La scienza bizantina e latina: la nascita di una scienza europea. La scienza nei commenti alle Sententiae di Pietro Lombardo
La scienza nei commenti alle Sententiae di Pietro Lombardo
La teologia sistematica, un apparato teologico completo che assegnava una collocazione a ogni cosa e in cui ogni cosa trovava la sua collocazione, fu un'invenzione del XII secolo. Era un genere di teologia che andava ben oltre le semplici nozioni fondamentali, che elaborava la teologia come un'attività intellettuale coerente e omogenea e che, al tempo stesso, impartiva i principî dell'argomentazione e dell'indagine teologica ai futuri specialisti. La teologia sistematica era il risultato dell'importanza che, nel tardo XI sec., s'iniziò ad attribuire alla logica e alla razionalità applicandole a ogni campo della conoscenza: al diritto civile, a quello canonico, alla filosofia della Natura e, in particolar modo, alla teologia (Southern 1953). All'inizio del XII sec. questa tendenza era in piena attività e ricevette un ulteriore impulso verso la metà del secolo, quando furono tradotte le opere logiche più importanti di Aristotele (384/383-322). Queste andarono ad aggiungersi al fondo costituito dagli antichi trattati di logica, noti collettivamente col nome di logica antica (logica vetus), in gran parte basati sull'opera di Severino Boezio (480 ca.-524/525).
Durante la prima metà del XII sec. molti studiosi parteciparono alla trasformazione dello studio e delle tecniche espositive della teologia; tra essi figuravano Anselmo di Laon, Pietro Abelardo, Gilberto di Poitiers, Ugo di San Vittore, Rolando da Bologna (Colish 1994). Negli anni tra il 1155 e il 1158 Pietro Lombardo (fine XI sec.-1160) segnò la fase culminante di questo significativo movimento con le sue famose Sententiae, un trattato destinato a sostituire tutti gli altri testi teologici e a divenire, per i successivi cinque secoli, accanto alla Bibbia, il principale libro di testo nelle scuole di teologia. Nel prologo e nei quattro libri in cui era suddivisa l'opera, Pietro Lombardo cercava di trattare esaurientemente tutti i dogmi fondamentali della dottrina cristiana: il primo libro era dedicato alla Trinità e a Dio, il secondo prendeva in considerazione la Creazione e la caduta, il terzo si occupava dell'Incarnazione, della Redenzione e delle virtù, e il quarto concludeva l'opera con la trattazione dei sacramenti.
Probabilmente fu Alessandro di Hales a introdurre stabilmente le Sententiae come libro di testo. Egli, inoltre, divise ciascun libro in una serie di distinctiones: il primo libro ne aveva 48, il secondo 44, il terzo 40 e il quarto 50. Le 'distinzioni', a loro volta, erano suddivise in articoli (articuli) e questioni (quaestiones), che svolgevano la funzione di unità fondamentali del discorso sotto forma di domande. Sebbene si intitolassero abitualmente commenti, quelli medievali alle Sententiae appartengono legittimamente al genere di trattati definiti quaestiones, la maggior parte dei quali discuteva problemi o interrogativi relativi ai libri di Aristotele sulla Natura. Abitualmente, ogni commentatore poneva una serie di domande all'interno di ciascuna distinzione; le domande scelte da ogni singolo commentatore per la discussione variavano con il commentatore stesso ma, sorprendentemente, un gran numero di esse sembra ricorrere con regolarità per molti secoli.
Gli studenti di teologia che si immatricolavano per conseguire il titolo di baccelliere avevano l'obbligo di commentare le Sententiae; per questo motivo ce ne sono pervenuti numerosi commenti (la maggior parte dei quali sono ancora inediti). Tra i testi che ci sono pervenuti vi sono i commenti di alcuni dei più famosi e importanti teologi del Medioevo; per esempio, quelli di Bonaventura da Bagnoregio, di Tommaso d'Aquino, di Giovanni Duns Scoto, di Pietro di Giovanni Olivi, di Gregorio da Rimini, di Guglielmo di Ockham e di Gabriel Biel.
La teologia medievale aveva molti punti di contatto con la filosofia della Natura, che prevalentemente era quella di Aristotele; così, anche i commenti di un'opera teologica, come le Sententiae, sono rilevanti per la storia della scienza. Il conflitto fra teologia e filosofia della Natura, che caratterizzò i primi tre quarti del XIII sec., si limitò all'Università di Parigi e non interessò le altre università dell'epoca come, per esempio, quelle di Oxford, Tolosa, Montpellier e Bologna; la Chiesa stessa non emise mai una proibizione valida per tutta la cristianità.
La resistenza ad Aristotele si concentrò nell'Università di Parigi e nell'area più direttamente influenzata dalla sua dottrina. Nel 1210, non appena le opere di Aristotele divennero accessibili in latino, il sinodo provinciale di Sens decretò che esse e tutti i relativi commenti non potessero essere letti in pubblico o in privato senza incorrere nella scomunica; quest'interdizione, che riguardava quindi solamente la regione di Parigi, fu rinnovata nel 1215, specificamente per l'Università di questa città. Il 13 aprile 1231 la proibizione fu modificata e ricevette la sanzione di papa Gregorio IX, che, nella famosa Bolla Parens scientiarum (spesso definita, per altre ragioni, la Magna charta dell'Università di Parigi), ordinò che gli oltraggiosi trattati di Aristotele fossero emendati e, a tal fine, il 23 aprile, nominò una commissione composta da tre membri. Per ragioni tuttora sconosciute, la commissione papale non redasse però la relazione, e l'ordine di espurgare i libri di Aristotele non fu mai eseguito. Nel 1245 papa Innocenzo IV estese l'interdizione all'Università di Tolosa, che alcuni anni prima, nel 1229, aveva invitato i maestri e gli studenti parigini che volevano studiare liberamente i libri di Aristotele vietati nella loro città. La proibizione delle opere di Aristotele sulla Natura rimase in vigore a Parigi per circa quarant'anni, quasi fino al 1255; risale a quell'anno, infatti, uno statuto della Facoltà delle arti con i testi adottati per le lezioni di filosofia all'Università parigina che include tutte le opere disponibili del filosofo greco. Soltanto allora, quindi, gli studiosi di Parigi poterono godere delle stesse prerogative dei loro colleghi delle altre università, ai quali non era mai stato negato il diritto di studiare e di commentare l'intero corpus delle opere aristoteliche.
