La scienza bizantina e latina prima dell'influsso della scienza araba. Scienze della vita e medicina
Scienze della vita e medicina
Gli sviluppi del pensiero neoplatonico greco, dal III fino a tutto il V sec., furono contraddistinti da un generale disinteresse per le scienze biologiche e naturali e, di conseguenza, anche per la medicina razionale, i suoi metodi e il suo valore epistemico. In questo periodo va definendosi, grazie anche al contributo di tale orientamento filosofico, il ciclo delle sette arti liberali: grammatica, retorica, dialettica (trivium), musica, geometria, astronomia, matematica (quadrivium), secondo quanto afferma Agostino (De ordine, II), costituivano i gradi successivi che l'anima umana deve ascendere al fine di elevarsi dal sensibile all'intelligibile. Il neoplatonico Marziano Capella (prima metà del V sec.) nell'opera De nuptiis Philologiae et Mercurii presenta le sette discipline nella stessa prospettiva agostiniana, disponendole però in un ordine differente, che prevede la matematica e la musica, rispettivamente, ad aprire e a chiudere la serie del quadrivium. Le scienze devono permettere all'anima di staccarsi dalle cose terrene e di raggiungere le 'potenze celesti', in quanto esse rappresentano il mezzo per l'elevazione tanto morale quanto spirituale dell'individuo. Medicina e architettura, private della dignità che a loro aveva attribuito Varrone, il quale a esse aveva dedicato due dei nove Disciplinarum libri, non sono inserite da Marziano Capella nel novero delle discipline liberali, poiché si occupano di cose mortali.
Visione coerente, questa, con gli sviluppi del tardo platonismo, che aveva dotato i termini disciplina/scientia e ars di un significato epistemologicamente vincolante; precisamente, l'esercizio della scienza implica solamente l'uso della ragione e delle facoltà intellettive, laddove l'arte, per chi la esercita, consiste nella messa a frutto dell'esperienza pratica, oltre che della teoria. In questo senso, la medicina, più che essere scienza, è arte. È quanto si afferma, del resto, in alcuni Prolegomena alessandrini alle opere logiche di Aristotele, i quali rappresentano l'introduzione generale al corso di studi filosofici, posta a premessa del commento all'Isagoge di Porfirio.
Gli autori alessandrini di Prolegomena, operanti tutti nel VI e agli inizi del VII sec., sono Ammonio, Elia e David. Ammonio sostiene che le definizioni delle scienze e delle arti si dividono in due gruppi, a seconda che facciano riferimento o al fine a cui tende la disciplina da definire, o all'oggetto di essa; la medicina è un'arte che concerne il corpo umano, ed è questo, il suo oggetto, a renderla indegna di uno status epistemologicamente elevato. Il commentatore afferma, infatti, che le arti e le scienze non differiscono fra loro tanto per il metodo ‒ infatti i lógoi di ciascuna sono infallibili ‒ quanto per l'oggetto (hýlē). Inoltre, le scienze non hanno bisogno, come si è detto, di ricorrere a niente altro che al ragionamento; la stessa cosa, però, non vale per l'arte. Se il lógos rientra a far parte dei suoi metodi operativi, la medicina, che, per Ammonio, esemplifica il concetto di téchnē, non può però prescindere dallo svolgere un'azione di modificazione tangibile dello stato della materia; essa produce salute, vale a dire modifica le condizioni fisiche alterate di un organismo malato. In tal senso, la medicina si contrappone all'astronomia: essa è studio dei corpi umani avente come fine la produzione della salute, mentre la seconda ha come oggetto lo studio dei corpi celesti e come fine la conoscenza del loro movimento. In quanto arte, la medicina, secondo la concezione platonico-aristotelica, implica infatti l'azione, il fare (poieĩn), e non unicamente la contemplazione fine a sé stessa. In linea con queste posizioni David, illustrando la quinta definizione della filosofia, tratta dalla Metafisica di Aristotele, compie una lunga digressione sui rapporti fra arte e scienza e afferma che la scienza differisce dall'arte, giacché la seconda si occupa di cose incostanti, che non rimangono sempre uguali a sé stesse; esempio di un'arte che attiene alle cose mutevoli è, ancora una volta, la medicina, che si occupa dei corpi umani, i quali, per la loro condizione di mutevolezza (generazione-corruzione, salute-malattia), rappresentano un oggetto troppo fragile su cui impostare una disciplina della verità.
Se Capella, quindi, coerente con le dottrine neoplatoniche, esclude la medicina dal novero delle arti, Cassiodoro (490 ca.-580 ca.) trova necessario, se non inserirvela, almeno consigliarne lo studio ai confratelli di Vivarium impegnati nel ruolo di medici all'interno del monastero. I testi di cui Cassiodoro raccomanda la lettura sono l'opera di Dioscuride, le traduzioni latine di Ippocrate e di Galeno, il De medicina di Aurelio Caelio (sic) e il De herbis et curis di Ippocrate, da identificarsi, forse, con una compilazione anonima del VI sec., i Dynamidia Hippocratis, che consiste in un rimaneggiamento del Libro II del De diaeta pseudoippocratico, con aggiunte da Gargilio Marziale. Cassiodoro riconosce alla medicina un ruolo nuovo e diverso, rispetto a quello attribuitole tradizionalmente nelle enciclopedie tardo-imperiali; essa, infatti, fornisce all'uomo la possibilità di prendersi cura cristianamente del proprio simile, di prestare quell'opera caritatevole di soccorso che è parte integrante dell'agire secondo i dettami neotestamentari. Benedetto da Norcia (480 ca.-540) dispone, nella sua Regola, che il malato sia curato come se fosse Cristo in persona.
Il medico cristiano, quindi, deve formarsi nella consapevolezza del proprio ruolo, specificamente inteso come espressione sapiente di carità e amore verso il prossimo, ma ‒ e Cassiodoro, a differenza di Benedetto, lo sottolinea chiaramente ‒ egli deve anche provvedere a che la sua formazione professionale s'imposti sullo studio attento dei testi della medicina classica. Questo studio implica naturalmente ‒ come si vedrà ‒ l'esistenza di luoghi e istituzioni atte a ospitare classi e corsi di insegnamento. La teoria medica deve essere appresa secondo un percorso ordinato e sono necessari, quindi, testi, antologie, manuali; essa è anche strettamente legata ad altre scienze, che le forniscono strumenti metodologici e nozioni indispensabili.
Isidoro, vescovo di Siviglia (560-636 ca.), nella sua vasta opera dal titolo Etymologiarum sive originum libri XX, pone la medicina subito dopo le sette arti liberali. A maggior ragione, infatti, essa ha il diritto di rientrarvi, dal momento che, mentre quelle si occupano di argomenti specifici, la medicina li include tutti. L'uso di un linguaggio appropriato, la capacità argomentativa, lo studio delle cause, la quantificazione di alcuni dati fondamentali per la prognosi, il possesso di nozioni utili per la diagnosi, la conoscenza di cure efficaci, quali la meloterapia, sono peculiarità che derivano tutte al medico da una formazione il più possibile enciclopedica. Isidoro afferma che sia la filosofia sia la medicina si occupano dell'uomo nella sua globalità, rivolte, rispettivamente, all'indagine sull'anima e sul corpo; la medicina, quindi, merita di essere considerata una secunda philosophia.
Il libro e la parola sono, così, nei primi secoli del Medioevo, i mezzi imprescindibili attraverso i quali si apprende l'arte della medicina; così, lo studio e l'insegnamento dei classici, o della tradizione classica mediata attraverso l'opera di epitomatori e anonimi autori di brevi opere a uso pratico, il commento e la traduzione dei testi teoreticamente fondamentali per l'apprendimento della disciplina, la trascrizione del patrimonio librario indispensabile all'acquisizione di specifiche competenze professionali e conoscenze dottrinali rappresentano i momenti salienti di quel processo di trasmissione e di conservazione del sapere, non soltanto medico, che ha segnato la civiltà dell'Alto Medioevo.
La cultura medica in Europa nel VI e VII secolo. Circolazione dei testi e centri di studio laici
La letteratura medica latina tardo-antica mostra una forte dipendenza nei confronti della tradizione classica e delle correnti mediche di maggiore spicco. Gli autori del IV-V sec. si rivolgono infatti alle auctoritates più accreditate, che sono quindi citate e riprese ampiamente; operano in tal senso gli scrittori medici africani, come Vindiciano (tardo IV sec.) e il suo allievo Teodoro Prisciano (inizi V sec.), autore del trattato Euporista, in greco, tradotto poi in latino; Cassio Felice (attivo nel 447); Celio Aureliano (V sec.), le cui Acutae vel celeres passiones e Chronicae vel tardae passiones si basano su un'opera di Sorano sullo stesso soggetto; oppure Marcello Empirico (V sec.), originario della Gallia, al quale si deve la compilazione De medicamentis. Le fonti utilizzate, tuttavia, non sempre fanno parte di quel gruppo di opere attualmente ritenute autentiche: a partire dall'epoca tardo-imperiale il corpus ippocratico e galenico assorbe, infatti, esemplari di una produzione apocrifa, spuria, i quali, tradotti in latino, circolano in Occidente inseriti in compendi, antologie ed epistole.
