Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
A lungo valutato negativamente dagli storici della scienza, il sapere scientifico e tecnico dei Romani è oggetto di una recente revisione storiografica. Penalizzata da una letteratura poco propensa a sottolineare il valore conoscitivo dei saperi tecnici, la pratica della scienza portata a maturazione nel lungo periodo storico che ha visto l’affermazione e il dominio di Roma nel Mediterraneo deve essere indagata non solo attraverso le fonti letterarie, ma guardando anche a reperti archeologici, monumenti ed epigrafi. Ne scaturisce un quadro assai dinamico, caratterizzato da modelli di comportamento tecnico di notevole livello.
La tenacissima tesi storiografica della stagnazione tecnologica, ovvero la valutazione fortemente negativa nei confronti delle conoscenze scientifiche maturate nell’antichità e in modo particolare nel mondo romano, ha messo d’accordo storici della scienza e della filosofia, antichisti e archeologi che per molto tempo hanno dibattuto circa le cause che avrebbero originato questa situazione. Partendo dal presupposto del blocco tecnologico, la storiografia novecentesca si è concentrata per lungo tempo sull’insieme di fattori che avrebbero portato ad una marcata incapacità di coniugare tecnologia, economia e scienza. A ben vedere, fino alle soglie dell’età moderna e della rivoluzione industriale la civiltà greco-romana è stata vista con ammirazione e considerata un modello da imitare anche dal punto di vista delle conoscenze tecnico -scientifiche. Si guardava infatti con rispetto alla cultura letteraria, si studiavano le opere d’arte e le forme architettoniche, il diritto romano costituiva la base della giurisprudenza degli stati europei. Nel Rinascimento il trattato di Vitruvio era divenuto un banco di prova per umanisti e artisti che assieme lo avevano tradotto e illustrato, i testi dei meccanici di Alessandria costituivano la base teorica per lo studio delle meccaniche fino a Guidobaldo e le opere di Archimede erano state raccolte e date alle stampe. Nel Cinquecento gli agronomi latini costituivano ancora la base della conoscenza delle scienze agrarie e sul continente americano al tempo di George Washington era suggerita agli impresari terrieri la lettura delle traduzioni inglesi dei loro scritti; tra questi, l’opera di Columella resterà ovunque insuperata fino all’avvento dell’agricoltura moderna caratterizzata dall’impiego di prodotti chimici per vincere le malattie delle piante.
Figlia del positivismo, la tesi della stagnazione scaturisce dalla convinzione che l’antichità tutta, riunita in un blocco temporale della durata di oltre 2000 anni, non abbia contribuito che in minima parte alla straordinaria e progressiva storia dell’umanità, fatta di scoperte e invenzioni. In un contesto comunque incline a riconoscere la grandezza della cultura greca e romana, non si capisce come mai proprio in questo settore gli antichi abbiano maturato una sorta di blocco psicologico. Al dibattito scaturito attorno alle ragioni di questo mancato sviluppo hanno partecipato studiosi del calibro di Diels, Schuhl, Koyré, Farrington e tanti altri che, sostanzialmente, accertano l’incapacità di concepire un’idea di progresso simile alla nostra, un’eccessiva presenza di manodopera a basso costo e il conseguente scarso interesse delle classi abbienti ad investire in macchinari, nonché il mancato rapporto tra scienza e istituzioni, preoccupate dalle novità che sarebbero potute scaturire a livello sociale dalla diffusione di invenzioni e innovazioni.
Con l’autorevolezza che caratterizza i suoi studi, Koyré afferma, inoltre, che gli antichi non potevano sviluppare una civiltà delle macchine anche perché incapaci di compiere calcoli complessi, necessari per lo sviluppo della scienza. Il riepilogo di queste posizioni è stato compiuto da William Sthal che nel 1962 ha pubblicato il solo testo ancora oggi esistente interamente dedicato al mondo romano, dal titolo Roman science. L’autore, che aderisce alla tesi della stagnazione tecnologica, sostiene che sarebbe opportuno non parlare di scienza romana, ma di un prolungamento inconcludente delle ricerche prodotte dai Greci.
È interessante osservare che la tesi della stagnazione tecnologica non ha incontrato solo il favore degli storici della scienza, ma anche l’appoggio di storici dell’economia, antichisti e archeologi almeno fino alla seconda metà del Novecento. Sul dibattito ha avuto un peso determinante la figura dello storico Moses Finley, autore di monumentali studi sul mondo del lavoro. Per Finley la tecnologia meccanica dei Romani non innova e non produce, è un fenomeno marginale per la mancata connessione tra scienza e tecnologia dovuta alla presenza di schiavi in eccesso, motivo sufficiente per non avere interesse alcuno ad incrementare la produzione con macchinari e tecnologie innovative. Considerando il problema secondo un metro tipicamente moderno, seppure disposti ad ammettere l’esistenza di qualche macchina, gli storici dell’economia ne bocciano l’impatto sulla società in quanto non vi sarebbe stata influenza alcuna sulla resa produttiva. Pertanto non vi sarebbe stata scienza applicata, le invenzioni non avrebbero portato innovazione e l’economia sarebbe rimasta stagnante proprio a causa del mancato legame tra scienza, tecnologia e economia.
