La scienza bizantina e latina: la nascita di una scienza europea. Lo Pseudo-Aristotele e le tradizioni affini
Lo Pseudo-Aristotele e le tradizioni affini
Sotto il nome di Aristotele o anche di Galeno e di Ippocrate sono circolate nel mondo latino medievale ‒ e anche successivo, fino al XVII sec. ‒ alcune opere spurie composite, redatte in periodi diversi per lo più da anonimi in ambienti bizantini, islamici, ebraici e tradotti dal siriaco in arabo oppure in ebraico e quindi in latino. Le opere spurie pseudoaristoteliche di interesse scientifico possono essere raggruppate nelle seguenti cinque classi:
1) quelle che non sono di Aristotele, ma esistono in greco sotto il suo nome e sono state tradotte anche in latino: Problemata, Physiognomica, De mundo, De coloribus, De mirabilibus auscultationibus, De lineis indivisibilibus, Epistula Aristotelis ad Alexandrum;
2) le opere non autentiche che esistono soltanto nella versione latina medievale eseguita direttamente dal greco, come il secondo libro degli Economici e il trattato sulla Inondazione del Nilo (Liber de inundacione Nili, tradotto forse da Bartolomeo da Messina, opera che però, secondo alcuni studi recenti, è ritenuta di Aristotele);
3) i trattati che esistono in greco sotto la doppia attribuzione ad Aristotele o a Teofrasto. I Latini conobbero il De principiis, cioè una parte della Metafisica di Teofrasto, e il De signis aquarum et ventorum;
4) le raccolte di Problemata attribuite ad Aristotele, ma anche ad Alessandro di Afrodisia e a Cassio lo Iatrosofista, che sono per la maggior parte raccolte di dotti del XIII e XIV sec.; famosa è la redazione e il commento dei Problemata di Pietro d'Abano, il quale afferma di avere tradotto dal greco anche una parte dei Problemata di Alessandro e di Cassio. I Problemata trattano di argomenti scientifici diversissimi, dalla medicina alla fisiognomica, a osservazioni naturali tratte dalla vita comune (per es., perché i gatti vedono nel buio, perché i neonati non camminano subito, ecc.);
5) gli scritti pseudoaristotelici tradotti dall'arabo e che vanno anche sotto il nome di Galeno o di Ippocrate, le cui fonti sono greche o bizantine. Si tratta di alcune opere di botanica e di mineralogia che contengono nozioni di notevole importanza per la storia della scienza; esse sono il De plantis di Nicola di Damasco, il De lapidibus di Aristotele e il De causis proprietatum elementorum, di cui Alberto Magno scrisse una famosissima parafrasi.
Nel Medioevo furono inoltre ritenute aristoteliche numerose opere, quali i Physiognomica spuri, il Secretum, il De pomo, alcuni trattati di astrologia De iudiciis di origine ebraica, araba od orientale, un Liber Aristotelis de astronomia navalis, con al suo interno il De signis aquarum di Teofrasto ispirato ad Aristotele. Tra tutti emerge il Liber de causis o De expositione bonitatis purae, di cui una parte nella versione araba conteneva il testo intitolato Theologia Aristotelis. Il Liber de causis fu tradotto dall'arabo forse da Gherardo da Cremona e poi rivisto da Gundisalvi; pur essendo ritenuto di Aristotele, esso in realtà era stato composto in ambiente arabo, riprendendo proposizioni tratte da alcune parti delle Enneades di Plotino (IV-VI o Theologia Aristotelis) come dall'Elementatio theologica di Proclo, o da frammenti di Alessandro di Afrodisia e della Prima philosophia di al-Kindī.
