La scienza bizantina e latina: la nascita di una scienza europea. Le discipline matematiche
Le discipline matematiche
di Menso Folkerts
Le traduzioni dall'arabo e dal greco
Per la matematica occidentale, ma anche per le scienze naturali e per la filosofia, il XII sec. rappresentò un punto di svolta, poiché le traduzioni dall'arabo ‒ di opere sia greche sia arabe ‒ resero disponibile, in brevissimo tempo, un'enorme quantità di nuove conoscenze. Il più importante testo di matematica, gli Elementi di Euclide, fu subito tradotto in latino per ben tre volte, insieme ad alcuni commenti relativi; nel campo dell'aritmetica, fu tradotto il testo di al-Ḫwārazmī sul calcolo indiano, mentre per l'algebra furono tradotte opere arabe di al-Ḫwārazmī, Abū Kāmil e del Liber augmenti et diminutionis. Per quanto concerne la geometria, furono tradotti alcuni testi di Archimede, in particolare la Misura del cerchio, nonché il Liber trium fratrum de geometria dei Banū Mūsā e alcuni testi arabi minori. Del trattato più importante dell'Antichità sulle sezioni coniche, le Coniche di Apollonio, fu tradotto soltanto il passo iniziale. Ulteriore materiale fu fornito dai testi di ottica, e infine divennero accessibili anche testi greci sulla geometria della sfera.
Ai suddetti testi tradotti dall'arabo se ne aggiunsero alcuni tradotti direttamente dal greco nell'Italia meridionale o in Sicilia intorno al 1160, che non ebbero grande diffusione: gli Elementi, i Data, l'Optica e la Catoptrica di Euclide, l'Almagesto di Tolomeo e l'Institutio physica di Proclo. Leonardo Fibonacci (detto anche Leonardo da Pisa, 1170 ca.-m. dopo il 1240) conosceva la traduzione degli Elementi ed è forse l'autore del compendio dei Libri XIV e XV tramandato insieme a essa. Direttamente dal greco fu tradotto anche un trattato concernente l'isoperimetro, mentre Guglielmo di Moerbeke (1215 ca.-1286) nel 1269 tradusse, presso la corte papale a Viterbo, quasi tutte le opere di Archimede e i commenti di Eutocio dal greco in latino.
Grazie alle traduzioni dall'arabo, il mondo occidentale si riappropriò delle opere greche fondamentali della matematica, sebbene mancasse ancora la traduzione degli scritti di Pappo, Diofanto di Alessandria, Erone e quasi dell'intera opera di Apollonio. Le traduzioni offrirono anche la possibilità di conoscere l'approccio assiomatico-deduttivo caratteristico della matematica greca, oltre a fornire all'Occidente la conoscenza del sapere matematico arabo e, tramite questo, di quello indiano ‒ in special modo i trattati sul calcolo con le nuove cifre indo-arabiche ed esposizioni dell'algebra. Queste nuove conoscenze impressero alla matematica un formidabile slancio e i secoli successivi furono dedicati a riordinare e sviluppare le nuove acquisizioni.
Aritmetica: le nuove cifre e il calcolo indiano
Grazie alle traduzioni, dunque, l'Occidente venne a conoscenza del calcolo indo-arabico. La più antica opera araba conosciuta che spiegava il sistema di numerazione posizionale decimale secondo il modello indiano, nonché le modalità del calcolo di base, era il trattato di aritmetica di al-Ḫwārazmī (m. 847). Di tale testo non si conosce un manoscritto arabo, né se ne conserva la traduzione originale in latino; due manoscritti contenenti una rielaborazione consentono tuttavia di ricostruire il testo della traduzione (Folkerts 1997). Vi si trattavano i seguenti argomenti: le modalità di scrittura dei numeri interi; le sei operazioni con i numeri interi (inclusi il raddoppiamento e la divisione per due); le operazioni con frazioni decimali e sessagesimali; l'estrazione della radice quadrata di numeri interi e frazionari. Il testo latino sembra alquanto obsoleto; esso rappresentava verosimilmente uno stadio piuttosto arcaico nella conoscenza della nuova aritmetica, dove ancora si riscontravano difficoltà per la piena comprensione del contenuto; mancava una terminologia tecnica appropriata e la descrizione era a volte maldestra, in alcuni casi eccessivamente dettagliata, in altri troppo concisa.
L'adattamento latino di questa traduzione riportava anche le forme delle nove cifre e dello zero. Esse appartenevano alla tradizione araba occidentale ed erano affini a quelle incise sui sassolini dei pallottolieri appartenenti alla tradizione di Gerberto (v. cap. VI, par. 2). Cifre con forme del tutto simili sono attestate anche in due manoscritti spagnoli del X sec.: nel Codex Vigilanus del monastero di Albelda (ultimato nel 976) e nel Codex Emilianus di San Millán de la Cogolla (ultimato nel 992), presso Burgos. Le cifre con questa forma furono poi adottate in testi più tardi concernenti il calcolo indo-arabico; nelle epoche successive subirono poche modifiche e, a partire dal 1500 ca., fecero la loro comparsa nella forma oggi in uso (Beaujouan 1982; Allard 1987).
Maggiore influsso rispetto al testo risalente ad al-Ḫwārazmī ebbero tre adattamenti che ne furono fatti nel XII sec.: il Liber ysagogarum Alchorismi, il Liber Alchorismi e il Liber pulveris. Il Liber ysagogarum Alchorismi era l'abbozzo di un'opera che avrebbe dovuto trattare l'intero quadrivio delle sette arti liberali, ossia l'aritmetica, la geometria, la musica e l'astronomia. Il testo tramandato presenta notevoli differenze nei manoscritti; la redazione originaria era probabilmente anteriore al 1143. Un'annotazione contenuta in un codice di una versione ampliata sembra indicare che ne fosse l'autore il famoso traduttore Adelardo di Bath (1070 ca.-1160). Il Liber Alchorismi è attribuito a tale magister Johannes, forse da identificare con Giovanni di Siviglia, che tra il 1133 e il 1142 tradusse dall'arabo testi di astronomia e astrologia. Simile a questo testo era il Liber pulveris, probabilmente più antico, che conteneva anche parti originali. Questi tre trattati affrontavano gli stessi problemi aritmetici secondo la medesima procedura del testo di al-Ḫwārazmī, seppure in una forma più esauriente e più semplice; ogni difficoltà di comprensione era chiarita e i termini tecnici utilizzati erano quelli appropriati. Gli autori si sforzavano di presentare il materiale in modo sistematico e dettagliato, il che sta a dimostrare che, già nel corso del XII sec., anche in Occidente erano stati compresi i caratteri essenziali della numerazione e del calcolo eseguito con le nuove cifre indo-arabiche.
Al XII sec. risale un altro testo, poco diffuso, sul calcolo arabo: Helcep Sarracenicum (il primo termine deriva dall'arabo al-ḥisāb, 'calcolo'). L'autore, Ocreatus, sebbene conoscesse i procedimenti arabi, usava tuttavia le cifre romane e applicava la terminologia dei trattati di matematica occidentali, per esempio di Boezio, e dei trattati sull'abaco di Gerberto.
La traduzione dell'opera di al-Ḫwārazmī, e i tre relativi adattamenti, servirono da modello a una serie di testi sul calcolo con le nuove cifre, che già nel Medioevo fu designato con il termine algorismus, dal nome dell'autore. I trattati concernenti l'algorismus descrivevano la rappresentazione dei numeri naturali mediante le cifre indo-arabiche, nonché i relativi calcoli (incluse le frazioni sessagesimali e ordinarie). Tra il XII e il XV sec. furono composti numerosi testi di questo genere, inizialmente in latino e successivamente anche nelle lingue nazionali. La maggior parte di essi si limitava al calcolo con i numeri interi (Algorismus de integris) o con le frazioni (Algorismus de minutiis); almeno quattro di questi testi risalgono ancora al XII secolo.
Nella prima metà del XIII sec. furono scritte due opere, sempre in materia di algorismus, che conobbero in breve tempo un'enorme diffusione: il Carmen de algorismo di Alessandro di Villedieu (noto anche come Alexander de Villadei, m. 1240 ca.) e l'Algorismus vulgaris di Giovanni di Sacrobosco (attivo nel 1230). Il primo, scritto in esametri, era di poco antecedente al secondo. Il successo di questi testi, che si limitavano al calcolo con i numeri interi, è sicuramente riconducibile alla facilità di comprensione; i passaggi fondamentali erano esposti abbastanza concisamente, sebbene non illustrati da esempi, e oltre ai temi consueti erano trattate anche alcune serie semplici e l'estrazione della radice cubica. Altri trattati su questo argomento provenivano dall'ambiente di Giordano Nemorario, di certo il matematico più importante del XIII sec., che si presume abbia insegnato nell'Università di Parigi; oltre a fornire le procedure di calcolo, questi testi esaminavano scientificamente questioni più generali.
Il testo più noto sul calcolo con le frazioni fu l'Algorismus de minutiis di Giovanni di Lignères (prima metà del XIV sec.). Non era di grande originalità, tuttavia si distingueva per il fatto che forniva soltanto regole ed esempi, essendo in questo altrettanto valido quanto il trattato di Giovanni di Sacrobosco per l'apprendimento dei procedimenti di calcolo. Le opere di Giovanni di Sacrobosco, Alessandro di Villedieu e Giovanni di Lignères entrarono presto nelle università, ove divennero i libri di testo delle Facoltà di arti liberali, e negli altri centri di studio; essi costituirono la base per l'insegnamento del calcolo con le nuove cifre e a essi risalgono anche i testi dei maestri d'abaco italiani.
Traduzioni di testi di algebra
Anche nel campo dell'algebra la tradizione araba ha avuto inizio con al-Ḫwārazmī. Nel suo testo sull'algebra e l'al-muqābala (al-ǧabr significa 'restaurazione', 'riduzione' di un termine nel suo giusto posto, cioè l'eliminazione di una grandezza che compare sottratta in un membro di un'equazione, mediante l'addizione della medesima a entrambi i membri; al-muqābala significa invece 'comparazione', ossia la riduzione dei termini simili in entrambi i membri) egli riprese presumibilmente conoscenze orientali; forse si ricollegò anche a una tradizione di trasmissione orale di carattere non ancora scientifico. Non è ipotizzabile che al-Ḫwārazmī abbia direttamente attinto alle conoscenze greche, perché il procedimento da lui usato si differenziava fortemente dalla cosiddetta algebra geometrica dei Greci. Dopo una prima parte dedicata propriamente all'algebra, nella quale erano risolte in forma geometrica equazioni lineari e quadratiche, il testo conteneva una sezione sulla geometria, nella quale si esponevano le regole relative al calcolo delle figure geometriche facendo ricorso all'algebra; seguiva quindi un'ampia sezione con problemi relativi alla divisione di un'eredità. La classificazione di al-Ḫwārazmī delle equazioni in sei classi che comprendevano tutti i casi possibili era ancora presente nei testi di algebra del XVI secolo.
Dell'Algebra di al-Ḫwārazmī furono effettuate, nel corso del XII sec., due traduzioni in latino, che tuttavia non includevano le sezioni sulla geometria e sui problemi relativi alla divisione di eredità. I traduttori furono Roberto di Ketton (attivo tra il 1141 e il 1157) a Segovia e, più tardi, Gherardo da Cremona (1114 ca.-1187). Esiste inoltre una rielaborazione dell'opera, la cui attribuzione è discussa (Hughes 1986, 1988; Kaunzner 1986).
Alla risoluzione delle equazioni quadratiche si dedicò anche Abrāhām ibn Ḥiyyā al-Ṣaydanānī (conosciuto anche come Savasorda, attivo nella prima metà del XII sec.) nel suo Liber embadorum. Savasorda conosceva le due diverse soluzioni che l'equazione ax=x2+b poteva presentare, e dimostrò geometricamente tutti i casi servendosi del Libro II di Euclide. Si occupò di definire aree e volumi di figure piane e solide, e applicò efficacemente l'algebra alla risoluzione dei problemi geometrici. Il libro fu tradotto nel 1145 da Platone di Tivoli e fu utilizzato, tra gli altri, da Leonardo Fibonacci per la sua Practica geometriae.
L'Algebra di al-Ḫwārazmī influenzò il trattato di algebra di Abū Kāmil (850 ca.-930), di più alto livello teorico. Questo testo si occupava di algebra in senso stretto (equazioni di primo e secondo grado), del pentagono e del decagono, dove i lati dei poligoni erano determinati per mezzo di procedimenti algebrici, nonché di equazioni quadratiche indeterminate e di alcuni problemi di matematica ricreativa. Il testo di Abū Kāmil fu tradotto in latino e, successivamente, anche in ebraico. Nonostante se ne conservi solamente un manoscritto latino, l'opera ha esercitato un notevole influsso sullo sviluppo ulteriore dell'algebra occidentale, in particolare su due opere di Leonardo Fibonacci, il Liber abaci e la Practica geometriae (corrispondente alla seconda parte del testo di Abū Kāmil).
Tra le opere tradotte nel XII sec. è da annoverare anche il Liber augmenti et diminutionis, probabilmente opera di Abū Kāmil o di Abrāhām ibn ῾Ezrā (1090 ca.-1167), nella quale con l'applicazione della doppia falsa posizione si risolvevano equazioni lineari a un'incognita o sistemi lineari di equazioni a due incognite. Il Liber mahameleth, compilato in Spagna intorno al 1150 da Giovanni di Siviglia sotto l'influsso di fonti arabe, è un'opera di algebra scarsamente nota. L'espressione mu῾āmalāt designava l'applicazione dell'aritmetica e dell'algebra in particolare nel commercio; il testo proponeva una vasta raccolta di esercizi preceduta da un capitolo introduttivo contenente gli argomenti matematici necessari per la risoluzione dei problemi. Come nel testo di Abū Kāmil, i problemi di algebra erano risolti anche geometricamente.
Le traduzioni dall'arabo di testi di algebra resero noto anche in Occidente il procedimento arabo per la risoluzione geometrica di problemi algebrici. Ancora nel XV sec. era testimoniata, per esempio nell'opera di Regiomontano (Johann Müller, 1436-1476), la tendenza a sostituire risoluzioni algebriche con risoluzioni geometriche. Il patrimonio dell'algebra araba era presente nel Liber abaci di Leonardo Fibonacci, il quale, a sua volta, influenzò i testi che, nel XV sec., prepararono la simbologia algebrica ancora oggi in uso. Un contributo originale agli studi di algebra lo si deve a Giordano Nemorario, nel cui testo De numeris datis l'equazione di partenza era trasformata in un'equazione standard, dove i numeri erano sostituiti da lettere. Diversamente dai testi di algebra dei suoi predecessori, Giordano non faceva ricorso alla geometria; a ragione, il suo testo è riconosciuto come la prima esposizione scientifica dell'algebra in Europa dai tempi di Diofanto.