Fra il V e il VII sec. le opere di Ippocrate e Galeno di carattere isagogico sono ampiamente tradotte e commentate, a riprova che, in questo periodo, nonostante i radicali cambiamenti di ordine politico-militare e sociale che avevano investito i territori occidentali dell'Impero, era ancora forte l'esigenza, da parte delle classi colte, di rifarsi a una tradizione autorevole, insostituibile ai fini della formazione professionale. Il ms. Ambrosianus G 108 inferior (Milano, Biblioteca Ambrosiana), vergato nel IX sec. in uno scrittorio norditaliano, è probabilmente la copia di un archetipo ravennate del VI sec.; esso contiene quattro commenti in lingua latina a Galeno (De sectis, Ars medica, De pulsibus, Ad Glauconem de methodo medendi), i quali, come si evince dalle sottoscrizioni a ognuno di essi, sono trascrizioni di lezioni tenute da Agnello Iatrosofista eseguite per mano del medico Simplicio. Oltre ai commenti, composti forse verso la fine del VI sec., il codice conserva tre traduzioni latine di opere ippocratiche (Prognosticon, De aere, aquis, locis, De septimanis), eseguite anch'esse nel VI secolo. I testi dell'Ambrosianus furono molto probabilmente composti per uso scolastico, come appare evidente, dalla loro struttura e dal loro contenuto. Le traduzioni degli scritti di Ippocrate presentano, per esempio, modificazioni rispetto all'originale greco, dovute, probabilmente, a esigenze didattiche. Inoltre, è interessante notare che i primi quattro testi galenici previsti nel curriculum di studi medici alessandrino sono gli stessi che compaiono nel manoscritto ambrosiano. Anche la struttura dei commenti ravennati rispecchia il modello alessandrino; ciascun commento, infatti, risulta suddiviso in una serie di lezioni (actiones), corredate ognuna da una premessa di ordine generale (theoria). Inoltre, l'introduzione presente nel commento all'Ars medica (48v-49v), contiene, quale accessus all'opera, otto questioni (capitula), il cui svolgimento offriva al lettore una visione d'insieme dell'opera e notizie sul suo contenuto e sulle sue finalità. Queste e altre peculiarità formali e contenutistiche, rivelano l'esistenza di un'affinità fra i commenti ravennati e i coevi commenti medici e filosofici alessandrini; è difficile però stabilire con sicurezza se, per quanto riguarda i primi, si abbia a che fare con traduzioni di scholia provenienti da Alessandria o se invece a Ravenna fosse attivo un vero e proprio centro di insegnamento e di esegesi. Il ms. Paris. lat. 7027 (IX sec.; Parigi, BN) rivela forti affinità con l'Ambrosianus, per quanto concerne la provenienza (Italia del Nord), il tipo di testi in esso conservati (traduzioni latine dei trattati ippocratici De septimanis, De aere, aquis, locis e De victus ratione, I) e la loro origine (un centro di cultura medica ravennate). Ippocrate riveste un ruolo di grande importanza per la trasmissione delle dottrine mediche antiche, ancor più di Galeno, le cui opere, se si eccettuano i commenti ravennati e la traduzione dell'Ad Glauconem de methodo medendi, godono, durante l'Alto Medioevo, di una fortuna più limitata. Del maestro di Coo furono inoltre tradotti il Libro II del De victus ratione, il De mulierum affectibus, I, II e gli Aphorismi. In particolare, questi ultimi avranno una vastissima circolazione durante tutto il Medioevo in Occidente: quando il corpus classico degli scritti ippocratici sarà sempre più trascurato da copisti e traduttori a vantaggio di opere pseudonime o anonime finalizzate a un uso pratico (terapia, prognosi, diagnosi), gli Aphorismi, infatti continueranno a figurare nelle miscellanee mediche. Come è stato notato da numerosi studiosi, molte fra le traduzioni che compongono l''Ippocrate latino' presentano aspetti comuni, fra cui una parte della tradizione manoscritta, l'epoca (V-VI sec.) e il luogo di origine, o di diffusione, vale a dire Ravenna gota e bizantina. I Goti infatti manifestarono vivo interesse per i testi classici di argomento scientifico e tecnico; alla cultura ravennate del periodo della loro dominazione sono riconducibili le traduzioni degli Aphorismi e del De victus ratione ippocratici, del De podagra di Rufo di Efeso e, probabilmente, della Synopsis e degli Euporista di Oribasio, di cui esistono due diverse versioni. Durante la prima metà del VI sec. fu composto anche un trattato dietetico in latino, il De observatione ciborum, attribuibile al medico bizantino Antimo, che risiedeva presso la corte di Teodorico, re degli Ostrogoti. Dedicato a Teodorico, re d'Austrasia, presso il quale Antimo era in visita in qualità di ambasciatore, il trattato godette di grande popolarità e fu ricopiato ed epitomato per i tre secoli successivi.
Dopo la riconquista bizantina, la medicina continuava a destare grandissimo interesse nei circoli colti ravennati. Appartengono a questo periodo, infatti, i testi conservati dall'Ambrosianus; sicuramente, almeno, i commenti di Agnello. L'esistenza a Ravenna, in questo periodo, di una scuola laica di medicina sembra avvalorata dalle testimonianze che offre il papiro ravennate Tjäder XXXV, dell'anno 572, che riporta, nella lista dei testi, il nome di un Leontius medicus ab schola greca. Del resto, anche sotto il regno goto, doveva probabilmente essere attiva una classe formata da medici laici, pubblici, ai quali sovrintendeva un comes archiatrorum (Cassiodoro, Variae, VI, 19). Nel VII sec. la città continua a essere un centro di traduzione e di copia di testi medici; qui fu approntata, infatti, una traduzione dei Therapeutica di Alessandro di Tralle.
Oltre a Oribasio e ad Alessandro di Tralle, anche Paolo di Egina fu oggetto di una certa attenzione da parte dei traduttori che durante il VI sec. si impegnarono nell'Italia del Nord nella versione del terzo libro dell'Epitome.
Al corpus di traduzioni latine di Ippocrate presto si affiancò e si sovrappose, nella tradizione manoscritta, una serie di scritti apocrifi, pseudonimi, diversi fra loro per livello scientifico, contenuto dottrinale e struttura formale (epistolae, manuali, raccolte, compilazioni) che, come gli Aphorismi, ebbero una vasta circolazione fino all'XI secolo. Alcuni fra i più noti sono: l'Epistula ad Mecenatem; l'Epistula ad Antiochum; gli Indicia valetudinum (V-VI sec.); i Prognostica o Secreta (V-VI sec., traduzione latina di un originale greco ispirato alle opere ippocratiche di argomento prognostico); i Dynamidia Hippocratis (VI sec.). Uguale diffusione avranno anche opere pseudogaleniche di carattere uroscopico. Accanto ai già citati trattati pseudoippocratici, si può ricordare il raggruppamento formato dal Liber Aurelii e dal Liber Esculapi databile fra VI e VII sec., che tratta delle malattie acute e croniche.
Purtroppo, le notizie circa i centri laici di insegnamento della medicina nei secc. VI e VII sono molto scarse. Si è già detto della scuola medica di Ravenna, ma anche nel sud della Francia, a Marsiglia, fra V e VI sec., operavano medici municipali, secondo il modello istituzionale tardo-imperiale, ed è probabile che costoro ricevessero in loco la loro educazione professionale. Lo stesso vale per Bordeaux, città natale di Marcello Empirico, medico, autore di un ricettario terapeutico dal titolo De medicamentis.
La medicina nei monasteri
All'insegnamento e alla pratica laica della medicina, le cui tracce erano presenti, per il VI sec., nell'Italia gota e bizantina e nella Francia meridionale, si affianca l'attività svolta, in questo senso, dai monasteri. Nuovi centri di cultura, essi s'impongono, nel corso dell'Alto Medioevo, per il ruolo svolto nella trasmissione dei classici, testi medici compresi, da una parte, attraverso l'educazione impartita a giovani, dall'altra, grazie all'opera di trascrizione del patrimonio librario antico e tardo-antico. Le istituzioni monastiche ed ecclesiastiche si distinguono anche, in un primo tempo, per l'attività assistenziale svolta a favore dei poveri e dei malati. Durante il Medioevo, infatti, la carità cristiana è indirizzata principalmente a quegli individui socialmente deboli che le carestie privano degli strumenti del lavoro e le epidemie della forza di lavorare. Nella dimensione cristomimetica che contraddistingue tanto l'ideologia politica quanto la teologia tardo-antica e medievale, l'amore per il prossimo rappresenta la virtù somma che avvicina l'uomo all'immagine divina. Questo amore si manifesta attraverso l'aiuto offerto al bisognoso: il povero, il malato o, ancora meglio, il povero malato. Significativamente, nella Novella LXXX (Corpus juris civilis) il legislatore distingue fra individui indigenti ma atti al lavoro perché sani, e individui del tutto inabili al lavoro perché anziani, affetti da gravi malattie o da deformità fisiche. Se i primi, che, spinti dalla fame, si erano riversati in città, erano respinti con fermezza nei luoghi di origine, ai secondi, invece, era riservato l'aiuto materiale offerto dalle istituzioni religiose, col tempo regolamentato e organizzato secondo forme e modelli destinati a godere di una lunga e ininterrotta fortuna.