Quest'opera ‒ la cui influenza fu rilevante nel mondo latino a seguito della traduzione compiuta in ambiente andaluso nel XII sec. ‒ fu un testo di riferimento per una concezione della scienza intesa in senso metafisico come scienza delle cause prime e ha fortemente contaminato in senso neoplatonico l'interpretazione scientifica dei Latini, sia cristiani che averroizzanti, contenuta nella metafisica dello Stagirita. Studi recenti ne hanno evidenziato il carattere estremamente composito, ricco di stratificazioni successive e diverse, ispirate da una compilazione redatta a partire dal IX sec. nella cerchia di al-Kindī e dei suoi traduttori; proprio dal filosofo musulmano è ripresa nel testo la teoria della Creazione come effetto della causa prima e molti dotti cristiani, tra cui Tommaso d'Aquino, ne redassero degli acuti commenti.
Il Liber de causis, anche grazie ai commenti di Alberto Magno e di Tommaso d'Aquino, ha introdotto una metodologia nelle trattazioni scientifiche per modum theorematum, ossia secondo un metodo assiomatico-deduttivo, o matematico-deduttivo, che, derivato dagli Elementi di Euclide e dai commenti di Proclo, è applicato in questo caso ad argomenti teologici. L'assunto della prima proposizione del Liber de causis, che verte sulla maggiore forza e influenza della causa primaria rispetto alla causa secondaria, fu preso a fondamento di quasi tutte le teorie astrologiche medievali, centrate sull'idea della causalità prima universale del cielo sulle vicende terrene.
Tra le altre opere spurie anche il De differentia animae et spiritus ebbe una grande importanza per le prime formulazioni delle teorie psicologiche latino-cristiane. Ritenuto di Aristotele e tradotto da Giovanni di Siviglia intorno alla metà del XII sec., il trattato in realtà è opera di Qusṭā ibn Lūqā (830-910 ca.), cristiano melchita nato a Baalbek in Siria, ma vissuto a Baghdad e in Armenia. Per una curiosa vicenda storica l'opera, pur contenendo ben poco della psicologia di Aristotele e avendo invece molte nozioni tratte dall'antropologia medica di Galeno e dei suoi seguaci arabi, fa parte di quelle comprese nel manuale di filosofia peripatetica che fino al 1260 costituì la base ufficiale dell'insegnamento di Aristotele nelle Università di Oxford e di Parigi.
Fra le opere composte in ambiente bizantino e arabo e riferite ad Aristotele vi sono anche alcuni trattati di argomento idraulico, come il De conductibus aquarum, tradotto dall'arabo in latino e, alla metà del XV sec., anche in italiano (quest'opera in alcuni manoscritti è attribuita ad Aristotele, mentre in altri è nominato il suo vero autore, Filone di Bisanzio). Anche gli Aenigmata Aristotelis, una serie di precetti tratti dalla Vita Pytagorea di Porfirio e ripresi da Girolamo nella sua Apologia adversus libros Rufini, erano attribuiti ad Aristotele, come il Liber de sex principiis, testo di significativo valore per gli sviluppi della logica medievale, redatto fra il XII e il XIII sec. e attualmente considerato di Gilberto Porretano.
Anche numerose opere pseudoepigrafiche di vario argomento furono dette di Aristotele: un Trattato di grammatica che Roberto Grossatesta in un manoscritto affermava di avere tradotto dal greco, un Liber anathomiae que dicitur Aristotelis, altre stesure della Physiognomica tratte dalla Physionomia del medico arabo al-Rāzī, e cioè dal Libro II del suo Liber Almansoris. A seconda del loro contenuto questi scritti si possono dividere in alcuni gruppi: i testi di alchimia e di chiromanzia; quelli di astrologia o di meteorologia; le opere sugli spiriti, sulle virtù occulte o naturali; sulla fisiognomica (come, per es., il Secretum secretorum, che tratta al tempo stesso di magia, medicina, astrologia e morale); le opere riguardanti la botanica e le proprietà delle pietre (mineralogia); infine, le raccolte di ricette e pozioni (Experimenta), spesso attribuite a Ippocrate, a Galeno e ad al-Rāzī.