La seconda fase del conflitto contro Aristotele scoppiò a Parigi nel corso degli anni Sessanta e Settanta del XIII secolo. Ispirati da Bonaventura da Bagnoregio (1217 ca.-1274), i teologi conservatori cercarono di porre dei limiti al diffondersi della filosofia aristotelica, considerata il nucleo del nuovo sapere pagano e arabo; era però ormai passata l'epoca in cui una semplice proibizione della lettura delle opere di Aristotele era effettivamente rispettata. Invece di ricorrere alla proibizione delle opere, i teologi conservatori tentarono dunque di far fronte al problema condannando le idee che ritenevano pericolose e offensive. Quando fu evidente che i loro ripetuti ammonimenti contro i pericoli della filosofia profana rimanevano inascoltati, si appellarono al vescovo di Parigi Stefano Tempier, che nel 1270 intervenne condannando 13 articoli che derivavano dagli insegnamenti di Aristotele o dai commenti di Averroè (1126-1198) alle sue opere. Nel 1272 i maestri delle arti dell'Università di Parigi istituirono un giuramento che li vincolava a evitare discussioni su problemi teologici; se, per una qualsiasi ragione, un maestro si fosse ritenuto incapace di evitare un problema teologico, egli, secondo il giuramento, doveva risolverlo a favore della fede.
L'intensità di questa controversia fu evidenziata dagli Errores philosophorum, un'opera scritta da Egidio Romano (1245-1316) tra il 1270 e il 1274, nella quale l'autore compilava un elenco degli errori contenuti nelle opere dei filosofi non cristiani, quali Aristotele, Averroè, Avicenna, Algazel (al-Ġazālī), Alkindi (al-Kindī) e Maimonide (1135-1204). Poiché questi interventi non riuscivano a sedare l'agitazione, papa Giovanni XXI (1276-1277) incaricò il vescovo di Parigi, che era ancora Tempier, di svolgere un'indagine; questi in tre settimane, nel marzo 1277, condannò in blocco 219 proposizioni, in conformità col parere dei suoi consiglieri teologici. In ogni caso, qualunque possa essere stato a Parigi l'impatto di questa condanna, essa non impedì in alcun modo l'utilizzazione della filosofia della Natura nella teologia, anche se i maestri della Facoltà delle arti ‒ che probabilmente avevano studiato nelle scuole di teologia ‒ cercarono di evitare l'impiego di quest'ultima nei loro commenti e nelle loro quaestiones ai libri di Aristotele, in particolare alla Fisica, al De caelo, ai Meteorologica, al De anima, al De generatione et corruptione, ai Parva naturalia. Ciò si verificò in ogni università d'Europa nel corso di tutto il Medioevo.
Per i teologi, la situazione era completamente diversa; essi erano gli eredi dell'antica tradizione secondo la quale il sapere secolare, e in particolar modo la filosofia della Natura, dovevano essere considerati ancelle della teologia; quando, nell'XI sec., emerse l'esigenza di razionalizzare e di sistematizzare il pensiero teologico, sembrò dunque opportuno utilizzare la logica e la filosofia della Natura come strumenti per il conseguimento di questo fine. Lo stesso Pietro Lombardo, sebbene nella prefazione alle Sententiae sottolineasse che l'argomentazione filosofica dovesse svolgere nel pensiero teologico un ruolo di secondo piano, in tutta la sua monumentale opera seguitò tuttavia a impiegare la logica e la filosofia. Inoltre, occorre ricordare che la logica e la filosofia della Natura hanno costituito la base del corso di studi nelle Facoltà delle arti di tutte le università medievali solamente grazie all'approvazione dei teologi e delle autorità ecclesiastiche; se la Chiesa e i suoi teologi, che svolgevano un ruolo importante nel garantire privilegi e sussidi finanziari alle università, avessero considerato queste discipline ostili alla teologia e alla dottrina cristiana, avrebbero impedito l'attribuzione di tali privilegi e sussidi.
Poiché, in pratica, ogni studente che frequentava le scuole di teologia doveva aver già conseguito, presso una Facoltà delle arti, il titolo di maestro o uno equivalente, egli doveva aver studiato a fondo la logica e la filosofia della Natura. Quindi si può facilmente comprendere perché i teologi innovatori fossero favoriti nel tentativo di introdurre queste discipline all'interno dello studio della teologia. Il loro approfondito patrimonio di conoscenza della filosofia della Natura e la tradizione cristiana, secondo la quale la filosofia aveva una collocazione ancillare rispetto alla teologia, inducevano inevitabilmente i teologi a impiegare la filosofia della Natura nelle loro discussioni e a introdurla di frequente nei commenti alle Sententiae, che era il loro manuale di teologia; poiché avevano l'abitudine di mettere insieme la teologia con la filosofia della Natura, essi potrebbero appropriatamente essere definiti 'filosofi-teologi della Natura'.