Traduzioni e rielaborazioni degli Elementi di Euclide
Gli Elementi di Euclide rappresentano il testo matematico più importante giunto in Occidente grazie alla mediazione araba. Prima del XII sec., in Europa, ne erano conosciuti solamente estratti della traduzione elaborata da Boezio intorno al 500 (v. cap. VI). Dell'opera furono eseguite tre traduzioni, indipendenti l'una dall'altra, a opera di Adelardo di Bath (Versione I, 1120 ca.), di Ermanno di Carinzia (attivo tra il 1138 e il 1143) e di Gherardo da Cremona (seconda metà del XII sec.). Soltanto la traduzione di Adelardo ci è pervenuta in una versione relativamente fedele all'originale; al contrario, le versioni tramandate sotto i nomi di Ermanno e Gherardo rivelano tracce di una rielaborazione certamente più tarda (Folkerts 1989). Rispetto a queste tre traduzioni, un'influenza maggiore è stata esercitata da due rielaborazioni del XII e del XIII sec.: la Versione II, denominata in passato Adelardo II, e il testo elaborato da Campano da Novara (1210 ca.-1296) poco prima dell'anno 1260. A questi testi si fa riferimento per tutte le citazioni di Euclide in Occidente prima del 1500.
La Versione II è sicuramente la stesura più interessante degli Elementi del Medioevo occidentale; non si tratta di una traduzione, ma di un adattamento, in cui le dimostrazioni, soprattutto quelle dei Libri I-IV, appaiono in genere in una forma molto succinta e spesso si limitano a rimandare ai teoremi necessari per dimostrare la proposizione corrispondente. Accurato da un punto di vista didattico, l'autore ricorreva di tanto in tanto a chiari espedienti sussidiari per un'esposizione più comprensibile dei passaggi. Le enunciazioni furono compilate intorno al 1140 presumibilmente da Roberto di Ketton; oltre alla traduzione di Ermanno, appena ultimata, egli utilizzò anche quella di Adelardo ed estratti della traduzione di Boezio. Il nuovo testo giunse in breve tempo a Chartres, dove Teodorico, maestro di Ermanno, lo inserì nel suo Heptateuchon, l'enciclopedia delle sette arti liberali. Nella Versione II, le dimostrazioni furono aggiunte alle enunciazioni soltanto più tardi, anch'esse probabilmente per opera di Roberto di Ketton.
La Versione II degli Elementi ebbe grande diffusione, come dimostrano i 61 manoscritti che ci sono pervenuti, ma anche le rielaborazioni, che ne riprendevano le enunciazioni modificandone le dimostrazioni. Tra queste va annoverata la cosiddetta Versione III, citata da Ruggero Bacone (1214 ca.-1294), la quale non può essere anteriore alla fine del XII sec.; alla metà del secolo successivo potrebbe risalire una seconda rielaborazione anonima, sulla quale si basava l'adattamento di Euclide attribuito ad Alberto Magno. Il terzo, e certamente più influente, adattamento degli Elementi ‒ basato sulla Versione II e costituente l'edizione latina del testo euclideo più diffusa nel Medioevo (130 manoscritti conservati) ‒ fu redatto da Campano poco prima del 1260. L'autore aveva un evidente intento didattico e aggiunse materiale dell'epoca attingendo principalmente all'Arithmetica di Giordano Nemorario, ma inserì anche annotazioni personali allo scopo di chiarire le parti di testo corrotte attraverso le varie redazioni. L'opera di Campano fu utilizzata come libro di testo nelle università e fu stampata, come una delle prime opere di matematica, a Venezia nel 1482; a questa edizione seguirono numerose ristampe. Un ruolo secondario ebbero alcuni commenti su libri o problemi specifici degli Elementi, resi noti in Occidente grazie alle traduzioni dall'arabo: il commento di al-Nyrīzī ai Libri I-X, quello di Muḥammad ibn ῾Abd al-Bāqī al Libro X, di Pappo al Libro X e di Aḥmad ibn Yūsuf al Libro III (De arcubus similibus) e al Libro V (De proportione et proportionalitate).
Tra i molteplici adattamenti latini del testo euclideo, redatti nei secc. XII-XIV, è possibile riscontrare alcune affinità; la caratteristica più evidente è costituita dalle numerose aggiunte, fatte spesso nella forma di premesse o teoremi addizionali, ma che si incontrano anche all'interno delle dimostrazioni come riferimenti ad altri teoremi. Tale impostazione era dettata, nella maggior parte dei casi, dallo sforzo di adeguare l'opera di Euclide alle esigenze didattiche. Come presso gli Arabi, anche in Occidente la tendenza era quella di trasformare gli Elementi in un libro di testo, e il fatto che la didattica fosse posta in primo piano è dimostrato dai dibattiti su come strutturare una dimostrazione; erano indicate le parti in cui essa si divideva, si davano punti di riferimento su come eseguire le costruzioni richieste e su come disegnare figure tridimensionali, e si rinviava a proposizioni simili.
Anche la netta divisione tracciata dai Greci tra numero e grandezza andava lentamente attenuandosi; non s'indugiava più ad applicare gli enunciati generali del Libro V ai libri specificamente aritmetici (VII-IX), e si trovavano inadeguate le dimostrazioni numeriche nei teoremi riguardanti quantità generali. È degna di nota la costante preoccupazione per le premesse; si aggiungevano continuamente assiomi miranti a colmare tutte le eventuali lacune presenti nel procedimento dimostrativo, cercando di conferirgli una logica stringente. Questa attenzione per le ipotesi di base aveva lo scopo di rendere gli Elementi più facilmente accessibili agli allievi delle università, nonché quello di garantire risultati applicabili a problemi di altra natura, soprattutto filosofici. In tal senso le questioni di maggiore importanza erano quelle concernenti l'incommensurabilità, l'angolo di contingenza che si determina tra la circonferenza e la tangente del cerchio, e la divisibilità delle quantità. Tutte queste idee rinviavano da ultimo ai problemi dell'infinito e della continuità, che tanto impegnavano le menti dei filosofi medievali. Dunque i testi di Euclide costituirono, per la matematica medievale e non soltanto, un manuale perfettamente rispondente agli interessi scolastici.
I contributi originali della Scolastica
I problemi menzionati, derivanti dall'elaborazione degli Elementi di Euclide, definivano gli ambiti della matematica che apparivano maggiormente interessanti agli interpreti della Scolastica. Tra il XIII e il XV sec. questi studiosi offrirono contributi originali, per alcuni aspetti superiori a quelli dell'eredità greco-araba. Il loro scopo non era creare algoritmi con l'intento di servirsene per risolvere esercizi di geometria o di fisica, bensì arrivare a spiegare, con l'ausilio della matematica, alcune caratteristiche molto generali dello spazio, del tempo e del moto; questi tentativi erano dunque sempre collegati alla fisica aristotelica. Alcuni esempi possono essere rintracciati; nel suo De continuo, l'inglese Tommaso Bradwardine (1290-1349) poneva il quesito se il continuo fosse suscettibile di essere diviso all'infinito oppure se esistessero delle parti piccolissime non ulteriormente divisibili (gli indivisibili) e, in quest'ultimo caso, se questi atomi fossero di numero finito oppure infinito. Stabilendo una corrispondenza biunivoca tra elementi di insiemi (finiti o infiniti), per esempio tra i punti che costituiscono il diametro del cerchio e quelli della semicirconferenza, egli arrivava a dimostrare che il continuo non era costituito da atomi. In queste considerazioni egli anticipava i paradossi della teoria degli insiemi. La parte del testo euclideo che trattava dell'angolo formato da un arco di cerchio e dalla retta a esso tangente in uno dei suoi estremi (angolo di contingenza) servì da spunto, intorno al 1260, per un lungo excursus di Campano. Questi dimostrò che l'angolo di contingenza è più piccolo di ogni angolo acuto rettilineo, pur credendo che non possa essere nullo (probabilmente a causa dell'elemento di superficie presente nell'immediata vicinanza del vertice dell'angolo). Partendo da quest'ipotesi, Campano poté confutare il cosiddetto 'teorema del valore intermedio' ‒ utilizzato, a partire dall'epoca greca, soprattutto in relazione alla quadratura del cerchio ‒ secondo il quale una quantità continua doveva assumere tutti i valori intermedi per passare da un valore più piccolo a uno più grande. Questo problema fu oggetto di un vivace dibattito fino al XVII secolo.
In connessione con la teoria delle proporzioni, trattata nei Libri V e VII degli Elementi, Bradwardine espose in modo esauriente nel Tractatus de proportionibus velocitatum in motibus (1328) la teoria delle proporzioni composte. Il suo intento era quello di stabilire il rapporto tra la velocità v di un mobile, la forza motrice K agente sul mobile e la resistenza R risentita da quest'ultimo, secondo la prospettiva aristotelica. Bradwardine diede una nuova interpretazione del testo di Aristotele applicando la definizione delle proporzioni multiple (esposta nel Libro V degli Elementi) e dedusse infine una legge esponenziale del moto: K/R=nv, con n intero. In questo ambito Bradwardine introdusse la 'proporzione dimezzata', analoga alla 'proporzione duplicata' di Euclide (def. 9, Libro V degli Elementi). Il suo lavoro esercitò un influsso diretto su Nicola Oresme (1320 ca.-1382), che insegnò all'Università di Parigi. Nell'Algorismus proportionum e nel De proportionibus proportionum, egli indicò le regole per operare con 'proporzioni frazionarie' (proportiones proportionum), giungendo così a creare un algoritmo formale con l'estensione del concetto di potenza a esponenti frazionari positivi.
Nicola Oresme si dedicò con impegno anche alla teoria della 'latitudine delle forme', di cui già dagli inizi del XIV sec. si occupavano gli studiosi del Merton College di Oxford (Guglielmo Heytesbury, Giovanni di Dumbleton, Riccardo Swineshead). La teoria in questione concerneva la variazione delle qualità aristoteliche (per es., calore, densità, gradazione cromatica, velocità di moto) ed era presentata simbolicamente per mezzo di figure la cui lunghezza o 'longitudine' indicava l'estensione della qualità (l'intervallo di tempo in cui si verifica il moto), mentre la larghezza o 'latitudine' indicava l'intensità (ossia la quantità della qualità: per es., sempre nel caso del moto, la sua velocità). L'area della superficie della figura forniva la misura del valore della qualità (nel caso del moto: lo spazio percorso). Nel caso di un moto uniformemente accelerato con velocità di partenza uguale a zero, la figura risultante era un triangolo. Nel Merton College si dimostrò ('teorema mertoniano') che il 'valore' di questo moto (cioè lo spazio percorso, s) è uguale al 'valore' di un moto uniforme, la cui velocità è uguale alla velocità istantanea a metà dell'intervallo di tempo, t; è da rilevare che da questo 'teorema di Merton' derivò la legge galileiana del moto: s=at2/2, dove a è l'accelerazione, costante.
Lo studio di altre variazioni di qualità, nel corso del XIV sec., permise di capire il valore di alcune serie infinite. Riccardo Swineshead considerò una variazione di qualità in cui l'intervallo di tempo 1 può essere suddiviso in parti di 1/2, 1/4, … 1/2n, e le intensità crescono da un intervallo a quello successivo come gli elementi della successione aritmetica 1, 2, 3 … Egli dimostrò che l'intensità media è uguale all'intensità nel secondo intervallo parziale, ossia: (1/2)×1+(1/2)2×2+(1/2)3×3+…=2.
In modo analogo fu provata la convergenza di altre serie, persino di quelle che avrebbero portato al logaritmo, e in qualche caso la divergenza di esse. Nell'opera Quaestiones super geometriam Euclidis, Nicola Oresme riuscì a dimostrare la divergenza della serie armonica.
I contributi di cui si è parlato costituirono il vertice della produzione matematica del Medioevo occidentale. Essi furono stimolati dall'interesse suscitato dagli Elementi di Euclide ed erano strettamente connessi a questioni sollevate dallo studio dei testi di Aristotele e dei loro commenti. Naturalmente, tali problemi non riguardavano chi svolgeva un'attività pratica, costituendo tuttavia argomenti centrali per l'insegnamento universitario all'interno delle Facoltà di arti.
Ulteriori contributi alla geometria
Accanto agli Elementi di Euclide, i più importanti testi di geometria resi accessibili attraverso le traduzioni dall'arabo furono gli scritti di Archimede (v. par. 2), dei quali, a parte la traduzione di Guglielmo di Moerbeke, fino al XV sec. in Occidente furono conosciuti soltanto la Misura del cerchio ed estratti dell'opera De sphaera et cylindro. Soprattutto il primo testo fu soggetto a numerose rielaborazioni e diede spunto a ulteriori opere. Alla tradizione di Archimede appartenevano due testi che godettero di grande diffusione in Occidente. Il primo, il Liber trium fratrum o Verba filiorum dei Banū Mūsā (850 ca.), conteneva, tra le altre cose, due proposizioni tratte dalla Misura del cerchio e alcune dal De sphaera et cylindro. Vi si trovava la dimostrazione della formula del triangolo di Erone (che esprimeva l'area del triangolo per mezzo dei lati e del semiperimetro) e, oltre alla quadratura del cerchio, gli altri due problemi classici della duplicazione del cubo e della trisezione dell'angolo (Tav. I).
Questo testo fu utilizzato, tra gli altri, da Leonardo Fibonacci e da Ruggero Bacone. Nel secondo trattato, opera forse di un tal Johannes de Tinemue, il De curvis superficiebus, erano determinati, tra le altre cose, aree e volumi di cono, cilindro e sfera. Secondo Pappo, Archimede avrebbe trovato 13 poliedri semiregolari, e alcuni di essi sono documentati anche in testi occidentali: nel cap. XI del De arte mensurandi di Giovanni de Muris (attivo a Parigi nella metà del XIV sec., v. par. 2) e in due testi di Piero della Francesca (1406/1412 ca.-1492), il Trattato di arithmetica, algebra e geometria e il Libellus de quinque corporibus regularibus. In realtà, poiché nessuna traduzione medievale in latino dell'opera di Pappo è nota, non è chiara la fonte di queste informazioni.
Nel XII sec. furono tradotti dall'arabo due testi geometrici di Euclide più brevi: i Data, che affrontavano, fra le altre cose, problemi di algebra da un punto di vista geometrico integrando, per così dire, gli Elementi, e il Liber divisionum; in quest'ultimo testo, data una certa figura l'obiettivo consisteva nel trovare una retta tale che dividesse la figura in parti aventi una determinata forma, o tale che le aree di queste parti fossero in una determinata proporzione. Entrambe le traduzioni sono andate perdute; però, si conserva una traduzione dei Data dal greco, eseguita in Sicilia prima del 1160.
Di una certa rilevanza furono anche tre trattati concernenti la misurazione, tradotti dall'arabo e tradizionalmente trasmessi insieme: il Liber Saydi Abuothmi, il Liber Aderameti e il Liber mensurationum attribuito ad Albubather (Abū Bakr al-Ḥāsan ibn al-Ḥaṣīb al-Kūfī). Questi scritti appartenevano all'ambito della Misāḥa, la 'scienza delle misurazioni', ossia la disciplina araba che si occupava del confronto delle dimensioni delle figure. Lo scritto di Albubather trattava l'applicazione dell'algebra nei problemi geometrici. È degno di nota il fatto che per la misurazione delle superfici e dei volumi si facesse ricorso a metodi già attestati nella matematica babilonese. Numerosi problemi contenuti in questo testo si ritrovano nel Liber embadorum di Savasorda.
