inizio della nostra era. L'esistenza di elementi comuni tra questo testo e i falsi scritti dello Pseudo-Democrito, redatti da Bolo di Mende (forse verso il 150-100 a.C.), non è stata definitivamente provata; un Libro V, dedicato a Leucippo, è un'opera separata, forse contemporanea.
Ci sono inoltre pervenuti frammenti come pure brevi trattati redatti da autori considerati contemporanei di Democrito; tra essi ricordiamo il mago persiano Ostanès, maestro di Democrito; Pamménès e Pibéchius, il cui nome è di origine egizia; Maria di Amram, autrice di un importante trattato relativo agli strumenti alchemici; Comarios ('gran sacerdote'); in altri casi ci troviamo in presenza di pseudonimi, tra i quali, per esempio, la regina Cleopatra, la divinità Agatodemone, Ermete Trismegisto, o ancora Iside, la cui Lettera a Horus è ispirata ai Physikà; anche la Chimica di Mosè, un ricettario compilato nello stesso periodo, presenta molte attinenze con i Physikà.
Il secondo periodo è caratterizzato dalla figura di Zosimo di Panopolis, l'attuale Ahmim nell'Alto Egitto, probabilmente attivo verso il 300 d.C. e autore di una grande opera intitolata Imouth (Imhotep), composta da 28 libri, ciascuno dei quali contrassegnato da una lettera dell'alfabeto. Nei corpus che ci sono pervenuti sono contenute alcune sezioni piuttosto vaste (le 'memorie autentiche') di quest'opera, così come un certo numero di capitoli (kephálaia) riordinati secondo un criterio didattico da un compilatore bizantino (alcuni dei quali dedicati a Teodoro e altri a Eusebia). Conosciamo i titoli di alcune sezioni di questo trattato: Sull'eccellenza; Secondo l'azione; Sulla lettera Omega; Sugli strumenti e i forni; Sull'acqua divina; Il libro di Sophé (Khéops); Il conto finale; tuttavia, non è facile stabilire quale fosse l'esatta disposizione di questi titoli nell'opera originale. Zosimo opera una sintesi tra i testi dei suoi predecessori e la filosofia greca, l'ermetismo religioso e soprattutto la gnosi; le analogie con i manoscritti di Nag Hammadi sono infatti molto numerose.
Il terzo periodo, che si estende lungo tutta l'era bizantina, è quello dei commentatori. Gli scritti posteriori a Zosimo, redatti nel periodo compreso tra il IV e il VII sec., sono infatti prevalentemente di carattere esegetico. Sinesio, forse vescovo di Cirene, ma in ogni caso attivo tra il 370 ca. e il 413 ca., commentò su incarico di Dioscoro, sacerdote del tempio di Serapide ad Alessandria d'Egitto, la sezione iniziale del libro di Democrito; Olimpiodoro, autore forse identificabile con l'omonimo filosofo neoplatonico del VI sec., commentò il trattato Secondo l'azione di Zosimo, stabilendo una serie di concordanze con una dossografia dei presocratici. Il Filosofo Cristiano e il Filosofo Anonimo, attivi nel VI o nel VII sec., confrontarono tra loro, tema per tema, le opinioni dei loro predecessori, compilando in tal modo ricche collezioni di frammenti.
L'origine e l'evoluzione dell'alchimia greca sono legate all'interazione tra la teoria e la pratica. Alla base dell'alchimia troviamo diversi fattori, quali l'abilità tecnica degli artigiani greco-egiziani, che consentiva loro di imitare molto fedelmente l'oro, l'argento, le pietre preziose e la porpora; la dottrina della mímēsis, secondo cui la téchnē (l'arte, la tecnica) doveva proporsi lo scopo di imitare la Natura e il fine ultimo di ottenere risultati altrettanto soddisfacenti, se non migliori; il declino del razionalismo greco e il conseguente emergere delle diverse rivelazioni (rinunciando a conoscere la verità attraverso la sola ragione, i ricercatori finirono inevitabilmente per rivolgersi alla rivelazione); la teoria della simpatia universale rinnovata dallo stoicismo, secondo cui tutte le componenti del Cosmo erano legate tra loro da rapporti occulti di simpatia e antipatia, individuabili attraverso l'astrologia e la magia; l'intuizione dell'unità della materia. I Physikà kaì mystiká combinano tra loro tutti questi elementi. Riuniti nel tempio di Menfi, Democrito e i suoi amici mettevano in opera le ricette alchemiche senza riuscire a operare la trasmutazione. Evocata dagli inferi, l'ombra del maestro Ostanès rivelò loro che i libri erano nascosti nel tempio; quindi una colonna si schiuse lasciando apparire la formula della simpatia universale, ossia la Natura godeva della Natura (simpatia), la Natura vinceva la Natura (antipatia), la Natura dominava la Natura (neutralizzazione). Le operazioni alchemiche erano diversificazioni di ricette artigianali, ideate in base alle simpatie rivelate dai rapporti tra i colori, attraverso cui ci si proponeva di produrre una baphḗ (tintura), vale a dire una modificazione delle proprietà fisiche, completa (katabaphḗ) e resistente alla prova del fuoco, come, per esempio, la doratura e l'argentatura dei metalli vili, le leghe con una bassa percentuale di metalli pregiati in cui questi ultimi acquistavano tuttavia un grande risalto, le leghe colorate, la placcatura, la tintura vegetale, la tempra, la mordenzatura e così via.
Parallelamente, la tradizione attribuisce a Maria di Amram il merito di aver intrapreso per la prima volta lo studio della sublimazione e della distillazione, dello stato solido e dello stato gassoso, osservando che alcuni corpi (i composti a base di mercurio, zolfo e arsenico) si trasformano in vapori (aithálai) che, a loro volta, sono suscettibili di solidificarsi, condensarsi (distillazione) o fissarsi sui metalli, facendo assumere loro un altro colore. Questi procedimenti presupponevano l'uso di nuovi strumenti. Nelle operazioni di distillazione si impiegava l'alambicco nella sua forma classica, dotato cioè di una cucurbita (lopás), di un capitello (bĩkos) e di un tubo di scarico (sōlḗn); in quelle di sublimazione si utilizzava il phanós o aludella, un recipiente di argilla sormontato da un coperchio conico e, per la colorazione, la kērotakís, uno strumento che derivava dalla tavolozza riscaldata impiegata nella tecnica pittorica dell'encausto, costituito da un vaso chiuso in cui i fogli di metallo erano sottoposti all'azione colorante dei vapori circolanti al suo interno. Il principale ingrediente utilizzato in tutte queste operazioni era l'acqua divina o acqua di zolfo (theĩon hýdōr, hýdōr theíou), vale a dire una soluzione a base di zolfo, oppure il mercurio o, anche, un'entità teorica.
