La scienza della nuova Italia: una difficile modernizzazione
Negli anni del Risorgimento, l’unificazione politica della penisola parve la via necessaria per assicurare in Italia, alla ricerca e alla sua influenza sociale, la crescita che ancora non si era verificata. Ciò appariva urgente anche in considerazione del rapido sviluppo che altrove in Europa aveva caratterizzato la scienza e le sue applicazioni pratiche, grazie anche a un forte impegno di risorse pubbliche. Se nel primo Ottocento non erano mancati importanti contributi di scienziati italiani, soprattutto nella matematica, ma anche nella fisica, nella geologia e nella medicina, la loro attività era stata spesso segnata da isolamento e mancanza di sostegno istituzionale; in campi quali l’astronomia, le scienze naturali e la chimica, la ricerca era stata fortemente penalizzata. Gli osservatori italiani non erano paragonabili a quelli di Parigi o di Greenwich; i naturalisti italiani non potevano certo avvalersi di collezioni paragonabili a quelle del parigino Museum d’histoire naturelle; i fisici non avevano a disposizione una struttura quale la Royal institution di Londra, né i chimici laboratori quali quelli di cui disponevano i loro colleghi tedeschi.
Anche sulla scorta delle fruttuose esperienze maturate nella politica scientifica del Regno di Sardegna, ma con il concorso di studiosi di tutta l’Italia, la classe politica liberale, nella quale numerosi erano gli scienziati, avvertì la riorganizzazione dell’attività scientifica come uno dei suoi compiti più importanti, pur nelle enormi difficoltà e urgenze presentate dall’impresa assai più impegnativa della costruzione del nuovo Stato. La nuova classe dirigente aveva davanti a sé il compito di dotare l’Italia di un moderno sistema tecnico-scientifico, fortemente arretrato o assente in varie aree del Paese. Ancora sporadiche erano le collaborazioni di scienziati e ingegneri con il mondo dell’industria (peraltro poco sviluppato), che invece costituivano un fattore di crescita della scienza in molti Paesi europei. Si trattava, in primo luogo, di unificare le sparse membra della scienza italiana e di far svolgere alla scienza un ruolo chiave nel processo di modernizzazione in molteplici settori, quali la pubblica amministrazione, le strutture e i mezzi di comunicazione e di trasporto, l’approvvigionamento energetico, l’agricoltura, l’industria manifatturiera, la difesa militare, la sanità e l’igiene pubblica.
Alla motivazione di ordine utilitario se ne aggiungeva una di ordine ideologico, quale apparve nel programma culturale di Quintino Sella che, uomo di scienza, fu non solo fra i protagonisti della vita politica nazionale negli anni della Destra storica, ma anche il rifondatore dell’Accademia dei Lincei (1874-75), cui era appartenuto Galileo Galilei, e che, fatta Roma capitale, sembrò costituire la più degna tradizione sulla cui base istituire un’accademia scientifica (e storico-umanistica) nazionale. La motivazione ideologica risiedeva nel convincimento che il carattere universale della città di Roma, fondato sul ruolo di civiltà di Roma antica e sul patrimonio spirituale, intellettuale e artistico della Roma centro della cattolicità, dovesse trovare nuova dimensione in una missione mondiale della città capitale del Regno d’Italia, centrata sulla scienza e sulla sua diffusione sociale. Sella poneva anche un più vasto problema di confronto costruttivo tra pensiero moderno e Chiesa cattolica, cui erano interessati anche i cattolici liberali. La Chiesa d’altro canto, sotto l’impressione dell’anticlericalismo e della fine del potere temporale, e degli effetti sociali della diffusione dell’ideologia moderna e della cultura positivista, condannate dal magistero e materia del caso di maggior valore simbolico quale fu l’abbandono dell’abito sacerdotale da parte del principale filosofo positivista italiano, Roberto Ardigò, avrebbe sviluppato una strategia di risposta. Questa si sarebbe condotta all’insegna di un progetto di integrazione della scienza moderna in una cornice di ispirazione neotomistica. Se l’opposizione di voci e organi ecclesiastici all’evoluzionismo darwiniano, che ebbe la sua fortuna, in Italia come in altri Paesi, anche in ambito cattolico, si sarebbe gradualmente sciolta in atteggiamenti possibilisti e concordisti, la secolarizzazione e i mutamenti etico-sociali collegati all’evoluzione delle scienze avrebbero provocato, per un verso, formali condanne, soprattutto in ambito biomedico (aborto, fecondazione artificiale), e, per un altro, l’intensificazione di un disegno di ‘scienza cattolica’, che in Italia sarebbe stato interpretato in senso anche istituzionale e organizzativo da strutture accademiche legate alla Chiesa e dall’opera di Agostino Gemelli.
