La scienza in Cina: dai Qin-Han ai Tang. I primordi dell'Impero
I primordi dell'Impero
Quando il Primo Imperatore Qin (Shi Huangdi) riuscì a unificare per la prima volta i principati dei Zhou in un impero centralizzato, nel 221 a.C., si era appena concluso un periodo d''incubazione', nel quale si erano formate le basi e le linee direttive del successivo sviluppo del pensiero cinese. Nel VI-V sec. a.C., Confucio (551-479 a.C.), lanciando una vera e propria scommessa sull'uomo, lo aveva concepito come un essere intrinsecamente relazionale, che si muove entro una rete di rapporti di reciprocità determinati da una visione ritualistica e gerarchica della società. Confucio voleva restaurare la Via (Tao) degli antichi Re-Saggi della mitica dinastia Xia e della successiva dinastia Shang (XVIII-XI sec. a.C.), il cui esempio doveva servire da modello ai sovrani della sua epoca. Grazie a polemisti di notevole peso, come Mencio (372-289 a.C. ca.) e Xunzi (313-230 a.C. ca.), questa coscienza, allo stesso tempo etica e politica, doveva affinarsi in un discorso filosofico che affrontava nozioni destinate a divenire centrali per l'intera tradizione intellettuale cinese, quali la natura umana, il linguaggio, i riti e il mandato del Cielo.
La Via confuciana, tuttavia, era soltanto una tra le molte che, nella straordinaria effervescenza intellettuale dovuta alla molteplicità e diversità delle scuole di pensiero degli Stati combattenti (480-221 a.C.), si contendevano l'attenzione dei potenti. Parallelamente si andava diffondendo la dottrina del 'non agire' taoista raccomandata nel Laozi (più tardi noto come Daode jing o Libro della Via e della Virtù), che sosteneva esplicitamente uno stile di vita opposto all'atteggiamento attivo e impegnato dei confuciani, e predicava di 'lasciar agire' la potenza della Via. Infine i legisti, rappresentati in testi come il Libro del Signore Shang (Shangjun shu) o il Libro del Maestro Han Fei (Han Feizi), mettevano a punto una concezione della legge e delle pratiche del potere, la cui efficacia doveva contribuire direttamente al consolidamento dell'egemonia Qin (221-206 a.C.).
Dopo la vivacità intellettuale degli Stati combattenti, quando i pensatori cinesi conobbero una libertà di movimento e di pensiero senza precedenti e senza equivalenti successivi, e dopo il richiamo all'ordine e l'uniformità imposta dai Qin, gli Han (206 a.C.-220 d.C.) rappresenteranno una pausa, una fase di assimilazione durante la quale le innovazioni sono trasformate in dati acquisiti, in tradizione. Nel corso dei quattro secoli della dinastia degli Han s'impone una visione del mondo che oltrepassa i limiti storici della dinastia da cui presero nome l'etnia dominante e la lingua cinese. Nello stesso momento in cui si creano le istituzioni e le tradizioni politiche che caratterizzeranno a grandi linee il sistema imperiale cinese nei suoi duemila anni di esistenza, si definisce anche un corpus letterario fondato su un insieme di nozioni comuni e su un pensiero divenuto già sistematico.
Dopo l'autodafé dei libri venerati dalla tradizione confuciana, ordinato dal Primo Imperatore nel 213 a.C., s'impone un nuovo richiamo all'ordine. Poiché all'inizio degli Han circolavano versioni dei Classici confuciani (Classico dei documenti, Classico delle odi, Memorie sui riti, Canone della musica, Annali delle Primavere e autunni, Classico dei mutamenti) in scrittura 'moderna', o quella in uso dopo i Qin, si assiste alla ricomparsa di testi in scrittura 'antica', precedente all'uniformazione della scrittura operata dai Qin. La polemica tra le versioni 'moderne' e 'antiche' dei Classici imperversò per tutta la durata della dinastia, alimentata da interessi ideologici e politici. In effetti, la costituzione di un corpus canonico, che contenesse tutte le verità eterne di cui l'uomo poteva avere bisogno, rispondeva bene alla volontà unificatrice degli Han, rivolta all'instaurazione di un ordine imperiale centralizzato.