La malattia è interpretata dai pensatori cristiani e dai Padri della Chiesa greci e latini al tempo stesso come punizione e premio; è Dio, infatti, che colpisce il singolo o la comunità, responsabile di una grave infrazione, della rottura di un patto, ma è ancora Dio, attraverso Suo Figlio, che dona la salvezza dell'anima e anche del corpo. Non poche, in questo senso, furono le resistenze da parte del clero nei confronti della medicina laica. Già fra VII e VIII sec. questa diffidenza andò però via via scomparendo, per lasciare posto a un'assunzione di responsabilità da parte del vescovo o dell'abate nei confronti della massa di poveri, derelitti, malati, che giornalmente affollava le vie e le piazze di città e villaggi. Ptōcheĩa e xenodocheĩa sorgono presso gli edifici di culto. Gli xenodocheĩa nascono nei territori bizantini e sono l'espressione della spiritualità monastica basiliana, orientata verso la pratica dell'umiltà e della carità. Le prime istituzioni assistenziali, quindi, si sviluppano, soprattutto in certe aree, sotto l'effetto dell'influsso proveniente da Bisanzio; questo elemento non va sottovalutato, soprattutto se si considera il complesso intreccio di culture che contraddistingue il panorama civile, sociale e intellettuale della penisola italica nei primi secoli del Medioevo. Indubbiamente, il monachesimo benedettino svolse poi un ruolo di primo piano, interpretando e realizzando a pieno quelle istanze che dovevano ispirare non soltanto, per regola, l'agire dei confratelli, ma anche, idealmente, la vita di ogni cristiano. Il servizio, che si divide fra lavoro manuale ed esperienza spirituale, contempla sia lo scrittorio che l'infermeria; questi due luoghi, non sempre coesistenti nella stessa struttura, segnano uno spazio reale e morale in cui tutte le possibilità sembrano realizzarsi ed esaurirsi. I monasteri della Francia merovingia non disponevano probabilmente di personale medico specializzato; in essi erano però presenti strutture in cui i confratelli ammalati ricevevano assistenza. Accanto alle infermerie monastiche esistevano, in Francia, come in Italia e altrove in Europa, gli hospitia, che, al pari degli xenodocheĩa, avevano la funzione di accogliere e di soccorrere un'umanità varia e sventurata: malati, naturalmente, ma anche pellegrini e mendicanti. Nella maggior parte dei casi, queste strutture non erano 'medicalizzate'; solitamente, le cure consistevano nell'offerta di un ricovero e di un pasto. Certamente, i testi medici circolavano nei monasteri fin dai primi secoli del Medioevo; l'attività di produzione libraria, infatti rispondeva soprattutto alla necessità di studio e di approfondimento disciplinare. Di questa attività, per i secc. VII e VIII, testimoniano tre manoscritti conservati a Parigi, che contengono estratti da Oribasio, Alessandro di Tralle, Dioscuride e trattati attribuiti a Galeno (BN, 10233 e 9332, provenienti da Chartres, rispettivamente del VII e dell'VIII sec., e BN, nouv. acq. 1619, vergato a Troyes, intorno al VII-VIII sec.). Più tardi, nel IX sec., a Montecassino, sotto l'abate Bertario, furono trascritti due codici con testi medici, uno dei quali è forse identificabile con il ms. Cassinensis 69 (Montecassino, Archivio dell'Abbazia) che conserva liste di remedia; antidotari; un trattato frammentario sui pesi e le misure; trattati pseudonimi di prognostica, fra i quali l'Epistula prognostica Hippocratis; calendari. Il monastero di San Gallo rappresenta, infine, l'esempio perfetto di un'istituzione monastica nella quale si affiancano l'attività di uno scrittorio e di un'infermeria; di quest'ultima, infatti, si è conservata una pianta del IX sec. che ci rivela la presenza, almeno dal punto di vista 'progettuale', di molte stanze, con e senza riscaldamento, di un grande cortile all'aperto, di un refettorio, di cucine, di bagni, di vani adibiti per speciali trattamenti terapeutici o riservati al personale medico, di una farmacia e, infine ‒ immancabile ‒ di un orto dei semplici.
La medicina in epoca carolingia
L'analisi condotta in questa sede, data la vastità e la complessità delle opere mediche composte in Occidente nei secc. IX-XI, è limitata ai manoscritti medici latini che rivelano il persistere della tradizione classica. Alcuni manoscritti del IX sec. conservano ‒ come si è visto ‒ parte importante dell'Ippocrate latino che si arricchisce, per così dire, del corpus degli apocrifi. Molte delle opere trascritte in questo periodo fanno parte di quella produzione letteraria che annovera scritti di medici latini (Celso, ma anche, per es., Celio Aureliano, Cassio Felice, Vindiciano, Teodoro Prisciano, Marcello Empirico); testi dietetici (De observatione ciborum di Antimo, Diaeta Theodori, vari calendari dietetici); erbari (molto conosciuti quelli di Apuleio e dello Pseudo-Antonio Musa); ricettari (Medicina Plinii); antidotari. La composita e, per certi aspetti, viva produzione di codici del periodo presalernitano era resa possibile dall'attività di scriptoria collegati a importanti centri monastici (per es., Fleury, Corbie, Fulda, Reichenau, San Gallo, Montecassino, Nonantola). Durante l'epoca carolingia, infatti, i monasteri svolgono un ruolo importante per l'insegnamento e per la diffusione della cultura medica; la medicina, infatti, è parte integrante della formazione del clero. Rabano Mauro (IX sec.), abate di Fulda, afferma nel De clericorum institutione, III, 1: nec enim eis aliqua eorum ignorare licet […], id est, scientiam Sanctarum Scripturarum […] (et) differentiam medicaminum, contra varietatem aegritudinum. In realtà, la pratica medica del tempo si limitava, il più delle volte, all'uso di erbe, alla prescrizione di diete adeguate e al ricorso alla flebotomia. Nondimeno, appare con chiarezza che la classe colta, vale a dire il clero, non poteva esimersi dall'apprendere nozioni di medicina (Capitulare missorum in Theodonis villa datum primum, mere ecclesiasticum, VII). Le dottrine mediche classiche ‒ per esempio la teoria umorale ‒, assimilate in forma semplificata, si ritrovano, all'occasione, espresse in forma condensata in trattati ed enciclopedie, quali il De universo libri XXII dello stesso Rabano Mauro, che ospita un capitolo dedicato alla medicina. Quest'ultima rientra a far parte delle arti liberali, nel personale schema concepito da Alcuino (735-804) nella Didascalia.
Come per Isidoro di Siviglia, la cui enciclopedia godeva di grande fortuna nella Francia carolingia, anche per il dotto abate di San Martino di Tours la medicina acquista un rilievo particolare: essa è una scienza della cura, creata per la salute e il giusto equilibrio del corpo.
La storia della medicina bizantina copre un arco di tempo che va dal IV al XV sec. e presenta due fasi salienti di evoluzione; la prima termina nel 632, anno dell'invasione araba di Alessandria ed è contraddistinta dall'influsso esercitato dalla fiorente scuola alessandrina, in cui si studiavano e si commentavano i classici della filosofia e della medicina; la seconda che si estende dal VII sec. fino al 1453, anno della caduta dell'Impero bizantino per mano turca, vede l'emergere della cristiana Costantinopoli quale centro di cultura e di studi superiori. Il periodo altobizantino è dominato dall'attività dei commentatori alessandrini e dei grandi enciclopedisti; durante il periodo mediobizantino sono composti trattati diagnostici e terapeutici e testi di uso strumentale a carattere pratico, che danno spazio ai dati desunti dall'esperienza professionale piuttosto che alla discettazione teorica e alla retorica dimostrativa; negli ultimi due secoli della storia bizantina ritornano le grandi sistematizzazioni, come dimostra la produzione di Giovanni Attuario. A una lettura attenta le fonti mediche bizantine rivelano aspetti comuni: l'adesione al galenismo e, in generale, l'imitazione dei classici; l'integrazione di teorie tradizionali e di indicazioni tratte dall'esperienza pratica; l'assimilazione degli articoli di fede cristiani, che si traduce in invocazioni e citazioni bibliche, e comporta la ridefinizione di alcuni aspetti delle dottrine antropologiche tradizionali (Nemesio di Emesa, Melezio Monaco).