Gli scritti alchemici e astrologici
All'origine della figura di Aristotele come alchimista sta l'idea della trasmutazione dei metalli, presente nel Libro IV dei Meteorologica, falsamente attribuito allo Stagirita. Gherardo da Cremona tradusse soltanto i primi tre libri dei Meteorologica dall'arabo, mentre il Libro IV, apocrifo, fu tradotto dal greco da Enrico Aristippo e a questa versione furono aggiunte sezioni derivate dall'arabo tradotte da Alfredo l'Inglese o di Sareshel, tratte forse da Avicenna e tutte interessate al problema della formazione dei metalli. A quest'opera si devono poi riconnettere il Libro IV del De caelo ‒ ossia il De mundo, tradotto due volte, dal greco e dall'arabo ‒ e il De coloribus, nel quale si esaminano le tinture e le mescolanze tra i colori, la loro classificazione in colori naturali, derivati o misti, in relazione alla teoria dei quattro elementi di Aristotele, e la mescolanza delle loro qualità.
Mentre Ruggero Bacone credeva veramente che Aristotele fosse un alchimista e gli attribuiva un'opera dal titolo Liber perfecti magisterii, ritenuta però anche di Alberto Magno, i medievali generalmente lo consideravano l'autore di opere di chiromanzia di ispirazione araba, come il testo il cui incipit recita Ad sciendum artem ciromantiae […] Explicit ars ciromantiae Aristotelis. Lo ritennero anche un astrologo, collegando la dottrina della causalità astrologica alle affermazioni presenti negli scritti aristotelici De generatione et corruptione e Physica, nei quali si afferma che l'uomo e l'erba sono generati dal Sole. Vari scritti astrologici erano attribuiti ad Aristotele, per esempio il De proprietatibus elementorum, per indicazione di Pietro d'Abano, di cui esiste un importante commento da parte di Alberto Magno. Quest'ultimo ha contribuito grandemente alla fortuna di Aristotele; lo considerava infatti il maestro che ha insegnato a ricercare le cause naturali nella Natura, la cui causa prima universale è il firmamento od ottava sfera, seguita dalle sfere dei sette pianeti, che sono cause strumentali. Al di sopra di tutto sta Dio, causa sovrannaturale.
Il De causis proprietatum elementorum è un trattato di fisica della Natura in cui si esaminano le proprietà degli elementi secondo la teoria di Aristotele del grave e del leggero, rielaborata secondo assunti astrologici di ispirazione araba. Queste proprietà sono divise in naturali o sostanziali e accidentali, quelle da cui dipenderebbe la corruzione e la morte dei corpi. Tutte le cause delle proprietà degli elementi sono ricondotte o al cielo, o al luogo naturale di ciascuno dei quattro elementi; nell'opera si discute inoltre della ripopolazione del mondo dopo il diluvio universale e si sostiene la possibilità, dovuta all'influenza astrale, di una generazione spontanea dalla materia di tutte le specie tranne che dell'uomo. La compilazione di Alberto Magno del De proprietatibus elementorum pseudoaristotelico ebbe una singolare fortuna soprattutto negli ambienti scientifici italiani, come all'Università di Padova, dove Biagio Pelacani (1354 ca.-1416) e più tardi Pietro Pomponazzi (1462-1525), attraverso l'esposizione di Alberto Magno, attribuirono ad Aristotele la teoria della generazione spontanea. Passi di teorie astrologiche ritenuti di Aristotele si trovano inoltre in una sezione della Theologia Aristotelis, in cui si discute dell'influenza delle stelle sulla Natura e di come impossessarsi delle forze celesti per compiere operazioni meravigliose e ricercare la naturale attrazione tra tutte le cose.