Persino il più conservatore fra i teologi, Bonaventura, riconosceva l'immensa utilità della filosofia della Natura dello Stagirita; invece di opporsi ad Aristotele, la maggior parte dei teologi fu tra i suoi più fedeli sostenitori. Di quando in quando le autorità ecclesiastiche esprimevano qualche preoccupazione riguardo all'uso eccessivo della filosofia della Natura nella teologia; nel 1228 e nel 1231 papa Gregorio IX ammonì i teologi, esortandoli a confinare il loro insegnamento nei limiti esclusivi della teologia, ovvero a riferirsi ai Padri della Chiesa e ai teologi che li avevano preceduti, piuttosto che ad Aristotele. Papa Giovanni XXII (1316-1334) rimproverò i maestri di teologia di Parigi per il fatto di trattare questioni e sottigliezze filosofiche; nel 1346 papa Clemente VI (1342-1352) punì i teologi dell'Università di quella città, colpevoli di aver trascurato lo studio della Bibbia a favore dei problemi e delle dispute filosofiche. La penetrazione della filosofia della Natura, della matematica e della logica nei commenti alle Sententiae raggiunse tuttavia proporzioni tali che nel 1366 l'Università di Parigi decretò che nella formulazione delle questioni, a eccezione dei casi in cui fosse necessario, i commenti relativi a quest'opera avrebbero dovuto evitare di esporre argomenti logici o filosofici. Questi divieti, che a Parigi e in altri luoghi furono continuamente reiterati, erano in particolare diretti contro l'utilizzazione dell'argomentazione filosofica fine a sé stessa, e non intendevano impedire l'impiego della filosofia e della logica nei casi in cui si rendessero indispensabili per l'elaborazione di un argomento teologico; in ogni caso, queste restrizioni non furono mai applicate all'Università di Oxford.
Nonostante gli ammonimenti, i commentatori scolastici riuscirono a trovare numerose occasioni per esibire il loro ingegno filosofico su argomenti che avevano ben poco a che vedere con la teologia. Un illustre esempio di questa tendenza è rappresentato dall'unico commento al secondo libro delle Sententiae del francescano Pietro di Giovanni Olivi (1248 ca.-1298); questo commento contiene 118 questioni suddivise per temi molto ampi, ma non secondo le distinzioni tradizionali. Di tali questioni soltanto quelle comprese tra la 32 e la 48, che trattano degli angeli, sono di carattere esclusivamente teologico, così come poche altre questioni isolate. Le rimanenti sono di carattere filosofico: dalla questione 1 alla 31 si discute di metafisica generale, dalla 48 alla 59 si tratta di psicologia e infine, dalla 90 alla 118 si affrontano problemi di morale. Giovanni Maior (1469-1550), un famoso filosofo-teologo della Natura del XVI sec., aveva dunque valide ragioni per sostenere, nell'introduzione al secondo libro del suo commento alle Sententiae, che per circa due secoli i teologi non avevano avuto timore di introdurre nei loro scritti questioni che trattavano esclusivamente di fisica, di metafisica e talvolta di matematica.
È stata documentata l'esistenza di ben 1300 commenti alle Sententiae, molti dei quali ci sono pervenuti in versioni manoscritte; se non è possibile alcuna valutazione conclusiva del ruolo che la filosofia della Natura svolgeva in questi trattati teologici, può essere utile tuttavia cercare di comprendere gli effetti dell'impatto di tale filosofia, principalmente attraverso la citazione delle questioni che palesemente subivano questa influenza.
Nei commenti al prologo delle Sententiae in genere era discusso il problema se la teologia fosse una scienza, rendendo così inevitabile il paragone tra la teologia e le scienze già riconosciute come tali, cioè quelle fisiche incorporate nell'ampia disciplina della filosofia della Natura, così come era descritta nelle opere di Aristotele. Nel sostenere che la teologia era una scienza, Tommaso d'Aquino aveva in mente il modello di scienza indicato dallo stesso Aristotele; poiché questi riteneva che l'ottica potesse essere considerata una scienza vera e propria, benché non potesse dimostrare i propri principî ma li deducesse dalla geometria, allo stesso modo, secondo Tommaso d'Aquino, anche la teologia poteva essere definita una scienza che traeva i suoi principî dalla rivelazione divina. Così come l'ottica era considerata una scienza subalterna alla geometria, che era la scienza superiore subalternante, la teologia era una scienza subalterna a quella subalternante costituita dai principî rivelati da Dio stesso ai credenti. In questo caso Tommaso si basava su idee che erano associate alle cosiddette scienze medie (scientiae mediae), quali l'astronomia e l'ottica, anch'esse considerate scienze subalterne.
Il problema delle scienze subalterne è ripetutamente presente nei commenti al prologo delle Sententiae; per esempio, all'inizio del XIV sec. Giovanni di Reading (1272 ca.- m. dopo il 1319) nel prologo del suo commento alle Sententiae dedicò due questioni alle scienze subalterne, nelle quali si chiedeva se la teologia avesse un carattere di subalternità passiva rispetto a qualche scienza (questione 6), e se la teologia avesse un carattere di subalternità attiva verso le altre scienze (questione 7). Nel tentativo di determinare la posizione della teologia, Giovanni di Reading doveva considerare alcuni aspetti del problema delle scienze medie, quali il rapporto tra la geometria e l'ottica e tra la musica e l'armonia. Egli concluse che la teologia non era né subalternante nei confronti delle altre scienze né subalterna, ma era del tutto indipendente. Così, lo sviluppo della discussione sui problemi dell'eventuale subalternità della teologia diveniva, per i commentatori delle Sententiae, un'occasione per esprimersi liberamente tanto sulla filosofia della Natura quanto sulle scienze fisiche.