Galenismo e ippocratismo sono le due correnti di maggiore spicco nel panorama della medicina bizantina; infatti, la tradizione a cui quest'ultima attinge è, prevalentemente, quella greco-romana, alla quale si affiancano, soprattutto in campo dietetico e farmaceutico, gli influssi esercitati dagli arabi (Simone Set) e dagli occidentali (Nicola Mirepso). I Bizantini avevano conferito a Ippocrate il ruolo di auctoritas, riservato ai padri fondatori di una disciplina; gli Aphorismi, il Prognosticon, le Epidemiae (VI) e alcuni trattati pseudoippocratici di fisiologia umana, furono oggetto di commenti (Teofilo, Scholia in Hippocratis aphorismos), soprattutto in ambiente alessandrino (Stefano, Scholia in Hippocratis aphorismos; Palladio, Scholia in Hippocratis epidemiarum librum VI), e furono rispettosamente compendiati e raccolti in enciclopedie, trattati o testi strumentali. Galeno di Pergamo (130-200 ca.) offriva ai medici e agli studiosi bizantini un 'sistema' dottrinale in cui si trovavano coniugate oltre alle teorie mediche ippocratiche anche la filosofia neoplatonica e la biologia aristotelica e che forniva un'interpretazione teleologica dei processi naturali in apparenza non dissonante dalla dogmatica cristiana. Interi excerpta galenici, tratti dall'originale oppure da antologie, furono riportati testualmente da Oribasio e da Aezio di Amida. Le Collectiones e la Synopsis di Oribasio, così come l'enciclopedia di Aezio di Amida e il trattato di Paolo di Egina, rappresentarono, a loro volta, una ricca raccolta e rielaborazione di dottrine autorevoli a cui ricorrere con rispetto. Accanto alle grandi auctoritates ebbero inoltre un ruolo rilevante gli insegnamenti di altri medici famosi dell'epoca classica e postclassica: Areteo di Cappadocia, Ateneo, Apollonio di Pergamo, Archigene, Asclepiade di Bitinia, Diocle di Caristo, Dioscuride di Anazarba, Filagrio, Filumeno, Rufo, Sorano.
L'attività di 'imitazione' svolta dagli autori bizantini non può essere considerata vuoto sfoggio di erudizione; essa, al contrario, rivela la capacità di selezionare e di utilizzare ‒ grazie a epitomi, compendi, interpolazioni ‒ luoghi testuali di particolare rilevanza dottrinale. La mímēsis degli Antichi implica, da parte di chi la pratica, un'orgogliosa consapevolezza culturale e un profondo senso di appartenenza a una tradizione imprescindibile, spesso convalidata da evidenze concrete e oggettive, sul rispetto della quale si fonda la continuità ideologica e spirituale di una intera civiltà. Del resto, la storia della medicina bizantina non è fatta soltanto da epitomatori; vi sono medici, fra i quali Alessandro di Tralle e Giovanni Attuario, che dimostrarono grande vivacità e autonomia nella trattazione di taluni aspetti della loro arte, non precludendosi aprioristicamente la possibilità di avvalorare o di arricchire il proprio patrimonio teorico con i risultati dell'esperienza. Molto spesso, infatti, le teorie classiche s'integrano, nei testi, con osservazioni pratiche; così, una raccolta mediobizantina di scritti medici di vario argomento (patologia, terapia, elenchi di definizioni), conosciuta con il titolo di Apotherapeuticá e attribuita a Teofilo, ospita, accanto a citazioni ippocratiche, indicazioni terapeutiche di carattere popolare; l'originalità del trattato Therapeutica di Alessandro di Tralle ‒ informato, peraltro, ai precetti galenici in fatto di fisiologia e patologia ‒ traspare dalla presenza di prescrizioni volte a favorire il conseguimento del benessere fisico del malato.
I concetti di salute, malattia e cura, laicamente espressi nei testi classici, si integrano, nella medicina bizantina, con i portati di una religiosità diffusa, che arricchisce e complica le prospettive del medico; la valenza e le modalità della guarigione si colorano, nei testi agiografici, di un'aura miracolosa e irrazionale; la dieta dei monaci, basata sugli assunti umorali ippocratici e su un'attenta selezione dei cibi, mette in relazione peccati sessuali e alimentazione, salvezza e salute; la gentilezza del medico si tramuta in eleēmosýnē e philanthrōpía, e prelude alla creazione dei primi grandi ospedali di tutto il Medioevo.
Gli autori e le opere
Alessandria d'Egitto fra il V e il VI sec. era un importante centro di studi filosofici e medici. I neoplatonici Ammonio, Olimpiodoro, Elia, David, Giovanni Filopono, legati fra loro da rapporti di filiazione intellettuale e attivamente impegnati nell'insegnamento e nell'esegesi dei testi platonici e aristotelici, furono fra i protagonisti di spicco di una stagione intellettuale di grande importanza per gli sviluppi culturali della scienza e del pensiero bizantini. Testimonianza primaria di questa attività di studio e di insegnamento è costituita dai commenti, composti nel rispetto di schemi logico-dialettici e modelli strutturali ben precisi. La formazione degli studenti di filosofia prevedeva l'approfondimento graduale di un gruppo di opere di Aristotele e di Platone, che erano lette e commentate durante le lezioni; preliminare allo svolgimento dell'intero percorso di studi era l'analisi dell'Isagoge di Porfirio e dell'Organon aristotelico. Al corso di filosofia si affiancava poi un corso dedicato al commento e all'analisi dei testi ippocratici e galenici.
Secondo alcune fonti arabe il curriculum di studi medici, così come si presentava poco prima della conquista araba, prevedeva la lettura progressiva di una selezione di trattati di Ippocrate e di Galeno; a partire dai testi isagogici 'per principianti' e progredendo gradualmente verso una crescente specializzazione, gli studenti, sotto la guida dell'insegnante, approfondivano e commentavano i temi rilevanti di ciascuna branca disciplinare. Era inoltre prevista, quale introduzione allo studio delle due auctoritates, una preparazione sommaria di logica, che, naturalmente, si basava sulle opere aristoteliche dell'Organon. La medicina e la filosofia alessandrine rivelano comunanza di metodi, basi, oggetti di ricerca; tutte e due ricorrono alla logica aristotelica come premessa per la trattazione di qualsiasi soggetto e prevedono l'uso di procedimenti metodologici precisi (diaíresis, nell'accezione medievale di 'ricerca delle cause'); entrambe contemplano lo studio della physiología; i metodi didattici e l'impostazione dei corsi dell'una e dell'altra presentano evidenti analogie; infine, i commenti a Ippocrate e a Galeno rispecchiano, nella loro struttura formale, il modello offerto dall'esegetica filosofica. Fra gli autori più noti di commenti a testi medici (per es., agli Aphorismi e al Prognosticon di Ippocrate, o al De sectis di Galeno) vi sono Stefano di Alessandria, Palladio, Gessio, Giovanni di Alessandria.
Ad Alessandria si formarono due fra i più importanti scrittori di medicina di tutto il periodo altobizantino: gli enciclopedisti Oribasio e Aezio di Amida. Oribasio nacque a Pergamo intorno alla seconda decade del IV sec. e compì la sua formazione medica nella città egiziana sotto la guida di Zenone di Cipro. È noto il rapporto professionale e, forse, umano che lo legò all'imperatore Giuliano, su invito del quale intraprese la stesura del suo primo scritto di medicina, un'epitome di Galeno, ora perduta. Su commissione imperiale, Oribasio compose anche l'opera che rappresenta il suo capolavoro: le Collectiones medicae, in 70 libri, di cui si è conservato poco più di un terzo. Nate per essere una raccolta completa di scritti galenici, in realtà esse racchiudono estratti anche da altri autori, ritenuti tradizionalmente fonti di dottrina per quanto riguarda temi e materie specifiche (Dioscuride, Rufo di Efeso, Mnesiteo di Atene, Asclepiade di Bitinia, soltanto per citarne alcuni). In questo senso, e secondo quanto dichiara lo stesso Oribasio nell'introduzione dedicata a Giuliano, le Collectiones rispondono all'ambizione enciclopedica di trattare al meglio tutte le branche della medicina (dietetica, igiene, materia medica, diagnostica, prognostica, anatomia, patologia) e di offrire, per ogni argomento, una scelta dei testi più significativi dal punto di vista teorico e pratico. La tecnica compositiva con cui sono state redatte rivela l'accostamento di brani simili nel contenuto ma tratti da autori o da opere diverse; non sempre l'autore attinse direttamente alle fonti originali ed è probabile che egli sia spesso ricorso a compilazioni. Verso il 390 Oribasio compose poi una Synopsis medica in 9 libri, dedicata al figlio Eustazio; si tratta di un'opera a carattere scientifico, di agile consultazione, che riassume il contenuto delle Collectiones. Ultimo nella sua produzione fu il trattato Euporista, in 4 libri, dedicato allo storico Eunapio di Sardi e destinato a un uso non specialistico.
Aezio di Amida, medico alla corte di Giustiniano, redasse anch'egli una vasta opera enciclopedica, i sedici Libri medicinales, detta anche Tetrabiblion perché divisa in 4 sezioni. Il contenuto dell'enciclopedia è, naturalmente, vastissimo; tratta, infatti, la materia medica secondo la tradizione di Galeno, Dioscuride, Oribasio; la terapeutica; l'igiene; la prognostica e la diagnostica; la patologia, dalle malattie della testa e degli occhi fino alle affezioni della vescica e degli organi genitali; le malattie della pelle; gli antidoti; la terapia di ulcere e lussazioni; l'ostetricia e la ginecologia. Da segnalare sono il Libro VII, in cui l'autore dimostra una conoscenza articolata e puntuale dell'oftalmologia, e il Libro XVI, che offre un resoconto completo delle conoscenze in campo ostetrico e ginecologico.