Gli Han erano interessati a una nuova visione del mondo che permettesse di ottenere una sintesi della molteplicità di correnti affermatesi in precedenza, integrandole in un insieme coerente e privo di veti. Questo sforzo caratterizza già gli scritti del periodo finale degli Stati combattenti, quali, per esempio, il Libro del Maestro Xun (Xunzi), ma affiora a ogni istante nei testi dell'inizio dell'epoca imperiale, come le Primavere e autunni del Signor Lü (Lüshi chunqiu), opera collettiva e di sintesi compilata nello Stato di Qin alla vigilia della fondazione dell'Impero (239 a.C. ca.), e il Libro del Maestro dello Huainan (Huainanzi), opera di sistematizzazione dell'intero pensiero speculativo antico, risalente all'inizio della dinastia Han (139 a.C. ca.).
Nel periodo degli Stati combattenti erano fiorite diverse correnti filosofiche, le cosiddette 'cento scuole', delle quali sotto gli Han solamente alcune assumono una posizione dominante. I primi anni di regno, di contro, vedono l'affermarsi di un'ideologia denominata 'Huang Lao' (associata alle figure dell'Imperatore Giallo e di Laozi), il cui nucleo centrale consisteva nel fornire al sovrano direttive e tecniche per l'esercizio del potere, concepito come parte integrante dell'ordine universale che costituisce il Tao. A partire dal regno dell'imperatore Wu (140-87 a.C.), questa ideologia si arricchisce di teorie a carattere confuciano, fino a raggiungere lo status di ortodossia ufficiale.
Il confucianesimo Han è molto diverso dall'insegnamento originale di Confucio, quale risulta in particolare nei Dialoghi (Lunyu); si tratta infatti di una forma di sincretismo di tutte le correnti di pensiero anteriori ai Qin, riorganizzate in una filosofia politica destinata a fondare l'unità e la centralizzazione del nuovo ordine imperiale. Uno dei principali artefici di questo processo ideologico, Dong Zhongshu (179-104 a.C. ca.), ebbe un ruolo notevole nell'imporre la conoscenza dei Classici confuciani come requisito per l'accesso alla carriera amministrativa, attraverso il ben noto sistema degli esami di Stato per il reclutamento dei funzionari, che si sarebbe mantenuto lungo l'intero corso della storia imperiale cinese. A Dong Zhongshu è attribuita l'opera Profusione di rugiada sulle 'Primavere e autunni' (Chunqiu fanlu); l'opera si richiamava a uno dei Classici confuciani, gli Annali delle Primavere e autunni (Chunqiu), e in essa predomina la nozione di un ordine cosmico primordiale e totalizzante: l'unità del cielo e dell'uomo. In questa concezione cosmologica organicista, la terminologia di base, già elaborata nel corso del periodo degli Stati combattenti, deriva dalla dualità di yin-yang, dal ciclo delle Cinque fasi (wuxing) e soprattutto dall'idea di una corrispondenza e risonanza (ganying) tra mondo umano e processi naturali.
La nozione di risonanza tra mondo umano e Natura costituisce il nucleo dell'intero discorso cosmologico predominante sotto gli Han; essa si ritrova nelle opere principali di questo periodo, come il Libro del mistero supremo (Taixuan jing) di Yang Xiong (53 a.C.-18 d.C.), il cui grandioso progetto è quello di modellarsi sul Classico dei mutamenti (Yijing).
Anche il Libro del mistero supremo evoca le linee portanti dell'Universo grazie a una combinazione di linee intere e spezzate accompagnate da sentenze divinatorie, cercando allo stesso tempo di fondere questo materiale in un insieme più coerente e maggiormente significativo. Il solo pensatore Han a sottoporre la nozione di risonanza a un giudizio critico è Wang Chong (27-97 d.C. ca.); si tratta tuttavia di una critica che resta, malgrado tutto, all'interno del suo oggetto. Nei suoi Discorsi pesati sulla bilancia (Lunheng), infatti, Wang Chong si limita a spogliare il fenomeno della risonanza tanto dall'intenzionalità quanto dalla prospettiva teleologica di cui l'avevano rivestito gli ideologi Han, contrapponendogli una nozione impersonale e non teleologica, elaborata nell'ambito della corrente taoista, del processo naturale (ziran, lett. 'così di per sé stesso', 'spontaneamente').