L'originalità di Zosimo è difficilmente valutabile a causa della lacunosità degli scritti anteriori (soprattutto di quelli di Maria) e dell'assenza di informazioni sui contemporanei con cui entrò in polemica. Secondo Zosimo, l'alchimia era un'arte divina e sacra, i cui segreti erano stati rivelati alle donne dagli angeli ribelli. La materia conservava il carattere di unicità nel suo ciclo di trasformazioni (l'uno si identificava col tutto, da esso proveniva e a esso tornava). L'acqua divina (forse identificabile con il mercurio) era la base di questa unità, l'elemento costitutivo degli esseri (la presenza del tutto in ogni cosa). Secondo Zosimo, quindi, il processo di trasmutazione consisteva nel ritorno a uno stato indifferenziato, avido di trasmutazione, e nella reincorporazione del principio di trasmutazione. Questo agente era il pneũma, nozione ambigua che designava sia lo spirito sia le proprietà volatili delle sostanze che si liberavano nel corso della sublimazione e della distillazione. Bisognava liberare il pneũma dai corpi (sõma) dei metalli o trasformare i corpi in spiriti, per poi renderli di nuovo corporei o incorporarli (spiritualizzare ciò che era corporeo e rendere corporeo ciò che era spirituale). Il pneũma era così assimilato alla baphḗ. Le operazioni che si svolgevano nel corso della kērotakís erano descritte sotto la forma di visioni, durante le quali i metalli erano torturati, uccisi e riportati in vita. Zosimo stabilì, molto probabilmente per la prima volta, un'omologia tra la trasformazione dei metalli e quella subita dall'operatore. L'uomo carnale, preda dei demoni e del destino, produceva tinture casuali, legate alle condizioni astrologiche (kairoí); grazie al suo metodo infallibile, ricalcato sui percorsi naturali, l'uomo pneumatico invece si emancipava dal determinismo materiale, raggiungendo così il divino. Olimpiodoro svilupperà poi le concezioni filosofiche di Zosimo, sottolineando le concordanze esistenti tra l'acqua divina e il 'principio unico' (archḕ mía) dei filosofi presocratici.
Come dimostrano le date dei testi dei corpus, l'esistenza di manoscritti composti di brani scelti e la compilazione di ricette sparse, nel mondo bizantino l'alchimia seguitò a essere praticata nel corso di tutto il Medioevo e, in alcuni casi, fino al XIX sec.; tuttavia, il suo periodo veramente creativo sembra essere stato piuttosto breve. Le nove lezioni (discorsi solenni) redatte da Stefano di Alessandria durante il regno di Eraclio sono soprattutto un commento retorico ai testi di Zosimo, come, del resto, i poemi attribuiti a Eliodoro, Teofrasto, Ieroteo e Archelao. Nell'XI sec., Psello integrò l'alchimia nella rinascita dell'interesse per la filosofia neoplatonica e per le teologie orientali; nel XIV sec. l'alchimia bizantina si aprì largamente alle influenze occidentali. Il manoscritto Anonimo di Zuretti (Città del Vaticano, BAV, Vat. gr. 1134), copiato nel 1376 a Oppido Mamertina in Calabria, utilizzò i classici dell'alchimia latina, e nel 1394 l'alchimista polacco Léonard de Maurperg visitò una scuola greca, situata a dieci giorni di marcia da Tabrīz, dove i maestri Florus, Alessandro e Olimpio rifiutarono di svelargli il segreto; infine, nel XVI sec. Trevisano portò a termine i suoi sforzi a Rodi, lavorando, tuttavia, su testi latini.
Prima del XVI sec. l'alchimia greca non esercitò una profonda influenza sul mondo latino; una compilazione di ricette che circolava sotto il nome di Ermes, la Kleidíon cheirokmḗtōn (La piccola chiave delle abilità) fu tradotta in latino tra il V e il VI sec. con il titolo improprio di Mappae clavicula; integrata nel corso della sua tradizione manoscritta con un ricettario esclusivamente tecnico, le Composizioni di Lucca, la Mappae clavicula divenne poi una delle principali fonti dei ricettari medievali, ma il suo carattere alchemico passò inosservato. Secondo la cronaca di Adamo di Brema, nell'XI sec. un ebreo convertito, un certo Paolo, al ritorno da un viaggio a Bisanzio promise all'arcivescovo di Amburgo, Adalberto, di trasformare il rame in oro fino, senza tuttavia riuscire a tener fede alla sua promessa. Come è stato osservato, in realtà l'alchimia latina deve tutto all'alchimia araba e quasi nulla a quella greca.
La prima traccia dell'influenza dell'alchimia araba nell'Occidente latino è individuabile nella Diversarum artium schedula (Breve esposizione delle diverse arti) redatta in Sassonia, verso il 1125, da Teofilo, pseudonimo del monaco benedettino Ruggero di Helmarshausen. In questo manuale di artigianato monastico è riprodotta in appendice una ricetta per produrre oro spagnolo a partire da rame rosso, cenere di basilisco, sangue di uomo dai capelli rossi e aceto. Questa ricetta proviene da una practica conservata in un manoscritto più tardo (Palermo, Biblioteca Comunale, 4° Qq 10), tradotta dall'arabo e connessa al corpus di Ǧābir; sembra che Ruggero dovesse la conoscenza di questa ricetta all'ambiente salernitano. Nella stessa epoca, infatti, Adelardo di Bath arricchì la Mappae clavicula con alcune ricette tradotte dall'arabo.