Un importante mutamento di prospettiva è scaturito dall’affermazione, anche in Italia, di un metodo d’indagine basato su una maggiore attenzione nei confronti della cultura materiale, mirando così a valorizzare quelle conoscenze che, non avendo avuto il loro storico, non sono state registrate all’interno di testi. Come nella storia delle arti e di tutta la civiltà antica, anche queste indagini hanno dovuto sgomberare il terreno da una storiografia che ha effettuato classificazioni inquadrando le varie epoche non per quello che sono state, ma come momento preparativo o successivo rispetto a un classico periodo aureo. Tra gli studi più importanti all’insegna della nuova corrente storiografica il lavoro sui mulini ad acqua nel mondo romano (Exploitation of Water Power, or Technological Stagnation?, 1983) nel quale Orjan Wikander sottolinea come, benché fonti letterarie e archeologiche attestino l’esistenza di questa tecnologia e il suo utilizzo a partire almeno dal I secolo a.C., i più ne hanno invece attribuita la comparsa all’alto Medioevo, ciò che poteva attribuirsi solo ad impostazioni preconcette che impedivano di vedere le prove del contrario.
In linea generale, la ricerca storico-archeologica compiuta dagli anni Settanta del secolo scorso in poi, valorizzando documenti come reperti archeologici, papiri e iscrizioni, ha contrastato e smentito l’immagine del blocco tecnologico con il relativo modello economico.
Questo non significa che le fonti letterarie abbiano perduto importanza, ma è un dato di fatto che oggi abbiamo da un lato ottime edizioni filologiche dei classici che sono in circolazione da tempo e dall’altro l’archeologia, i cui ritrovamenti sono in continua crescita; sebbene il dato archeologico sia legato al caso e talvolta incompleto, sono proprio reperti, iscrizioni e iconografia a darci nuovi spunti ed elementi di discussione. In costante aumento, i ritrovamenti archeologici ci mettono davanti a fatti concreti che occorre interpretare.
D’altro canto, è anche corretto osservare che la posizione marginale della tecnologia, la bocciatura verso la non intellettualità di questo tipo di conoscenza e il disprezzo nei confronti delle classi sociali dedite al lavoro manuale non sono un’invenzione dei moderni, ma argomenti già espressi da autorevoli scrittori antichi. Infatti, sono stati gli stessi autori classici a rendere invisibile il sapere dei tecnici, relegandolo agli ultimi posti della scala sociale. Vale la pena ricordare che Platone non avrebbe dato sua figlia in sposa a un meccanico e che secondo Aristotele la schiavitù era necessaria dal momento che ancora non si era imparato a fabbricare telai in grado di funzionare da soli; per Cicerone essere artigiano non si conciliava per niente con l’essere romano, dal momento che si trattava di occupazione bassa e vile. Seneca, dal canto suo, dichiarava che il lavoro dell’artigiano non ha niente a che fare con le qualità dell’uomo per bene.
In direzione opposta vanno l’incredibile quantità di manufatti che l’archeologia ha in parte restituito e l’iconografia antica, con le insegne di bottega e le lapidi funebri che sono illuminanti per comprendere come gli artigiani percepiscono e rappresentano se stessi. Ai colti ed eruditi che si fanno ritrarre col rotolo o con gli strumenti per la scrittura, artigiani e tecnici oppongono insegne di bottega e lapidi tombali che spesso raffigurano strumenti e dispositivi impiegati in vita. La tomba del fornaio Virgilio Eurisace sulla via Appia con le balle di farina e la gigantesca bilancia in bella evidenza e quella di T. Haterius con in primo piano la macchina portentosa con cui il defunto ha costruito imponenti e noti monumenti di Roma, costituiscono due casi esemplari di identificazione con l’attività lavorativa svolta cui allude proprio l’orgogliosa raffigurazione degli apparati meccanici utilizzati. Del resto, la rappresentazione di scene di lavoro è un fenomeno che non riguarda solo i privati, trovandosene un esempio importante anche in un monumento pubblico come la colonna Traiana dove, nel raccontare per immagini i successi dell’esercito romano, sono state raffigurate scene di costruzione di accampamenti e ponti, di disboscamento e azioni militari caratterizzate dalla presenza di macchine belliche, al fine di evidenziare il divario tecnologico tra Roma e gli altri. L’analisi combinata dei documenti archeologici e letterari sembra quindi indicare che saperi pratici ed elaborazioni teoriche conseguenti all’impiego di tecnologie sempre più avanzate non sono estranee alla società romana. Ovviamente non dobbiamo considerare centro e periferia come una realtà omogenea: al momento della massima espansione la superficie dell’Impero è calcolabile in 6 milioni di km², con circa 100 mila km di strade con ponti per una popolazione, nel II secolo, approssimativamente valutabile attorno ai 60 milioni di abitanti.