Aezio si cimenta in un'attenta selezione di materiale medico antico: gli scritti di Galeno e di Oribasio, in primo luogo, ma anche quelli di Archigene, Areteo di Cappadocia, Dioscuride, Filagrio, Filumeno, Rufo, utilizzati ora mediatamente, ora direttamente, dall'originale. È evidente, da parte sua, lo sforzo compiuto per presentare con chiarezza le fonti destinate a illustrare i singoli argomenti; a tal fine egli spesso ne arrangia il testo, apportando piccole modifiche sufficienti a rendere maggiormente comprensibile il contenuto. Significativa, in questo senso, è la prefazione al primo libro sulla farmacologia; qui Aezio interviene su un brano di Galeno (De simplicium medicamentorum temperamentis et facultatibus) e, pur nel sostanziale rispetto della versione originale, opera alcuni accomodamenti di carattere sintattico, in modo da presentare in termini inequivocabili la fumosa teoria galenica sulla classificazione dei farmaci 'per gradi'. Egli, quindi, non esita a rimaneggiare opportunamente i testi o a integrarli con altre fonti, impiegando una tecnica compositiva non omogenea, ma variabile a seconda dell'occasione e del contesto.
Per struttura e finalità, il trattato di Alessandro di Tralle (525-605) noto con il titolo di Therapeutica si discosta dalle grandi enciclopedie; esso consiste, infatti, in una vasta raccolta di trattamenti terapeutici prescritti sulla base di sintomi morbosi riconducibili a patologie di tipo umorale e presentati secondo uno schema a capite ad calcem. L'opera, destinata a un pubblico di medici, pur nel rispetto delle teorie classiche (contraria contrariis curantur) presenta una varietà di terapie farmacologiche che rivelano, da parte dello scrittore, una conoscenza diretta e professionale della materia trattata. I metodi curativi non sono basati esclusivamente su assunti dottrinali astratti ma tengono sempre conto del reale rapporto con il malato; Alessandro, inoltre, non disdegna di integrare la tradizione terapeutica colta con suggestioni di carattere popolare e superstizioso e di ciò è una prova l'uso di amuleti, di cui egli si fa, per così dire, promotore.
Importante autore di un trattato medico di ampio respiro e di agevole lettura è Paolo di Egina, vissuto nel VII sec. e formatosi anch'egli ad Alessandria. Nel comporre i 7 libri della Epitome medica egli aspirava a offrire ai medici un comodo strumento di consultazione, che fornisse informazioni essenziali sulle patologie, sulle sostanze medicamentose, sulle cure e sulle tecniche chirurgiche, qualora le circostanze richiedessero un pronto e sicuro intervento terapeutico. L'opera, che ebbe grande fortuna presso gli Arabi, consiste in un'antologia pratica delle fonti più accreditate ‒ i classici, Oribasio ‒ con l'inclusione di dati e di osservazioni tratti dall'esperienza professionale dell'autore. Essa offre una sintesi del sapere medico del tempo: igiene, dietetica, patologia generale e febbri, patologia speciale a capite ad calcem, malattie della pelle, cosiddette esterne, tossicologia, chirurgia, materia medica. Famoso è il Libro VI, dedicato alla chirurgia, dove Paolo integra le notizie tratte dalle fonti classiche con alcune considerazioni dettate dall'esperienza e dalla pratica professionale.
Influenzato dall'opera di Paolo di Egina fu Paolo di Nicea, vissuto dopo il VII sec. e autore di un manuale medico tradizionale, dal punto di vista dottrinale, e diviso in 133 brevi capitoli che presentano, tutti, una struttura omogenea: a un incipit erotapocritico (svolgimento di un argomento sulla base di una serie di domande e risposte) fa seguito la trattazione dell'eziologia e della sintomatologia dell'affezione morbosa, quindi l'indicazione terapeutica adeguata. Da ricordare è anche un breve trattato di argomento ginecologico attribuito a Metrodora, che presenta richiami ora alla cultura popolare, ora alla medicina classica.
Sotto il nome di Teofilo ci sono pervenute molte opere di carattere diverso: brevi scritti di diagnostica, un commento agli Aphorismi di Ippocrate e un'opera in 5 libri di argomento anatomo-fisiologico intitolata De humani corporis fabrica. Nonostante questo, Teofilo rimane una pura entità bibliografica, un personaggio arduo da conoscere e da inquadrare storicamente (alcuni studiosi lo collocano nel VII sec., altri fra il IX e il X sec.). A questo nome è legato il trattato De urinis che ebbe una vasta circolazione durante il Medioevo e fu inserito, in traduzione latina, nel canone medico detto poi Articella (XII sec.). L'uroscopia godette di grande fortuna a Bisanzio, e la produzione in questo campo fu assai vasta; basti pensare alle omonime operette che vanno sotto il nome di Magno di Emesa (V-VI sec.), di un certo Stefano (VI-VII sec.?), fino ai trattati di Giovanni di Prisdrianna (XII sec.) e di Giovanni Attuario (XIV sec.). La tradizione manoscritta attribuisce a Teofilo numerosi altri scritti ‒ De excrementis, De pulsibus, De phlebotomia e De febribus, quest'ultimo pubblicato da Ideler sotto il nome di Palladio ‒ la cui paternità deve ancora essere stabilita con certezza; essi furono composti quasi sicuramente per finalità didattiche, nell'intento di offrire un agevole strumento di consultazione per i principianti, e sono quindi legati ad ambienti di scuola.
Durante l'epoca medio e tardo-bizantina, accanto ai trattati diagnostici furono prodotti svariati testi di uso strumentale: ricettari e calendari dietetici, come quello di Ierofilo, fedele alla tradizione dietetica ippocratica e gli scritti contenuti negli iatrosophía, codici che raccolgono letteratura medica di vario tipo, spesso anonima, destinati a un impiego pratico. In uno iatrosophíon del XIV sec., tramandato dal ms. Plut. 75, 19, conservato presso la Biblioteca Laurenziana di Firenze, si tramandano i già citati Apotherapeuticá, che, per iniziativa di un certo Teofilo, presentano testi provenienti da una biblioteca ospedaliera.
Una sintesi fra nozioni mediche classiche (Ippocrate, le Definitiones pseudogaleniche, il Liber de etymologiis corporis humani di Sorano) e dogmi cristiani (Basilio di Cesarea, Gregorio di Nissa, Nemesio di Emesa), è prodotta da Melezio Monaco (IX sec.?) con il trattato De constitutione hominis. Excerpta tratti dallo scritto di Melezio e composti secondo un metodo erotapocritico, formano il De natura hominum synopsis, attribuito a Leone Iatrosofista, vissuto sotto l'imperatore Teofilo (829-842). Leone sarebbe l'autore anche di un manuale medico in sette libri, Conspectus medicinae, o Synopsis, ove, nel rispetto della tradizione ippocratico-galenica, si presentano le patologie secondo l'usuale schema a capite ad calcem, e di ciascuna si offre una definizione semplice e l'indicazione di cause, terapie e, alcune volte, sintomi.
Teofane Nonno Crisobalante (X sec.) compose, su commissione dell'imperatore Costantino VII Porfirogeneta, tre scritti medici: un trattatello dietetico, un ricettario e un manuale medico, la Synopsis medica. Quest'ultimo consiste in una selezione da autori bizantini, il cui testo è opportunamente abbreviato o rimaneggiato, ed è strutturato in 300 brevi capitoli, ciascuno dei quali dedicato a un'affezione morbosa, di cui sono descritti sintomi, cause e trattamento terapeutico; l'ordine espositivo segue il tradizionale schema a capite ad calcem.
Una fonte importante per la storia delle dottrine dietetiche bizantine, oltre ai già citati calendari e ricettari, è il Syntagma de alimentorum facultatibus di Simone Set (XI sec.), in cui si elencano alfabeticamente gli alimenti comunemente diffusi e consumati nel territorio dell'Impero, e si fornisce una descrizione delle loro proprietà; sono inserite, nella lista, anche sostanze di provenienza araba e indiana (per es., il muschio e l'ambra). Set si distinse, fra i medici bizantini, per le sue posizioni 'eretiche' nei confronti delle auctoritates; egli è, infatti, l'autore di un libello, intitolato Antirrētikòs pròs Galēnón, in cui prende di mira il medico di Pergamo accusandolo di eccessiva verbosità e di mancanza di chiarezza concettuale.
Figura di spicco nel panorama culturale bizantino dell'XI sec. è Michele Psello, uomo di cultura versatile e curioso, scrittore prolifico, pensatore laico e antidogmatico. A lui si devono alcune operette di carattere medico, che non hanno pretese di scientificità ma testimoniano una buona conoscenza delle teorie più accreditate. Il Pónēma iatrikón offre una sintesi delle nozioni basilari dell'arte medica: definizione delle patologie, dietetica, semiologia, sfigmologia, uroscopia, febbri, elencazione delle malattie a capite ad calcem. Di Psello sono pure il De balneo, che descrive, in versi, l'efficacia dei bagni ai fini del mantenimento della salute, e un breve scritto dietetico, il De diaeta. Egli è poi l'autore di un lapidario, il De lapidum facultatibus, sull'efficacia terapeutica delle pietre preziose; vi sono raccolte informazioni di varia origine, alcune derivate dalla cultura popolare ma, per la maggior parte, attinte dalla tradizione classica.