Allo stesso modo di Ruggero Bacone, l'autore dello Speculum astronomiae ‒ per alcuni è Alberto Magno mentre per altri un suo discepolo ‒ attribuiva falsamente ad Aristotele trattati di astrologia giudiziaria come, per esempio, De imaginibus lunae secundum Aristotelem, De lunari significatione in singulis signis o Sententia de luna 14 continens capitula de imaginibus. Sono opere riguardanti dottrine magico-astrologiche della setta religiosa dei Sabei, di cui un gruppo, partendo da Harrān, si stabilì a Baghdad sotto la guida dell'astronomo Ṯābit ibn Qurra (836-901). In esse si associa l'idea dell'influenza planetaria con quella della forza degli spiriti che sarebbero racchiusi nell''immagine' o figura che rappresenta un dato pianeta. I trattati De imaginibus furono per lo più stigmatizzati dagli astrologi e dai dotti cristiano-latini poiché introducevano un culto astrale; molti di essi, come l'autore dello Speculum astronomiae, Ruggero Bacone, Pietro d'Abano, Tommaso d'Aquino e Nicola Oresme, per citarne soltanto alcuni, li condannarono decisamente.
Il De imaginibus lunae fu riprodotto da Cornelio Agrippa di Nettesheim nella sua opera De occulta philosophia e stabilisce i poteri della Luna secondo i dodici segni e secondo i determinati gradi di ognuno. Nell'opera astrologica pseudoaristotelica De pomo et morte (o Fructus), scritta invece in forma di dialogo, si immagina Aristotele sul letto di morte con in mano un frutto, da cui il testo prende il nome, circondato dai suoi discepoli. Egli spiega perché il filosofo non teme la morte e crede nell'immortalità dell'anima; Dio ha creato i cieli e vi ha posto stelle luminose da cui discendono forze e influenze sul mondo inferiore, che danno felicità e infelicità, vita e morte. L'opera è chiaramente modellata sul Fedone di Platone; in parte segue un testo greco perduto, ma nell'insieme la versione latina conosciuta deriva da una traduzione araba del X sec. di un'opera anteriore. La versione latina è attribuita a Manfredi, figlio dell'imperatore Federico II, che probabilmente la commissionò a un'équipe di traduttori ebrei e latini, secondo la consuetudine del tempo; la stesura in ebraico, compilata nel 1235 a Barcellona da Abrāhām ben Chasdai, arrivò in Sicilia verso il 1255; ne esistono inoltre versioni successive nelle lingue volgari inglese, tedesco, italiano e svedese.
Una delle opere più famose attribuite ad Aristotele nel Medioevo, di contenuto composito e di ispirazione araba, apparsa anche nelle edizioni cinquecentesche a stampa delle sue opere, è il Secretum secretorum ad Alexandrum; derivato da uno Speculum principis arabo (Siyāsat-nāmah) conservato unicamente in una versione turca, esso contiene un manuale del principe per governare. A questo nucleo primitivo del testo furono acclusi, in tempi e modi diversi, lunghi capitoli concernenti la medicina, l'igiene (con il titolo latino Epistula Alexandro de dieta servanda, già tradotta indipendentemente nel XII sec.), la fisiognomica, l'onomatomanzia e l'occultismo. Il Secretum divenne così una somma di pseudoscienze che gli Arabi facevano risalire ad Aristotele, e lo stesso fecero i Latini, i quali vi apportarono successive modifiche. Se ne costituirono alcune versioni latine lunghe e alcune brevi; tra queste ebbe una grande importanza la redazione con il commento di Ruggero Bacone. Le edizioni del XVI sec. delle opere di Aristotele hanno poi ristampato il Secretum mantenendone il piano originale dell'esposizione e tutta la trattazione delle pseudoscienze.