Nella questione in cui si poneva il problema se la teologia fosse una scienza, Tommaso d'Aquino esaminò i rapporti tra la teologia e la filosofia (cioè la filosofia della Natura) e giunse alla conclusione che la filosofia della Natura era destinata a servire la teologia; egli spiegava che sebbene la filosofia si pronunciasse sulle cose esistenti conformemente agli argomenti umani, tuttavia era necessario che vi fosse un'altra scienza superiore che considerasse le cose esistenti secondo gli argomenti dedotti dall'ispirazione della luce divina (Scriptum super libros Sententiarum ..., Prologo, quaest. 1, art. 1). In effetti, poiché secondo Tommaso "il fine o lo scopo di tutta la filosofia era al di sotto dello scopo o fine della teologia, ed era preordinato in funzione di esso, la teologia doveva disporre di tutte le altre scienze e usufruire degli strumenti che queste le fornivano" (ibidem, quaest. 1, art. 1). Benché Tommaso d'Aquino avesse numerosi seguaci nel Tardo Medioevo, i suoi enunciati e le sue conclusioni si scontrarono con una formidabile opposizione; tra i suoi più noti oppositori figurarono Goffredo di Fontaines (1250 ca.-1309 ca.), Giovanni Duns Scoto (1274 ca.-1308), Pietro Aureolo (m. 1322), Guglielmo di Ockham (1280 ca.-1347), Gregorio da Rimini (m. 1358) e un folto gruppo di loro seguaci.
Dal momento in cui la teologia fu riconosciuta come scienza, si rese necessario considerare se essa fosse simile alle scienze che Aristotele aveva descritto nei suoi Analytica posteriora. Nei commenti al prologo delle Sententiae ricorrevano spesso due temi: determinare esattamente a quale genere di scienza la teologia appartenesse e quali fossero i suoi rapporti con le altre scienze. Alla base di questa discussione vi era l'idea di qualità, o stato, di Aristotele, che egli considerava uno dei modi di attribuire un predicato a una sostanza (Categoriae, 8b 25-34). Per Aristotele "la scienza fa parte delle realtà permanenti, che resistono ai mutamenti, anche quando sia stata acquisita in modesta misura, e purché non intervenga una grande trasformazione, per una malattia o per qualcos'altro di simile" (ibidem, 8b 30-34). Come branca della conoscenza, una scienza doveva essere una caratteristica permanente dell'intelletto; si doveva però ritenere che una scienza fosse una singola qualità dato che, pur racchiudendo una molteplicità di cose, possedeva un solo oggetto, o una singola ratio? Si doveva ritenere che il soggetto di una scienza fosse quello che era studiato dal punto di vista formale, generale, che caratterizzava la stessa scienza (così come nella metafisica tutte le cose erano considerate dal punto di vista dell'essere)? E, di conseguenza, il soggetto della metafisica era l'essere nella prospettiva dell'essere, oppure si doveva supporre che una scienza fosse composta di due o più qualità, ciascuna delle quali rappresentava una sola conclusione dimostrata di questa scienza? E se fosse stato così, che cosa avrebbe potuto rendere omogenea una scienza costituita da queste conclusioni o qualità apparentemente disparate?
Il problema dell'omogeneità della scienza, quindi dell'omogeneità della teologia come scienza, fu posto frequentemente nei commenti scolastici al prologo delle Sententiae, ed era rivolto fondamentalmente a determinare ciò che faceva di una data scienza un'entità distinguibile dalle altre. Pietro Aureolo affrontò questo argomento nel prologo dello Scriptum super primum Sententiarum, in una questione dedicata al tema se la qualità acquisita attraverso lo studio teologico fosse unica o ve ne fossero molte. Nel corso dello svolgimento di questa discussione intricata e complessa, Aureolo giunse alla conclusione che, benché una scienza consistesse di innumerevoli qualità, queste erano poste in relazione in modo tale da perfezionarsi reciprocamente; in questo modo erano integrate in una scienza unica e omogenea, o, come scriveva Aureolo, le diverse qualità di una scienza avevano la natura (rationem) di una sola qualità cognitiva totale. Questo modo di concepire l'uniformità della scienza non era molto diverso dalla conclusione cui giunse Giovanni di Reading che considerava la teologia una scienza unica avente come unico oggetto la deità (Prologo, quaest. 10, rr. 26-28).
Il primo libro delle Sententiae ha dato l'occasione a importanti sviluppi della storia della scienza e della filosofia della Natura medievali. Nella distinzione 17, nella quale Pietro Lombardo discuteva i diversi aspetti della carità, o Spirito Santo, si domandava se si dovesse ammettere che lo Spirito Santo potesse accrescersi nell'uomo, cioè se una parte minore o maggiore di esso potesse essere posseduta o data. Pietro Lombardo sosteneva che lo Spirito Santo fosse immutabile e che le sue modificazioni nell'essere umano dipendessero dalla nostra maggiore o minore partecipazione allo Spirito immutabile. I numerosi commenti di tipo teologico che si basarono su questo brano produssero una serie di sviluppi fondamentali nell'ambito della filosofia della Natura e della matematica; la questione relativa all'argomento era abitualmente formulata nella domanda 'Se la carità possa accrescersi', alla quale talvolta erano aggiunti alcuni interrogativi supplementari. L'influenza della filosofia della Natura può poi essere riscontrata nel legame che Tommaso d'Aquino stabilì tra il problema del mutamento dello spirito e quello più vasto relativo al mutamento delle qualità, che era un problema filosofico ricorrente, derivato direttamente dalle Categorie aristoteliche. I commentatori giunsero ben presto alla conclusione che non era il grado di partecipazione a causare i mutamenti della carità e delle qualità in generale, ma erano le qualità stesse che mutavano.
A partire dalla fine del XIII sec., le discussioni sulla carità assunsero un carattere più filosofico che teologico. Riccardo di Middleton (1249 ca.-1308 ca.), nel Super quatuor libros Sententiarum Petri Lombardi questiones subtilissimae, spostò il centro della discussione dall'indagine filosofica e metafisica all'analisi quantitativa e matematica, affermando che un nuovo grado dell'essenza della carità era aggiunto dal potere divino, e aggiungendosi a quello preesistente costituiva una più perfetta essenza della carità, perché il grado preesistente era potenzialmente atto a ricevere l'altro: "come una cosa (res) incompleta sta a una cosa più completa (gradum)" (I, dist. 17, quaest. 2, art. 2).