Roma non sarebbe diventata il centro mondiale della ricerca sognato da Sella, ma il suo ‘programma massimo’ valse a nutrire almeno un ‘programma minimo’, che in parte fu realizzato, ovvero la creazione o il potenziamento (grazie anche all’impegno di illustri scienziati, fra i quali i matematici Francesco Brioschi ed Enrico Betti, che furono anche senatori del Regno ed entrambi segretari generali del ministero della Pubblica istruzione) di istituti di ricerca scientifica, università, scuole e, in esse, di insegnamenti e laboratori scientifici, in grado di competere con quelli dei maggiori Paesi europei.
Nei primi decenni unitari, il forte impegno pubblico degli scienziati appare sintonico ai notevoli incrementi di singole discipline e della scienza in generale. La fioritura degli studi di matematica, che richiedevano modeste risorse economiche e che ebbero centri di elevato valore nella rinata Scuola Normale Superiore di Pisa, ma anche nelle Università di Bologna e di Roma, formò un asse centrale e quasi una leadership nella vita scientifica nazionale, destinati a lunga durata, e a guadagnare al contributo teorico degli italiani rango internazionale. Non a caso furono matematici i fondatori dei Politecnici di Milano (1863) e di Torino (1906), che avrebbero intrattenuto rapporti faticosi con il nascente sistema industriale italiano, sofferente di sue specifiche difficoltà e di una non conseguente consapevolezza della centralità della ricerca scientifica; e la stessa risposta politico-istituzionale alle esigenze della ricerca non fu sempre efficace.
Il contributo dell’Italia alle ricerche in campo geografico, cui si cercò di dare impulso con la fondazione (1867) della Società geografica italiana, fu meno intenso di quello di altri Paesi. Per iniziativa di un privato, lo zoologo tedesco Anton Dohrn, nacque a Napoli nel 1872 un centro di studi sulla zoologia marina che ebbe carattere internazionale e fu capace di attrarre ricercatori da tutto il mondo. Fin dal 1861 fu progettata la realizzazione di un programma di capitale importanza per un Paese flagellato da terremoti e inondazioni, la Carta geologica nazionale, con dedicato Servizio geologico nazionale, ma il progetto accumulò enormi ritardi. Neppure la chimica, altra disciplina di tradizionale eccellenza in Italia, e che ricevette per mano di Stanislao Cannizzaro e di Giacomo Ciamician ampio riconoscimento internazionale, ebbe vita più facile nel rapporto con l’industria e con le istituzioni pubbliche. Il primo corso di chimica industriale nel Politecnico di Milano, chiesto da Brioschi nel 1867, fu attivato solo nel 1883. Analoghe difficoltà per il settore dell’elettrotecnica, nel rapporto tra scienza e industria: le invenzioni di Antonio Pacinotti (dinamo industriale) e di Galileo Ferraris (motore elettrico asincrono) conobbero fuori d’Italia brevetti e produzione industriale. Nel 1883 la città di Milano si dotò della prima centrale elettrica attiva in Europa, gestita da una società, la Edison italiana, amministrata dal matematico Giuseppe Colombo, allievo di Brioschi, ma su licenza della Edison americana, con impianti americani montati da tecnici americani. E la Istituzione elettrotecnica Carlo Erba, fondata nel 1887 dall’industriale lombardo, non svolse attività di ricerca, ma solo didattica. La FIAT di Torino, sorta nel 1899, rinunciò presto a sviluppare il settore della ricerca in proprio, di cui agli inizi pur disponeva, per dipendere dalla ricerca internazionale.
Fu nel campo delle scienze biomediche che si registrarono i risultati dell’impegno che il nuovo Stato, tuttavia, profuse, sulla base di una tipica tradizione italiana, per l’avanzamento della ricerca medica e delle strutture sanitarie. A cavallo dei due secoli operarono in campo medico personalità di altissimo livello, che diedero contributi di primo piano all’avanzamento delle ricerche, come Camillo Golgi, premio Nobel per la medicina nel 1906, che condusse ricerche fondamentali in campo neurobiologico, nonché Angelo Celli ed Ettore Marchiafava, cui si devono i maggiori contributi allo studio della patogenesi della malaria. Dopo un lungo periodo di stagnazione, con l’eccezione di Giovanni Battista Amici, riprese nell’Italia postunitaria la produzione di strumenti scientifici, assicurata dalle Officine Galileo di Firenze e da quelle ottiche e meccaniche di Milano e di Torino.