La traduzione latina è attribuita a Filippo di Tripoli e ha una datazione ancora incerta (prima del 1237 oppure tra il 1262 e il 1271); alcuni capitoli, come quello sull'onomatomanzia, furono soppressi in seguito all'intervento delle autorità ecclesiastiche, in quanto vi si potevano ravvisare dottrine di negromanzia (come il libro chiamato anche Mors animae, condannato espressamente da Alberto Magno e da Pietro d'Abano). Le aggiunte dei redattori latini, insieme all'interpolazione di esegeti ebrei, rendono comunque la redazione latina molto differente dall'originale arabo primitivo. Il Secretum fu tradotto anche nelle lingue volgari (in tedesco nel 1282 da Hiltgart von Hürnheim, in italiano tra il 1300 e il 1310); inoltre, va ricordata l'importanza delle sue versioni latine cinquecentesche: quella di Achillini, pubblicata a Bologna nel 1501, e quella di Pavia del 1516, edita da Giacomo Pocatela, nella quale è rappresentato l'imperatore Alessandro in atto di porre ad Aristotele tre domande concernenti rispettivamente l'immortalità dell'anima, il modo di conservare la salute, le regole del buon governo.
La redazione di Ruggero Bacone fu determinante, in quanto si discostava da quella di Filippo di Tripoli aggiungendovi nuove trattazioni. Nel commento ne spiegava il titolo: secreta sono le verità ultime della Natura alle quali l'uomo può giungere, scoprendole in questa vita; sebbene difficili, queste verità nascoste ci fanno conoscere la natura delle cose, a cui si perviene anche con la scienza della perspectiva e dell'astronomia. Pertanto nel Secretum i lettori potevano trovare di tutto: da una classificazione delle scienze a una cosmologia ispirata a Tolomeo e ad Abū Ma῾šar, fino a una dottrina astrologica. Il testo commentato da Bacone è diviso in quattro sezioni: la prima è una trattazione morale sui buoni costumi che deve avere il principe; la seconda riguarda la conservazione della salute; la terza è dedicata alle 'mirabili utilità' della Natura, dell'arte e dei costumi, alle proprietà delle pietre, delle piante e dell'anima dell'uomo, insieme ad argomenti di alchimia, come la conversione della specie cuiuslibet in quodlibet, ossia degli elementi tra di loro; la quarta parte è propriamente una fisiognomica intesa come disciplina utile al principe per distinguere i veri e i falsi amici e consiglieri sulla base dei tratti somatici (che a loro volta dipendono dalle stelle).
Gli scritti botanici e il De lapidibus
La considerazione di Aristotele come insigne botanico nella storia della scienza fino al Rinascimento è dovuta a un'opera riconosciuta come sua ma che è invece una compilazione di Nicola di Damasco: si tratta della rielaborazione di un De plantis ispirato a uno scritto di Aristotele, ora perduto, e alla Historia plantarum di Teofrasto. La trasmissione di quest'opera di Nicola di Damasco, in greco, ha avuto una singolare storia che è stata ricostruita nelle sue linee essenziali soltanto dagli studi più recenti. Andato perduto non soltanto l'originale greco ma anche la versione in siriaco, essa circolò nel mondo latino medievale in cinque versioni latine; dalla traduzione latina di Alfredo l'Inglese (con ben 159 manoscritti e due incunaboli del 1489 e del 1496) della traduzione in arabo eseguita nel 900 ca. da Ḥunayn ibn Isḥāq (Iohannitius) derivò la retroversione in greco (anonima, 1300 ca.), conservata in 18 manoscritti ed edita nel 1539. Questa, a sua volta, fu tradotta nelle edizioni giuntine del 1542 e del 1543 dell'opera di Aristotele con il commento di Averroè. Sempre basate sulla versione araba di Ḥunayn sono le traduzioni in ebraico, tra cui si ricorda quella di Calonymos ben Calonymos del 1314, di cui esistono numerosi manoscritti, e il Compendium Alexandrinorum de plantis.