Giovanni Duns Scoto non si limitò a constatare che le forme, o qualità, si intensificavano attraverso l'addizione di altri gradi, ma aggiunse e sottolineò che il grado preesistente conservava la sua esistenza come parte di un nuovo e più intenso grado di quella qualità. Nel corso del XIV sec. l'interpretazione di Duns Scoto ottenne un largo consenso perché ammetteva che una qualità potesse essere accresciuta, o intensificata, attraverso l'addizione formale di nuove parti ‒ effettive e distinte, ma simili ‒ a una forma o qualità già esistente; le parti preesistenti si sarebbero congiunte alle nuove per comporre una forma omogenea di una ben definita intensità. Si riteneva che una qualità fosse suscettibile di accrescimento allo stesso modo delle grandezze misurabili quali, per esempio, il peso; come un peso aggiunto a un altro formava un nuovo e maggior peso, così l'addizione di una parte qualitativa a un'altra aumentava l'intensità di ogni qualità variabile. In questo modo si offriva un fondamento logico all'elaborazione quantitativa e matematica di un'intera gamma di qualità.
In effetti, dietro l'indagine sulla intensio e la remissio delle qualità o forme si andava virtualmente sviluppando una nuova disciplina, caratterizzata dall'elaborazione matematica dei mutamenti qualitativi e formulata nelle sue linee essenziali durante gli anni Trenta e Quaranta del XIV sec. al Merton College di Oxford, dal quale giunse, negli anni Cinquanta, all'Università di Parigi. Qui Nicola Oresme compose il trattato più importante fra tutti quelli che avevano come oggetto la intensio e la remissio delle qualità, il Tractatus de configurationibus qualitatum et motuum. Il primo teorema sulla velocità media fu esposto da Guglielmo Heytesbury al Merton College e poi dimostrato geometricamente da Nicola Oresme (fu utilizzato infine da Galileo Galilei). Il modo di trattare le qualità variabili, tuttavia, si era trasmesso ad altri generi della letteratura scolastica, mentre i commentatori delle Sententiae continuavano a indagare nel modo tradizionale sull'accrescimento della carità.
Benché le discussioni sulla possibilità di esistenza di uno spazio vuoto extracosmico avessero già una lunga storia quando Pietro Lombardo componeva le sue Sententiae, egli, forse inavvertitamente, pose in primo piano tale questione, assieme a una serie di problemi relativi al modo in cui si supponeva che le cose, sia fisiche sia spirituali, occupassero lo spazio. Pietro Lombardo affrontò questo tema nella distinzione 37 del Libro I, domandandosi in quale modo si potesse dire che Dio sia presente nelle cose. I commentatori erano interessati al modo in cui i corpi e le entità spirituali occupavano gli spazi e, per quanto riguarda le entità spirituali, a determinare la differenza tra il modo di Dio e quello degli angeli di occupare gli spazi. Si riteneva che, in virtù della sua onnipresenza, Dio non si muovesse da un luogo all'altro.
Così, divenne abituale domandarsi, come fecero Tommaso d'Aquino e tanti altri, se Dio si trova in ogni luogo. Verso il 1354 o il 1355, Giovanni di Ripa, nel suo commento alla distinzione 37 del Libro I, proclamò che Dio è realmente presente in uno spazio vuoto infinito e immaginario posto al di là del mondo, e suggerì l'ipotesi che Dio possa aver creato lo spazio infinito per sé stesso (ripetendo però che anche se Dio avesse fatto ciò avrebbe comunque superato infinitamente lo spazio infinito). La sua interpretazione fu raramente ribadita nel contesto dei diversi commenti alle Sententiae, ma fu discussa in altri trattati di teologia e di fisica. Una versione della tesi di Giovanni di Ripa era già stata confutata, alcuni anni prima, da due autorevoli teologi scolastici, Riccardo di Middleton e Duns Scoto; in effetti, l'introduzione di questo tema da parte di Giovanni di Ripa era la conseguenza di una reazione piuttosto aspra a una precedente discussione sull'argomento affrontata da Tommaso Bradwardine nel suo più importante trattato teologico, il De causa Dei. In quest'opera Bradwardine, diversamente da quanto affermava Giovanni di Ripa, supponeva che Dio non potesse aver creato uno spazio effettivamente infinito, ma che, in ogni caso, ciò non era necessario poiché l'infinita immensità di Dio era essa stessa uno spazio vuoto e infinito in cui Dio era onnipresente (le idee di Bradwardine in qualche modo attraversarono immutate il XVI e il XVII sec. ed esercitarono una certa influenza sulle idee relative allo spazio di Henry More e Isaac Newton).
Le argomentazioni sugli angeli esposte nelle Sententiae offrirono straordinarie opportunità di inserire alcuni temi di filosofia della Natura nella teologia. Al contrario di Dio, gli angeli non erano onnipresenti e dovevano dunque muoversi da un luogo all'altro; le modalità di questo moto divennero un frequente argomento di discussione. Nella sua trattazione della distinzione 37, Tommaso d'Aquino elencò la maggior parte, se non la totalità, delle questioni che erano regolarmente poste sugli angeli, descrivendo il modo in cui queste entità spirituali occupassero i luoghi e si muovessero da un luogo all'altro. Tommaso prendeva anche in considerazione come un angelo potesse essere presente in un solo luogo e simultaneamente in molteplici altri luoghi, e anche se diversi angeli potessero occupare contemporaneamente lo stesso luogo. Riguardo al moto, Tommaso si domandava se un angelo potesse essere mosso; poi, in considerazione della sua natura spirituale, si chiedeva se un angelo passasse per il punto centrale di ogni distanza attraversata e se attraversasse questa distanza istantaneamente.