Nella prima metà del XIII sec., Giordano Nemorario pubblicò un manuale di geometria di alto livello, il Liber Philotegni, con la dimostrazione di teoremi sui triangoli e sulla loro suddivisione, su segmenti circolari e superfici comprese fra tangenti e archi, nonché su poligoni regolari e irregolari che erano inscritti l'uno nell'altro o potevano essere isoperimetrici. Il testo di Giordano Nemorario traeva ispirazione da Euclide e Archimede, tuttavia presentava teoremi che superavano di gran lunga quelli conosciuti e prospettava nuove procedure per la loro dimostrazione. Un'elaborazione più tarda del Liber Philotegni è costituita dal De triangulis (che precedentemente era stato considerato opera originale di Giordano); tra le altre cose, il De triangulis conteneva le soluzioni dei problemi della trisezione dell'angolo e della duplicazione del cubo, nonché una dimostrazione della formula del triangolo di Erone.
Un importante settore della geometria dell'Antichità era costituito dalla teoria delle sezioni coniche. Nell'Occidente medievale questa fu oggetto di studio soprattutto in relazione a problemi di ottica. Le conoscenze greche sulle sezioni coniche erano in gran parte sconosciute, poiché la più significativa opera greca sull'argomento, vale a dire le Coniche di Apollonio, pur essendo stata tradotta in arabo, non ebbe una versione latina (dell'opera, infatti, si conserva soltanto un frammento iniziale, che è stato utilizzato come introduzione alla traduzione in latino del testo di Abū ῾Alī al-Ḥasan ibn al-Hayṯam [Alhazen] sullo specchio ustorio). Riguardo ai testi di matematica pura era noto inoltre un breve scritto sull'iperbole, tradotto dall'arabo da Giovanni da Palermo, che fu attivo per un certo periodo alla corte dell'imperatore Federico II. Ulteriori tracce della teoria delle sezioni coniche si possono trovare nelle opere di ottica, soprattutto nelle traduzioni dei testi di Alhazen Perspectiva e Liber de speculis comburentibus, e nella Perspectiva di Witelo (1220/1230 ca.-1280 ca.). Poco dopo Witelo, un monaco anonimo scrisse un nuovo testo sugli specchi paraboloidici (Speculi almukefi compositio). Quest'opera, che fa parte dei trattati più originali di età medievale sulla sezione conica, indusse soprattutto Jean Fusoris (1355-1436) e Regiomontano a occuparsi degli specchi non sferici e, in questo contesto, anche delle sezioni coniche.
La matematica nelle università
Nelle università, sorte nell'Europa occidentale a partire dal XII sec. (v. cap. XIII), le discipline matematiche occupavano nella Facoltà delle arti un posto stabile nell'ambito del quadrivio. Il testo di base era letto e spiegato tramite commenti e quaestiones, il cui modo di procedere è testimoniato da numerosi manoscritti; al margine del testo era apposto il commento, in una scrittura di dimensioni più piccole, oppure si aggiungevano glosse tra una riga e l'altra per spiegare espressioni problematiche. Nelle quaestiones i problemi erano presentati sotto forma di domande, per le quali si procedeva seguendo uno schema fisso, tipico della Scolastica. A titolo di esempio, si possono citare le Quaestiones super geometriam Euclidis di Nicola Oresme.
I fondamenti per lo studio della geometria teorica erano forniti dagli Elementi di Euclide, di cui solitamente erano letti soltanto i primi libri (spesso, soltanto il Libro I). Per l'aritmetica teorica, che si occupava delle proprietà caratteristiche dei numeri naturali, il principale testo di riferimento nelle università era il De institutione arithmetica di Boezio, che ebbe grande diffusione durante tutto il Medioevo (v. cap. VI). Per il calcolo con le nuove cifre indo-arabiche si disponeva di diversi trattati sull'algorismus, tra i più noti dei quali erano quelli di Giovanni di Sacrobosco e di Alessandro di Villedieu. A Parigi, Oxford e Vienna, oltre ai testi suddetti erano letti anche testi riguardanti il nuovo calcolo con frazioni, in particolare quello di Giovanni di Lignères, nonché versioni abbreviate e ridotte del De institutione arithmetica di Boezio, per esempio di Bradwardine o di Simon Bredon, e ancora i Libri VII-IX degli Elementi, dedicati all'aritmetica.
Le Università di Parigi e Oxford (e più tardi quelle di Vienna e di Cracovia) nel Tardo Medioevo furono i principali centri di formazione per la matematica e le scienze naturali. A Oxford e a Parigi furono attivi celebri maestri, come Bradwardine e Oresme, che, come si è detto, fornirono contributi originali al progresso della matematica; in queste università si leggevano dunque anche testi quali, per esempio, il già citato De proportionibus velocitatum in motibus di Bradwardine e i testi sulla latitudine delle forme. Il primo rettore dell'Università di Vienna, fondata nel 1365, Alberto di Sassonia (1316-1390), aveva studiato a Parigi, dove scrisse anche testi di matematica e astronomia. Anche uno dei suoi allievi, Enrico di Langenstein o di Hesse (Heinrich von Langenstein, 1325 ca.-1397), fu attivo a Parigi nel campo della matematica, e pretendeva, a Vienna, una formazione specifica degli studenti nella matematica e nell'astronomia (v. par. 2). Per la presenza dei tre luminari, Giovanni di Gmunden (1383-1442), Georg von Purbach (1423-1461) e Regiomontano, l'Università di Vienna divenne uno dei centri più importanti per lo studio della matematica e dell'astronomia nel XV sec., al pari dell'Università di Cracovia, con la quale aveva stretti contatti. Nel 1502 fu istituita a Vienna la prima cattedra specifica per la matematica e l'astronomia.
Trigonometria
Un'altra branca della matematica insegnata nelle università era la geometria della sfera, dalla quale deriva la trigonometria. Essa non costituiva tuttavia una disciplina autonoma, avendo soltanto lo scopo di fornire strumenti utili per effettuare calcoli astronomici. I più importanti testi dell'Antichità, gli Sphaericorum libri di Teodosio Tripolita (o di Bitinia, I sec. a.C.) e gli Sphaerica di Menelao di Alessandria (I sec. d.C.), furono tradotti in latino nel XII sec., così come l'opera di Autolico di Pitane (attivo nel 310 a.C.) De sphaera quae movetur, che si occupava in maniera astratta di una sfera in movimento, dei suoi 'circoli massimi' e 'paralleli' e delle sue intersezioni con i piani.
Grazie a Menelao e all'Almagesto di Tolomeo divennero noti anche nell'Occidente medievale i teoremi sui quali era basata la trigonometria dei Greci, tra i quali anche il cosiddetto 'teorema sulle trasversali', che Menelao applicò alla sfera e tramite il quale diventava possibile calcolare alcuni casi di triangoli sferici.
È noto che presso gli Arabi la trigonometria subì un ulteriore e significativo sviluppo, tuttavia soltanto una piccola parte delle loro opere fu tradotta in latino, tra cui due testi di Aḥmad ibn Yūsuf (Ametus filius Josephi, m. 912 ca.) sugli archi simili (De arcubus similibus) e su rapporti e proporzioni (De proportione et proportionalitate). In quest'ultimo, partendo dalla teoria delle proporzioni esposta nel Libro V degli Elementi di Euclide, Aḥmad ibn Yūsuf trattava in maniera dettagliata la teoria delle proporzioni composte, poco studiata dai Greci, ma di notevole importanza per l'astronomia sferica. Egli mostrava come questi rapporti potessero essere indagati al meglio nella figura trasversale, e dimostrava geometricamente le possibili forme di questa figura. In Occidente il suo testo fu oggetto della massima considerazione; Campano lo utilizzò per il commento al Libro V di Euclide, e il testo era noto anche a Leonardo Fibonacci, Tommaso Bradwardine e Luca Pacioli. Un secondo testo arabo che si occupava del teorema delle trasversali fu tradotto in latino nel XII sec.: lo scritto di Ṯābit ibn Qurra (836-901) dal titolo De figurae sectore.
Nell'Almagesto di Tolomeo si trovava una tavola delle corde di archi circolari che procedeva a intervalli di 30 minuti. Grazie alle traduzioni dall'arabo, a partire dal XII sec. queste tavole delle corde e i procedimenti per calcolarle furono noti anche agli studiosi occidentali. Si deve agli Indiani il passaggio dalla corda al seno, cioè la metà della corda corrispondente all'arco doppio. I matematici arabi ampliarono le conoscenze di origine greca e indiana elevando progressivamente la trigonometria basata sul concetto di seno di un angolo al rango di scienza autonoma. Tramite le traduzioni di testi astronomici (per es., di al-Battānī) e di tavole (per es., rielaborazioni delle tavole di al-Ḫwārazmī), questi contributi si diffusero anche in Occidente. Particolarmente influente fu la traduzione del commento anonimo all'Almagesto, eseguita nel XII sec. da Ǧābir ibn Aflaḥ a Siviglia, e un compendio dal titolo Almagestum parvum. Nella traduzione di Ǧābir ibn Aflaḥ compariva, tra gli altri, anche il teorema dei seni per i triangoli rettangoli e sferici.
Nei commenti esplicativi (canones) delle Tavole di Toledo, scritte presumibilmente da al-Zarqalī nell'XI sec. in Spagna e contenenti due tavole di seni di angoli, era illustrato un procedimento per il calcolo dei valori del seno di un angolo. I canones relativi a queste tavole, tradotti in latino nel XII sec., furono utilizzati fra gli altri da Giovanni di Lignères e Giovanni di Gmunden per la compilazione delle proprie tavole dei seni. Il quadro più completo delle conoscenze trigonometriche in Occidente prima della fine del XV sec. fu fornito dal Quadripartitum e dal De sectore, compilati prima del 1335 da Riccardo di Wallingford.
Poiché il livello delle traduzioni non era più tale da soddisfare le accresciute esigenze, un apporto del tutto originale in ambito trigonometrico fu dato dagli studiosi dell'Università di Vienna del XV secolo. Nel suo Tractatus de sinibus, chordis et arcubus (1437), Giovanni di Gmunden introdusse due diversi metodi di calcolo delle tavole dei seni, ossia quello di al-Zarqalī e quello di Tolomeo; egli introdusse anche una tavola dei seni a intervalli di 30 minuti e raggio di 60 unità. L'opera di Gmunden fu continuata da Georg von Purbach, il quale calcolò una tavola dei seni a intervalli di 10 minuti per un raggio unitario di 600.000 parti. Tavole ancora più accurate furono elaborate da Regiomontano, il quale, prima del 1468, calcolò tre tavole dei seni, tra cui una con raggio r=6.000.000 e una con raggio espresso in potenze di 10 (r=107), nonché una tavola per la tangente trigonometrica con r=105; nel corso dei centocinquanta anni successivi queste sue tavole furono utilizzate come modello. A Regiomontano dobbiamo anche il primo manuale dell'Europa occidentale che abbia trattato in modo sistematico la trigonometria piana e quella sferica, indipendentemente dalle loro possibili applicazioni in campo astronomico (De triangulis omnimodis libri quinque). Sebbene Regiomontano mostrasse scarsa originalità, il suo talento didattico emergeva nella chiara distribuzione della materia e nella formulazione precisa delle proposizioni.
Gli albori di una 'matematica pratica': Leonardo Fibonacci
L'Occidente fu influenzato dalle conoscenze algebriche degli Arabi sia direttamente, per il tramite di traduzioni, sia indirettamente, attraverso testi di autori che erano a conoscenza di tali procedimenti matematici, tra i quali il più importante fu Leonardo Fibonacci. I suoi testi rappresentano l'anello di congiunzione tra la matematica teorica successivamente insegnata nelle università e la matematica pratica, destinata a essere utilizzata dai mercanti. Il Liber abaci di Leonardo (1202; rielaborato nel 1228), scritto ancora in latino, divenne il punto di partenza per numerosi lavori sulla matematica pratica redatti nelle lingue nazionali. Leonardo era originario di Pisa, città che intorno al 1200 aveva basi mercantili in tutto il Mediterraneo. L'impiego di suo padre in una di esse, a Bugia, nell'Africa settentrionale, gli offrì l'opportunità di effettuare viaggi commerciali in tutte le zone del Mediterraneo e di acquisire conoscenze di gran lunga superiori rispetto al livello medio dei mercanti dell'epoca. Il Liber abaci fu frutto dei suoi studi. La parola 'abaco' nel titolo non aveva nulla a che vedere con il pallottoliere antico o medievale, bensì designava la nuova aritmetica che Leonardo definisce 'indiana'. In quest'opera egli sistematizzò una quantità notevole di materiale attinto da fonti arabe, ricorrendo tuttavia anche all'eredità culturale classica, che ampliò con i propri problemi e metodi. Temi centrali del voluminoso trattato erano l'aritmetica e l'algebra delle equazioni lineari e quadratiche e delle equazioni indeterminate. Leonardo fu il più grande esperto di algoritmi del Medioevo occidentale; fornì informazioni dettagliate sulle procedure basilari di calcolo, perfezionò i metodi per trovare il comune denominatore di più frazioni, illustrò i criteri di divisibilità per 2, 3, 5 e 9 e menzionò la prova del sette, del nove e dell'undici.
Nell'opera di Fibonacci ampio spazio era dedicato ai metodi per risolvere esercizi relativi a calcoli commerciali, basati sulla teoria delle proporzioni. Vi erano anche esercizi con tre, cinque e più grandezze direttamente o inversamente proporzionali. Per la risoluzione delle equazioni lineari, si applicavano diversi metodi, tra i quali la regola della falsa posizione semplice o doppia, nonché una risoluzione algebrica espressa a parole. Molti dei problemi risolti da Leonardo provenivano dall'Oriente o dalla Grecia classica, come anche i relativi metodi di risoluzione da lui ulteriormente sviluppati. Nell'ambito delle equazioni lineari, Leonardo incluse anche esercizi con soluzioni negative, che egli interpretava come un debitum. Nel calcolo numerico della radice quadrata e cubica, egli partì dai metodi di approssimazione conosciuti nei paesi islamici, e calcolò i valori tramite un algoritmo iterativo. Il Liber abaci stimolò la produzione di testi specialistici di aritmetica e di algebra nelle generazioni successive; i suoi esercizi e i suoi metodi di risoluzione furono adottati in libri italiani, tedeschi, francesi e inglesi; alcuni di essi si ritrovano ancora nell'Algebra (1768) di Leonhard Euler.
In due testi minori (Flos e Liber quadratorum), Fibonacci si occupava dell'equazione cubica x3+2x2+10x=20 e di problemi quadratici indefiniti che gli erano stati sottoposti in presenza dell'imperatore Federico II. Egli dimostrò che la citata equazione non poteva avere alcuna soluzione razionale, né irrazionale, come quelle che comparivano in Euclide; alla fine ne diede una soluzione approssimata nel sistema sessagesimale. Leonardo fu autore anche di una Practica geometriae (1220 o 1221), che verteva su questioni scientifiche (definizione di concetti geometrici di base, calcolo della radice quadrata e cubica, formula del triangolo di Erone, duplicazione del cubo, formule del pentagono e del decagono, calcolo delle corde), ma soprattutto su questioni di geometria pratica (misurazioni di lunghezze, superfici e volumi, misurazione di campi di qualsiasi tipo, misurazioni con il quadrante, formule di aree e volumi per figure piane e per solidi). I problemi di geometria erano spesso risolti con l'aiuto dell'algebra, riconducendoli a equazioni quadratiche; alcuni di essi ricordavano i testi di Savasorda e di Abū Kāmil. Come il Liber abaci, anche la Practica geometriae rappresentò il punto di partenza per altri testi di matematica pratica, in special modo in ambito italiano; numerosi sono infatti i manoscritti (in gran parte ancora inediti) conservatisi in lingua italiana. Anche Luca Pacioli (1445-1517), nella sua Summa (1494), attinse ampiamente alla Practica geometriae di Leonardo.