Una coscienza più profonda di ritardi e difetti e un nuovo dinamismo generale si registrarono tra la fine dell’Ottocento e il periodo giolittiano. Coscienza e dinamismo che si verificarono nelle sempre molto dibattute riforme del sistema universitario, progettate ancora una volta per impulso di scienziati, nel quale lo spazio riservato alle scienze crebbe largamente; nello sviluppo di settori industriali sempre più legati, dopo le iniziali debolezze, alla ricerca scientifica (elettricità, elettromeccanica, chimica, farmaceutica, metalmeccanica, siderurgia); nell’impulso che alla ricerca e alla sua istituzionalizzazione provennero dal rinnovamento o dalla fondazione di strutture tecnico-scientifiche connesse alla pubblica amministrazione. Di questo nuovo orientamento furono esiti e simboli la costituzione della Società italiana per il progresso delle scienze (SIPS, 1907), in cui ebbe ruolo essenziale il matematico Vito Volterra, destinato a caratterizzare la vita organizzativa e sociale della scienza nazionale anche nei decenni successivi, e, su altro piano, il premio Nobel per la fisica a Guglielmo Marconi (1909), a riconoscimento del suo contributo alla telegrafia senza fili.
L’elevato livello, di vasta risonanza internazionale, della ricerca matematica e logica italiana fra Otto e Novecento, segnato dai nomi, fra gli altri, di Giuseppe Peano, Federico Enriques e dello stesso Volterra, genera, infatti, nel primo Novecento finanche una sorta di candidatura del settore alla guida dello sviluppo culturale nazionale. Questa fu contrastata, tuttavia, dalla filosofia neoidealistica, in primo luogo dai suoi massimi esponenti, Benedetto Croce e Giovanni Gentile, nelle note polemiche con Peano, Enriques e Volterra, e resa problematica da dissensi interni al mondo matematico, sulla definizione dei rapporti fra matematica, logica e filosofia. Ciò non avrebbe tuttavia affievolito l’impegno dei matematici nella cura dei problemi della divulgazione, della storia, della formazione e della didattica delle scienze, e dell’organizzazione scientifica, sì che proprio Volterra e la SIPS ebbero negli anni 1919-21 un ruolo di primo piano nell’avvio del primo progetto di enciclopedia nazionale, la cui direzione e fisionomia culturale sarebbero poi state impresse, in diversa prospettiva, da Gentile, che avrebbe tuttavia affidato a Enriques la sezione di matematica dell’Enciclopedia, e assegnato valido spazio alle scienze nell’opera che diresse. Al momento dell’ascesa al potere di Benito Mussolini, di cui Gentile fu ministro della Pubblica istruzione, la formazione universitaria in Italia presentava quella larga attrattività sociale delle facoltà scientifiche, mediche e tecniche che in capo a vent’anni si sarebbe rovesciata in una prevalenza delle facoltà giuridiche e umanistiche.
La Prima guerra mondiale, con le sue esigenze pratiche, necessitò un ulteriore potenziamento del nesso fra ricerca scientifica e sistema economico e militare, e nel primo dopoguerra questa tendenza trovò un tentativo di espressione nella costituzione nel 1923 del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR), incardinato in un sistema di collegamento fra analoghe strutture dei maggiori Paesi dell’Occidente. L’avvento del fascismo, che nel campo educativo fu segnato, per l’influenza di Gentile e della sua riforma scolastica e universitaria, da un’inversione di tendenza rispetto all’ampio ruolo riconosciuto alle scienze nell’età liberale, comportò anche una riforma del CNR (1927). Questa tuttavia, nonostante la mobilitazione dall’alto della struttura scientifica nazionale ai fini della grandezza dell’Italia e della sua competizione con le altre potenze, e certo anche per effetto di alcune storture da quella mobilitazione provocate, non avrebbe recato i frutti desiderati. Le leggi razziali (1938) costrinsero all’esodo alcuni dei più importanti esponenti della scienza italiana: in quello stesso anno, la cerimonia della consegna del Nobel per la fisica a Enrico Fermi, a riconoscimento della sua identificazione di nuovi elementi della radioattività e della scoperta delle reazioni nucleari mediante neutroni lenti, precedette di pochi giorni la fuga dello scienziato negli Stati Uniti.