Nel descrivere il modo in cui gli angeli occupavano i luoghi e si muovevano da un luogo all'altro, Tommaso d'Aquino e tutti gli altri commentatori delle Sententiae dovevano adottare come termini di riferimento le idee di Aristotele sul modo in cui i corpi fisici occupano i luoghi e sul modo in cui si muovono da un luogo all'altro. Fu appunto in una discussione sugli angeli, contenuta nel Libro II, distinzione 2 del suo commento alle Sententiae, che Duns Scoto ridefinì il concetto tradizionale di 'luogo', secondo il quale si presumeva che i contenitori materiali fluidi, quali l'acqua e l'aria, formassero dei luoghi immobili attorno ai corpi in essi contenuti, mentre in effetti essi stessi si muovevano con un moto perpetuo attorno a questi corpi. Per superare questo dilemma, Duns Scoto propose il nuovo concetto del 'luogo per equivalenza', mediante il quale si sosteneva che, sebbene luoghi fluidi successivi ma numericamente distinti circondassero sempre un determinato corpo, questi luoghi distinti potevano essere considerati equivalenti se erano percepiti come numericamente identici. Grazie a questa interpretazione si poteva affermare che il luogo di un corpo immobile rimaneva inalterato, benché i corpi che lo circondavano fossero in moto.
Il primo libro di Pietro Lombardo è stato anche il 'luogo' di un importante tema derivato dalla filosofia aristotelica della Natura: l'esistenza dell''infinito attuale', che era stata negata da Aristotele. Nel XIII sec. i commentatori delle Sententiae concordavano con lo Stagirita nel negare che Dio avesse creato un infinito attuale; tra essi figuravano Bonaventura nel Libro I dei suoi Commentaria in IV libros Sententiarum Magistri Petri Lombardi e Riccardo di Middleton nel Libro I del suo trattato Super quatuor libros Sententiarum Petri Lombardi questiones subtilissimae. Nel XIV sec. Gregorio da Rimini e altri autori ribadirono che Dio non soltanto poteva aver creato un infinito attuale in estensione, ma anche un infinito attuale in 'intensione'. Gregorio, inoltre, nella sua Lectura super primum et secundum Sententiarum, sembrava anticipare l'idea moderna di sottoinsiemi infiniti affermando che se vi era un infinito attuale le sue parti sarebbero state anch'esse infinite. Egli utilizzava i suoi commenti alle Sententiae per diffondere argomenti a sostegno dell'ipotesi dell'esistenza dell'infinito attuale, e per spiegare i diversi paradossi relativi a tale esistenza formulò una definizione più precisa dei termini 'tutto' (totum), 'parte' (pars), 'maggiore' (maior) e 'minore' (minus). Nel suo commento Gregorio introdusse anche il problema degli indivisibili e del continuo, discutendo una questione che poneva il problema se l'angelo si trovasse in un luogo indivisibile oppure in un luogo divisibile (II, dist. 2, quaest. 2, 4); i riferimenti agli Elementi di Euclide vi svolgevano un ruolo di grande importanza.
L'opera di Gregorio da Rimini, forse più di quella di chiunque altro, mostrava le dimensioni della penetrazione della filosofia della Natura nei commenti alle Sententiae. Nelle discussioni teologiche egli introduceva gli orientamenti e le opinioni più recenti della filosofia della Natura utilizzando, nelle sue brillanti analisi, tutti gli strumenti elaborati a Oxford e a Parigi nel corso del XIV secolo.
I commenti di Gregorio da Rimini presentavano una caratteristica che in effetti fu una costante nella lunga evoluzione di questo genere di letteratura scolastica; benché fossero frequentemente citati Aristotele, Averroè e Avicenna ‒ i primi due definiti rispettivamente 'Il Filosofo' e 'Il Commentatore' ‒ e ci si riferisse specificamente a numerosi Padri della Chiesa, soltanto raramente si nominavano gli altri commentatori delle Sententiae, e ci si riferiva loro con la formula tipicamente scolastica quidam doctor dicit (un certo dottore dice) o con altre sue varianti; talvolta Gregorio usava espressioni ancora più vaghe (dicit una opinio, un'opinione sostiene), e persino queste formule generiche erano impiegate con parsimonia.
Dedicato al tema della Creazione, il secondo libro delle Sententiae costituiva il contesto più adatto per l'introduzione nella teologia di argomenti relativi alla filosofia della Natura. La maggior parte delle questioni propriamente pertinenti era trattata dalla distinzione 12 alla 15, in cui erano discussi i sei giorni della Creazione descritti nella Genesi. Bonaventura compilò uno dei più completi e significativi commenti a queste distinzioni nel quale incorporò molti elementi di filosofia della Natura; per esempio, la materia (argomento della distinzione 12) era stata creata durante uno dei sei giorni della Creazione o era precedente a essi? Bonaventura si chiedeva poi se la materia celeste e quella terrestre fossero sostanzialmente identiche, un tema che ricorreva spesso nelle questioni sul De caelo. Il ruolo svolto dalla luce nel racconto del primo e quarto giorno della Creazione rendeva poi inevitabile l'esame delle teorie sulla natura della luce. Così, nella distinzione 13, Bonaventura si chiedeva se la luce creata da Dio nel primo giorno fosse di natura corporea o spirituale e quindi indagava sulla natura della luce (lux) come fonte luminosa, chiedendosi se essa fosse un corpo o la forma di un corpo e se la sua forma fosse sostanziale o accidentale. Alla stessa maniera, egli si interrogava sulla luce propagata o moltiplicata dalla fonte, che egli definiva lumen: si tratta di un corpo oppure è una forma sostanziale o accidentale?