Una parte rilevante degli scritti arabi diffusi in Occidente nel corso della prima metà del XII sec., grazie all'opera dei traduttori spagnoli, era costituita da testi alchemici; l'11 febbraio del 1142 Roberto di Ketton portò a termine la sua traduzione del Morienus, un'opera di cui si è perduto l'originale arabo, che descrive l'iniziazione del principe Ḫālid ibn Yazīd all'alchimia sotto la guida del monaco bizantino Morienus (Marianus), un discepolo di Stefano di Alessandria. Nello stesso periodo Ugo di Santalla tradusse in latino il Libro dei segreti della creatura di Balinas (Apollonio di Tiana), un'enciclopedia cosmologica il cui nucleo originario potrebbe risalire al VII sec. e di cui ricordiamo il capitolo più celebre, la Tabula smaragdina (un'altra versione di questa Tabula, arricchita da una parafrasi attribuita a Ermes, fu probabilmente tradotta da Raimondo di Marsiglia). Per quanto riguarda Gherardo da Cremona, il più celebre traduttore di questo periodo, abbiamo notizia, grazie alla Vita compilata dai suoi discepoli, di tre traduzioni di testi alchemici: i Libri de septuaginta di Ǧābir ibn Ḥayyān (IX sec.), il De aluminibus et salibus, minuziosa classificazione degli allumi e dei sali eseguita nello spirito di al-Rāzī (X sec.), e il Lumen luminum attribuito ad al-Rāzī o ad Aristotele; probabilmente, Gherardo tradusse anche una versione, oggi perduta, del Lapidario (o De lapidibus) di Aristotele, un testo apocrifo indirettamente ricollegabile alle scuole mediche siriache e persiane del VII sec. (di questa traduzione ci sono pervenuti soltanto alcuni frammenti citati nell'opera dell'enciclopedista Arnaldo di Sassonia). Benché molte altre traduzioni siano anonime, si può ritenere che alla fine del XII sec. la maggior parte delle opere alchemiche arabe fosse già stata tradotta in latino.
Per l'Occidente latino l'alchimia rappresentava una novitas gravida di promesse e di minacce; le sue pratiche sembravano poter svolgere un ruolo importante nelle arti e nei mestieri, e le sue teorie completavano la conoscenza del mondo minerale. Per quanto riguardava i minerali e i metalli, infatti, a quel tempo si conoscevano solamente le descrizioni di Plinio e di Isidoro, le informazioni farmaceutiche contenute negli erbari e le pratiche magiche dei lapidari; d'altra parte, il carattere divino, sacro e rivelato dell'alchimia, e le strategie linguistiche che ne derivavano, rappresentavano decisamente un ostacolo per l'integrazione del nuovo sapere. Così, l'alchimia finì con l'occupare una posizione instabile nelle diverse classificazioni delle scienze. Il De divisione philosophiae redatto a Toledo da Gundisalvi riconduce l'alchimia alla scienza naturale insieme alla medicina, all'astrologia giudiziaria, alla nautica, alla catottrica, alla necromanzia e alla fisica; osservando che i metalli sono sottoposti agli influssi dei pianeti, Daniele di Morley, invece, la inserisce nell'astrologia.
In effetti, il problema più grave dell'alchimia arabo-latina fu quello della sua compatibilità con il nuovo Aristotele. Alla fine del terzo libro dei Meteorologica, Aristotele promette una descrizione dettagliata dei metalli e dei minerali non metallici, ma questo progetto non è realizzato nell'attuale quarto libro, un trattato originariamente indipendente incorporato ai Meteorologica dalla tradizione greca. I testi di Teofrasto che colmano questa lacuna erano sconosciuti nel Medioevo latino; il quarto libro dei Meteorologica era stato tradotto dal greco nel 1156 da Enrico Aristippo, arcidiacono di Catania. Nei decenni seguenti Gherardo da Cremona tradusse in latino la versione araba di quest'opera, eseguita da Yaḥyā ibn al-Biṭrīq, arrestandosi tuttavia alle soglie del quarto libro; verso il 1200, il primo commentatore dei Meteorologica, Alfredo di Sareshel (Alfredo l'Inglese), consapevole delle insufficienze del testo aristotelico, inserì alla fine di quest'ultimo tre capitoli intitolati De mineralibus o De mineris, che accompagneranno i Meteorologica in tutti i manoscritti della translatio vetus e saranno ritenuti, fino al XVI sec., opera dello Stagirita.
Questi capitoli ‒ dedicati alla formazione delle pietre, all'origine delle montagne, alla classificazione dei minerali (pietre, sostanze liquefattibili, diverse forme di zolfo, sali), ma anche all'origine dei metalli ‒ sono una traduzione in forma sintetica di una sezione del Kitāb al-Šifā᾽ di Avicenna, il quale, basandosi sulla tradizione alchemica, affermava che i metalli hanno origine dall'unione del mercurio con una terra solforosa, vale a dire dall'unione di un principio fusibile con un principio combustibile (ossidabile). La qualità dei costituenti e l'intensità della combinazione determineranno il grado di nobiltà dei metalli. Dal momento, però, che l'arte è meno abile della Natura, gli artifices alkimie, benché capaci di privare i metalli vili dei loro caratteri accidentali, del colore, del gusto, della sonorità, secondo Avicenna riuscivano a realizzare solamente una trasmutazione approssimativa; la vera trasmutazione poteva essere operata soltanto attraverso la modificazione della composizione elementare e cioè riducendo i metalli vili ai loro costituenti originari. Questo testo era suscettibile di due interpretazioni. Da un lato il suo rifiuto dei metodi sofistici degli operatori ignoranti di filosofia poteva passare per una critica dell'alchimia, tanto che gli avversari di quest'ultima si richiameranno fino al XVII sec. alla frase sciant artifices alkimie species transmutari non posse; dall'altro lato, lo sviluppo della teoria alchemica dello zolfo e del mercurio trovava un'eco negli scritti alchemici, autentici o apocrifi, attribuiti ad Aristotele e ad Avicenna, e rendeva possibile l'utilizzazione dei testi alchemici da parte del pensiero scolastico, così come la relativa pratica evocata nella seconda parte della frase, nisi reducantur in primam materiam.