I maestri d'abaco
Non molto tempo dopo il Liber abaci di Leonardo furono redatti in Italia i primi testi specialistici di matematica, non più nella lingua colta, il latino, ma nella lingua nazionale, cioè l'italiano. La loro comparsa, collegata all'apertura di scuole specialistiche, dove l'insegnamento era impartito sempre in lingua nazionale, va messa in relazione con la cosiddetta 'rivoluzione economica' nell'Alto Medioevo. Nelle città commerciali italiane essa generò infatti una grande ricchezza, di cui beneficiarono, in primo luogo, mercanti e banchieri; le nozioni di matematica e di contabilità loro necessarie non potevano essere acquisite nelle università, dove i testi di algoritmo erano scritti in latino e i metodi insegnati erano inadatti alle esigenze pratiche. Effettivamente, non vi fu all'inizio alcun contatto tra commercianti e docenti universitari; furono aperte invece scuole speciali in cui la matematica era insegnata tenendo ben presenti le esigenze dei futuri mercanti.
La prima menzione di una scuola del genere, in cui l'insegnamento era affidato a specialisti, i 'maestri d'abaco', ricorre nell'anno 1284 negli statuti di Verona. Il primo maestro d'abaco di cui è stato tramandato il nome fu tale maestro Neri, attivo a Firenze nel 1304. Già nel 1316 i maestri d'abaco di questa città si riunirono, insieme con gli altri insegnanti, in una corporazione; nel 1343 Firenze contava sei scuole d'abaco, frequentate da 1000-1200 studenti, di un'età media di 10-12 anni e per lo più figli di mercanti. I trattati d'abaco utilizzati in queste scuole si occupavano delle tecniche e dei procedimenti matematici di cui necessitavano i commercianti italiani; tuttavia, non erano scritti soltanto per gli allievi delle scuole d'abaco, ma è probabile che fossero usati anche per la risoluzione di problemi matematici ricorrenti nella pratica. Non sappiamo se in queste scuole fossero insegnate anche le nozioni basilari di geometria o di arte, tuttavia è noto che scuole di questo genere furono frequentate da Leonardo da Vinci (1452-1519), e Piero della Francesca, uno degli artisti più importanti del tempo, compilò un testo d'abaco. Tra il 1290 e il 1500 videro la luce oltre 200 testi d'abaco e simili in lingua italiana; il trattato più antico è l'anonimo Livero del abbecho (1290 ca.). La maggior parte di queste opere risale alla seconda metà del XV sec., ma ben 40 di esse furono compilate nel XIV secolo. Tali scritti facevano riferimento al sistema di numerazione indo-arabico (sono indicati da alcuni con la parola abbacus, allo scopo di distinguerli dal pallottoliere medievale, definito abacus) e solitamente includevano gli argomenti elencati di seguito:
a) note introduttive sulla scrittura dei numeri e sulle operazioni aritmetiche;
b) problemi legati all'attività mercantile; prezzi e prodotti, permuta di denaro, pesi e misure, calcoli relativi a una società (perdite e profitti erano ripartiti tra coloro che prendevano parte a un affare commerciale), calcolo dell'interesse e dello sconto, restituzione di prestiti, determinazione della mescolanza dei metalli (argento e oro di diverse qualità erano mescolati in modo tale da ottenere una lega secondo una proporzione data, seguendo quelle che poi furono chiamate 'regole di alligazione');
c) esercizi di matematica ricreativa; indovinelli numerici, parti di un numero, problemi sui soldi, determinazione del totale, divisione del lavoro, serie e successioni, problemi di movimento e di eredità;
d) problemi di geometria; definizioni, determinazione di superfici astratte, misurazione di figure concrete;
e) sezioni metodologiche riguardanti la regola del tre, quella della falsa posizione semplice e doppia, e l'algebra, vale a dire la determinazione di una soluzione mediante un'incognita e con l'aiuto di equazioni.
Originati dal Liber abaci di Fibonacci, la maggior parte dei testi d'abaco trattava non soltanto di aritmetica ma anche di algebra e geometria. In tal senso, essi costituivano libri di testo per la matematica pratica, contenenti anche parti teoriche. I metodi di calcolo esposti da Fibonacci ponevano problemi per i mercanti, poiché gran parte delle operazioni doveva essere eseguita mentalmente ed erano trascritti soltanto i risultati intermedi assolutamente indispensabili. Così, furono sviluppati dopo Leonardo procedimenti nei quali era annotato un numero crescente di risultati parziali e il calcolo scritto era meglio organizzato. Colpisce il fatto che nei libri d'abaco si desse spazio anche a nozioni di algebra, la cui conoscenza non era necessaria all'attività mercantile; in effetti, fino al XVI sec. furono quasi esclusivamente i maestri d'abaco che, nell'Europa occidentale, svilupparono ulteriormente gli studi d'algebra. Dal punto di vista moderno, l'importanza del loro contributo risiede nella creazione di un utile sistema di simboli algebrici nonché, dopo gli iniziali esiti fallimentari, di metodi per la risoluzione delle equazioni di terzo e quarto grado.
Il più antico testo d'abaco fra i più significativi per l'evoluzione dell'algebra è il Libro di ragioni, scritto a Montpellier nel 1328 dal fiorentino Paolo Gherardi. Questi fu il primo che tentò di risolvere equazioni cubiche non riconducibili a equazioni quadratiche. Benché errate, le regole indicate da Gherardi sono testimoniate in numerosi manoscritti del XIV e del XV secolo. Nel 1344, tale Dardi (magister Dardi) a Pisa scrisse un trattato dal titolo Aliabraa-Argibra, il primo testo redatto in una lingua nazionale interamente dedicato all'algebra. Dardi si occupava di 194 equazioni, tra cui quattro di terzo e quarto grado, risultanti da problemi relativi al pagamento di interessi, e per questi problemi elaborò una formula esatta, ma soltanto per una certa classe di equazioni. Fece tuttavia anche notare che tali formule, al contrario delle altre, non erano universalmente valide. Le stesse si ritroveranno anche in manoscritti più tardi.
Il fiorentino Antonio de' Mazzinghi (1353-1383) introdusse diverse incognite per la risoluzione di problemi complicati e utilizzò per la prima volta termini diversi per designare due incognite ('cosa' e 'quantità'). Infine, in due testi anonimi del XIV sec. compariva l'idea di base per la risoluzione dell'equazione generale di terzo grado, in cui un membro dell'equazione era completato con un'espressione cubica per ottenere la soluzione. Agli inizi del XVI sec. Scipione Dal Ferro (1465-1526) avrebbe risolto questa equazione applicando il medesimo principio.
I contributi di questi e altri maestri italiani, i cui testi non furono stampati nella loro epoca, sono stati resi noti soltanto negli ultimi anni (Franci 1982, 1985). Tale scoperta ha avuto come conseguenza una rivalutazione dell'algebra italiana, che si credeva non avesse compiuto alcun progresso nel periodo intercorso tra Leonardo Fibonacci e Luca Pacioli. Quest'ultimo, proveniente dall'ambito mercantile e più tardi insegnante di matematica in varie università italiane, fu, tra le altre cose, amico di Leon Battista Alberti (1404-1472) e di Leonardo da Vinci. Nel 1494 pubblicò il primo compendio a stampa che trattava anche di questioni algebriche (Summa de arithmetica, geometria, proportioni et proportionalità). Benché deluda constatare l'assenza di riferimenti alle opere dei suoi predecessori in campo algebrico, l'importanza dell'opera di Pacioli risiede nel fatto che essa fu stampata e che quindi rese nota la matematica italiana dell'epoca a un pubblico più vasto.
La risoluzione dell'equazione cubica e biquadratica per radicali segnò, nella prima metà del XVI sec., il culmine e nel contempo una temporanea stasi nell'attività dei maestri d'abaco italiani. Il professore bolognese Scipione Dal Ferro, sicuramente stimolato dalle impostazioni dei testi d'abaco italiani, risolse l'equazione cubica x3+ax=b; nel far ciò, egli dovette probabilmente lavorare con identità cubiche, che consentivano di ottenere una soluzione analoga a quella delle equazioni quadratiche. I testi dedicati a questioni di questo genere includevano spesso capitoli di geometria. Su questa materia si produssero inoltre opere specialistiche che, tuttavia, a differenza di quelle di aritmetica e algebra, non sono state ancora oggetto di analisi sistematica (v. oltre); sembra, però, che la maggior parte di esse dipendesse dalla Practica geometriae di Leonardo Fibonacci.
Altro aspetto della matematica pratica fu lo studio della prospettiva e della sua applicazione nella pittura. Alcuni problemi di prospettiva lineare furono affrontati per la prima volta da artisti toscani; il primo a occuparsi di simili questioni sembra sia stato Lorenzo Ghiberti (1378-1455). Suoi allievi furono il pittore Paolo Uccello (1396/1397-1475), talvolta indicato come l'inventore della prospettiva, e, secondo quanto risulta dalla tradizione, l'architetto Filippo Brunelleschi (1377-1446). Altri artisti si interessarono alla prospettiva, tra i quali Leon Battista Alberti, Piero della Francesca e Leonardo da Vinci.
Le cifre indo-arabiche erano state accolte in ambiente mercantile con una certa diffidenza. Nel 1299, a Firenze, le autorità comunali vietarono ai commercianti di utilizzare i numeri arabi per tenere la contabilità; i numeri dovevano essere scritti in lettere o in cifre romane, in quanto si temeva che, se scritti secondo il sistema arabo, potessero essere facilmente falsificati. A causa di tale divieto le nuove cifre non si affermarono definitivamente che nel XVI secolo. Un altro motivo che inizialmente ne impedì la diffusione furono le difficoltà di comprensione legate al sistema posizionale, del tutto evidenti nel caso della cifra zero, che se per un verso significava 'nulla', per un altro verso aveva la capacità di decuplicare il valore di una cifra quando era apposto alla sua destra. Con un certo ritardo rispetto all'Italia, scuole di calcolo sul modello italiano sorsero numerose anche nelle città mercantili della Francia meridionale e della Germania meridionale. A Lione fu attivo Nicolas Chuquet (1445 ca.-1487/1489), il cui Triparty en la science des nombres conteneva anche contributi originali su aritmetica, algebra e sulla geometria pratica.
I maestri d'abaco ebbero un ruolo anche nella formazione della simbologia algebrica. Se nella matematica scientifica i nomi e le potenze delle incognite, la connessione e l'uguaglianza di termini erano designati sempre mediante espressioni verbali idonee (fatta eccezione per Giordano, ricordato sopra), in Italia e in Francia, a partire dalla fine del XIV sec., si cominciò ad abbreviare le espressioni tecniche, per lo più con le iniziali delle parole in questione; tali abbreviazioni erano talvolta sostituite da segni speciali: per esempio, Chuquet scriveva 12x, 12x2 e 12x3 nella forma 121, 122 e 123, e di conseguenza il numero 12 come 120. Determinante fu un altro sviluppo che partì dalla Germania meridionale e al quale contribuirono non soltanto i maestri d'abaco, ma anche alcuni studiosi come Regiomontano. Questi in una raccolta di problemi del 1456, in seguito anche in alcune sue lettere (1463) e, quasi contemporaneamente, nell'autografo del suo trattato De triangulis omnimodis, utilizzò segni a esponente per designare l'incognita x e le sue potenze x2 e x3, un lungo trattino per il segno di uguaglianza e un'abbreviazione per la radice quadrata.
Nel 1461, il monaco Fridericus Ammann di S. Emmerano, presso Ratisbona, fece uso di simboli simili per indicare le potenze delle incognite. Nel 1486 Johannes Widman tenne a Lipsia la prima lezione di algebra in Germania e utilizzò, in quella occasione, anche i segni + e −, rispettivamente per l'addizione e la sottrazione. Grazie al suo libro di aritmetica, intitolato Behend und hüpsch Rechnung uff allen Kauffmanschafften (Calcolo rapido e agevole per tutti i commercianti; stampato nel 1489), questi segni si affermarono definitivamente nella manualistica del settore e, più tardi, anche nella matematica scientifica.
Geometria pratica
Diversamente dai testi di geometria teorica, utilizzati soprattutto nelle università, le 'geometrie pratiche', di cui si è detto in relazione a Leonardo Fibonacci e ai maestri d'abaco, si basavano sulla tradizione degli agrimensori romani. Ancora nei manoscritti del tardo XV sec. e persino in stampe del XVI e XVII sec. si presentavano metodi geometrici sostanzialmente simili ai procedimenti romani. Ugo di San Vittore (m. 1141) compose una Practica geometriae che, tanto per il titolo quanto per i contenuti, servì da modello a trattati di epoca successiva. Questo testo trattava la misurazione delle altezze (altimetria), la determinazione delle superfici (planimetria) e quella dei solidi (cosmimetria). L'autore continuava la tradizione della geometria romana, utilizzando tuttavia anche l'astrolabio di origine araba per la misurazione degli angoli. Trattati analoghi furono l'Artis cuiuslibet consummatio (1200 ca.), nonché un suo adattamento in dialetto piccardo (anteriore al 1276), il Quadrans vetus (1280 ca.) di Roberto Anglico da Montpellier e la Practica geometriae (1346) di Dominicus de Clavasio.
È difficile sapere se tali 'geometrie pratiche' fossero realmente utilizzate nella prassi, poiché le conoscenze di artigiani e artisti erano tramandate per lo più oralmente. Di certo questi testi contenevano sezioni che si prestavano all'applicazione pratica (per es., la metrologia, la misurazione delle distanze, la determinazione di superfici, la costruzione e l'utilizzazione di strumenti). Che vi ricorressero anche gli architetti sembra essere confermato da una nota del libro di disegni di Villard de Honnecourt (attivo verso il 1225-1250), in cui a proposito di tre figure si dice che esse sarebbero state prese dalla geometria: si trattava di problemi concernenti la determinazione dell'altezza di una torre, della larghezza di un fiume e di una finestra, dunque di problemi tipici dei testi di geometria pratica.
di Richard P. Lorch
La trasmissione delle opere e delle idee di Archimede nel corso del XII e del XIII sec. ampliò notevolmente il bagaglio di tecniche e di conoscenze matematiche dell'Occidente latino. Tra queste nuove conoscenze vi era una forma raffinata di calcolo per esaustione, che presumibilmente fu alla base dello sviluppo delle teorie del calcolo infinitesimale nel XVI e nel XVII sec., oltre a risoluzioni di equazioni di terzo grado, teoremi sulle sezioni coniche, quadrature, cubature, soluzioni e molto altro ancora. Le prime opere tradotte, tra il XII e l'inizio del XIII sec., furono Dimensio circuli e De sphaera et cylindro, quasi sempre dall'arabo, mentre i trattati sulle spirali, sulla quadratura della parabola e le opere di meccanica iniziarono a circolare soltanto dopo il 1269, anno in cui furono tradotti direttamente dal greco.