Non tutti i commentatori delle Sententiae erano attratti come Bonaventura dai problemi relativi alla luce. Delle cinque questioni dedicate da Tommaso d'Aquino a tale argomento, per esempio, solamente una ('se la luce sia un accidente') può essere considerata rigorosamente attinente al campo della filosofia della Natura (Scriptum super libros Sententiarum, II, dist. 13, quaest. 1, art. 3). Gregorio da Rimini ignorò la distinzione 13 e nel suo commento omise le discussioni sulla luce; al contrario, Tommaso di Strasburgo dedicò tutta la sua distinzione 13 a una singola questione, vale a dire 'se la luce sia una forma reale' (Commentaria in IIII libros Sententiarum, II, dist. 13, quaest. 1, ff. 155r-156v). In questa lunga questione egli ignorava del tutto la teologia, preferendo dedicarsi quasi esclusivamente alla natura della luce e alla sua azione in un mezzo.
La distinzione 14 del secondo libro, dedicata al secondo, al terzo e al quarto giorno della Creazione, offriva nelle Sententiae vaste opportunità per l'introduzione di elementi di cosmologia, benché i commentatori sfruttassero queste opportunità in modo radicalmente differente. Bonaventura da Bagnoregio, nei suoi Commentaria, scrisse una lunga relazione sulle regioni celesti dedicando dodici questioni alla filosofia della Natura. In tali questioni, Bonaventura considerava in primo luogo le sfere stesse e indagava sulla natura acquosa della sfera cristallina; si chiedeva poi se il firmamento fosse identico al fuoco elementare, se il cielo avesse una forma sferica, se nei cieli vi fosse una destra e una sinistra (questione tratta direttamente dal De caelo di Aristotele), se le sfere fossero mosse direttamente da Dio o se, al contrario, ogni sfera fosse mossa in virtù di una propria forma intrinseca o da un'intelligenza esterna. Nelle ultime sei questioni, Bonaventura discuteva poi dei pianeti ‒ "astri", secondo la sua definizione ‒ domandandosi se tutti fossero contenuti in un singolo corpo continuo, se essi si muovessero con un moto autonomo e se una sfera celeste potesse muoversi pur non possedendo un corpo planetario. Nell'ultimo articolo egli dedicava, infine, tre questioni all'influsso esercitato dai pianeti sui corpi terrestri, chiedendosi se la perfezione dei pianeti differisse in qualche particolare, se a causa di ciò essi provocassero differenti effetti nei corpi terrestri e se i pianeti fossero all'origine della diversità di costumi che caratterizza la specie umana.
Tommaso d'Aquino, al contrario, dedicò soltanto cinque questioni alla distinzione 14, concentrando la sua attenzione sulle acque al di sopra del firmamento e domandandosi se quest'ultimo avesse la stessa natura dei corpi terrestri e quali fossero le cause del moto celeste e quale fosse il numero dei cieli; concludeva con una questione sulla separazione della terra dall'acqua, gli elementi descritti nel terzo giorno della Creazione. Tommaso d'Aquino e Bonaventura affrontarono dunque la distinzione 14 in modi completamente diversi, preferendo mettere in rilievo o ignorare del tutto i differenti aspetti del racconto della Creazione.
Come Bonaventura e Tommaso d'Aquino, anche Pietro di Giovanni Olivi redasse un esteso commento, dissimile dai loro, al secondo libro delle Sententiae. Delle 118 questioni formulate (il trattato non era diviso in distinzioni) neppure una era dedicata alla cosmologia; come Gregorio da Rimini, Olivi infatti preferì ignorare il firmamento, le sfere celesti, i pianeti e tutto ciò che li riguardava. Egli però non ignorò del tutto la filosofia della Natura, come dimostrano le sue prime sei questioni, nelle quali si discuteva dell'infinito attuale, del continuo, degli indivisibili, dell'eternità del mondo e della possibilità dell'esistenza di altri mondi. È dunque evidente che i commentatori delle Sententiae godevano di un'ampia libertà nella scelta degli argomenti da sottoporre alla discussione.
La filosofia della Natura poteva dunque essere introdotta in quasi tutti i soggetti di carattere teologico, anche se, per diverse ragioni, molte questioni erano trattate prevalentemente, se non esclusivamente, da un punto di vista teologico. È evidente che ‒ nonostante i tentativi della Chiesa di limitarne l'influenza ‒ l'impatto della filosofia della Natura sulla teologia contenuta nei commenti alle Sententiae fu ampio e incisivo, come mostra un ultimo esempio, relativo all'eucarestia (di cui si discuteva dalla distinzione 10 alla 12 del quarto libro). Nel 1215 il IV Concilio del Laterano, convocato da papa Innocenzo III, aveva formulato la dottrina dell'eucarestia, secondo la quale si presumeva che all'atto della consacrazione durante la messa il pane e il vino si trasformassero miracolosamente nel corpo e nel sangue di Cristo; in seguito alla trasformazione, il corpo, o sostanza, di Cristo sostituiva la sostanza del pane e tuttavia le caratteristiche visibili, o accidentali, del pane rimanevano immutate. A chi appartenevano queste caratteristiche accidentali? Non a Cristo, perché il suo corpo non poteva essere identificato col pane, né al pane, che era stato trasformato nel corpo di Cristo. Si stabilì dunque che gli accidenti permanenti visibili del pane non erano inerenti a nessuna sostanza. Benché riguardasse un evento miracoloso, questa conclusione era in contraddizione con la filosofia della Natura di Aristotele, in base alla quale si riteneva che ogni accidente o proprietà appartenesse a una sostanza (tanto che era impossibile che un accidente esistesse indipendentemente da una sostanza). La dottrina della transustanziazione poneva numerosi problemi alla filosofia aristotelica della Natura e ai teologi che la impiegavano; i tentativi di spiegare il miracolo dell'eucarestia basandosi sulla filosofia della Natura di Aristotele furono definiti "fisica dell'eucarestia" (Sylla 1975).