Le prime opere originali dell'alchimia latina fecero la loro comparsa nel corso della prima metà del XIII sec., nell'ambiente culturale riunitosi attorno a Federico II (1198-1250); Michele Scoto (1175 ca.-1236) redasse un'Ars alchemie e un Lumen luminum, costituiti soprattutto da ricette, in cui citava molti suoi contemporanei, in gran parte arabi; anche Elia da Cortona (1182-1253), successore di Francesco d'Assisi alla guida dell'ordine francescano, compose (tra il 1232 e il 1239) un Lumen luminum diviso in sei libri, dedicati agli allumi, ai sali e alle boraci, alla trasmutazione e ai suoi principî teorici, come pure alla produzione delle pietre preziose. Nicola il Peripatetico, che Alberto Magno identificava con Michele Scoto, compilò (prima del 1240) una serie di Quaestiones in cui ricorreva all'alchimia per discutere temi tratti dal terzo e dal quarto libro dei Meteorologica di Aristotele; riferendosi frequentemente alle considerazioni corpuscolari di Urso di Salerno, si preoccupava inoltre di interpretare in termini aristotelici le pratiche alchemiche e, in particolare, la sublimazione e la decolorazione dello zolfo e dell'orpimento, il cambiamento delle proprietà dei metalli, i metodi attraverso cui ottenere le leghe ed eseguire le saggiature e la distillazione del vino in alcole. Risale allo stesso periodo il Liber perfecti magisterii, attribuito ad Aristotele e chiaramente ispirato ai Meteorologica, un testo diviso in tre rationes; le prime due sono dedicate alla descrizione sistematica dei minerali e alla teoria della loro composizione, mentre la terza è una practica in cui sono descritti i processi di purificazione e di preparazione delle diverse sostanze. Giovanni di Alessandria, infine, redasse il Liber sacerdotum, un grande ricettario che combina tra loro procedimenti arabi e brani tratti dalla Mappae clavicula. In tutte queste opere troviamo numerosi riferimenti a testi e autori contemporanei; lungo le sponde del Mediterraneo, infatti, si era formata una vera e propria rete di alchimisti che collegava tra loro l'Italia, la Francia meridionale, la Spagna, la Tunisia, il Marocco, Alessandria d'Egitto e la Siria, e che consentiva agli adepti cristiani, ebrei e musulmani di confrontare i diversi procedimenti e di sperimentarli insieme (nell'alchimia, così come nella farmacopea, le sostanze importate da paesi lontani vennero a poco a poco sostituite dai loro equivalenti locali).
Al di là dell'apparente pullulare di interpretazioni divergenti e di operazioni specifiche, i testi di questo periodo lasciano intravedere un fondo comune ben definito di teorie, di procedimenti, di strumenti, di sostanze e di apparecchi, che seguiterà a essere utilizzato in Europa fino al XVII secolo. Si riteneva che in un mondo costituito dai quattro elementi ‒ terra, acqua, aria e fuoco ‒ i minerali fossero a loro volta dei composti, formatisi a poco a poco nel seno della Terra sotto l'influsso degli astri a partire dagli elementi e attraverso due costituenti particolari, lo zolfo e il mercurio, che ne spiegavano le proprietà fisico-chimiche. La diversa distribuzione di queste proprietà era all'origine della distinzione tra i metalli nobili (oro e argento) e i metalli vili (rame, stagno, piombo e ferro, il più resistente alla fusione); questi ultimi erano ritenuti imperfetti, malati e incompleti. Per perfezionare l'opera della Natura l'alchimista doveva scomporli nei loro costituenti originari e poi, dopo aver purificato questi ultimi, doveva combinarli in un nuovo insieme aggiungendovi un misterioso complemento chiamato medicina, tintura o pietra filosofale; a tal fine bisognava eseguire un certo numero di operazioni codificate, utilizzando un'apparecchiatura specifica.
Il laboratorio alchemico occidentale, interamente ereditato dagli Arabi ‒ che, a loro volta, avevano perfezionato le apparecchiature greche ‒ assunse il suo aspetto definitivo all'inizio del XIII secolo. Alcuni trattati alchemici ‒ tra i quali, per esempio, quello Degli apparecchi e delle fornaci di Zosimo di Panopoli (Venezia, Biblioteca Marciana, gr. 299; Parigi, BN, gr. 2325 e 2327) o il Libro dei segreti di al-Rāzī ‒ sono illustrati con figure molto schematiche di apparecchi, disegni, che, omologhi a quelli della Kurzrezept, lasciano il compito di precisare i dettagli dell'esecuzione all'abilità dell'operatore e alla tradizione orale. Nel corso della tradizione manoscritta, questi disegni si sono corrotti, in alcuni casi per la negligenza e in altri per gli interventi dei copisti; è possibile, tuttavia, confrontare queste immagini con le descrizioni dettagliate dei trattati operativi e con i pochi esemplari rinvenuti negli scavi archeologici. Tra questi ultimi ricordiamo l'unico esemplare sopravvissuto di un alambicco greco-romano, conservato presso il museo di Nicosia, e l'apparecchiatura di vetro e ceramica per la distillazione, della prima metà del XIV sec., conservata ed esposta presso la Cour Napoléon del Louvre. Per quanto riguarda il XVI sec., disponiamo di un maggior numero di reperti, figure e descrizioni; un laboratorio alchemico completo è stato rinvenuto a Kremsmonster (Austria) e un altro, ancora inedito, a Colonia, mentre nel museo di storia della farmacia di Heidelberg sono conservati numerosi esemplari di apparecchi del XVI e del XVII sec., non molto diversi da quelli medievali.
La struttura del laboratorio chimico e alchemico medievale era costruita in funzione dell'applicazione del fuoco a un numero canonico di operazioni, e ospitava quindi il forno a riverbero o athanor, il forno di fusione, il forno a muffola per le prove, il semplice focolare per scaldare gli strumenti, ma anche il bagnomaria, il bagno di letame, il bagno di sabbia e il bagno di cenere. A ogni singola operazione corrispondeva un apparecchio con funzioni meccaniche o termiche particolari: per esempio, nelle operazioni di calcinazione era impiegato il crogiolo di porcellana o la coppella, in quelle di sublimazione l'aludella, in quelle di coobazione o circolazione con l'alambicco cieco il pellicano o i gemelli. La distillazione poteva aver luogo per ascensione attraverso l'alambicco, per discensione attraverso il botus barbatus (crogiolo su crogiolo) o attraverso il filtro; il passaggio costante dallo stato solido a quello gassoso e viceversa richiedeva la tenuta stagna dei recipienti, ottenuta attraverso i luti o con il sigillo di Ermes. Questo tipo di strumenti alchemici rimarrà quasi immutato fino al XVIII sec.; in seguito saranno perfezionati soltanto gli strumenti per la distillazione, per venire incontro alle esigenze della distillazione frazionata, che richiedeva la separazione delle sostanze i cui punti di ebollizione non erano molto diversi tra loro. La serpentina era in quell'epoca poco diffusa e appare nella descrizione della distillazione dell'alcole di Taddeo Alderotti (1215/1223-1295); d'altra parte, gli strumenti per la misurazione del peso dei corpi, scarsamente rappresentati nel laboratorio alchemico medievale, si diffonderanno successivamente sotto l'influenza degli sperimentatori. La prima bilancia è raffigurata in un manoscritto dell'Ordinal of alchemy (1480 ca.) redatto da Thomas Norton, in cui appare all'interno di un contenitore di vetro.