La Misura del cerchio fu tradotta due volte, la prima probabilmente da Platone di Tivoli ‒ un testo lacunoso ‒ e la seconda da Gherardo da Cremona. Eccettuati pochi passaggi, la traduzione di Gherardo da Cremona segue parola per parola il testo arabo superstite, ma è più elaborata di quello greco in nostro possesso; dato che quest'ultimo è considerato un rifacimento, è probabile che la tradizione arabo-latina sia più vicina all'originale. L'unica traduzione diretta dall'arabo del De sphaera et cylindro in nostro possesso comprende soltanto sei enunciati, tratti dalle prefazioni dei due libri in cui è ripartito il testo. Molto del materiale in essa contenuto era stato raccolto nei Verba filiorum ‒ o Liber trium fratrum ‒ tradotto dall'arabo da Gherardo da Cremona, e nell'anonimo De curvis superficiebus tradotto apparentemente dal greco all'inizio del XIII sec., sebbene abbia circolato insieme ad alcuni trattati della tradizione arabo-latina. L'opera Verba filiorum, redatta nel IX sec. dai Banū Mūsā ibn Šāfir, contiene una rielaborazione della Misura del cerchio, una dimostrazione della formula di Erone per trovare l'area di un triangolo, un risultato degli Sphaerica di Teodosio Tripolita, diverse proposizioni del trattato De sphaera et cylindro, una soluzione del problema della trisezione di un angolo e un metodo di risoluzione per approssimazione delle radici cubiche. Nel De curvis superficiebus sono presentati alcuni risultati del De sphaera et cylindro, spesso in una forma molto diversa dal testo in nostro possesso. L'ultima proposizione riguarda il rapporto tra il volume di una sfera e il cubo del suo diametro, e la dimostrazione è preceduta dalle parole: "Questo corrisponde alla seconda proposizione della Quadratura del cerchio di Archimede e fonda su questa la sua autorità". In un altro passaggio è citata la Misura del cerchio. Tanto i Verba filiorum quanto il De curvis includono un teorema sulla proporzionalità tra la lunghezza di una circonferenza e il suo diametro. È interessante notare che nei Verba filiorum si trovano teoremi, attribuiti ad Archimede, mancanti nel corpus greco. Altro materiale di questo tipo fu tradotto separatamente, mentre altri risultati circolarono in Occidente senza che ne fosse nota la fonte.
Lo stadio successivo della trasmissione di Archimede fu la traduzione di Guglielmo di Moerbeke dell'intero corpus greco delle sue opere, fatta eccezione per l'Arenario, il Problema bovinum, lo Stomachion e, ovviamente, il Metodo, scoperto solamente nel 1906 da Johan Ludvig Heiberg. Furono tradotti inoltre, sempre da Guglielmo di Moerbeke, i commenti di Eutocio al trattato De sphaera et cylindro (compresa la trattazione completa del problema delle due medie proporzionali). Guglielmo di Moerbeke, un dotto domenicano fiammingo che fu anche confessore di papa Clemente IV, fu celebre per le sue traduzioni dal greco in latino e per la bravura nell'emendare quelle già esistenti, in particolare le traduzioni delle opere di Aristotele. Egli realizzò in parte le sue traduzioni a Nicea e in altre località dell'Oriente bizantino. Conobbe certamente alcuni dei più importanti scienziati della sua epoca: fu un grande amico di Witelo, lo studioso polacco di ottica che gli dedicò la sua Perspectiva; Enrico Bate di Malines (1246-1310 ca.) gli dedicò la sua Magistralis compositio astrolabii; forse conobbe anche Campano da Novara.
Le traduzioni di Archimede furono realizzate a Viterbo nel 1269. Lo stile di Guglielmo era talmente fedele all'originale e i manoscritti greci di cui si servì erano così attendibili (si tratta di due dei tre manoscritti su cui è basato il testo moderno, benché entrambi siano andati perduti) che l'autografo della sua traduzione, ancora esistente, fu utilizzato per l'edizione del testo greco.
La trasmissione di alcuni risultati di Archimede sulle aree e sui volumi, contenuti per la maggior parte nella Misura del cerchio e nel De sphaera et cylindro, avvenne anche attraverso una serie di manuali: i manuali degli agrimensori, risalenti al periodo antico; le opere di compilazione del Medioevo latino, come la Geometria incerti auctoris, attribuita a Gerberto di Aurillac (940/950-1003); le compilazioni simili tradotte dall'arabo, per esempio il Liber mensurationum di Albubather e il Liber embadorum di Savasorda, tradotto da Platone di Tivoli nel 1145, apparentemente dall'ebraico, benché formato prevalentemente da materiale arabo; infine, le geometrie pratiche (v. par. 1). Nelle Practica geometriae le formule, quasi sempre corrette, sono date a volte sotto forma di esempi; il rapporto tra la lunghezza di una circonferenza e quella del suo diametro, π (come lo chiamiamo oggi), è generalmente fatto corrispondere a 22/7 (=3,14285, invece di 3,14159). Il più noto di questi manuali è senza alcun dubbio quello di Leonardo Fibonacci, che contiene interi passaggi copiati parola per parola dalla traduzione di Gherardo da Cremona dei Verba filiorum; Leonardo aveva però la possibilità di accedere direttamente alle opere di matematica arabe e, se per i brani equivalenti solamente nel contenuto al testo di Gherardo si può pensare a una trasmissione indipendente, la presenza di passaggi copiati verbatim rimane inspiegabile.
Fra le opere di quegli autori che subirono particolarmente l'influsso di Archimede, occorre ricordare, per esempio, il trattato sugli specchi ustori di Alhazen (XI sec.), tradotto da Gherardo da Cremona, contenente un esplicito riferimento ai lavori di Archimede sull'argomento. La Catoptrica attribuita a Euclide è stata considerata una raccolta di materiali di Archimede probabilmente curata da Teone di Alessandria (seconda metà del IV sec.), o, addirittura, una versione di un'opera perduta dello stesso Archimede; fu tradotta dal greco, probabilmente nel XII sec., e in essa si trova il postulato, definito curiosamente phenomenon, secondo cui l'immagine riflessa giace sulla perpendicolare della linea che unisce l'oggetto allo specchio (è vero nel caso di specchi piani), un postulato che fu oggetto di molti commenti. Nell'autorevole Perspectiva communis, scritta probabilmente negli anni Settanta del XIII sec., Giovanni Peckham (1235 ca.-1292) citò esplicitamente tre volte la Catoptrica a proposito delle proprietà degli specchi sferici (due di queste citazioni erano fatte per criticarla). Purtroppo non vi è alcuna certezza sul ruolo effettivamente svolto da Archimede nella composizione di quest'opera; non c'è dubbio, invece, che una parte della teoria delle sezioni coniche contenuta nell'Opticae thesaurus di Alhazen possa essere fatta risalire ad Archimede.
La ricezione delle opere matematiche di Archimede
Vi furono almeno una dozzina di redazioni medievali della Misura del cerchio nella traduzione di Gherardo da Cremona; di solito sono chiamate con il nome della città o della biblioteca in cui è conservato il manoscritto principale ‒ per esempio, Firenze (due versioni), Cambridge, Napoli, Monaco, Corpus Christi (college di Oxford), Glasgow (più di un esemplare) ‒ o con il nome del presunto autore ‒ per esempio, Pseudo-Bradwardine, Alberto di Sassonia. Alcuni di questi testi furono sottoposti a ulteriori rifacimenti. In genere queste redazioni si attenevano al testo di Gherardo da Cremona per quanto riguarda gli enunciati, ma modificavano i termini impiegati in una o più dimostrazioni. La Misura del cerchio non fu l'unico testo che ricevette questo tipo di trattamento; il De isoperimetris, una traduzione dal greco di una parte del commento anonimo all'Almagesto, e l'Almagestum parvum, una compilazione anonima in latino dello stesso testo, databile alla fine del XII sec., costituiscono altri due esempi dello stesso genere, benché nessuno dei due abbia dato origine a un numero così elevato di redazioni come nel caso del libro di Archimede.
I rifacimenti della Misura del cerchio sono caratterizzati dalla precisione del ragionamento e da espliciti riferimenti agli Elementi di Euclide, soprattutto alla prop. 1 del Libro X, la base del metodo del calcolo per esaustione. In alcuni casi i rifacimenti furono inseriti all'interno di opere di geometria generale. Nelle redazioni più tarde, a volte sono presenti espedienti espositivi tipici della Scolastica: uno stile disputativo, l'introduzione di un falsigraphus nelle dimostrazioni mediante reductio ad absurdum (cioè la cosiddetta 'dimostrazione per assurdo'), commenti sulla struttura logica del ragionamento, e così via. A volte all'inizio del trattato erano aggiunti dei postulati supplementari, come quello secondo cui una corda è sempre più corta dell'arco che sottende. Di maggior interesse è il postulato (presente in Cambridge, Corpus Christi e Glasgow) secondo cui una linea curva è equivalente a una retta, vale a dire, è possibile applicare liberamente il concetto di lunghezza a una linea curva. Questo principio è implicito nella prop. 1 del trattato che asserisce l'equivalenza di un cerchio e di un triangolo rettangolo, in cui uno dei cateti è uguale al raggio del cerchio e l'altro alla sua circonferenza. La versione Corpus Christi, pur affermando che tali petita (postulati) sono per se nota (di per sé noti), si serve di esempi tratti dall'esperienza concreta per sostenere il postulato "linea curva = linea retta", quali, per esempio, "è possibile raddrizzare un capello curvo" e "si può far rotolare un disco su un piano, su cui traccerà una linea retta uguale alla sua circonferenza".
Nel testo di Alberto di Sassonia sono presenti altre considerazioni di questo tipo; per esempio, l'idea di ricercare il volume di una sfera è giustificata immaginando di versare in un recipiente cubico l'acqua contenuta in una sfera cava. Vi si trovano anche affermazioni di carattere semintuitivo sulla continuità, come, per esempio: se un quadrato non potesse essere equivalente a un cerchio, si passerebbe di conseguenza dal "maggiore" al "minore", o da un estremo all'altro, attraverso tutte le grandezze intermedie, senza raggiungere mai l'"uguale" o il "medio". Nella versione dello Pseudo-Bradwardine l'autore distingue tra la quadratura "secondo l'intelletto" (secundum intellectum) e quella "secondo il senso" (secundum sensum). Nella sua Mathematica (metà del XIV sec.), Philippe Elephant giunse ad affermare che se il triangolo, di cui si deve dimostrare l'equivalenza con il cerchio, non è perfettamente equivalente a quest'ultimo, allora lo sarà rispetto a un poligono inscritto o circoscritto.
Altri testi di carattere generale che includono materiale proveniente dalla Misura del cerchio o dal trattato De sphaera et cylindro sono la Geometria speculativa di Bradwardine, che non può essere considerato come un vero e proprio libro di testo, ma fu scritto con ogni probabilità per spiegare certi passaggi di Aristotele, e il De inquisicione capacitatis figurarum di un anonimo del XIV o del XV sec.; in quest'ultima opera i riferimenti ad Archimede sono tratti dal De curvis o dai Verba filiorum.
Anche al De curvis superficiebus furono fatte aggiunte e commenti. In un manoscritto del XIV sec. conservato a Firenze (BN, c.s. J.V. 30) sono presenti due proposizioni aggiuntive sulla superficie del cono e del cilindro, che dipendono dalle prime due proposizioni del De curvis. In un altro manoscritto fiorentino dello stesso periodo (BN, c.s. J.V. 18) troviamo un testo composto dalla prima proposizione della Misura del cerchio nella versione Cambridge, da un riassunto delle dieci proposizioni del De curvis e da tre proposizioni supplementari; di queste, le ultime due riguardano i volumi di un cono e di un tronco di cono, mentre la prima permette di calcolare l'area della superficie di un segmento di una sfera mediante il metodo per esaustione. Infine, in un terzo manoscritto del XIV sec. (Londra, BL, Harley 625) è contenuta la generalizzazione della prop. 7 del De curvis, riguardante il volume di un solido ottenuto facendo ruotare un poligono regolare intorno al diametro della sfera in cui è inscritto. Tali aggiunte dimostrano che le idee di Archimede erano assimilate dagli autori occidentali, che le applicavano alla soluzione di problemi nuovi, anche se correlati.
Nonostante lo scarso numero di manoscritti superstiti, le traduzioni di Guglielmo di Moerbeke ebbero un peso notevole sugli studi matematici del Tardo Medioevo. Già nel XIII sec. era evidente l'influsso su Witelo della recente traduzione del commento di Eutocio di Ascalona (VI sec. d.C.) al trattato De sphaera et cylindro, per esempio nel modo in cui questo autore trattava i rapporti ex equali e si serviva del concetto della denominatio (approssimativamente: il 'valore') di un rapporto, anche se bisogna ricordare che idee simili erano state espresse da Campano da Novara, probabilmente in precedenza, nella sua edizione degli Elementi (v. par. 1) e altrove. Nel secolo successivo, a Parigi, Oresme ed Enrico di Langenstein attinsero entrambi alle traduzioni di Guglielmo di Moerbeke, così come Giovanni de Muris, autore di due lavori, Quadripartitum numerorum (1343) e De arte mensurandi (1345?), che concepì probabilmente come una trattazione completa della matematica della sua epoca. Nel Quadripartitum numerorum è contenuto un passaggio molto interessante sulle spirali, corredato da esplicite citazioni di Archimede. La presenza in quest'opera di materiale di origine araba è dimostrata dalla discussione di lawlab, un termine arabo utilizzato nell'ambito delle teorie planetarie omocentriche sviluppate in Spagna nel XII secolo. Il De arte mensurandi è la prosecuzione di un'opera anonima precedente, su cui Giovanni de Muris, incaricandosi di completarla, dava il seguente giudizio: "Questo autore, di cui ignoro il nome, ma che fu un sottilissimo geometra" (Clagett 1964-84, III, 14). Il cap. VII contiene una discussione della duplicazione del cubo, accompagnata da tre soluzioni, prese da Eutocio, del problema delle due medie proporzionali. La prima proposizione del cap. VIII, simile alla prop. 3 della Misura del cerchio, equivale ad affermare che π è compreso tra 3 1/8 (3,125) e 3 1/7 (3,1428). Lo stesso capitolo contiene una Circuli quadratura (1340), inserita da Giovanni de Muris e composta principalmente da materiale tratto dai lavori di Archimede sulle spirali, con qualche aggiunta e qualche dimostrazione diversa, oltre alla prima proposizione della Misura del cerchio. Alcuni passaggi sono tratti direttamente dalle traduzioni di Guglielmo di Moerbeke, mentre altri sono parafrasati. Giovanni de Muris forniva anche un dettagliato commento al proprio testo, in cui si trova un'applicazione, per implicazione, della concoide di Nicomede a un problema sulle spirali; la medesima associazione fu fatta nel XV sec. da Niccolò Cusano (1400/1401-1464).
Le prime compilazioni di meccanica archimedea
La maggior parte dei riferimenti medievali alla vita di Archimede riguardano le circostanze della morte e le ingegnose macchine per la difesa di Siracusa; infatti nell'Antichità egli era celebre principalmente per le sue scoperte nel campo della meccanica. Una delle più credibili leggende che lo riguardano è la storia della corona di Gerone, riferita da Vitruvio nel De architectura, secondo la quale Archimede avrebbe inventato un metodo per misurare la proporzione di oro e di argento in una lega. Problemi simili a questo erano discussi nell'opera De corporibus fluitantibus, che fa parte, insieme al trattato De planorum equilibriis, uno studio matematico sulle bilance e i centri di gravità, del canone greco delle opere di Archimede. Alla natura strettamente matematica di questi due lavori si contrapponeva un interessante impiego di idee meccaniche nelle opere matematiche; per esempio, nella Quadratura parabolae, in cui l'autore si serviva della legge della leva per calcolare l'area di un segmento di parabola. Nel De republica Marco Tullio Cicerone menzionava un globo celeste e uno strumento astronomico più complesso costruiti da Archimede, manufatti entrambi scomparsi da lungo tempo nel nulla. È inoltre attribuito ad Archimede un trattato in arabo sugli orologi ad acqua, ma la sua autenticità non è stata accertata e in ogni caso l'opera non fu mai tradotta in latino. Secondo Pappo, infine, Archimede scrisse un libro sulla fabbricazione delle sfere che è andato perduto.