Questa idea delle corrispondenze cosmologiche ha dato luogo a estrapolazioni di ogni tipo: dallo sfruttamento politico della teoria delle 'calamità e prodigi' che si riteneva rappresentassero la reazione del cielo alla condotta del sovrano, all'emergere di testi apocrifi, i quali, nel loro complesso, costituivano una letteratura sui presagi parallela ai Classici e accomunavano gli interessi di letterati e specialisti in tradizioni occulte. Nel corso del periodo Han sembra non ancora essersi compiuta una distinzione netta tra i letterati esperti nei Classici e gli specialisti di arti più o meno magiche o esoteriche (fangshi), assai di frequente assimilate al taoismo detto 'religioso'.
Nel momento in cui la dinastia Han, restaurata dopo l'interregno della dinastia Xin (9-23 d.C.) di Wang Mang, cambia volto, inizia a diffondersi una sorta di taoismo popolare che, a partire dal II sec. d.C., si organizza in sette come la Via dei cinque moggi di riso (meglio conosciuta con il nome di Via dei maestri celesti) o la setta dei Turbanti Gialli. Queste comunità religiose erano animate, in particolare, da credenze millenaristiche nella prossima realizzazione di un'era della Grande Pace la quale avrebbe messo fine al regno degli Han.
Dopo la saturazione di commentari scolastici e di speculazioni cosmologiche tipici dell'ultima fase degli Han, i letterati, già prima della caduta della dinastia (220 d.C.), si affrancano dal peso ideologico dell'ortodossia ufficiale e s'interessano con passione ai testi fondamentali del taoismo filosofico, forma di pensiero 'alternativo' per eccellenza, così come alla tradizione logica del periodo degli Stati combattenti. Fra questi letterati Wang Bi (226-249) e Guo Xiang (m. 312), comunemente noti come rappresentanti della scuola del mistero (xuanxue) ‒ allusione al 'mistero al di là del mistero' di cui si parla all'inizio del Libro della Via e della Virtù ‒ elaborano un vero e proprio discorso filosofico attraverso i loro commentari al Libro della Via e della Virtù, al Libro del Maestro Zhuang (Zhuangzi) e al Classico dei mutamenti.
La scuola del mistero fa parte di una corrente più ampia, detta delle 'conversazioni pure' (qingtan), che propugna l'abbandono dell'impegno politico, sino ad allora considerato come attitudine fondamentale di ogni buon confuciano, per volgersi a un modo di vivere 'puro' e 'libero'. Per questo la corrente è comunemente designata nelle lingue occidentali con il termine di 'neotaoismo', per quanto non costituisca un semplice riemergere del taoismo filosofico degli Stati combattenti; si tratta piuttosto di un nuovo orientamento delle speculazioni dei letterati, che dall'interesse per le correlazioni cosmologiche, onnipresente durante gli Han, si volgono ora a una riflessione fondamentale sulla 'sostanza originale' attraverso cui tutto avviene e procede in modo necessario.
Sulla base di testi fondamentali della tradizione taoista, Wang Bi si sforza di tornare a una riflessione di fondo sulla figura del Saggio, il cui modello resta Confucio (Wang Bi è anche l'autore di un commentario ai Dialoghi). La sua lettura del Classico dei mutamenti comporta una totale revisione del processo stesso d'interpretazione, un tentativo di superare il modo referenziale d'interpretazione, di cui tutta la cosmologia correlativa Han è uno stereotipo, se non addirittura una caricatura. La nuova lettura di Wang Bi parte dal principio secondo cui l'attenzione non deve essere concentrata sull'aspetto figurativo, ma sul significato sotteso agli esagrammi del Classico dei mutamenti: "Se il senso è nell'idea di forza, che bisogno vi è del cavallo? Se la categoria è nell'idea di docilità, che bisogno vi è del bue? Se le linee [dell'esagramma] si accordano con la docilità, che bisogno vi è di dire che l'esagramma kun è il bue? Se il senso corrisponde alla forza, che bisogno vi è di dire che l'esagramma qian è il cavallo?" (Zhou Yi lüeli, Ming Xiang).
Wang Bi respinge senz'altro l'idea di una irriducibile molteplicità che escluderebbe ogni legame tra le cose e afferma che esiste un principio unico: il 'non c'è' (wu), termine che egli riprende dal Libro della Via e della Virtù e che si oppone al 'c'è' (you), non come il 'non esistente' si opporrebbe all''esistente' in una prospettiva ontologica, ma in quanto 'non avente' la caratterizzazione o definizione del 'c'è'. Dunque il 'non c'è', in primo luogo, non è un'entità che si oppone al 'c'è', ma una virtualità che attraverso quest'ultimo si manifesta, si attualizza. In altre parole, il rapporto tra il 'non c'è' e il 'c'è' non è il rapporto tra noumeno e fenomeno, assoluto e relativo, ma piuttosto tra potenzialità e manifestazione.