Come gli alchimisti, anche i farmacisti e gli orefici utilizzavano questo insieme di strumenti, e, per ottenere le materie prime, ricorrevano allo stesso fornitore, lo speciarius, il mercante di droghe.
Grazie alle preziose integrazioni apportate all'aristotelismo, l'alchimia si inserì nella cultura generale diffusa dalle enciclopedie, bussò alle porte delle università e, verso il 1250, ebbe un grandissimo sviluppo. Essa iniziò a occupare uno spazio sempre più vasto nei capitoli dedicati dagli enciclopedisti al mondo minerale. Il De proprietatibus rerum, redatto tra il 1230 e il 1240 a Magdeburgo da Bartolomeo Anglico, per esempio, è compilato a partire da un Lumen luminum, come, del resto, le integrazioni (Tommaso II) al De natura rerum redatto da Tommaso di Cantimpré prima del 1244; si ricorda inoltre lo Speculum naturale di Vincenzo di Beauvais, la cui versione definitiva, che risale al 1256-1259, utilizza ampiamente il trattato sugli allumi e sui sali e il De anima in arte alchemiae attribuiti ad Avicenna.
Ma fu soprattutto Alberto Magno (1193 ca.-1280) che, nei suoi Meteororum e soprattutto nel De mineralibus (1250-1254), integrò l'alchimia nel modello aristotelico, basandosi sulla lettura critica dei testi e sulla conoscenza diretta degli operatori alchemici del suo tempo. Il terzo libro di questo trattato è dedicato ai metalli in generale, e discute le loro cause (materiale, efficiente e formale) e le loro possibilità di trasmutazione; mentre secondo Aristotele i metalli contengono acqua e terra in proporzioni diverse ‒ che spiegano i loro differenti gradi di fusibilità e combustibilità (ossidabilità) ‒ e si formano nella terra grazie a due tipi di esalazioni, secca e umida, originate dall'acqua e dalla terra elementari, per Alberto, invece, i metalli sono costituiti da una combinazione di umidità densa e terra sottile (corrispondenti, allo stesso tempo, alle due esalazioni aristoteliche e ai due principî alchemici, lo zolfo e il mercurio), che è sottoposta a un lento processo di cottura nelle viscere della Terra. I metalli, inoltre, secondo Alberto sono completati da una forma sostanziale; il lavoro di trasmutazione dovrà quindi proporsi lo scopo di ridurre i metalli alla loro materia comune, di purificare lo zolfo e il mercurio e di introdurre un'altra forma sostanziale, utilizzando le potenzialità presenti nella Natura.
Un atteggiamento così aperto non poteva che favorire la costituzione di un corpus di testi alchemici apocrifi; delle ventotto opere attribuite falsamente ad Alberto, il trattato Semita recta, di cui si ha notizia a partire dall'inizio del XIV sec., è quello più vicino al suo pensiero. In questo trattato, dopo aver analizzato gli errori più comuni degli alchimisti, l'autore consiglia di ridurre i metalli alla loro materia prima, e spiega la loro generazione da zolfo e mercurio; quindi descrive gli spiriti (o materie volatili) da cui si può ottenere la tintura (mercurio, zolfo, arsenico, sale ammoniaco) e le diverse operazioni da eseguire sugli spiriti e sulla materia dei metalli su cui deve essere applicata la tintura.
Un analogo tentativo di conciliare alchimia e aristotelismo è individuabile anche nel Liber secretorum alchimie (1257) di Costantino da Pisa e In libros meteorologicorum di Tommaso d'Aquino, che assimila lo zolfo e il mercurio alle due esalazioni di Aristotele. Anche i francescani si dedicarono all'alchimia; tra essi ricordiamo Elia da Cortona, che subì un processo nel corso del quale si vide rimproverare il suo interesse per questa disciplina, e Paolo di Taranto, lettore presso il convento di Assisi verso il 1300, oltre che autore della Summa perfectionis magisterii, già attribuita a Geber (Ǧābiṛ ibn Ḥayyān), in cui è riconoscibile lo sforzo di organizzare il nuovo sapere sul modello dei trattati universitari. Quest'opera è divisa in quattro libri e strutturata come una summa scolastica; dopo aver risposto in modo metodico alle obiezioni, l'autore descrive le proprietà fisico-chimiche dei metalli, la metallogenia, la teoria della trasmutazione e i principî generali di una pratica trasmutatoria fondata su 'medicine' di diversi ordini, vale a dire su composizioni di crescente efficacia. L'originalità di questo trattato risiede nel suo ricorso al modello corpuscolare, vale a dire alla teoria secondo cui la struttura dei metalli, il loro comportamento fisico-chimico e le operazioni di trasmutazione si spiegano con una maggiore o minore coesione delle particelle, i minima naturalia; questa teoria ‒ come dimostrano, per esempio, le indagini di Newton ‒ era destinata a esercitare un'immensa influenza.
Le ricerche degli alchimisti francescani si orientarono però in una direzione completamente diversa. A partire dal 1240 ca., i francescani spirituali, ispirandosi all'abate Gioacchino da Fiore (1136-1202), iniziarono a profetizzare l'avvento della Fine dei Tempi e della Grande Tribolazione, durante la quale la Chiesa sarebbe stata perseguitata dall'Anticristo; gli alchimisti francescani si proponevano dunque di fornire alla Chiesa i mezzi necessari per compiere la sua missione terrestre, quella di soccorrere le vedove e i bambini e di curare i malati. È attraverso l'alchimia francescana che si diffonderà in Occidente il concetto, di lontana origine cinese, di 'medicina universale' o 'rimedio di lunga vita', e a questa sfera di influenza va ricondotta l'attività di almeno tre celebri alchimisti: Ruggero Bacone, Arnaldo da Villanova e Giovanni di Rupescissa.