Durante il periodo tardo-bizantino operarono personalità come Niceforo Blemmide, il cui contributo in campo medico non è ancora stato studiato in tutti i suoi aspetti; Demetrio Pepagomeno, medico personale dell'imperatore Michele VIII Paleologo (1259-1282) e autore di un trattato Sulla gotta degno di nota per la sua esaustività; Nicola Mirepso (XIII sec.), al quale si deve un ampio antidotario (Dynamerón) in 48 sezioni, che rivela l'influsso di un'opera dello stesso genere, scritta due secoli prima da Nicola, figura di spicco nella scuola salernitana.
Giovanni Attuario (1275 ca.-terzo decennio del XIV sec.) fu forse l'ultimo grande protagonista della storia della medicina bizantina. Egli visse una stagione intellettuale molto feconda: vicino al circolo di Massimo Planude, compì gli studi medici a Costantinopoli, dove, come ad Alessandria, fra il VI e il VII sec. l'apprendimento della medicina faceva parte di una più vasta educazione enciclopedica; in quanto studio del corpo umano, la medicina ineriva a una branca importante della filosofia, la scienza della Natura. Giovanni Attuario si dedicò con impegno e passione alla pratica professionale e, in questo campo, raggiunse i massimi onori, come testimonia il titolo di 'Attuario' che lo accompagna (dal XII sec. in avanti il titolo 'attuario' designa un medico dotato di alto grado, forse lo stesso medico di corte). Egli scrisse un manuale medico, De methodo medendi, in sei libri: i primi due sono dedicati alla diagnostica, il terzo e il quarto alla terapeutica, e gli ultimi due alla materia medica.
Suo è pure uno scritto di uroscopia, De urinis, in sette libri, composto, secondo quanto afferma l'autore stesso, per sopperire alle lacune lasciate in questo campo dai suoi predecessori. Basato sulle teorie galeniche e sull'esperienza diretta, il De urinis prende in esame le differenze di colori, consistenza e residuo presenti nelle urine, ed espone le valutazioni diagnostiche e prognostiche legate a queste varianti. Attuario compose poi il De spiritu animali, in due libri, che tratta dei rapporti fra lo pneuma psichico materiale e l'attività sensoriale e speculativa del cervello.
La medicina come 'scienza della vita': corpo umano, anatomia e fisiologia a Bisanzio
Le conoscenze anatomiche e fisiologiche dei medici e degli studiosi bizantini si basavano ‒ come si è detto ‒ essenzialmente sulle dottrine galeniche e costituivano l'oggetto di commenti o la materia di enciclopedie e compendi. Secondo la testimonianza del traduttore arabo Ḥunayn ibn Isḥāq (808 ca.-877), gli scritti anatomici che Galeno (De libris propriis liber, 93-94) aveva annoverato fra i trattati riservati ai 'principianti' (De ossibus ad Tirones, De venarum arteriarumque dissectione, De nervorum dissectione, De musculorum dissectione) entrarono a far parte del cosiddetto canone alessandrino, un catalogo di testi medici selezionati a uso scolastico, articolato in gruppi che dovevano riflettere i livelli successivi del percorso didattico. Allo stesso modo, nel canone erano incluse opere galeniche di argomento fisiologico, quali il De elementis ex Hippocrate, il De temperamentis e il De naturalibus facultatibus. La fortuna di cui godevano a Bisanzio le opere per principianti lasciava però spazio anche alla circolazione di scritti più complessi, per struttura e contenuto: è questo il caso del De usu partium corporis humani, ampiamente utilizzato dal medico e commentatore Teofilo nel trattato De humani corporis fabrica, con l'integrazione di citazioni ippocratiche e richiami neotestamentari. Del resto, se scarse sono le testimonianze della tradizione manoscritta galenica nella Tarda Antichità e nel periodo altobizantino, a partire dal X sec. in poi, e soprattutto nel XII, si moltiplicarono i manoscritti di opere del maestro di Pergamo.
Naturalmente Galeno non era l'unica fonte di riferimento, basti pensare all'ampia diffusione che ebbero i trattati di fisiologia pseudoippocratici, all'uso che Melezio fece di Sorano (I-II sec.), all'importanza che compendi e antologie (oggi perdute) ebbero ai fini della circolazione di excerpta celebri, dal punto di vista dottrinale e letterario, e al ruolo che svolsero, come collettori della tradizione antica, gli stessi enciclopedisti e trattatisti del IV, VI e VII secolo. è necessario, inoltre, ricordare che i Bizantini ritennero opportuno integrare le teorie mediche classiche con gli enunciati dottrinali cristiani; non è raro, infatti, che in una trattazione di carattere anatomico-fisiologico siano citati teologi e Padri della Chiesa quali Basilio di Cesarea, Gregorio di Nissa, Giovanni Crisostomo. In questo senso, il trattato De natura hominis composto da Nemesio, vescovo di Emesa nel IV sec., fornì un modello per le opere a carattere antropologico durante tutto il Medioevo, sia in Oriente sia in Occidente (fu tradotto infatti in latino, nel XII sec., da Burgundio di Pisa).
Nella maggior parte dei casi, i testi di medicina bizantini, dall'enciclopedia di Aezio di Amida fino alle epitomi di Paolo di Egina e alle opere di Paolo di Nicea e di Leone Iatrosofista, non dedicano molto spazio all'anatomia; alcuni fra i libri superstiti delle Collectiones medicae di Oribasio (XXIV, XXV) contengono descrizioni anatomiche presentate secondo un criterio a capite ad calcem; esse sono soprattutto tratte da Galeno (De usu partium corporis humani, De anatomicis administrationibus, De ossibus ad Tirones, De musculorum dissectione ad Tirones) e da altri autori quali Diocle di Caristo, Sorano di Efeso e Rufo di Efeso. In genere, gli scritti medici bizantini, soprattutto dal VII sec. in poi, privilegiano l'aspetto clinico e terapeutico dell'arte medica, coerentemente con la loro finalità orientata maggiormente verso la pratica che non verso la teoria. Nondimeno, anche in questo caso i testi si rivelano ricchi di informazioni in merito a quelle che erano le concezioni anatomico-fisiologiche più diffuse; in alcuni trattati di terapia, per esempio, l'autore giustifica l'adozione di una cura sulla base delle dottrine fisiologiche umorali (Alessandro di Tralle, Therapeutica); erano diffuse le operette di diagnostica ‒ Magno, De urinis; Teofilo Protospatario, De urinis e De excrementis; Giovanni Attuario, De urinis ‒ riguardanti i processi di formazione dei residui organici (urina, feci).
Dedicati quasi esclusivamente alla trattazione dell'anatomia e dell'anatomo-fisiologia umana sono tre trattati: il De humani corporis fabrica di Teofilo Protospatario, l'omonimo scritto di Melezio Monaco e, infine, il De natura hominum synopsis attribuito a Leone Iatrosofista (IX-X sec.). Gli autori, soprattutto Melezio Monaco, contemperano la tradizione medica classica (umoralismo ippocratico e anatomia ellenistica, da Sorano fino a Galeno) con lo spirito cristiano che celebra nel corpo umano l'opera perfetta e provvidenziale del Creatore. Del resto, essi attingono senza imbarazzo alle descrizioni galeniche; l'ammirazione espressa dal medico di Pergamo per la perfetta opera del demiurgo, richiama infatti idealmente, nei suoi accenti, le lodi che sono tessute dai cristiani all'indirizzo di una divinità unica e infinitamente sapiente nonché provvida.
Le opere finora elencate non sono, ovviamente, sempre accomunabili per uniformità dottrinale. Rari sono i testi bizantini che presentano trattazioni originali: spesso, infatti, il compilatore o il trattatista affida all'auctoritas prescelta il compito di interpretare la sua personale posizione; tuttavia, è possibile isolare alcuni assunti dottrinali di carattere generale che, in qualche modo, rappresentano i fondamenti teorici della medicina bizantina. Alla base delle dottrine anatomo-fisiologiche vi è il sistema tetradico di relazioni fra elementi/qualità/umori/parti del corpo che aveva dominato l'Universo fisico dei Greci, dalle cosmogonie dei filosofi ionici fino alle sintesi dottrinali dell'aristotelismo tardo-antico (vedi v. I, La scienza greco-romana). In questo sistema, la sostanza materiale del corpo umano e delle sue componenti è costituita da quattro umori (sangue, bile gialla, bile nera, flegma) e dal prodotto delle loro combinazioni e trasformazioni. Ogni umore, così come ogni elemento primo dell'Universo, è contraddistinto da una coppia di qualità (aria/caldo umido/sangue; fuoco/caldo secco/bile gialla; terra/freddo secco/bile nera; acqua/freddo umido/flegma). Gli umori/qualità, mescolati e combinati adeguatamente secondo una giusta proporzione o temperamento (krãsis), scorrono nel corpo e nelle sue parti, le quali si distinguono in parti omeomere (tessuti quali carne, grasso, ossa, cartilagine e sostanza costitutiva dei visceri), e parti anomeomere (organi intesi come aggregazioni non omogenee di tessuti). Di esse, quindi, gli umori sono al contempo materia e nutrimento.