Le caratteristiche regionali sono note e sfruttate: vocazione agricola per Egitto e Spagna, metallurgica per Spagna, Gallia e Britannia. In uno scenario così ampio, è possibile individuare alcuni modelli di comportamento che hanno molto a che fare con la tecnologia. Basta pensare al modello urbano, cioè alla fisionomia della città romana esportata ovunque con i suoi colonnati, il foro, le terme, l’anfiteatro, l’acquedotto a arcate. Tra l’altro, proprio in questo settore è emblematico il caso del già citato Q. Haterius, appaltatore dell’anfiteatro Flavio e di altri edifici importanti di Roma, il quale investe in tecnologia, ovvero in macchine per risparmiare manodopera e accelerare i tempi della costruzione. Inoltre, la famiglia degli Haterii è legata al collegio dei fabri tignarii, a sottolineare il vincolo tra costruzione di macchine da cantiere e corporazioni di falegnami. In una società propensa a ricordare il committente e non l’esecutore, dal II secolo in poi sono molti gli architetti che lasciano il proprio nome sugli edifici che costruiscono, identificandosi con orgoglio con le loro realizzazioni, destinate a sopravvivere alla durata della loro vita terrena.
Un altro modello di comportamento, decisamente dinamico, è legato alla tecnologia agricola. Nei torchi e nelle presse per il vino e l’olio la ricerca verso il perfezionamento dei macchinari e la resa produttiva migliore è costante: agli studi sulle macchine si collegano anche le indagini relative ai contenitori, che mutano forma e capacità al fine di perseguire il migliore rapporto peso/dimensioni. Anfore etrusche e greco -italiche e le numerose varianti di Dressel indicano un’attenzione costante verso la fisionomia ottimale dei contenitori e, di riflesso, anche nei confronti dell’architettura delle imbarcazioni che quei recipienti avrebbero trasportato in lungo e in largo nel Mediterraneo. A fare da cornice a questo quadro la produzione di una serie di opere, scritte da Catone, Varrone, Columella e Palladio, nelle quali è possibile rinvenire il quadro di riferimento intellettuale entro il quale l’agronomia romana si muove.
Un terzo modello tecnologico è quello “idraulico”.
Gli scavi archeologici mostrano, dal vallo di Adriano al deserto della Libia, un articolato sistema di drenaggio, raccolta e distribuzione delle acque per l’agricoltura, per usi domestici e per meccanizzare attività lavorative. Un’iscrizione dalla Tunisia risalente al I secolo ricorda un personaggio che si vanta di essere stato il primo a importare la viticoltura in quella regione, sostenendo per questo gli alti costi per l’approvvigionamento di acqua. La fertilità proverbiale dell’Egitto non deriva solo dalle note piene del Nilo, ma da uno straordinario sistema di irrigazione e canali dotato di dispositivi meccanici notevoli: dal semplice shaduf alla vite di Archimede, dalla noria alla ruota a secchi. Nel III secolo a.C. un cleruco di Apollinopolis di nome Philotas dichiara di disporre di una macchina (mechané) capace di restituire fertilità alla Tebaide devastata da anni di piena insufficiente del Nilo. Vi sono poi prove eclatanti, documentate a livello archeologico e letterario, di tecnologia avanzata e concretamente applicata a impianti produttivi su vasta scala.
Plinio il Vecchio (Nat. Hist., XVIII, 97) parla di un procedimento per sgranare e triturare il grano adoperando pestelli meccanici; è ben noto il sistema dei mulini a ruote multiple a Barbegal, vicino Arles in Francia, caratterizzato dalla presenza di due settori simmetrici divisi da una scala centrale, edificati alla base di un pendio in posizione ottimale per l’impiego mirato della forza idraulica: scendendo dall’acquedotto costruito alla sommità della collina l’acqua è incanalata all’interno dell’edificio dove, tramite due condotte forzate discendenti, va ad azionare otto coppie di ruote a pala. Tracce di impianti a ruote multiple si sono trovate anche in Portogallo e nella Tunisia settentrionale. In un passo del poema La Mosella (vv. 362-364) Ausonio descrive mulini e macchine per tagliare il marmo entrambi azionati dalla forza dell’acqua; sul sarcofago (III secolo) di un membro della corporazione dei costruttori di ruote idrauliche di Hierapolis, in Frigia, vi sono l’iscrizione che ricorda il defunto e l’immagine di un dispositivo meccanico con doppia sega idraulica per tagliare materiali litici: il moto dipende dalla rotazione di una grande ruota a pale azionata dall’acqua corrente come nei mulini, mentre due ruote dentate e altrettante leve azionano le lame all’interno di una struttura lignea per tagliare le pietre.