Il De planorum equilibriis e il De corporibus fluitantibus furono tradotti dal greco in latino da Guglielmo di Moerbeke nel 1269 insieme alle rimanenti opere del corpus greco. Tuttavia, le più importanti scoperte di Archimede nel campo della meccanica, vale a dire il principio di Archimede e la legge della leva, furono conosciute in Occidente attraverso compilazioni già molto tempo prima. Gran parte del Libro II dell'opera De planorum equilibriis, dedicata alla ricerca del centro di gravità di un segmento di parabola, come pure buona parte del Libro II del De corporibus fluitantibus su un segmento galleggiante di un paraboloide di rivoluzione, ebbero scarsa influenza durante il Medioevo latino. Nelle compilazioni medievali sono a volte presenti concetti di natura dinamica estranei a ciò che conosciamo del pensiero di Archimede. L'approccio di Archimede alla legge della leva nel Libro I del testo De planorum equilibriis era puramente statico; l'autore, cioè, si limitava a dedurre da una serie di assiomi alcuni teoremi sull'equilibrio dei pesi. Non vi era alcun accenno alla forza, alla velocità o al moto naturale e violento, e così via, temi ai quali a volte si faceva invece riferimento in alcuni testi medievali. Si è concordi nel ritenere che tutte le opere di meccanica di Archimede scomparse ‒ di cui ci è nota l'esistenza attraverso le citazioni o per via deduttiva ‒ fossero di carattere puramente statico. L'immissione di concetti dinamici nella statica greca è stata attribuita all'influsso delle opere di Aristotele, non soltanto di alcuni passaggi della Fisica, ma soprattutto a quello della Mechanica pseudoaristotelica; tuttavia, poiché di quest'ultima opera non è rimasto alcun manoscritto medievale, la trasmissione delle idee in essa contenute appare tuttora problematica.
Fra i lavori contenenti le teorie meccaniche di Archimede che circolavano prima della traduzione del corpus greco delle sue opere, vi è in primo luogo il De ponderibus Archimenidis, o De insidentibus in humido, attribuito ad Archimede, per quanto riguarda l'idrostatica. Si ritiene che la trasmissione di questo libro sia avvenuta in due parti: il prologo e le definizioni, che, in base alla terminologia impiegata, infarcita di reminiscenze di Vitruvio e di Isidoro di Siviglia (560-636 ca.), possono essere attribuite probabilmente al mondo latino; i postulati e le otto proposizioni, in genere numerate, che sembrano essere state tradotte dall'arabo.
Esistono, in effetti, diversi trattati arabi che affrontano in generale questi argomenti, in particolare quelli di Samaw᾽al ibn Yaḥyā (m. 1174/1175) e di al-Ḫāzinī (o al-Ḫāzin, inizio del XII sec.), e vi sono tracce dell'esistenza di una traduzione araba del trattato De corporibus fluitantibus. Inoltre, verso la fine del XV sec. iniziò a circolare un trattato arabo, con lo strano titolo di Commentario di un sapiente europeo sulle opere di Platone, collocabile nella tradizione del De ponderibus Archimenidis, poiché si apriva con il problema di come determinare la proporzione di due sostanze che compongono una miscela, pesandole prima all'asciutto e poi immerse nell'acqua.
La stesura del De ponderibus Archimenidis risale almeno al XIII sec. (data di realizzazione dei primi manoscritti), e si ritiene che nessuna delle sue due parti sia autentica; la prima, per la presenza ‒ anche se, a dire il vero, non prevalente ‒ di considerazioni di tipo dinamico, assenti in Archimede, e la seconda perché nella prop. 1 è fornita una dimostrazione di quello che sarà poi chiamato 'principio di Archimede' diversa da quella autentica, che si trova nella prop. 7 del trattato De corporibus fluitantibus. Nelle definizioni è descritto lo strumento utilizzato per pesare, che è una bilancia a bracci uguali provvista di pesiera, avente come unità di misura il calculus (minima parte di un peso). Dato che, nella definizione 14, un rapporto è definito in termini di multipli di una misura comune, è chiaro che, almeno in questa parte, sono presi in considerazione soltanto pesi commensurabili. Nelle definizioni 7-9 si distingue chiaramente tra peso specifico (secundum speciem o in specie) e peso assoluto (secundum numerositatem).
Nella prop. 1 il citato principio di Archimede, secondo il quale "il peso di un corpo nell'aria è uguale al suo peso nell'acqua più il peso di un volume di acqua pari al suo", è dimostrato facendo riferimento al Postulato 1, per il quale "nessun corpo è pesante in relazione a sé stesso". Il testo si interrompe alla prop. 8; è possibile che la parte andata perduta contenesse un'applicazione della prop. 7, un lemma aritmetico di cui non si comprende chiaramente la connessione con il testo. La prop. 4 è di particolare interesse, poiché tratta di "come stabilire, in un corpo formato dalla mescolanza di due elementi, la proporzione tra essi", cioè il problema della corona ricordato all'inizio.
La versione originale del De ponderibus Archimenidis non conteneva dimostrazioni, ma nelle copie successive ne furono aggiunte cinque, che nei primi manoscritti trovano posto nei marginalia. Almeno due di queste dimostrazioni circolarono separatamente; la dimostrazione più antica è posta solitamente in appendice alla Mappae clavicula, talvolta attribuita ad Adelardo di Bath, benché fosse nota sin dal X sec. e possa esservi riscontrato un influsso del resoconto del problema della corona fatto dal grammatico Prisciano di Cesarea (500 d.C. ca.) nel suo Carmen de ponderibus. Molti manoscritti presentano una duplice enunciazione della prop. 7: in alcuni, parti del testo sono modificate; in uno, del XIII-XIV sec. (Parigi, BN, lat. 7377B), fu aggiunto un teorema (quello secondo cui un corpo galleggiante sposta una quantità d'acqua corrispondente al suo peso) come prop. 2, con la conseguente correzione della numerazione delle citazioni interne. Il De ponderibus Archimenidis fu incorporato da Giovanni de Muris nel Quadripartitum numerorum. L'autore omise la prop. 7, spostò la 4 dopo la 8 e sostituì le dimostrazioni con esempi numerici (servendosi a volte di numeri non realistici), giustificando così la sua scelta: "Lo si può dimostrare usando le lettere dell'alfabeto, ma personalmente mi sembra più chiaro con i numeri" (Clagett 1959, p. 121); inoltre, aggiunse altro materiale, forse tratto, in parte, dall'opera De corporibus fluitantibus.
Oltre al De ponderibus Archimenidis, diversi trattati medievali sulla bilancia sono basati con molta probabilità su materiale di Archimede. Diamo qui di seguito una descrizione dei rapporti esistenti tra questi testi, nessuno dei quali porta la firma di Archimede. Il Liber de canonio, anonimo, sembrerebbe tradotto dal greco, a giudicare dalla terminologia. Il Liber karastonis editus a Thebit filio Core concorda con i manoscritti superstiti del trattato arabo Kitāb fī 'l-Qarasṭūn di Ṯābit-ibn Qurra nell'enunciazione dei teoremi, ma non nelle dimostrazioni (anche le lettere nei diagrammi sono diverse), ed è corredato da esempi numerici, da un prologo e da un epilogo, mancanti nel testo arabo; poiché tutto fa ritenere che il testo latino sia dovuto a Gherardo da Cremona, che traduce parola per parola, dobbiamo supporre che il manoscritto latino sia la traduzione di un testo arabo andato perduto, forse una rielaborazione del Kitāb fī 'l-Qarasṭūn. Nel manoscritto latino è presente una dimostrazione della prop. 5; la dimostrazione per esaustione, nello stile di Archimede, della prop. 6, per cui un peso uniformemente distribuito sul giogo della bilancia equivale al peso totale agente sul suo centro di gravità, è sostituita da una dimostrazione più semplice; e la prop. 7, un lemma assente nel testo arabo, e la prop. 8, sufficientemente chiara in quello latino, sostituiscono insieme una zoppicante dimostrazione in arabo. Nella prefazione, giudicata in genere poco chiara, si accenna a una revisione e a traduttori.
La sostanza del Liber de canonio è contenuta in un'appendice a un manoscritto (Beirut, Bibliothèque de l'Université St.-Joseph, 223) del Kitāb fī 'l-Qarasṭūn. Un approfondito confronto dei testi ha fatto supporre l'esistenza di una fonte perduta, il cui materiale sarebbe rifluito sia nel Liber de canonio sia nel Kitāb fī 'l-Qarasṭūn, oltre che in altri trattati di meccanica arabi: si potrebbe trattare di un'opera di Archimede sulle bilance citata da Erone e da Pappo. È possibile che quest'opera perduta fosse anche la fonte di un'oscura definizione, attribuita da Aḥmad ibn Yūsuf (m. 912 ca.) allo stesso Archimede, nella sua Epistola de proportione et proportionalitate (titolo latino della traduzione eseguita da Gherardo da Cremona nel XII sec.): "Si dicono pesi proporzionali diversi quelli che sono pesati allo stesso angolo" (Clagett 1959, 69n-71n). Aḥmad ibn Yūsuf la interpretava come un riferimento all'angolo formato dall'ago della bilancia con la verticale e affermava che la definizione era sostanzialmente identica a un'altra di Erone, anch'essa citata, ma non è del tutto chiaro a quale bilancia si facesse riferimento. Questo passaggio, sebbene reso accessibile in Occidente dalla traduzione di Gherardo da Cremona, non sembra aver lasciato tracce nella letteratura successiva.
Il tema principale del Liber de canonio è il modo di stabilire il contrappeso di una bilancia a bracci disuguali con un giogo pesante; la questione è affrontata in termini puramente statici, come nell'opera De planorum equilibriis. Nel Liber karastonis è invece presa in considerazione anche "la forza del moto" (virtus motus), partendo dal presupposto che un corpo che si muove lungo un arco più ampio possiede una forza maggiore. La prop. 3 enuncia la legge della leva; le propp. 4-8 riguardano la sostituzione di due o più pesi in punti diversi della bilancia con un singolo peso; in particolare, la 6 e la 7 la sostituzione di un peso uniformemente distribuito sul braccio di una bilancia con un singolo peso, e la prop. 8 tratta del funzionamento di una bilancia con un giogo pesante. Ricostruire la successiva trasmissione in latino di questi testi è reso complicato dalla diffusione di compendi, rielaborazioni e revisioni del Liber de canonio e da quella dell'Excerptum de libro Thebit… (noto anche come Liber Euclidis de ponderibus secundum circumferentiam). L'Excerptum è un compendio del Liber karastonis, di cui riassume il contenuto invertendo l'ordine delle otto proposizioni, che nei manoscritti si trova in genere unito al Liber Euclidis de levi et ponderoso, di origine araba. Vi sono numerose differenze tra il vocabolario dell'Excerptum e quello del Liber karastonis, ma nei punti in cui quest'ultimo differisce nel contenuto dal Kitāb fī 'l-Qarasṭūn, l'Excerptum segue il testo latino; si tratta dunque, probabilmente, di un'altra traduzione dall'arabo o di una rielaborazione di una traduzione precedente.
La meccanica di Archimede nel XIII e nel XIV secolo
Le ammirevoli traduzioni di Guglielmo di Moerbeke dei trattati di meccanica di Archimede non influirono in modo determinante sul progresso delle scienze, ma contribuirono, accanto alle più popolari opere apocrife, basate su questi e su altri lavori andati perduti, allo sviluppo generale delle conoscenze scolastiche e, in particolare, a quello dell'idrostatica e degli studi sulla bilancia. Vi sono numerose opere sui gravi, alcune attribuite a Giordano Nemorario, i cui postulati iniziano con le parole omnis ponderosi motum esse ad medium (il moto di ogni corpo pesante tende verso il centro). Questi testi (v. cap. XXIV), contengono più o meno gli stessi postulati ed enunciati, mentre le dimostrazioni sono differenti, anche stilisticamente, da quelle di Archimede. I sette postulati, e i nove o più teoremi presenti in questi scritti, rappresentano un tentativo di giustificare alcune delle proposizioni del De canonio sulla bilancia a bracci disuguali. In queste opere compare per la prima volta un nuovo concetto, quello di 'gravità posizionale', che non è riconducibile a testi di tradizione archimedea. Malgrado la presenza di elementi di meccanica aristotelica, provenienti dalla Fisica e dai Mechanica, l'esposizione è essenzialmente matematica, e in questo senso è più vicina all'impostazione di Archimede.
Tra i trattati appartenenti a questa categoria, quello chiamato Elementa Jordani de ponderibus è certamente autentico, poiché l'autore cita il Liber Philotegni (v. par. 1) rivendicandone la paternità. Nell'ultimo quarto del XIV sec., Biagio Pelacani da Parma compilò un trattato di meccanica dal titolo Tractatus de ponderibus, nel quale erano utilizzati gli Elementa di Giordano insieme ad altri testi medievali, che l'autore generalmente parafrasava. Tuttavia, in Biagio Pelacani, a differenza che in Giordano, si trovano tracce del De corporibus fluitantibus di Archimede, forse perché il primo utilizzò le opere di Giovanni de Muris. Gherardo da Bruxelles, di cui non conosciamo quasi nulla al di fuori dei suoi scritti, che aprirono la via alla scienza della cinematica nell'Europa medievale, citava la prima proposizione della Misura del cerchio e il De curvis superficiebus (v. sopra), che chiamava De pyramidibus. Non sembra che si sia servito del materiale, in apparenza molto simile, contenuto nel trattato di Archimede De lineis spiralibus; è probabile, infatti, che egli abbia composto le sue opere prima del 1269, quando anche quest'opera fu tradotta.
Il primo esempio di un'utilizzazione delle traduzioni di Guglielmo di Moerbeke dei trattati di meccanica di Archimede si trova probabilmente in un manoscritto del De ponderibus pseudoarchimedeo (Parigi, BN, lat. 7377B). Il teorema supplementare già citato coincide con la prop. 5 del De corporibus fluitantibus; alla fine del trattato è inserita una nota sui corpi più pesanti, meno pesanti e altrettanto pesanti dell'acqua, che riprende, con una certa approssimazione, molte altre proposizioni del De corporibus fluitantibus. Ambedue queste aggiunte sono presenti anche nel Quadripartitum numerorum di Giovanni de Muris, che potrebbe essersi servito del manoscritto per comporre la sua opera. A loro volta, il Quadripartitum numerorum e il De arte mensurandi furono la fonte da cui molti autori successivi trassero i loro riferimenti alle opere di Archimede. Nel sopra citato manoscritto lat. 7377B si trova anche un'altra dimostrazione della legge della leva che, a differenza della dimostrazione contenuta negli Elementa di Nemorario, di natura dinamica, è puramente statica e deriva probabilmente dallo studio dell'opera De planorum equilibriis.