In ogni organismo e in ogni parte prevale normalmente un umore su tutti gli altri; questo si verifica per una disposizione naturale, 'congenita', a cui si aggiungono variabili individuali ‒ quali età e sesso ‒ e fattori climatici e stagionali. Il temperamento proprio a ogni corpo (krãsis) si riflette chiaramente in caratteri fisiognomici evidenti (capelli, occhi, colorito, corporatura); d'altra parte, anche le singole parti presentano peculiarità morfologiche differenti a seconda del loro stato umorale (Paolo di Egina, che riporta Galeno, Epitome, I). Attingendo alle opere di Galeno che trattano di temperamenti e descrivono le caratteristiche anatomiche di un corpo 'secondo natura' (per es., l'Ars medica), gli autori bizantini ripropongono dunque l'assunto secondo il quale la buona salute coincide con l'eukrasía, la giusta temperanza degli umori (Oribasio, Synopsis, V, 43): un organismo si definisce eúkratos quando presenta una via di mezzo qualitativa fra gli estremi e dispone di eccellenti funzioni fisiche e psichiche (Paolo di Egina, Epitome, I, 60, e Melezio, De constitutione hominis, 47). La krãsis individuale, infatti, non deve alterarsi e oltrepassare i limiti di una norma, in realtà difficilmente quantificabile: qualora la soglia del katà phýsin ('secondo natura') sia superata e si verifichi un eccesso anormale, insorgono alterazioni patologiche.
Il funzionamento del corpo umano, così temperato e composto, ha come presupposto l'esistenza di tre grandi aree o sistemi, corrispondenti a tre organi vitali, che sono definiti principî (archaí) del corpo (Teofilo, De humani corporis fabrica, IV): il cervello, che è in relazione con i nervi, il cuore, che è in relazione con le arterie, e il fegato, che è in relazione con le vene. Anche se i testi non vi accennano esplicitamente, questa tripartizione presuppone, dal punto di vista dottrinale, e coerentemente con quanto aveva affermato Galeno, l'esistenza di tre anime che presiedono alle funzioni psichiche e organiche (Melezio, De constitutione hominis, 25-26, parla di tò logistikón, tò thymikón, tò epithymētikón e ne mette in risalto la sfera di azione in campo psichico ed etico). I tre organi principali possiedono, ciascuno, facoltà (dynámeis) specifiche e peculiari: esse rappresentano la potenziale capacità della parte di espletare funzioni biologiche (enérgeiai) indispensabili alla vita. Alcuni autori (Teofilo, Melezio, Leone) ne individuano tre tipi distinti: le facoltà psichiche (cinetica, percettiva), proprie del cervello; le facoltà vitali o somatiche (pulsatile, pneumatica), connaturate al cuore; infine, le facoltà naturali (nutritiva, accrescitiva, alterativa, attrattiva, ritentiva, espulsiva), che hanno sede nel fegato e, in generale, nell'apparato digerente, e sono necessarie a tutti gli organi per l'assimilazione degli umori nutritivi. Questa tripartizione riecheggia, in certo qual modo, lo schema galenico anima/vita/Natura. Gli organi esplicano tali specifiche facoltà in relazione alle proprie peculiarità umorali e sostanziali (la sostanza del cervello, per es., simile a quella dei nervi, ma più molle, riceve tutte le sensazioni, rappresenta le immagini, concepisce i pensieri) e grazie anche al ruolo svolto dal pneuma. Il pneuma psichico rende possibile, tramite i nervi duri e molli, la trasmissione dal corpo al cervello e dal cervello al corpo delle sensazioni e degli ordini che permettono il movimento volontario; il pneuma vitale raffredda il calore innato, e infine il pneuma naturale consente la 'cozione' (pépsis), quindi la digestione e l'assimilazione degli alimenti (Teofilo, De humani corporis fabrica; Giovanni Attuario, De spiritu vitali).
Pur nella loro apparente diversità, le descrizioni anatomofisiologiche dell'apparato digerente e cardio-respiratorio ‒ offerte, per esempio, da Oribasio (Collectiones, XXIV, 11-15) e da Teofilo (De humani corporis fabrica, II, III) ‒ hanno in comune il fatto di ricalcare i luoghi galenici, abbreviandoli, però, e semplificandoli. Esse rendono conto delle strutture dei vari organi e di alcuni processi di particolare rilievo nel sistema dottrinale medico classico, quali la doppia 'cozione' degli alimenti, nello stomaco e nel fegato, la formazione dei quattro umori e dell'urina, la differenziazione di contenuto di vene e arterie.
La nozione di malattia e la patologia nei trattati sulle affezioni morbose
Le fonti a cui gli autori bizantini attingono per la trattazione delle affezioni morbose sono quelle classiche e tardo-antiche (frequente, in questo senso, è l'utilizzazione degli scritti del Corpus Hippocraticum), ma in realtà è Galeno che fornisce l'impianto di riferimento della teoria patologica (per es., Ad Glauconem de methodo medendi, De febribus, De crisibus, De locis affectis, In Hippocratis aphorismos commentarii, Ars medica). Nella letteratura medica bizantina non mancano, poi, ampi brani tratti da opere di Archigene, Filagrio, Sorano, Rufo di Efeso, Areteo di Cappadocia, che riguardano specifiche affezioni morbose.
Per quanto riguarda il concetto di malattia, è bene specificare che le teorie patologiche espresse in molte opere mediche bizantine (le enciclopedie, alcuni trattati) non sono altro che quelle contenute negli excerpta che le compongono; spesso, infatti, l'apporto personale del compilatore non è tale da modificarne il contenuto dottrinale anche se accade che l'autore allarghi il proprio margine di intervento, riassumendo o interpretando liberamente il pensiero delle auctoritates. Com'è prevedibile, le dottrine sulla genesi e lo sviluppo delle affezioni morbose, che dai Bizantini furono accolte, letteralmente riproposte o riadattate, si basano su assunti sostanzialmente coerenti con i dettati ippocratico-galenici: l'equilibrio fra i quattro umori del corpo (sangue, flegma, bile gialla, bile nera) denota la salute fisica; al contrario la krãsis perturbata degli stessi, vale a dire la dyskrasía, causa l'insorgenza delle affezioni morbose.
Nella dyskrasía umorale, che è uno stato contro natura, risiede la causa prima, l'origine (génesis) della malattia, la sua essenza e ragione di essere (generalmente concorda con questa teoria la maggior parte degli scrittori medici bizantini). La dyskrasía si produce in seguito all'interazione fra un fattore interno (la costituzione individuale innata segnata da un temperamento) e un fattore esterno, occasionale (clima, regime alimentare, ciclo sonno/veglia, fatiche, passioni, traumi meccanici); il corpo, sopraffatto da sostanze che non riesce ad assimilare, 'cuocere', espellere, registra un acuirsi della sua disposizione umorale oltre il limite naturale e, di conseguenza, cade malato. L'umore o gli umori perturbati, crudi e in eccesso, vagano per il corpo mischiati al sangue, oppure si spostano da un organo all'altro, mutano consistenza, provocano esalazioni gassose, si depositano e ristagnano nei tessuti al di fuori dei vasi.
Non si ammala solamente l'organismo, nel suo insieme, in seguito alle affezioni che derivano da un generale squilibrio degli umori; si ammalano anche le parti omogenee e le parti organiche. A provocarne la patologia possono essere: una dyskrasía locale; l'effetto di una reazione simpatetica scatenata dall'affezione di un organo contiguo; un afflusso anormale di umori, a cui si accompagnano anomalie morfologiche e variazioni di stato che, spesso, del perturbamento umorale sono diretta conseguenza; infine, traumi e lesioni. Colpita dalla patologia, la parte diviene incapace di espletare le sue funzioni (dynámeis).
Oltre che un suo spazio (l'intero organismo, una singola parte), la malattia ha un suo tempo (quello in cui l'organismo reagisce all'evento morboso); essa infatti presenta un inizio (archḗ), un accrescimento (aúxēsis) e, soprattutto nelle affezioni febbrili, accessi acuti (paroxysmoí), i quali, a loro volta, hanno una fase di crescita e una di decrescita e il cui intensificarsi, prolungarsi o acutizzarsi è sintomo dell'evolvere della malattia verso il punto culminante (akmḗ), durante il quale ha luogo la crisi (krísis). La crisi può essere buona, e in questo caso è segnata dalla cozione degli umori nocivi che hanno determinato l'evento morboso, o, al contrario, cattiva e condurre il paziente alla morte. La fase calante della malattia è chiamata parakmḗ (enciclopedisti, Alessandro di Tralle).