Il De plantis latino, tradotto da Alfredo di Sareshel, è diviso in due libri. Nel Libro I si discute la dottrina di Anassagora, di Empedocle e di Platone, citati all'inizio, relativa all'eventuale esistenza di un'anima delle piante. Si conclude per la tesi affermativa non perché esse provino sensazioni, ma in quanto si nutrono e crescono, ossia svolgono attività che sono parti dell'anima; proprio la mancanza di sensazioni, invece, differenzia le piante dagli animali. Il testo esamina la riproduzione delle piante e i vari modi di inseminazione, il motivo per cui le piante non hanno bisogno di dormire, il loro dipendere unicamente dal calore e dall'umore naturale (per la consunzione di questi due fattori esse si ammalano, invecchiano, marciscono e muoiono). Le ultime proposizioni del Libro I dividono le piante in specie: arboree ed erbacee. Delle prime si dà una descrizione per parti (partes), considerate come le membra nell'animale, muovendo dalla radice, la parte più importante perché 'media' tra la pianta futura e il cibo (prop. 81) ed è causa della vita delle piante (causa vitae plantarum), fino alle foglie e alla maturazione dei frutti. Il Libro II affronta la natura e i tipi delle forze (vires) delle piante, classificate secondo la distinzione dei tre elementi terra, acqua, fuoco: così, la prima forza deriva dal genere della terra, la seconda dal genere dell'acqua, la terza dal genere del fuoco. Da queste tre forze mescolate insieme, che sono il luto, l'acqua e il fuoco, nasce la pianta; essa tuttavia si nutre e si muove non come l'animale, ma in quanto contiene la forza della terra (vis terrae) che attrae gli umori e dà il nutrimento alla pianta che lo digerisce (prop. 142). Le altre proposizioni del Libro II descrivono in maniera accurata le diverse forme delle piante secondo queste tre forze elementari.
Nel Medioevo fu attribuito ad Aristotele anche un importante Lapidario (De lapidibus) o trattato sulle pietre, un'opera di derivazione eterogenea (bizantina, siriaca e persiana) che ebbe redazioni diverse; quella latina è ritenuta di Arnaldo di Sassonia o di Gherardo da Cremona. Parti di questo Lapidario passarono nel mondo latino anche attraverso il De physicis ligaturis, l'opera di Qusṭā ibn Lūqā sulla virtù di attrazione o di repulsione delle pietre e delle piante per guarire le malattie, che fu tradotta probabilmente da Costantino l'Africano (1015 ca.-1087 ca.). Qusṭā ibn Lūqā utilizzava largamente l'eredità bizantina dei lapidari del De materia medica di Dioscuride e di Galeno, un patrimonio di conoscenze presente anche nel Liber lapidum di Marbodo, che a sua volta citava e soppiantava una traduzione latina del V sec. di un lapidario greco del I sec., il Liber Evax rex Arabum.
Alcune redazioni latine usavano parti del trattato pseudo-galenico De simplicibus medicamentis ad Paternianum, apocrifo latino di materia medica del VI sec., in cui si parlava delle virtù mediche delle piante. Tale scritto pseudogalenico utilizzava principalmente la versione dell'opera medica di Dioscuride Pedanio, traduzione latina assai fedele svolta in epoca longobarda (IX sec.) del De materia medica di Dioscuride, il cui Libro V è dedicato ai minerali. Quest'opera, in seguito, fu ordinata da Pietro d'Abano, che classificò pietre e piante in ordine alfabetico utilizzando forse un'altra versione; essa è conservata in un prezioso incunabolo, edito a Colle Val d'Elsa per Giovanni Allemanno de Medemblick nel 1478. Di questa traduzione latina composita e stratificata del De lapidibus dello Pseudo-Aristotele esistono due versioni diverse; nel complesso, si è trattato di un apocrifo pseudoaristotelico di ispirazione bizantina che è stato composto in arabo, compilato nelle scuole mediche di Siria e di Persia nell'VIII sec. e messo in circolazione due generazioni dopo il Liber lapidum di Marbodo.