Dire che la Via (Tao) è allo stesso tempo l'uno e l'altro equivale a dire che essa designa il reale nella sua totalità, nello stesso momento in cui sfugge alla riduzione necessariamente operata dal linguaggio, come vuole il famoso enunciato del Libro della Via e della Virtù: "Il Tao che può essere detto non è il Tao permanente". Il Tao è ineffabile, indefinibile, impossibile a comprendersi con il linguaggio e i sensi, ma comporta un principio d'intelligibilità in cui esso è 'permanente'. La 'permanenza' del Tao permette di supporre un principio, detto li, che struttura l'unità fondamentale sottesa all'infinita varietà e molteplicità di esseri e di fenomeni. Il li, in questo modo, designa il carattere strutturato e strutturale di quella manifestazione del Tao che è il mondo.
Al contrario, per Guo Xiang, al quale è attribuito un commentario al Libro del Maestro Zhuang, il senso non deve essere cercato in un principio uno e unificante; opera soltanto l'aspetto naturale (ciò che i filosofi precedenti, soprattutto taoisti, chiamavano il 'così di per sé stesso') e fa sì che gli esseri, nella loro molteplicità, non si attualizzino a partire da un fondo comune che sarebbe il wu ('non c'è'), ma che ciascuno 'si generi di per sé stesso, ecco tutto'. Gli esseri esistono di per sé, tramite un processo di generazione spontanea; allo stesso modo, il nostro io è il risultato di un'autoproduzione. Guo Xiang spinge dunque l'interpretazione del Libro del Maestro Zhuang nella direzione di una mistica che innalza il mondo sensibile al rango di assoluto, nel senso di pura spontaneità, dove ogni cosa è necessaria al tutto, e reciprocamente il tutto è necessario a ogni singola cosa esistente da esso inglobata; una visione, questa, che non manca di far pensare alla possibilità di un'influenza buddhista.
A seguito della caduta della dinastia Han nel 220 d.C. e del disintegrarsi della visione del mondo da essa sostenuta, lo spazio politico cinese conosce una disorganizzazione e una frammentazione che favoriscono in gran parte la diffusione del buddhismo giunto dall'India. La storia del buddhismo inizia intorno ai secc. VI-V a.C. con Śākyamuni (560-480 ca.), contemporaneo di Confucio e conosciuto come il Buddha, l'Illuminato. Verso la metà del III sec. a.C., il buddhismo inizia la sua espansione fuori dell'India, mentre al suo interno, nel I sec. d.C., compare una nuova tendenza, più liberale, conosciuta con il nome di 'Grande Veicolo' o Mahāyāna, rispetto alla quale il buddhismo precedente è chiamato 'Piccolo Veicolo' o Hīnayāna. Il Mahāyāna apre la via della salvezza, non soltanto all'élite monastica, ma a tutti gli esseri viventi, poiché essi possiedono in sé la natura del Buddha e sono dunque suscettibili di conoscere l'illuminazione. Mentre il buddhismo antico sarebbe rimasto confinato all'Asia meridionale, il Mahāyāna avrebbe conosciuto un'espansione senza precedenti verso la Cina e l'intero 'mondo sinico' (Giappone, Corea, Tibet, Vietnam).
I primi segni di una presenza buddhista in terra cinese, che si manifestano all'inizio dell'era cristiana, rappresentano l'inizio di un lungo e immenso processo di assimilazione del buddhismo indiano da parte della cultura cinese, destinato a durare parecchi secoli e ad avere ripercussioni profonde, quasi insospettate. Il buddhismo è, infatti, la prima forma di spiritualità universale e la prima espressione di una cultura straniera a essere introdotta in una Cina che aveva elaborato un senso molto forte della propria identità nel corso dei quattro secoli della dinastia Han. Questo è potuto accadere, probabilmente, grazie a tre secoli di divisione politica e alla capacità di questa corrente filosofica di amalgamarsi alla tradizione autoctona taoista.