Accanto alla valutazione del processo eziopatogenetico, un fattore essenziale per l'individuazione della malattia in quanto entità è rappresentato dalla manifestazione sintomatica a essa pertinente. In linea con la tradizione ippocratico-galenica, l'evento patologico assume i connotati di una sindrome, vale a dire di un fenomeno contraddistinto da una serie di sintomi peculiari, dalla cui corretta interpretazione dipendono diagnosi e prognosi. L'insorgenza di sintomi specifici segnala quindi le affezioni morbose, il medico li esamina clinicamente (osservazione esterna del paziente, valutazione di urine, feci, misurazione del polso) e imposta di conseguenza le terapie necessarie. Le fonti mediche bizantine dedicano ampio spazio alla descrizione e alla classificazione di tali affezioni. Non di rado gli autori espongono la materia a esse inerente, strutturandola e suddividendola in due sezioni distinte, di diversa estensione; la prima è dedicata a principî teorici di diagnostica e di patologia, e alla trattazione di malattie, in particolare le febbri, causate da una dyskrasía generalizzata di tutto l'organismo; la seconda, in genere più ampia, ospita l'elencazione di patologie che interessano in maniera speciale le singole parti. La classificazione nosologica di queste ultime può essere attuata in base a criteri differenti, per esempio, la natura del fenomeno morboso (durata del decorso e modalità di guarigione, in quanto valutazioni diagnostiche e prognostiche che creano la categoria di malattia acuta e malattia cronica), o la sua sede (esposizione a capite ad calcem, usuale negli enciclopedisti, o suddivisione in malattie interne e malattie esterne, come nella Epitome di Paolo di Egina). Le patologie sono così riunite in gruppi comuni, e, grosso modo, omogenei, a formare delle sottosezioni; di solito, la sezione dedicata alla 'patologia speciale' comprende, oltre alla definizione della malattia e all'elencazione dei sintomi a essa pertinenti, anche l'esposizione dei relativi rimedi terapeutici.
La medicina come 'arte della guarigione': clinica, diagnostica, prognostica e terapie
L'osservazione dei segni e dei sintomi morbosi definisce e qualifica l'arte medica classica e bizantina. Gli escrementi ‒ sudore, sputi, urine, feci, vomito ‒ rappresentano la manifestazione più evidente dello stato in cui versano le varie parti del corpo; infatti, gli umori in eccesso e la dyskrasía delle parti contribuiscono ad alterarne la consistenza e il colore, cosicché l'esame di questi ultimi due aspetti può rivelare la presenza di una patologia. Oltre all'anormalità degli escrementi, che si manifesta secondo tipologie diverse nelle differenti patologie, il medico deve tenere conto di altri indicatori, quali tempo, dolore, posizione e pulsazioni. I Bizantini quindi approfondirono la semiotica clinica in tutti i suoi aspetti; in questo senso, l'osservazione e lo studio delle urine, delle feci, l'esame del polso e il calcolo dei giorni critici, in funzione diagnostica e prognostica, costituiscono un carattere distintivo dello sviluppo della scienza a Bisanzio.
Né Ippocrate né Galeno avevano dato vita a una dottrina uroscopica fornita d'indipendenza, nonostante il fatto che i Bizantini traessero proprio da queste due auctoritates il nucleo della loro teoria urologica. Lo spazio dedicato alla trattazione di argomenti uroscopici si andò gradualmente allargando, a partire dal VI-VII sec.; infatti, mentre i grandi enciclopedisti ‒ Oribasio, Aezio, Paolo di Egina ‒ si limitarono a inserire un capitolo di semiotica delle urine nei loro grandi compendi, Magno (V-VI sec.) e l'autore dello scritto uroscopico contenuto nel ms. gr. 2260, conservato nella Bibliothèque Nationale di Parigi, resero l'uroscopia oggetto di trattazioni indipendenti.
Il trattato De urinis, attribuito a Teofilo, ha l'aspetto di un manuale volutamente sintetico e di facile consultazione; così come il De excrementis, esso si distingue per una struttura grammaticale semplice, un vocabolario limitato e ripetitivo e l'uso della tecnica espositiva erotapocritica. Entrambi sono scritti destinati a un uso scolastico e finalizzati a rendere più agevole l'apprendimento delle nozioni in essi contenute. Composero scritti di uroscopia anche Giovanni di Prisdriannie e Giovanni Attuario; quest'ultimo dedicò alla diagnostica i primi due libri del suo manuale terapeutico. Secondo quanto si legge nel trattato attribuito a Teofilo, l'urina si può valutare a partire da quattro parametri fondamentali: la consistenza (sýstasis), la colorazione (chroiá), il tempo di modificazione (chrónos) e il sedimento (hypóstasis). I fattori da tenere in considerazione per l'analisi dei sedimenti sono: la consistenza, il luogo (tópos), il tempo di modificazione e la colorazione. Le feci presentano anch'esse tipologie differenti; esse possono variare per qualità e per colore e possono fornire indicazioni utili per diagnosticare una patologia in corso (De excrementis).
Anche la sfigmologia fu una branca della medicina molto praticata a Bisanzio; il trattato galenico De pulsibus ad Tirones era, non a caso, fra i quattro testi isagogici (insieme ad Ars medica, De sectis, Ad Glauconem de methodo medendi) inseriti nel curriculum alessandrino.
Nella tradizione ippocratica, la dieta, per i sani e per gli ammalati, rispondeva all'esigenza di trovare un modo di conservare la salute o di ristabilirla, quando fosse compromessa. Del resto, l'alimentazione costituiva soltanto un aspetto di un regime complessivo di vita che prevedeva il rispetto di una serie di pratiche igieniche che andavano dai bagni all'esercizio fisico, ciascuna delle quali con un preciso effetto sulle qualità dell'organismo. Coerenti con la tradizione ippocratico-galenica, i Bizantini basano la loro dietetica medica sulla dottrina umorale: ogni singola sostanza alimentare, di origine animale, vegetale o minerale, in quanto parte di un 'macrocosmo' formato da elementi/qualità, è dotata di proprietà specifiche, capaci di correggere gli squilibri umorali e qualitativi di segno contrario all'interno del corpo umano (microcosmo). Secondo il principio contraria contrariis curantur, l'equilibrio si ristabilisce con l'uso di alimenti o di farmaci adatti, che producono o riducono la formazione di umori.
La dieta per i sani prevede trattamenti personalizzati; il medico, infatti, deve tenere conto della krãsis individuale, dell'età, del sesso e, infine, delle variazioni stagionali che possono provocare alterazioni qualitative e umorali: dalla considerazione di questo ultimo fattore sono nati, a Bisanzio, i calendari dietetici. I regimi terapeutici per gli ammalati, considerano, invece, la natura della patologia e gli eventuali umori in essa coinvolti, al fine di presentare un'adeguata selezione qualitativa degli alimenti e della materia medica. Quest'ultima, così come appare dagli elenchi contenuti nei testi medici bizantini, conta sostanze di origine animale (mammiferi, uccelli, pesci, rettili, anfibi, insetti, crostacei, molluschi), vegetale (piante, di cui si usano le foglie, i semi, le radici; frutti, cereali, spezie), e minerale (sali, terre, metalli, pietre). Spesso una stessa sostanza (per es., l'orzo) può trovare impiego sia come alimento sia come medicamento.
La farmacologia bizantina attinge nozioni e teorie da un patrimonio testuale che include il De materia medica di Dioscuride e i trattati galenici De simplicium medicamentorum temperamentis et facultatibus (11 libri), De compositione medicamentorum secundum locos (10 libri), e De compositione medicamentorum per genera (7 libri). Sarebbe però riduttivo affermare che i medici bizantini si siano limitati a ricopiare pedissequamente antichi elenchi, senza apportarvi nessun contributo originale; al contrario, essi introdussero nuove sostanze farmacologiche di sicura e provata efficacia e semplificarono teorie tradizionali troppo fumose per servire alla quotidiana pratica professionale.
Gli enciclopedisti e i trattatisti bizantini hanno spesso inserito, nelle loro opere, anche parti dedicate alla chirurgia; così hanno fatto, per esempio, Oribasio (Collectiones, XLIV, XLV, L, LI) e Aezio, ma è con Paolo di Egina che questa disciplina ricevette una trattazione, se non autonoma, completa ed esauriente. Il Libro VI dell'Epitome è il risultato, infatti, di un'accurata ricerca testuale e dottrinale e di un'attenta osservazione diretta; l'autore vi inserisce quel 'piccolo numero di cose' viste e sperimentate durante la pratica professionale alle quali accenna nella prefazione dell'opera. Notevole è il numero di procedimenti chirurgici che Paolo descrive: cauterizzazioni, arteriotomia, estrazione dentaria, tonsillectomia, tracheotomia, incisione degli ascessi, trattamento degli aneurismi tramite legatura, trattamento di fratture e di lussazioni e molti altri ancora. Anche in questo caso, quindi, la medicina bizantina rivela un carattere composito: da una parte, essa rappresenta la 'scienza della vita', rivolta allo studio di molti fra gli aspetti che compongono la natura umana; dall'altra, è invece una tecnica raffinata che interviene quando la malattia alteri in maniera innaturale la meravigliosa e divina armonia del corpo.
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