Dopo aver letto alcuni testi alchemici negli anni tra il 1243 e il 1250, nel suo commento al Secretum secretorum di Aristotele, Ruggero Bacone (1214 ca.-1294) investì l'alchimia della missione di prolungare, congiuntamente al 'regime', la vita umana, richiamandosi all'esempio dell'alchimista arabo Artefio, che aveva raggiunto un'età molto avanzata. Nelle tre opere redatte tra il 1266 e il 1268 su richiesta di Clemente IV ‒ vale a dire l'Opus maius, l'Opus minus e l'Opus tertium ‒ Bacone pose l'alchimia alla base della riforma della scienza naturale; infatti, l'alchimia e la scientia experimentalis fornivano allo stesso tempo gli strumenti necessari a interpretare la Natura e a lottare contro la malvagità, e il concetto di experimentum come "procedimento di comprovata efficacia" era in effetti interamente alchemico. Esso permetteva di integrare nella nuova scienza le aleatorie conoscenze dell'alchimista, dell'ingeniator e del mago, giustificando ogni sorta di entusiastica aspettativa. La scientia experimentalis consentiva di confermare le deduzioni, di acquisire conoscenze non raggiungibili per via deduttiva e di mettere a disposizione della Chiesa preziose risorse: metalli preziosi, colori, gemme e l'elisir di lunga vita, grazie al quale l'uomo avrebbe potuto raggiungere l'età dei patriarchi. Bacone ritornò su questo punto nella celebre Epistola de secretis operibus artis et naturae e nel Breve breviarium, un'opera che, tra i testi alchemici che gli sono stati attribuiti, è con ogni probabilità autentica. Questo testo è dedicato a Raymond Gaufridi, ministro generale dell'ordine nel 1289, vicino agli spirituali e a sua volta autore di un trattato di alchimia, il Verbum abbreviatum de leone viridi; richiamandosi alla tradizione del De anima di Avicenna, l'autore descrive una pratica trasmutatoria destinata a guarire i metalli malati con medicine minerali (zolfo, mercurio e arsenico), vegetali, animali e coadiuvanti (cooperantibus), pietre, sali e boraci.
Benché non fosse un francescano, Arnaldo da Villanova (1240-1311 ca.) fu molto vicino agli spirituali, e in particolare a Pietro di Giovanni Olivi (1248 ca.-1298). L'autenticità dei suoi scritti alchemici è stata costantemente messa in dubbio, tuttavia alcuni di essi non presentano anacronismi, contengono precisi riferimenti agli ambienti frequentati dall'autore e mostrano una vera e propria unità dottrinale e operativa: l'Epistola, le Quaestiones dedicate al papa Bonifacio VIII, la lettera al re di Napoli (Epistola ad regem Neapolitanum), il Rosarium dedicato a Roberto d'Angiò e il Flos florum dedicato a Giacomo I di Aragona. Papa Bonifacio VIII (1294-1303) amava circondarsi di insigni eruditi e Arnaldo fu il suo primo medico; il canonista Giovanni d'Andrea narra di averlo osservato lavorare alla trasmutazione presso la Curia verso il 1301. Giacomo I di Aragona ricorse ai servigi di Arnaldo nel 1299, nel 1305 e tra il 1309 e il 1310; Roberto d'Angiò, re di Napoli a partire dal 1305, lo impiegò nella sua corte tra il 1310 e il 1311. Arnaldo descrive una practica basata sulla riduzione dei metalli preziosi alla loro materia prima, il 'mercurio solo', idea ereditata dalla Summa di Paolo di Taranto, secondo cui una sola materia, un solo vaso e un solo fuoco avrebbero realizzato la trasmutazione nel corso di diverse fasi caratterizzate dal cambiamento dei colori; egli è inoltre l'autore di un misterioso trattato composto da parabole e basato sull'analogia tra l'alchimia, la Crocifissione e la Risurrezione.
Si ricorda, infine, il francescano Giovanni di Rupescissa (Johannes de Rupescissa), che, imprigionato dal papa per le sue profezie, scrisse durante la detenzione (1351-1352) due opere complementari, il De consideratione quintae essentiae e il Liber lucis, noto anche col titolo di Liber de consideratione veri lapidis philosophorum. Rupescissa si proponeva di trovare una sostanza in grado di rendere incorruttibile il corpo umano, che egli identificava con il quinto elemento di Aristotele, la quinta essentia, la materia del cielo, estraibile attraverso la distillazione dell'alcole dal vino, abitualmente praticata a partire dal XII secolo. Questa sostanza sembrava sfuggire alle classificazioni della filosofia della Natura, perché non possedeva nessuna delle coppie di qualità elementari caratteristiche dei quattro elementi tradizionali (terra, acqua, aria, fuoco). Secondo Rupescissa, l'alcole distillato, evaporato e condensato mille volte in un recipiente areato, si sarebbe sbarazzato dei quattro elementi e avrebbe prodotto la quintessenza; attraverso procedimenti analoghi era possibile estrarre la quintessenza da ogni cosa, soprattutto dalle piante medicinali, ottenendo un estratto che concentrava in un esiguo volume il centuplo delle proprietà della pianta stessa; questa idea non era molto lontana dalla nozione moderna di 'principio attivo'. Nel Liber lucis, l'autore si propone di applicare questo metodo all'oro, nella prospettiva della Grande Tribolazione, lavorando sulla quintessenza del mercurio e del vetriolo, attraverso una combinazione di operazioni di distillazione e di sublimazione.
Nel XVI sec. Rupescissa eserciterà in effetti una profonda influenza sulla farmacologia grazie a numerosi manoscritti, e soprattutto grazie alle traduzioni in volgare e a una versione interpolata attribuita a Raimondo Lullo, il De secretis naturae seu de quinta essentia.
Tra la fine del XIII e la metà del XIV sec. l'alchimia fu oggetto di accesi dibattiti esterni e interni a questo campo d'indagine; la trasmutazione era un'operazione destinata al fallimento, e molti trattati iniziano con un'analisi delle cause degli errori più diffusi. Così, pur senza mettere in dubbio la possibilità della trasmutazione né l'autorità dei testi antichi, in questo periodo molti autori fecero a gara nel sottolinearne l'oscurità. Del resto, in quanto arte allo stesso tempo liberale e meccanica, l'alchimia non era facilmente inseribile nei curricula universitari; il sciant artifices di Avicenna, infine, condannava la pratica comune dell'alchimia, se non la disciplina stessa. All'esterno di questo campo di indagine, l'interesse del potere per la produzione dell'oro era accompagnato dai sospetti di contraffazione suscitati dalle leghe che l'imitavano molto fedelmente; così, nel 1287, nel 1323 e nel 1327, i Capitoli generali dei domenicani proibirono le pratiche alchemiche e, nel 1323, il Capitolo di Barcellona scomunicò i religiosi che si fossero rifiutati di distruggere i loro testi alchemici. Le stesse misure proibitive furono adottate dai cistercensi nel 1317.