Buddhismo e taoismo
La storia del buddhismo in Cina può essere suddivisa in tre fasi: in quella iniziale (secc. III-IV), esso è coinvolto nelle controversie cinesi dell'epoca; nella seconda (secc. V-VI) si verifica una 'indianizzazione' del buddhismo in Cina, e nella terza, durante la dinastia Tang (618-907), si assiste a una nuova sinizzazione.
Il primo periodo (secc. III e IV) è contrassegnato, sul piano storico, dalla divisione della Cina in dinastie del Nord e del Sud, con conseguente sviluppo di un buddhismo del Nord e di uno del Sud. L'inizio del IV sec. vede la fine del controllo cinese sul Settentrione, per un periodo di tre secoli, sino alla riunificazione del territorio da parte della dinastia Sui nel 581. Il potere imperiale cinese è costretto a emigrare al sud, dove si assiste alla formazione di un buddhismo 'intellettuale', peculiare della classe dei letterati. Quest'ultima tenta, infatti, di mettere in rapporto il messaggio buddhista con la propria tradizione culturale e intellettuale, trasformandolo secondo modalità prese a prestito dalla scuola del mistero. Il buddhismo del Sud differisce radicalmente da quello che si sviluppa a nord nei regni non cinesi, in quanto buddhismo devozionale, interessato soprattutto all'etica, alla meditazione e alla pratica religiosa.
All'inizio del III sec., all'indomani della caduta degli Han, due aspetti si delineano nell'approccio cinese al buddhismo: dhyāna ('concentrazione', in particolare tecniche di controllo mentale, di respirazione e di annullamento delle passioni), e prajñā ('saggezza', maggiormente interessata alle speculazioni sulla natura del Buddha e sulla realtà ultima dei dharma, gli elementi a carattere fenomenico il cui flusso incessante compone il mondo così come lo percepiamo). Per quanto riguarda il primo aspetto, si può parlare di un''ibridizzazione buddho-taoista', soprattutto tra gli strati popolari. Quanto alla prajñā, essa è centrale per la tradizione della prajñā-pāramitā (lett. 'saggezza trascendentale'), associata soprattutto alla scuola Mādhyamika fondata in India da Nāgārjuna e dal suo discepolo Aryadeva nel II sec. d.C. Questa scuola, che rappresenta senza dubbio la forma più originale e sistematica del buddhismo Mahāyāna, doveva svilupparsi parallelamente in India e in Cina, dove divenne predominante nel buddhismo del Sud, consentendo così al buddhismo Mahāyāna d'imporsi definitivamente in terra cinese.
Il termine mādhyamika designa la 'via mediana' tra i due estremi dell'esistenza e della non esistenza, dell'affermazione e della negazione, del piacere e del dolore. Il fondatore della scuola, Nāgārjuna, metteva in rapporto questa via mediana con la dottrina della causazione dipendente, propria del buddhismo antico, secondo cui ogni cosa dipenderebbe, nella sua origine, da cause e da condizioni. L'idea centrale della scuola Mādhyamika era dunque che tutto ciò che è prodotto da cause non è prodotto in sé e non ha un'esistenza di per sé; poiché le cose sono tutte prodotte da cause e da condizioni, esse non hanno una realtà indipendente e 'non possiedono una natura propria' (svabhāva), cosicché non appena le cause e le condizioni della loro esistenza scompaiono, esse sono destinate a scomparire allo stesso modo. Ora, la prajñā, definita come 'contemplazione metodica dei dharma', consiste nel vedere la loro vera natura, ossia nel vedere che questa natura è vuota (śūnya). L'idea del vuoto significa che i dharma non hanno natura propria, che non sono fondamenti della realtà in quanto sono frutto dell'illusione e dipendono da altre cose per esistere; tuttavia, proprio grazie al suo carattere illusorio, il mondo dell'esistente non differisce dall'assoluto del nirvāṇa e si confonde con quest'ultimo nel superamento di ogni dualità. Questa concezione della saggezza trascendentale, associata alla nozione di vuoto universale, s'innesta sulla riflessione dei pensatori della scuola del mistero riguardo ai rapporti tra il 'c'è' (you) e il 'non c'è' (wu). È nella prospettiva di uno scambio d'idee e di speculazioni sul vuoto, assimilato in un primo tempo al wu come principio fondamentale, che il buddhismo raggiunge gli ambienti dei letterati. Di qui i tentativi (più o meno riusciti) di mettere in rapporto il buddhismo con le acquisizioni intellettuali cinesi, in particolare attraverso il metodo del geyi, che consiste nell'accoppiare le nozioni buddhiste con le nozioni principalmente taoiste. Gli esempi più illustri sono senza dubbio Dao'an (312-385), che spiegava i sūtra buddhisti basandosi sui 'tre misteri' (il Libro della Via e della Virtù, il Libro del Maestro Zhuang e il Classico dei mutamenti), e Huiyuan (334-416), il quale, pur diventando monaco buddhista, era permeato di cultura confuciana e taoista.