Le opere scientifiche pseudoaristoteliche di argomento medico, durante il Medioevo e il Rinascimento, furono attribuite anche a Galeno, come, per esempio, il De simplicibus medicamentis ad Paternianum, edito a Venezia nel 1597 come Libro VII degli Spurii Galeno ascripti libri, o come una versione un po' diversa del De physicis ligaturis, attribuita, oltre che a Galeno, anche a Costantino l'Africano con il titolo Liber de incantatione, adiuratione et suspensione. Essa tratta delle virtù degli amuleti per la guarigione di diverse malattie, argomento sul quale si sarebbe già soffermato Aristotele nel De lapidibus. Furono attribuiti a Galeno anche un Liber cui titulus est prognostica de decubito (un trattato di medicina astrologica risalente a una versione bizantina del VI sec. di Imbrasio di Efeso) e un Liber de spermate, che non è il De spermate originale di Galeno ma una versione differente di medicina astrologica di ispirazione araba che ha anche il titolo De duodecim signis vel sortis o De semine.
Nel trattato De decubito, di Imbrasio di Efeso, si stabilisce l'influenza della Luna sulle malattie nelle diverse fasi della sua luminosità, secondo gli aspetti diversi che essa può avere con il Sole, con Marte, con Giove, in configurazioni distinte secondo i dodici segni zodiacali. Si tratta di una versione di medicina astrologica diversa del Liber Ypocratis de medicorum astrologia nelle traduzioni latine dal greco di Guglielmo di Moerbeke e di Pietro d'Abano. Nel De spermate o De duodecim signis vel sortis il concepimento del bambino varia col mutare delle ore della giornata, che sono scandite dai quattro umori: sanguigno, della bile rossa, del flegma e della bile nera; esso è alterato a stellis et non a parentibus (dalle stelle e non dai genitori). Nel testo dello Pseudo-Galeno si introduce quindi un'esposizione astrologica delle natività o nascite in relazione agli aspetti dei dodici segni e dei sette pianeti, del tempo (se secco o umido), della diversità delle stagioni e del luogo geografico in cui avviene la nascita. L'ultima parte tratta della morte, intesa come dissoluzione degli elementi fisici nel corpo, e si pone la questione se, dopo la morte, gli elementi rimangano integri o si dissolvano con la trasformazione del sangue in aria, della bile rossa in fuoco, di quella melanconica in terra, del flegma in acqua. è attribuita poi a Ippocrate l'idea che tutto ritorni alla terra e vi sia una mutua conversione degli elementi.
Gli studiosi medievali attribuivano a Galeno anche diverse redazioni di opere di medicina dal titolo De crisi o De diebus criticis, che, sebbene ispirate alla dottrina galenica dei giorni critici, erano contaminate con le dottrine contenute in alcune proposizioni dello pseudotolemaico Centiloquium, redatto da un compilatore arabo vissuto nel IX sec. (secondo alcuni Aḥmad ibn Yūsuf, secondo altri Abū Ǧa῾far ibn Yūsuf o ῾Alī ibn Riḍwān), e tradotto da Ugo di Santalla e da Giovanni di Siviglia a metà del XII secolo. Il testo contiene 100 aforismi di astrologia e di medicina, e sviluppa l'idea che si possano stabilire astrologicamente i giorni critici del decorso della malattia, computandoli geometricamente sulla base dei transiti dei pianeti, del Sole, ma soprattutto delle orbite della Luna. Inoltre, nel De diebus criticis pseudogalenico è ripresa l'idea tratta dal verbum 51 del Centiloquium per cui il momento del concepimento può essere più importante di quello della nascita; l'autore definisce giorno critico quello in cui comincia a farsi evidente l'inizio della malattia, e afferma che la Luna, il Sole e i pianeti ne influenzeranno il decorso, ammesso che niente dal di fuori interferisca (Galeno è citato espressamente a proposito della teoria dell'influenza lunare e planetaria nel commento al verbum 42).
In alcuni manoscritti latini del De diebus criticis, tradotti dall'arabo, è rappresentato un diagramma che illustra le fasi della Luna riferite al Sole da cui dipendono le fasi acute della malattia; quando il Sole si pone in posizione di quadrato con la Luna determina una malattia cronica o incurabile. Su quest'opera pseudogalenica, che può essere considerata un commento separato di alcune proposizioni del Centiloquium dello Pseudo-Tolomeo, si sono basate le letture degli studenti in alcune Facoltà di medicina in Europa a partire dalla metà del XIV sec., soprattutto a Bologna e a Padova.