I canonisti, invece, si interrogavano sulla legittimità delle pratiche alchemiche. Tommaso nella Summa affermava che se l'oro prodotto attraverso le operazioni alchemiche era autentico, non era illegittimo venderlo come oro naturale; Martino di Polonia (prima del 1278-1279) riconosceva che vi erano delle proprietà che meritavano di essere messe in luce nelle cose naturali, ma riteneva che il potere di cambiare le specie spettasse solamente al Creatore. Oldrado da Ponte (m. 1335 ca.) si richiamava agli stessi argomenti, affermando tuttavia che era impossibile cambiare effettivamente le specie; come il prospettore, l'alchimista poteva essere utile alla società, a condizione di ricorrere a strumenti naturali e non ai demoni. Tra il 1316 e il 1334 (la data 1317 non è certa) il papa di Avignone, Giovanni XXII, promulgò la celebre decretale Spondent quas non exhibent (Promettono ciò che non possono mantenere), che proibiva senza riserve la pratica dell'alchimia perché, a suo avviso, gli scopi che si proponeva non erano credibili e gli alchimisti dovevano essere considerati contraffattori. È interessante osservare che questa decretale è integrata agli Extravagantes sotto la voce De crimine falsi (Del reato di falso), e si iscrive in un preciso contesto economico; nel 1322, infatti, il papa adottò una serie di provvedimenti contro coloro che falsificavano la moneta francese. Per le stesse ragioni, nel 1380 Carlo V di Valois proibì le pratiche alchemiche.
A questa crisi interna ed esterna l'alchimia reagì rielaborando le sue basi epistemologiche; i trattati più antichi del corpus delle opere di Raimondo Lullo (1232 ca.-1315/1316) si iscrivono infatti in un tentativo di ristrutturazione logica delle dottrine e delle pratiche alchemiche. Lullo in precedenza non si era dedicato all'alchimia e aveva mostrato persino una certa ostilità nei riguardi di questa disciplina; soltanto alla fine del XIV sec. il suo nome iniziò a essere associato a un vasto corpus di testi alchemici, composto da ben 143 opere (bisogna riconoscere tuttavia che l'arte lulliana, basata sulla combinazione di lettere dell'alfabeto corrispondenti a nozioni e collegate tra loro da figure, aveva la pretesa di analizzare ogni genere di dottrina). Fu in Catalogna o nella Francia del Sud che un medico ben informato su ciò che accadeva a Montpellier redasse in catalano il Testamentum, in seguito attribuito a Lullo, un'opera divisa in quattro sezioni dedicate alla teoria, alla pratica, ai mercuri e ai forni. L'autore ricorre a figure e a lettere dell'alfabeto molto simili a quelle adottate da Lullo per registrare le nozioni fondamentali dell'arte dell'alchimia; al magister del Testamentum sono attribuiti altri due trattati redatti in origine in catalano, il Liber de intentione alchimistrarum e il Liber lapidarii. Nel corso della seconda metà del secolo si costituì un altro nucleo dello stesso corpus, il De secretis naturae seu de quinta essentia, in cui sono combinati tra loro, in un diverso ordine, materiali ripresi dalle opere di Rupescissa e in cui, nel terzo libro, cioè nella Tertia Distinctio, per descrivere le trasmutazioni basate sulla quintessenza di Rupescissa si ricorre all'apparato combinatorio lulliano.
Vari autori misero in discussione le basi epistemologiche dell'alchimia e il funzionamento del suo linguaggio; all'inizio del XIV sec. l'alchimista Pietro Bono da Ferrara affrontò questo problema nella sua Pretiosa margarita novella. Secondo l'autore, nella misura in cui studiava la materia e il mondo minerale l'alchimia doveva essere integrata nella filosofia della Natura, accanto alla meteorologia, e usare lo stesso linguaggio; nella misura in cui era subordinata alla concessione di una grazia speciale di origine divina, la trasmutazione era una realtà che non poteva essere compresa con la logica ed era esprimibile soltanto attraverso l'analogia. Per cogliere l'ineffabile, era necessario ricorrere al linguaggio polisemico delle parole in codice (Decknamen), delle metafore, delle allegorie e del simbolismo pittorico, richiamandosi alle rappresentazioni figurate della mitologia antica. Questo approccio all'alchimia condurrà, da un lato, a un'esegesi alchemica della mitologia classica e del simbolismo cristiano, e, dall'altro, alla redazione di trattati alchemici illustrati. Il simbolismo di questi programmi iconografici non era univoco, poiché i motivi religiosi, mitologici, araldici e morali erano sfruttati e combinati tra loro, rendendo difficile distinguere ciò che era alchemico da ciò che non lo era.
La formulazione allegorica del processo di trasmutazione, con o senza immagini, trova i suoi antecedenti in Zosimo (le visioni di Zosimo, l''oroboro') e negli autori arabi (la Visio Arislei, l'Epistola solis ad lunam crescentem di Muḥammad ibn Umayl al-Tamīmī, il Senior Zadith dei Latini); in Occidente, il più antico programma iconografico alchemico è quello del trattato alchemico-magico di Gratheus, Filius philosophi, conservato a Vienna (Österreichische Nationalbibliothek, 2372), che contiene anche una traduzione di Senior Zadith, una versione olandese del Magister Constantinus e una Sapientia Salomonis di carattere magico. Il trattato di Gratheus presenta un'alchimia tecnica (fabbricazione dei vasi) e astrologico-magica, accompagnata da elenchi di stelle e di formule magiche; l'iconografia è di carattere cristologico (la Risurrezione del Cristo), tecnico (figure di strumenti) e sessuale (il re e la regina uniti in un vaso alchemico, la procreazione del drago e del puer philosophicus), e le metafore sessuali provengono da un testo arabo-latino, la Visio Arislei. Nella Sapientia Salomonis, il re è rappresentato come maestro di magia, accanto a demoni rinchiusi in fiale e combattimenti tra fides e fallacia. Risale molto probabilmente allo stesso periodo l'Aurora consurgens che gli autori di alcuni manoscritti attribuiscono invece a Tommaso d'Aquino. Si tratta di un trattato diviso in due sezioni: la prima presenta un'interpretazione alchemica della Bibbia in cui brani scelti della Sapienza e del Cantico dei Cantici sono affiancati a passaggi alchemici in qualche modo affini, ripresi soprattutto da Senior Zadith, e la seconda è costituita da una serie di analogie tra la pietra filosofale ed elementi del mondo umano, vegetale, minerale e animale.