La Chiesa e i suoi teologi supponevano che Cristo fosse presente sostanzialmente e accidentalmente nell'eucarestia, in ogni parte dell'ostia; questa ipotesi si era resa necessaria per evitare di dover ammettere che spezzando l'ostia prima di mangiarla, si spezzasse di conseguenza anche il corpo di Cristo. Ma se Cristo era interamente presente in ogni parte, per quanto piccola, dell'ostia, il suo corpo non poteva essere di una grandezza valutata per mezzo dell'ostia. Il problema consisteva nel determinare come la presenza non valutabile del corpo di Cristo potesse essere conciliata con la dottrina aristotelica della quantità, che era sempre associata all'estensione. Il mistero dell'eucarestia poneva anche altri seri dilemmi nell'ambito della filosofia della Natura, soprattutto in relazione alle dottrine aristoteliche del mutamento e dello spazio; per esempio, si supponeva che Cristo fosse presente nell'ostia in un modo differente da quello in cui un corpo fisico occupa uno spazio. Quest'ultimo coincide con lo spazio che il corpo occupa in lunghezza, in profondità e in larghezza; si riteneva invece che Cristo, come entità spirituale, fosse presente nell'ostia in maniera definitiva, cioè che i suoi limiti non coincidessero con quelli dell'ostia.
I commenti medievali alle Sententiae di Pietro Lombardo svolsero dunque un ruolo singolare e talvolta significativo nella storia della filosofia della Natura medievale. Essi dimostrano fino a che punto i teologi ricorressero alla filosofia aristotelica della Natura per spiegare e per razionalizzare i problemi teologici. Con l'eccezione di alcuni casi, in questi commenti non si conseguirono importanti risultati nel campo della scienza della Natura; benché di quando in quando i commentatori introducessero discussioni esclusivamente attinenti a temi di filosofia della Natura, quest'ultima svolgeva di solito un ruolo secondario. Essa era impiegata soprattutto per rendere più comprensibile la teologia e i problemi teologici. In molti casi, tuttavia, la particolare natura di alcuni di questi problemi consentì un notevole sviluppo della filosofia della Natura, uno sviluppo che essa non avrebbe conseguito in un contesto strettamente secolare, come, per esempio, nella discussione dei problemi spaziali sull'ubiquità e sull'onnipresenza di Dio e in quella sul potere di Dio di creare un infinito attuale. I commenti alle Sententiae costituirono un genere importante nella letteratura medievale proprio per questa apertura alla filosofia della Natura; per giungere a un giudizio definitivo su questo argomento, però, sarà necessario conoscere il contenuto del gran numero di commenti alle Sententiae inediti e non ancora studiati.
Asztalos 1992: Asztalos, Monika, The faculty of theology, in: A history of the university in Europe, general editor Walter Ruegg, Cambridge, Cambridge University Press, 1992-1996, 2 v.; v. I: Universities in the Middle Ages, editor Hilde de Ridder-Symoens, 1992, pp. 409-441.
Brady 1965: Brady, Ignatius, The distinctions of Lombard's Book of Sentences and Alexander of Hales, "Franciscan studies", 25, 1965, pp. 90-116.
Brown 1982-89: Brown, Stephen F., Philosophy and theology. Western European. Late Medieval, in: Dictionary of the Middle Ages, Joseph R. Strayer editor in chief, New York, Scribner, 1982-1989, 13 v.; v. IX, 1987, pp. 608-615.
Colish 1994: Colish, Marcia L., Peter Lombard, Leiden, E.J. Brill, 1994, 2 v.
Doucet 1954: Doucet, Victorinus, Commentaires sur les Sentences. Supplement au Repertoire de M.F. Stegmueller, Firenze, Brozzi-Quaracchi, 1954.
Eggebrecht 1984: Eggebrecht, Hans H., Die mittelalterliche Lehre von der Mehrstimmigkeit, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1984.
Glorieux 1903-50: Glorieux, Palémon, Sentences (commentaires sur les), in: Dictionnaire de théologie catholique contenant l'exposé des doctrines de la theologie catholique, leurs preuves et leur histoire, commencé sous la direction de Jean M. Vacant, Eugène Mangenot, continué sous celle de Mgr émile Amann, Paris, Librairie Letouzey et Ane, 1903-1950, 15 v.; v. XIV, pt. 2, 1941, coll. 1860-1884.
Grant 1972: Grant, Edward, recensione a: Nicole Oresme and the medieval geometry of qualities and motions, edited with an introd., English translation, and commentary by Marshall Clagett, Madison, University of Wisconsin Press, 1968, "Studies in the history and philosophy of science", 3, 1972, pp. 167-182.
‒ 1981a: Grant, Edward, Much ado about nothing. Theories of space and vacuum from the Middle Ages to the scientific revolution, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1981.
‒ 1981b: Grant, Edward, The medieval doctrine of place. Some fundamental problems and solutions, in: Studi sul XIV secolo in memoria di Anneliese Maier, a cura di Alfonso Maierù e Agostino Paravicini Bagliani, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1981, pp. 57-79.
‒ 1996: Grant, Edward, The foundations of modern science in the Middle Ages. Their religious, institutional, and intellectual contexts, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1996.
Ong 1958: Ong, Walter J., Ramus. Method, and the decay of dialogue. From the art of discourse to the art of reason, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1958.
Southern 1953: Southern, Richard W., The making of the Middle Ages, New Haven, Yale University Press, 1953.
Spade 1972: Spade, Paul V., The unity of a science according to Peter Auriol, "Franciscan studies", 32, 1972, pp. 203-217.
Stegmüller 1947: Stegmüller, Friedrich, Repertorium commentariorum in Sententias Petri Lombardi, Würzburg, Schöningh, 1947.
Sylla 1975: Sylla, Edith D., Autonomous and handmaiden science. St. Thomas Aquinas and William of Ockham on the physics of the Eucharist, in: The cultural context of Medieval learning, edited with an introd. by John E. Murdoch and Edith D. Sylla, Dordrecht-Boston, D. Reidel, 1975, pp. 349-396.
Weinberg 1964: Weinberg, Julius R., A short history of medieval philosophy, Princeton (N.J.), Princeton University Press, 1964.