Queste poche testimonianze sottolineano l’esistenza e l’uso diversificato di macchine da lavoro azionate dall’acqua nel mondo romano.
Non a caso, in molti autori latini tra la fine della repubblica e l’età imperiale proprio il saper costruire macchine diviene un segno distintivo, di cui l’uomo romano è pienamente cosciente, tra chi possiede un livello di civiltà e chi ne è escluso. Quando Cesare decide di attraversare il Reno perché i Germani pretendono di fissare i confini di Roma, cosa non accettabile, egli è al corrente del fatto che esiste una ricca tradizione di ponti di barche ottimi per passaggi momentanei, ma non la ritiene soluzione confacente alla dignitas del popolo romano (De bello gallico, 4, 17): “Per queste ragioni che ho ricordato Cesare decise di attraversare il Reno ma riteneva che attraversarlo con imbarcazioni non fosse sicuro e conforme al prestigio suo e del popolo romano”. La costruzione di ponti non ha solo uno scopo pratico, ma simboleggia anche uno standard tecnologico e culturale sconosciuto ai barbari. Nonostante le difficoltà dovute alla larghezza del fiume, alla velocità delle acque e alla profondità delle acque, Cesare decide di fare costruire il ponte, completato con l’apporto di machinationes in soli dieci giorni: resta nel territorio dei Germani per 18 giorni e, ritenendo di avere dato la dimostrazione che voleva, lo distrugge e torna in Gallia. Aprendo una via dove esisteva un ostacolo posto dalla natura, il ponte crea un nuovo ordine, presupposto per la romanizzazione di quegli spazi.
Riferendo le vicende delle guerre germaniche del I secolo, Tacito (Storie, 4, 30) descrive i goffi tentativi dei Batavi di costruire una torre da assedio: “I Batavi, costruita una torre a due piani, l’avevano trascinata presso la porta pretoria dove il terreno non era piano. Investita da un robusto scuotere di pali e travi, cadde a pezzi con la rovina di quanti vi stavano sopra”. In un passo in cui cita invece i Parti (Annali, 12, 45), Tacito dichiara che nihil tam ignarum barbaris quam machinamenta. Questi due episodi chiariscono il pensiero dello storico in merito a questo tema: proprio l’abilità nel costruire macchine è la differenza tra i Romani e i barbari. In età tardo antica, l’Anonimo propone una serie di macchine di concezione a torto ritenuta innovativa, vicina invece alla tradizione classica: componibili e smontabili pezzo su pezzo, sono il rimedio che questo personaggio propone per difendere la romanità minacciata dai barbari. Nello stesso periodo l’imperatore Giuliano l’Apostata affronta il medesimo problema facendo costruire una quantità tale di macchine da guerra da impressionare Ammiano Marcellino che ce ne lascerà una descrizione: appassionato di letture, passa la notte un terzo a riposare, un terzo a leggere, un terzo a scrivere. Mette insieme una notevole biblioteca privata, scrive un perduto trattato di meccanica e vede nelle macchine la risposta della romanità alle minacce portate dai barbari.
La macchina è dunque uno dei mezzi per realizzare l’ordine stabilito da Roma nel mondo. Lo stesso Cicerone di cui abbiamo ricordato il forte disprezzo per i lavori artigianali, esprime una lode notevole dell’abilità pratica dell’uomo romano, capace di instaurare un rapporto proficuo con la natura (De natura deorum, 2, 150-152): “Godiamo dei vantaggi delle pianure e dei monti, nostri sono i fiumi e i laghi […] diamo fecondità alla terra irrigandola, tratteniamo i fiumi nel loro letto, ne indirizziamo e deviamo il corso, con le nostre mani cerchiamo di creare quasi una seconda natura nella natura”. Cicerone ben fotografa la natura dinamica di un sapere in continua evoluzione: lo dimostrano i ritrovamenti archeologici, ma lo sapevano anche gli antichi, se è vero che in un’ambasceria agli Spartani riportata da Tucidide (La guerra del Peloponneso, 1, 70, 2) i Corinzi affermano che “gli Ateniesi sono veloci nell’ideare e nel realizzare [… ] e come nelle tecniche è inevitabile che ciò che è più recente prevalga”.