La concezione originaria del trattato non prevedeva l'inserimento di illustrazioni. Il più antico manoscritto illustrato è conservato nella Zentralbibliothek di Zurigo (Rh.172. 37 ill.) e risale al 1420-1430. Qui l'illustratore ha ideato un programma pittorico di ispirazione decisamente profana, in gran parte indipendente dal testo e proprio per questo di difficile interpretazione. Tra le illustrazioni della prima sezione ricordiamo, per esempio, l'ermafrodito che rappresenta la dualità dello stato solido e gassoso; il vecchio seduto all'interno di una chiesa con una tavoletta sulle ginocchia, affiancato da due aquile, un motivo tratto da Senior che illustra l'antico tema ermetico del saggio sepolto con i suoi segreti; il torneo del Sole e della Luna, un motivo di carattere astrologico. La seconda sezione del trattato illustra molte delle metafore contenute nel testo: la procreazione umana (la coppia raffigurata in un letto; in un vaso, la formazione del feto), la procreazione animale, il basilisco (un motivo tipico dei bestiari), alcuni alchimisti al lavoro, l'albero d'oro, alcuni mostri compositi che simboleggiano le forme e le azioni del mercurio; qui l'illustratore ha attribuito una grande importanza alla codificazione dei colori.
Il più famoso trattato alchemico illustrato, il Buch der Heyligen Dreyfaltigkeit (Libro della Santa Trinità), fu redatto tra il 1410 e il 1419, probabilmente da un francescano chiamato Ullmannus. Riprodotto in numerosi manoscritti, il più antico dei quali è quello conservato a Norimberga (Germanisches Nationalmuseum, 80061), questo testo va collocato nel contesto politico e ideologico del Concilio di Costanza, ed è riconducibile all'interesse mostrato dai margravi del Brandeburgo e dalla corte di Sigismondo V per l'alchimia. Si tratta di un'opera profetica in cui è annunciata la nascita e la disfatta dell'Anticristo e la venuta dell'Imperatore Salvatore e, allo stesso tempo, di un trattato di alchimia estremamente preciso e tecnico che si propone di fornire all'imperatore i mezzi finanziari necessari per lottare contro il Male. Le illustrazioni sono ispirate ai temi della Trinità, delle sofferenze del Cristo, del culto di Maria (l'Immacolata Concezione, l'Incoronazione della Vergine), della profezia imperiale (l'Anticristo, l'aquila imperiale, lo stemma di Federico), e al culto francescano (la stigmatizzazione di san Francesco). Attraverso un gioco di minuziose corrispondenze, ogni dettaglio dell'illustrazione si trova a corrispondere a una sostanza o a una particolare operazione, per esempio l'ermafrodito dalle ali membranose in piedi su due rocce da cui sporgono alcuni alberi e con in mano dei serpenti è il simbolo della pietra filosofale bisessuata da cui hanno origine l'oro e l'argento; l'Anticristo ermafrodito con le corone dei sette vizi rappresenta la materia impura; la Vergine incoronata dal Padre e dal Figlio accanto ai simboli degli evangelisti rappresenta invece le operazioni di scomposizione e ricomposizione della materia.
Alla tradizione alchemica si richiamarono nel XV sec. il Donum Dei, attribuito a un certo Franciscus o Georg Aurach di Strasburgo (19 manoscritti), il Ripley scrowl (5 manoscritti) dell'alchimista inglese George Ripley (1415-1490), la Ritterkrieg (Guerra dei cavalieri) (9 manoscritti) di Johann Sternhals canonico di Bamberga (1488) e il Rosarium philosophorum, del quale è conosciuta anche una tradizione a stampa; l'alchimia illustrata conoscerà il suo apogeo nel XVI sec., grazie ad alcuni prestigiosi manoscritti, tra i quali l'Aureum vellus di Salomon Trismosin.
Nel complesso, la fine del XIV e il XV sec. videro una grande proliferazione di trattati alchemici, tra i quali figuravano anche commenti, dossografie e compilazioni; molti di questi testi furono redatti non in latino, ma nelle diverse lingue volgari, una circostanza che attesta una crescente tendenza alla volgarizzazione. L'alchimia non soltanto penetrò nella cultura generale del pubblico non specializzato, ma iniziò a essere praticata in ambienti molto diversi da quelli a cui era in origine destinata; alla fine del XV sec., nel suo Ordinal of alchemy, Thomas Norton constatava con stupore che l'arte sacra era ormai praticata anche da mercanti, muratori, calzolai, poveri parroci, pittori e vetrai. In questa abbondante letteratura figuravano anche numerose ricette, trattati completi tradotti dal latino, alcune opere originali trascritte in lingua volgare e soprattutto un interessante poema didattico che iniziò a circolare contemporaneamente in Germania, in Inghilterra e in Francia: il Roman de la rose di Jean de Meun, la cui sezione alchemica (vv. 16045-16148) integrò l'alchimia in un'antitesi generale che opponeva l'arte alla Natura. Questo testo può essere considerato il diretto modello del Sommario filosofico attribuito a Nicolas Flamel (1330 ca.-1418), che tuttavia ‒ sia detto per inciso ‒ non praticò mai l'alchimia; nella Fontana degli amanti della scienza, invece, Jean de la Fontaine ‒ prevosto di Valenciennes ‒ combinò il simbolismo alchemico con le allegorie care ai grandi retori. Allo stesso tempo, gli alchimisti iniziarono a essere oggetto di scherno nella letteratura profana. Nel suo De remediis utriusque fortunae, Francesco Petrarca inaugura infatti un topos letterario che accenderà la verve di Erasmo e di Sébastien Brant; in effetti, nel XV sec. l'alchimia sembra aver esaurito la sua vena creativa, e soltanto con la riscoperta dell'ermetismo greco e la rivoluzione paracelsiana l'arte sacra riacquisterà un nuovo vigore.
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