Sei espliciti riferimenti a proposizioni del De corporibus fluitantibus sono presenti nella quest. 4 delle Questiones super de celo (1350 ca.) ‒ "se qualcosa di pesante o di leggero possa rimanere naturalmente in stato di quiete al centro di un altro elemento o specie" ‒ del maestro parigino Nicola Oresme. Non c'è dubbio che l'autore conoscesse l'opera originale, benché, in questo caso, si riferisse a essa col nome De insidentibus in humido e nella quest. 3 con quello di De ponderibus. È interessante notare come la prima di queste citazioni esplicite del De corporibus fluitantibus sia accompagnata da considerazioni di carattere dinamico. Nel Tractatus de configurationibus qualitatum et motuum (1350-1360 ca.), una pietra miliare nella storia della cinematica medievale, Oresme mostrava di conoscere il De lineis spiralibus, anche se in questo caso attraverso la mediazione del Quadripartitum numerorum o del De arte mensurandi. Sembra infatti che l'autore abbia preso l'idea della commensurabilità e incommensurabilità dei moti celesti dal Quadripartitum numerorum, mentre un'iscrizione su una copia del De arte mensurandi rivela che il manoscritto giunse in possesso del nipote di Oresme. I riferimenti al De corporibus fluitantibus nella quest. 3 delle Questiones super communem perspectivam di Enrico di Langenstein (o di Hesse, 1325 ca.-1397), contemporaneo di Oresme, provengono probabilmente dal lavoro di quest'ultimo, più che dalla traduzione di Moerbeke. Un altro celebre docente parigino, Alberto di Sassonia, contemporaneo più giovane di Oresme, nelle sue Quaestiones in libros de celo et mundo si occupava del comportamento dei corpi immersi in un liquido facendo riferimento alla gravitas in specie (peso specifico); anche in questo caso, non c'è dubbio che l'autore traesse le proprie idee sull'idrostatica dal materiale raccolto da altri, a loro volta debitori di Archimede.
Nel 1450 l'intero corpus degli scritti di Archimede fu tradotto nuovamente dal greco da Giacomo da Cremona, per ordine di papa Niccolò V, che ne inviò una copia a Niccolò Cusano; questo fu l'inizio di una nuova era negli studi su Archimede, ma è possibile tuttavia che Giacomo da Cremona utilizzasse di tanto in tanto le traduzioni di Gugliemo di Moerbeke. Inoltre, molte delle edizioni a stampa del XVI sec. erano basate sui lavori di Moerbeke; per esempio, l'edizione della Quadratura parabolae e della Misura del cerchio di Luca Gaurico (Padova, 1503), quella De planorum equilibriis di Niccolò Tartaglia (Venezia, 1543) e quella del De corporibus fluitantibus di Federico Commandino (Venezia, 1558). I rifacimenti della Quadratura parabolae, della Misura del cerchio e del De sphaera et cylindro di Francesco Maurolico (Messina, 1534) si basavano per la maggior parte sui testi medievali e su materiale di origine araba. Con il perfezionarsi della conoscenza del greco, tuttavia, i testi medievali furono sospinti gradualmente in secondo piano. Il grande matematico tedesco Regiomontano può essere considerato la figura di passaggio dalla vecchia alla nuova epoca. Da una parte, egli copiò la versione di Giordano Nemorario della Misura del cerchio e possedeva delle copie dei Verba filiorum e del De arte mensurandi di Giovanni de Muris; dall'altra parte, copiò le traduzioni di Giacomo da Cremona, emendandole in diversi punti grazie alla sua profonda conoscenza del greco. Era sua intenzione dare alle stampe i risultati di questo lavoro come parte di un ambizioso progetto di pubblicazione delle opere dei classici della matematica antica, progetto che la morte prematura gli impedì di realizzare. La traduzione emendata accompagnò l'editio princeps delle sue opere, stampata a Basilea nel 1544.
di Anne Tihon
Non si può comprendere la scienza bizantina se non si considera il contesto culturale in cui essa era inserita; il sapiente bizantino infatti era prima di tutto un erudito che, istruito secondo la tradizione del trivium e del quadrivium, doveva non soltanto avere una formazione approfondita in tutte le scienze, ma doveva essere anche capace di discutere questioni di argomento teologico o filosofico, di spiegare gli autori antichi, di scrivere poemi di circostanza o di dimostrare la propria abilità retorica.
Come tutti i campi della scienza bizantina, la matematica si fondava dunque sull'Antichità. A differenza dell'Occidente medievale, i Bizantini poterono consultare direttamente le grandi opere matematiche antiche e, fra queste, principalmente gli Elementi di Euclide (Libri VII, VIII e IX) e i trattati di Archimede (Misura del cerchio, De sphaera et cylindro), e opere più tarde quali l'Introduzione aritmetica di Nicomaco di Gerasa (I-II sec. d.C.), l'Esposizione delle conoscenze matematiche utili per la conoscenza di Platone di Teone di Smirne (II sec.), l'Aritmetica di Diofanto (250 ca.), le Collezioni matematiche e il Commento all'Almagesto di Pappo di Alessandria (323 ca.), e altri trattati minori come il Manuale d'introduzione aritmetica di Domino di Larissa (V sec.). Fonti molto utilizzate per i procedimenti di calcolo furono i commenti all'Almagesto e alle Tavole manuali di Teone di Alessandria (364 ca.), e un commento anonimo intitolato Introduzione all'Almagesto che è probabilmente opera di Eutocio di Ascalona (VI sec.), nelle quali l'aritmetica appare nel contesto astronomico; nel suo Commento all'Almagesto, infatti, Teone spiega dettagliatamente le basi del sistema sessagesimale, i procedimenti di moltiplicazione e di divisione, l'estrazione di radice quadrata, la regola del tre, la divisione di frazioni.
A queste fonti identificabili bisogna poi aggiungere numerosi scolii anonimi (inediti) in margine ai testi di Tolomeo e Teone provenienti dai tardi insegnamenti di Alessandria o di altre scuole, i quali spiegano nei dettagli i calcoli contenuti nelle opere astronomiche, in particolare l'Almagesto. Negli scolii si riscontra un'insistenza particolare sull'interpolazione proporzionale (ex analógon) ‒ regola del tre ‒, incontrata molto frequentemente nei calcoli astronomici; a giudicare dal numero degli scolii che la riguardano, questa operazione pose problemi agli allievi di tutte le epoche. Copiati durante tutta l'epoca bizantina, gli scolii hanno rappresentato un addestramento non trascurabile tanto in astronomia quanto in aritmetica.
Le opere bizantine dedicate specificamente alla geometria non sono numerose, poiché gli studiosi bizantini avevano accesso al testo di Euclide e questo autore, al contrario di Tolomeo, poteva essere studiato direttamente senza fare ricorso a molti commenti. La geometria, in quanto parte del quadrivium, fu studiata nel mondo bizantino quasi in tutte le epoche, anche se soltanto a livello elementare. Oltre agli Elementi di Euclide, le opere fondamentali erano quelle di Erone (I sec.), Pappo (IV sec.), Proclo (V sec.) ed Eutocio di Ascalona (V-VI sec.). Proclo, il filosofo neoplatonico che diresse l'Accademia di Atene, aveva scritto un commento al Libro I degli Elementi di Euclide; il suo successore, Marino di Naplusa, fu invece l'autore di un commento ai Data di Euclide. All'incirca nella stessa epoca, Eutocio di Ascalona commentò alcuni trattati di Archimede (De sphaera et cylindro, Misura del cerchio, Equilibrio dei piani) e le Coniche di Apollonio di Perge. Egli fu probabilmente l'autore di un'Introduzione all'Almagesto, abbondantemente copiata, che tratta prevalentemente l'aritmetica, ma in cui è presente anche qualche problema di geometria (per es., gli isoperimetri). Nell'epoca di Giustiniano (527-565) vissero due grandi geometri, Antemio di Tralle (m. 534) e Isidoro di Mileto, architetti della moschea di Santa Sofia a Costantinopoli. Meccanico, fisico, architetto e geometra, Antemio fu soprattutto un ingegnere di notevole talento, e scrisse un trattato sugli Specchi ustori. Isidoro curò un'edizione dei trattati di Archimede e commentò un trattato di Erone; uno dei suoi allievi scrisse il Libro XV degli Elementi. Lo studio di Euclide nel IX sec. è attestato invece dagli scolii di Arete di Cesarea (Oxford, Bodl., D'Orville 301, copiato nell'888) e da un aneddoto su Leone il Matematico (o Leone il Filosofo, v. cap. XX, par. 2): si racconta che uno dei suoi allievi, prigioniero degli Arabi, avesse impressionato il califfo al-Ma᾽mūn con la sua conoscenza delle dimostrazioni di Euclide, e che in seguito a ciò il califfo avrebbe offerto a Leone di insegnare a Baghdad.
Fino alla conquista araba, le attività scientifiche dell'Impero bizantino si concentrarono essenzialmente nelle Scuole di Alessandria e di Atene e in quelle della Siria. Uno dei più antichi documenti matematici bizantini è il papiro matematico di Ahmīn (l'antica Panopoli dell'Alto Egitto), che si presenta sotto la forma di un libro e non di un rotolo, e sembra anteriore alla conquista araba; esso potrebbe risalire al VII secolo. Le prime pagine contengono tavole di moltiplicazione di numeri interi per frazioni che hanno sempre 1 come numeratore (1/2, 1/3, 1/7, ecc., eccetto 2/3), secondo la tradizione egizia. Segue una serie di cinquanta problemi con le relative soluzioni; sia i problemi, in cui si utilizzano frazioni, sia le loro soluzioni sono imparentati con procedimenti aritmetici egizi come, per esempio, quelli del papiro Rhind. La conquista araba, con cui Bisanzio perse l'Egitto e la Siria, mise fine a queste attività; tuttavia, nel VII sec. gli studi scientifici ripresero timidamente a Costantinopoli: grazie ad alcune Vite di santi, sappiamo che l'istruzione dei giovani, sempre basata sul quadrivium (in greco tetraktỳs tõn mathēmátōn), comportava una parte di aritmetica, anche se in questo campo non si è conservata nessun'opera anteriore all'XI secolo. Risale al 1007 ca. un quadrivium anonimo, attribuito da alcuni manoscritti a un tale Romanos, giudice di Seleucia. La parte aritmetica, che occupa una decina di pagine a stampa, è di ispirazione pitagorica, si basa su Euclide (Elementa, VII, VIII, IX) e soprattutto su Nicomaco di Gerasa; esso contiene inoltre un riassunto abbastanza erudito, seppure di livello elementare, delle antiche conoscenze geometriche: definizioni fondamentali, figure piane, solide, aumento delle figure (duplicazione del cubo, proporzioni), applicazioni astronomiche (misurazione con la diottra, misurazione della circonferenza terrestre). Nell'XI sec., periodo di rinascita scientifica a Bisanzio (v. cap. XX, par. 3), lo studio della geometria era molto apprezzato. Amnio Comneno narra la storia di un certo Niceforo Diogene che, pur essendo cieco, gli aveva insegnato la geometria utilizzando figure in rilievo; anche la tradizione manoscritta delle opere geometriche di Erone, e particolarmente uno splendido manoscritto dell'XI o XII sec., il Costantinopolitanus Palatii Veteris 1 (Istanbul, Bibliothèque du Sérail, Topkapı), testimonia l'interesse dei Bizantini per questa disciplina.
Nel seguito ci occuperemo della tradizione di trattati di aritmetica nel XIII e XIV sec.; per quanto riguarda la geometria è interessante notare che, accanto alla tradizione euclidea, esistevano anche numerosi trattatelli riguardanti la geodesia e i procedimenti per la misurazione dei terreni. Questo genere è stato illustrato nell'XI sec. da Michele Psello (1018-1078) in un piccolo trattato composto in versi, alla fine del XIII sec. da Giovanni Pediasimo e, alla fine del XIV sec., da Isacco Argiro. Oltre a questi trattati di buon livello scientifico, esistevano molti trattati pratici di autori anonimi, i cui procedimenti lasciavano molto a desiderare dal punto di vista dell'esattezza. La trigonometria non fu oggetto di particolari approfondimenti presso i Bizantini; nei trattati astronomici di provenienza islamica sono presenti tavole di seni e coseni ma, per il resto, gli astronomi bizantini utilizzarono sempre i metodi descritti da Tolomeo, come pure la sua tavola delle corde.
I manuali di aritmetica nel XIII e nel XIV secolo
Alla fine del XIII sec. e durante la prima metà del XIV i Bizantini mostrarono un interesse crescente per l'aritmetica. Risale a questo periodo la riscoperta dell'opera di Diofanto: all'inizio del XIII sec. Niceforo Blemmide (1197-1272) dichiarava di avere studiato Nicomaco e Diofanto, ma la vera riscoperta di Diofanto fu dovuta a Giorgio Pachimere (1242-1310 ca.) e al suo contemporaneo, Massimo Planude (1255-1305 ca.), che lo studiò e lo commentò; più tardi, Demetrio Cidonio (1324-1398) ne discusse alcuni passaggi. Nei manuali di aritmetica si possono distinguere due tendenze. La prima è rappresentata da opere dotte che si collocano nella tradizione degli scritti dell'Antichità: si tratta di esposizioni redatte a fini pedagogici, spesso presenti nelle opere astronomiche poiché la padronanza dei procedimenti di calcolo ‒ particolarmente quello sessagesimale ‒ era indispensabile per i calcoli astronomici; la seconda invece da opere di carattere più pratico, destinate alla vita comune e non più solamente all'astronomia, tra le quali si possono annoverare trattati sul calcolo digitale, sulle cifre indiane e diverse raccolte di problemi pratici.
Tra i manuali riconducibili alla tendenza classica, si ricordano in primo luogo quelli di Giorgio Pachimere, Teodoro Metochite e Teodoro Meliteniota. Verso il 1300, Giorgio Pachimere compose un quadrivium intitolato Sýntagma tõn tessárōn mathēmátōn (Trattato dei quattro studi), opera abbondantemente plagiata da Metochite e da Meliteniota. Il Libro I è consacrato all'aritmetica, definita come 'la scienza teorica di ciò che succede ai numeri, in quantità e figura, e i loro rapporti, divisioni e composizioni'; le sue fonti sono essenzialmente Nicomaco, Diofanto (di cui parafrasò abbondantemente il Libro I) e i libri aritmetici degli Elementi di Euclide. La parte geometrica è basata sugli Elementi e sull'Ottica di Euclide. Nella parte dedicata all'astronomia sono descritte in dettaglio le basi e le operazioni del sistema sessagesimale: notazione, moltiplicazione, divisione, estrazione di radice quadrata, rapporti, interpolazioni proporzionali. Queste spiegazioni, che si basano in parte su Teone e su fonti non ancora identificate, sono molto dettagliate e di carattere fortemente pedagogico.