Sotto il nome di Ippocrate passarono nel Medioevo alcune opere di magia, di medicina astrologica, di experimenta o secreta e un interessante testo di zoologia dedicato alla cura delle malattie dei cavalli, tutte opere, queste, di ispirazione araba; secondo una testimonianza dell'astronomo e matematico arabo Ṯābit ibn Qurra, infatti, Ippocrate non era considerato solamente un medico ma anche un'autorità nel campo dell'alchimia, dell'astrologia e della magia. Gli si attribuiva il trattatello Astronomia o Astrologia Ypocratis o De iudiciis infirmitatum secundum dispositionem lunae et planetas, opera sicuramente non ippocratica anche se lo stesso Ippocrate nel trattato De aëre aquis locis riteneva di grande importanza non soltanto il luogo geografico, con le sue condizioni meteorologiche, in cui si trovava il malato, ma anche la posizione delle stelle.
Sebbene i manoscritti della versione latina dell'Astronomia o Astrologia Ypocratis circolassero copiosamente nel XIII sec., il testo originario proveniva da un'opera di Imbrasio di Efeso, autore dello scritto Sul pronostico della malattia secondo l'astrologia, che corrispondeva all'analogo testo dello Pseudo-Galeno De decubito (a sua volta, simile nell'impostazione al trattato astrologico pseudoippocratico). Pertanto si ritiene che l'Astronomia o Astrologia Ypocratis sia una versione abbreviata o frammentaria dell'opera di Imbrasio di Efeso sul pronostico della Luna nelle operazioni chirurgiche, di cui esistevano manoscritti già a partire dal IX sec. e di cui furono redatte anche versioni in volgare fino al XVI secolo.
Della versione latina esistono tre redazioni diverse: una prima, dal greco, del traduttore medievale Guglielmo di Moerbeke, una seconda, sempre dal greco, di Pietro d'Abano e una terza, anonima, probabilmente dall'arabo, redatta forse da ῾Alī ibn al-῾Abbās; a queste redazioni latine fra il IX e il XVI sec. si aggiunsero commenti, epitomi e frammenti. Esistono poi traduzioni nelle tre lingue volgari, inglese, francese e spagnolo; in ogni caso, nonostante le varianti formali, il contenuto del trattatello è uguale in tutte le tre versioni latine. Partendo dalla dottrina del Quadripartito di Tolomeo, secondo la quale il movimento delle stelle è una legge universale da cui dipendono le sorti terrene e le disposizioni fisiche degli individui, si ribadisce l'importanza dell'osservazione della posizione generale della Luna al momento dell'inizio della malattia, le sue congiunzioni o le sue opposizioni con i pianeti malefici o benefici e la posizione rispetto alla casa della morte, cioè l'ottava o la dodicesima; considerata poi la sua posizione nei diversi segni e in aspetto con i pianeti, si pronuncia la diagnosi.
La fortuna di quest'opera, grazie anche alla traduzione di Pietro d'Abano, fu grandissima e accreditata pure dai commenti successivi, come quello dell'agostiniano Agostino di Trento che tra il 1336 e il 1347, in una lettera al vescovo di Trento Nicola Abrein, celebrandone l'importanza definiva Ippocrate magnus astrologus in illo libello; Carlo VIII, re di Francia, ne possedeva una copia. Soltanto alla fine del XVII sec. si stabilì che l'opera era spuria.
Ippocrate godette di grande fama anche come medico degli animali, in particolare dei cavalli: il Liber Ypocratis sapientissimi de curationibus infirmitatum equorum è un testo di cui si ignora il probabile originale greco e la redazione araba da cui, nel XIII sec., fu tradotto in latino per opera del maestro Mosè di Palermo; esso rappresenta comunque un testo di primo piano per gli esordi della veterinaria.
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