Le distruzioni materiali e morali della Seconda guerra mondiale rappresentarono un arduo punto di nuova partenza per l’Italia, in un’epoca in cui la scienza richiedeva massicci investimenti e adeguate strutture formative per competere (o eventualmente collaborare) con i Paesi in cui lo sviluppo della scienza e della tecnica si era nutrito per più di un secolo di uno stretto rapporto con l’industria – rapporto che in Italia si era prodotto in modo sporadico e solo in aree limitate. Tuttavia, soprattutto in campi che avevano registrato anche durante il fascismo particolare vitalità, come la fisica teorica (in particolare grazie al gruppo romano di Fermi), le matematiche, la chimica, la biologia, le neuroscienze, sollecitate anche dall’intensa partecipazione di studiosi italiani a ricerche condotte in altri Paesi, e in particolare negli Stati Uniti, l’Italia repubblicana poté offrire nei primi decenni di vita un panorama di rapida crescita organizzativa e di originali contributi teorici e sperimentali. La fondazione dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (INFN, 1951), fiorito nella scia dell’Istituto di fisica illustrato a Roma da Fermi, diede impulso a ricerche di punta che produssero risultati rilevantissimi, segnati dal Nobel a Emilio Segrè con Owen Chamberlain, nel 1959, e a Carlo Rubbia e Simon van de Meer nel 1984, dal grande contributo teorico di Nicola Cabibbo, e dalla recente individuazione del bosone di Higgs da parte di fisici italiani. In chimica si stabilì negli anni Cinquanta e Sessanta un fruttuoso rapporto tra università e industria, che aprì la strada al premio Nobel per la chimica a Giulio Natta (1963), le cui ricerche sui polimeri portarono alla produzione di nuove sostanze, tra cui il polipropilene (era l’Italia del moplen). In quegli anni ricerche di punta (anche nell’elettronica) furono favorite anche da un contesto, la rinascita produttiva e il cosiddetto boom economico, di generale dinamismo, che si registrava anche nel campo delle istituzioni scientifiche, nella formazione di nuovi ricercatori e nella collaborazione italiana alla nascita e all’attività di strutture internazionali, come il CERN (Conseil Européen pour la Recherche Nucléaire, 1954) e l’ESRO (European Space Research Organization, 1964). Tuttavia, l’intreccio di inadeguatezze della classe industriale, accademica e politica nazionale postbellica e di forti condizionamenti internazionali provocò in altri campi e momenti crisi di altrettale emblematico valore, come testimoniano negli stessi anni i casi di Felice Ippolito e del Comitato nazionale per l’energia nucleare (1963), di Domenico Marotta e dell’Istituto superiore di sanità (1964), di Adriano Buzzati-Traverso e del Laboratorio internazionale di genetica e biofisica di Napoli (1964-69), che coinvolsero, fra polemiche politiche e iniziative giudiziarie, personalità e istituzioni di alto livello della ricerca italiana.
Nei decenni seguenti, l’eccellenza della ricerca italiana in molti campi, e la sua partecipazione a processi e a risultati della scienza internazionale, come la scoperta dei neuroni specchio compiuta da un gruppo di ricercatori dell’Università di Parma, sono stati tuttavia ampiamente riconosciuti, non raramente premiandosi scienziati, come i Nobel per la medicina Salvador E. Luria (1969), Renato Dulbecco (1975) e Rita Levi-Montalcini (1986) che, formatisi all’illustre scuola di Giuseppe Levi, avevano condotto fuori d’Italia gran parte o tutta la loro carriera scientifica. Le difficoltà di relazione fra accademia, enti di ricerca e mondo economico, le linee inconseguenti dei governi repubblicani sulla ricerca, un ventennio di riforme scolastiche e universitarie che sembrano aver spossato piuttosto che rinnovato i settori di intervento, e gli effetti sulla ricerca scientifica di tendenze e trasformazioni nella geopolitica dell’Occidente cui il Paese storicamente appartiene, hanno contribuito al declino del sistema italiano della ricerca. Si potrebbero citare innumerevoli casi di occasioni perdute e di tradizioni di ricerca colpevolmente distrutte. Valga come esempio la vicenda Olivetti. Creato da Adriano Olivetti a Ivrea nel 1954 un laboratorio per la ricerca elettronica, guidato da Mario Tchou, dopo la costruzione di Elea 9003, il primo elaboratore automatico a transistor della storia, la morte di Olivetti (1960) e di Tchou (1961) preluse all’assunzione del controllo della società da parte di industriali e finanzieri italiani che disinvestirono dal settore elettronico. Nel 1964, la Divisione elettronica Olivetti, in cui era confluito nel 1962 il Laboratorio di ricerche elettroniche, fu venduta per il 75% alla General electric, benché si fosse nel frattempo realizzato a Ivrea il primo personal computer della storia, cioè la P101 (Programma 101 o ‘Perottina’).
Ad acuire le difficoltà della scienza italiana contribuisce in questi ultimi anni l’esodo di numerosi ricercatori, soprattutto giovani, che si stabiliscono in Paesi dove sono presenti mezzi e condizioni di lavoro di gran lunga migliori – fenomeno che rischia di mettere in scacco il sistema italiano della ricerca.