Teodoro Metochite (1270-1332) iniziò la sua Stoicheiõsis (Trattato elementare) astronomica con una lunga introduzione aritmetica (testo inedito: BAV, Vat. gr. 181). Anche qui l'esposizione riguarda le operazioni nel sistema sessagesimale e comprende tre parti, dedicate alla moltiplicazione, alla divisione, all'estrazione di radice quadrata. Gli autori di riferimento sono Euclide (Libri VII e IX), Siriano, Pappo, Teone, Nicomaco e Diofanto; a queste fonti riconosciute bisogna tuttavia aggiungerne un'altra, non dichiarata ma evidente: Giorgio Pachimere. L'opera di Metochite non è innovativa rispetto alle sue fonti antiche, ma è esposta in maniera molto chiara e sistematica, utilizzando molti esempi (per la moltiplicazione Metochite aggiunge dimostrazioni geometriche condotte per mezzo di proporzioni aritmetiche); è però meno esaustiva, anche se più sistematica, di quella di Pachimere. Nel complesso, benché appesantita da uno stile ridondante e pomposo, l'esposizione di Metochite ha un reale valore pedagogico.
Anche Teodoro Meliteniota (1352) consacrò una parte del Libro I della sua Tribiblos astronomica alle operazioni aritmetiche nel sistema sessagesimale: moltiplicazione, divisione, radice quadrata, frazioni, addizione e sottrazione, interpolazione proporzionale. La dipendenza da Pachimere e, in misura minore, da Metochite è evidente, anche se il suo trattato è più conciso dei due precedenti. L'esposizione sulla radice quadrata, presente in tutti questi autori, è illustrata da molti esempi che dimostrano chiaramente la derivazione degli uni dagli altri e dalle loro fonti; così, l'esempio √4500 è tratto dal Libro I dell'Almagesto, ove Tolomeo spiega il calcolo della tavola delle corde (Almagestum, I), e per differenziarsi dai suoi predecessori, Meliteniota trae un altro esempio da questo stesso passaggio (ibidem):
Una compilazione anonima di questi autori ha circolato in due manoscritti (Venezia, Biblioteca Marciana, gr. 323, ff. 166v-179v e Parigi, BN, Paris. gr. 2396, ff. 87-92v). Si è spesso rimproverato all'aritmetica bizantina di non apportare niente di nuovo rispetto all'Antichità; il rimprovero non è ingiustificato, ma non tiene conto della finalità precipua di questi manuali: si trattava di addestrare gli allievi alla perfetta padronanza dei calcoli sessagesimali necessari alla pratica dell'astronomia, e particolarmente alla comprensione dell'Almagesto di Tolomeo. Questa finalità è raggiunta perfettamente in questi tre manuali: il loro carattere pedagogico è evidente e i numerosi esempi e gli esercizi proposti permisero sicuramente una formazione eccellente. La Logistica di Barlaam di Seminara, composta verso il 1337, aveva uno scopo del tutto differente rispetto ai testi considerati finora. Anche Barlaam giustificava la sua intenzione con la necessità di padroneggiare i calcoli per poter fare astronomia, ma ‒ affermava ‒ nessuna opera ha mai dimostrato la validità dei metodi di calcolo utilizzati; invece, scientificamente non è possibile utilizzare dei metodi se questi non sono stati dovutamente giustificati attraverso dimostrazioni. Proprio questo è l'oggetto del suo trattato, che comprende cinque libri: I, addizione e sottrazione di frazioni; II, moltiplicazione e divisione di frazioni e numeri misti, calcolo della radice quadrata; III, moltiplicazione e divisione delle frazioni sessagesimali; IV, moltiplicazione e divisione delle grandezze lineari e piane; V, medietà e proporzioni.
Benché il termine 'logistica' usato nel titolo sia generalmente inteso come la pratica dei calcoli, l'esposizione di Barlaam è interamente astratta (i numeri sono rappresentati da linee identificate da lettere) e non comprende alcun esempio concreto: è la più teorica di tutte le opere bizantine di aritmetica. Barlaam si basava essenzialmente su Euclide, che intendeva completare aggiungendo le operazioni sulle proporzioni e le grandezze. Dicendo nella sua introduzione che la validità delle operazioni non era mai stata dimostrata, Barlaam non rendeva giustizia ai suoi predecessori: prima di lui, infatti, Teodoro Metochite aveva già tentato di dimostrare la validità delle moltiplicazioni attraverso la geometria e la teoria delle proporzioni e, allo stesso modo, l'obiezione di Metochite sulla radice quadrata era fondata sui teoremi di Euclide. Ma il trattato di Barlaam, interamente redatto secondo uno spirito euclideo basato su teoremi e assiomi, resta comunque unico nel suo genere.
Sempre alla cosiddetta 'tendenza classica' si può ricondurre un manuale anonimo sulla composizione e la divisione dei rapporti. Non si conosce la data di questo manuale, intitolato Teoremi preliminari alle dimostrazioni grafiche della Sintassi matematica di Tolomeo, ossia sulla divisione e il modo di trarre rapporti aritmetici secondo l'analogia fra le grandezze, considerate in tutti i modi possibili; l'opera si situa fra la data della Logistica di Barlaam, che utilizza abbondantemente, e quella del manoscritto, copiato per questa parte da Manuele Morus di Creta nel XVI sec. (Ambrosianus C 263 inf.). L'autore chiarisce il suo scopo illustrando la difficoltà di comprendere le spiegazioni date dai differenti studiosi sulla composizione e la divisione dei rapporti; egli si considerava lento nella comprensione, ma benché il soggetto oltrepassi ciò che è appropriato alla sua condizione, dice di lavorare a questo metodo da sé. Il proposito, la cui modestia contrasta con la sicurezza (e anche la vanità) degli autori bizantini del XIV sec., lascia intendere che l'autore non rivestisse una funzione prestigiosa, né avesse un rango sociale elevato. La prima parte del testo, di gran lunga la più estesa, si basa essenzialmente sulla Logistica di Barlaam (di cui commenta il Libro V), che sviluppa ulteriormente e alla quale aggiunge diagrammi. La seconda parte è incentrata sullo studio della circonferenza e della superficie del cerchio; ciò conduce a considerazioni filosofiche (basate sulle idee di Aristotele, Ippocrate e Porfirio) sull'impossibilità di arrivare a dimostrare tutto e sulla metodologia delle diverse scienze. La terza parte comprende problemi utili per affrontare l'astronomia, gli ultimi dei quali sono basati sul teorema di Menelao. La vasta erudizione dell'autore e la libertà di tono di alcuni passaggi dell'opera indicano un'epoca più vicina al Rinascimento che al XIV sec. bizantino.
Infine, Giorgio di Trebisonda scrisse in latino un'Introduzione all'Almagesto, che in seguito tradusse in greco per dedicarla al sultano Maometto II, il conquistatore di Costantinopoli (inedita, testo greco in Monacensis gr. 537, ff. 37-66; Monaco di Baviera, Staatsbibliothek); nella sua prefazione suggeriva al sultano di fare stabilire delle tavole astronomiche a partire da una fonte più recente di Tolomeo. Benché composto (probabilmente verso il 1468) dopo la caduta di Costantinopoli, questo testo merita di essere citato fra gli sviluppi dell'aritmetica bizantina, poiché presenta, secondo la tradizione, un'esposizione delle operazioni aritmetiche centrata principalmente sugli argomenti che ponevano maggiori difficoltà: la moltiplicazione e la divisione dei rapporti. Giorgio si differenzia dai suoi predecessori allorché scrive:
La divisione di un rapporto per un rapporto è [l'operazione] attraverso la quale uno dei composti essendo scartato, l'altro rimane. Quello che riguarda i rapporti razionali [vale a dire numeri interi] è facile. Quello che riguarda i rapporti irrazionali [numeri non interi] è difficile, non solamente da trovare, ma anche da utilizzare. È per questo che si riscontra che la Sintassi di Tolomeo non viene compresa fino a oggi, per quanto sia possibile apprenderla dai commenti pubblicati che sono arrivati fino a noi. Gli Arabi, seguendo un certo Geber, pensano che la figura attraverso cui cose simili sono dimostrate da Tolomeo non è dimostrata. I Greci, ammirando Teone di Alessandria, si sono persi, poiché lui stesso ha capito male la figura fornita da Tolomeo medesimo. (Monaco di Baviera, Staatsbibliothek, Monacensis gr. 537, f. 55)
Il nome Geber designava l'astronomo arabo Ǧābir ibn Aflaḥ (XIII sec.), la cui critica dell'Almagesto era stata tradotta in latino da Gherardo da Cremona. La critica a Teone, che, per quanto se ne possa giudicare in attesa di uno studio serio di questo testo, riguardava il metodo di divisione delle frazioni, non fu apprezzata dalla cerchia di Bessarione e valse a Giorgio molti fastidi. I Greci non avevano capito come per dividere le frazioni bastasse moltiplicare la frazione dividendo per l'inverso della frazione divisore; Giorgio proponeva un metodo più rapido, analogo a quello che noi utilizziamo attualmente, e proprio in ragione di ciò il suo trattato meriterebbe uno studio dettagliato.
Il primo manuale appartenente alla tradizione di aritmetica pratica è un trattato anonimo sul calcolo indiano, composto durante l'occupazione latina di Costantinopoli, dal titolo Psēphophoría kat'Indoùs hē legoménē megálē (Calcolo secondo gli Indiani, detto Grande Calcolo). Redatto verso il 1252, espone la numerazione e i procedimenti di calcolo indiano che erano stati introdotti presso gli Arabi da al-Ḫwārazmī, presso gli Ebrei da Abrāhām ibn ῾Ezrā e in Occidente da Leonardo Fibonacci, per citare soltanto i nomi più conosciuti. La sua fonte principale è il Liber abaci di Leonardo Fibonacci (1202 e 1228; v. par. 1), ma in esso sono utilizzate certamente altre fonti non identificate. Lo zero è definito tzíphra e la forma adottata per le cifre indiane è quella occidentale, tranne che per il 5 e lo 0. Benché questo trattato sia il più antico testo bizantino che spieghi i metodi di calcolo indiano, occorre però ricordare che a Bisanzio le cifre indiane non erano del tutto sconosciute, come si riscontra in alcuni manoscritti anteriori (in particolare, nel manoscritto conservato a Oxford, presso la Bodleian Library, D'Orville 1, copiato nell'888). È difficile sapere in quale misura le cifre indiane e i loro procedimenti di calcolo fossero diffusi nel mondo bizantino: se ne trovano regolarmente nei manoscritti (per es., lo scolio del monaco Neofito, forse del XIV sec.), ma quale che sia stato il loro successo per la soluzione dei problemi pratici, essi non sono mai stati adottati dai dotti, formati sempre, come si è già detto, secondo la pratica ereditata dall'Antichità.
Verso il 1300 Massimo Planude compone un trattato intitolato Psēphophoría kat'Indoùs hē legoménē megálē. La sua fonte è il trattato anonimo dallo stesso titolo del 1252, ma questa volta la forma delle cifre è più vicina a quella orientale, in particolare a quella usata dagli astronomi persiani (per es., Kūšyār ibn Labbān, 1000 ca.). Planude è senza dubbio influenzato dai manoscritti bizantini di astronomia persiana appena giunti a Costantinopoli, le cui tavole fanno talvolta ricorso alle cifre indiane (per es., il ms. Vat. gr. 211, BAV, ove la forma del 4 è diversa da quella usata da Planude); la maniera in cui l'autore spiega il sistema sessagesimale dimostra che egli conosce le tavole persiane in cui i valori sono dati in segni, gradi, minuti e così via. Come nel trattato anonimo, lo zero in Planude è chiamato tzíphra; in alcuni testi astronomici della stessa epoca, esso è invece chiamato soũphri (BAV, Vat. gr. 191, f. 110). Planude espone dunque il sistema numerico, l'addizione, la sottrazione, la moltiplicazione, la divisione, il cerchio zodiacale (cioè il sistema sessagesimale), la radice quadrata, un metodo personale misto per la radice quadrata ‒ ispirato al metodo indiano e a quello di Teone, con il ben conosciuto esempio √4500 ‒ e, infine, due problemi. Il suo trattato ha conosciuto un certo successo ed è stato edito da Nicola Rhabdas e annotato da Manuele Moscopulo. In alcuni manoscritti è seguito da testi anonimi sulla moltiplicazione.
Nicola Artavasde Rhabdas di Smirne, 1340 ca., è l'autore di due lettere aritmetiche, la prima delle quali, dedicata a Giorgio Khatzikes, contiene nozioni elementari sulla notazione delle cifre, il calcolo digitale (Tav. IV) e le operazioni elementari (addizione, sottrazione, moltiplicazione, divisione, radice quadrata, proposizioni e serie di numeri, e infine tavole dette 'di Palamede' che permettono di facilitare alcune operazioni aritmetiche); per le moltiplicazioni e le divisioni più complesse, rinvia semplicemente al calcolo indiano. La seconda lettera, di livello nettamente superiore, è dedicata a Teodoro Tzaboukhès e spiega le operazioni sui numeri fratti con successioni del tipo 3 1/3 1/14 1/42… e l'estrazione di radice quadrata di un numero non quadrato perfetto. Seguono un procedimento per il calcolo della data di Pasqua e una serie di problemi pratici che includono monete, pesi e misure utilizzate in quell'epoca. Egli non si occupa, però, del sistema sessagesimale. Rhabdas ha curato anche un'edizione del trattato di Massimo Planude sul calcolo indiano, inserendovi qualche aggiunta personale. Su sua richiesta, poi, Manuele Moscopulo (1265 ca.-1315) scrisse un piccolo Trattato sui numeri quadrati sovente designato con il nome di Quadrati magici, anche se la parola 'magico' non compare nel titolo e niente, nel testo, allude a proprietà magiche. Infine, a Isacco Argiro (1368 ca.) si deve un Trattato sulla radice quadrata nel quale l'autore cerca di perfezionare i metodi utilizzati prima di lui, in particolare quello di Erone di Alessandria. Egli sviluppa un metodo di approssimazione che presenta come originale, ma che si avvicina a quello già sviluppato da Nicola Rhabdas nella lettera a Tzaboukhès. Alla fine del trattato, si fornisce una tavola delle radici da 1 a 102 espresse nel sistema sessagesimale.
Nel mondo bizantino è stata anche recepita la tradizione delle raccolte di problemi che si ritrovano nei documenti egiziani, babilonesi, cinesi e indiani, e che si sono trasmessi presso gli Arabi (al-Ḫwārazmī, al-Karaij, Abū Kāmil), gli Ebrei d'Occidente (Mordecai Comtino ed ēliyyā Mizrānī), oltre che negli autori latini (Alcuino, Leonardo Fibonacci; v. par. 1). Oltre al già citato papiro matematico di Ahmīn, del VII sec., e alle opere di Massimo Planude e di Nicola Rhabdas, si possono collegare a questa tradizione due opere anonime di provenienza bizantina del XIV-XV secolo. Nella prima, intitolata Questioni e problemi di calcolo, composti ciascuno con metodi propri (Parigi, BN, suppl. gr. 387), databile al XIV sec., sono trattati problemi che riguardano i pesi e le misure, le monete, le spartizioni, le questioni di eredità e così via, risolti attraverso procedimenti algebrici. La seconda opera è la raccolta di problemi del ms. Vind. Ph. gr. 65 (Vienna, österreichische Nationalbibliothek), scritta in lingua volgare e databile al XV secolo. I calcoli sono effettuati secondo i procedimenti dell'aritmetica indiana, ma le cifre indiane sono sostituite da lettere (per es., 6825 è scritto 'Ϛηβε, v. Tav. III); un sistema analogo si incontra in Abrāhām ibn ῾Ezrā, Lēwī ben Gēršōn e Mordecai Comtino.
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