La considerevole diffusione del buddhismo non mancò di suscitare periodiche reazioni, se non addirittura persecuzioni antibuddhiste. Tra le regole della vita monastica, quella del celibato è stata probabilmente il motivo di maggiore resistenza nella società cinese, fondata sul culto della famiglia e della discendenza. Per i Cinesi, abbracciare la vita monastica significava letteralmente lasciare la famiglia e, di conseguenza, rinunciare a servire i propri genitori e a perpetuare il lignaggio familiare. Inoltre, la formazione di un clero percepito come uno Stato dentro lo Stato, che andava oltre le strutture familiari e politiche e non riconosceva l'autorità dell'imperatore, costituiva un fenomeno sociale senza precedenti. Da qui la volontà costante dei sovrani di esercitare un controllo sempre più esteso sul clero e sulle istituzioni buddhiste.
L'indianizzazione del buddhismo cinese
La specificità dell'apporto buddhista è realmente riconosciuta in Cina soltanto a partire dall'inizio del V sec., è da questo momento, infatti, che non si cerca più di trasporre il pensiero e la terminologia buddhisti in termini conosciuti, ma sono intrapresi lavori di esegesi e di traduzione direttamente dal sanscrito, affidandosi a buddhisti giunti dall'India o dalla Serindia. Kumārajīva (344-413ca.), arrivato in Cina nel 401, è uno dei primi; sotto la sua influenza e grazie al suo colossale lavoro di traduzione il pubblico cinese poté approfondire la conoscenza della scuola Mādhyamika, che in Cina avrebbe trovato eminenti rappresentanti in Sengzhao (374?-414) e Jizang (549-623).
Il periodo d'indianizzazione del buddhismo in Cina culmina con Xuanzang (602-664), altro grande artefice dell'opera di traduzione di testi buddhisti, che segue il cammino inverso del suo illustre predecessore, compiendo un viaggio in India per studiare il buddhismo alla sua fonte. Da qui Xuanzang riporta principalmente testi della scuola Yogācāra, fondata dai fratelli Asaṅga e Vasubandhu e sviluppatasi in India tra il III e il VII sec., sotto il nome di 'Dottrina della coscienza' (vijñānavāda). Secondo l'insegnamento di questa scuola, il mondo fenomenico non è che un prodotto della coscienza; esso non esiste realmente ed è la coscienza interna a presentarlo sotto forma del mondo esteriore; dunque non è che un'illusione, la cui formazione va spiegata attraverso un'analisi molto approfondita dei processi di coscienza.
Questa scuola rappresenta uno dei due grandi sistemi elaborati dal pensiero mahāyāna; l'altro è la 'Dottrina del vuoto' (śūnyavāda) della scuola Mādhyamika, che Kumārajīva aveva intensamente contribuito a far conoscere. Malgrado gli sforzi titanici di Xuanzang per introdurre lo Yogācāra in Cina, dopo la sua morte una scuola così prettamente indiana non riesce a sopravvivere; il suo spirito troppo analitico non incontra un interesse costante da parte della tradizione cinese, che finisce con l'assimilare a suo modo l'eredità buddhista durante la fioritura culturale senza precedenti del periodo Tang.
Sinizzazione del buddhismo nel periodo Tang
È nel periodo Tang (618-907) che il buddhismo cinese raggiunge la piena maturità. Dopo sei secoli di presenza, esso si trova solidamente radicato nella società; sul piano intellettuale, il cospicuo numero di testi buddhisti già tradotti permette una reale assimilazione, che darà luogo a una fioritura di scuole buddhiste propriamente cinesi; sul piano istituzionale, si perviene a una perfetta osmosi tra le infrastrutture preesistenti e il buddhismo, in modo tale che quest'ultimo, malgrado qualche eccezione, non è più percepito come un corpo estraneo, ma anzi la comunità buddhista finisce con l'integrarsi e piegarsi alle strutture statali.
L'epoca Tang è un periodo di sviluppo culturale e di autentica fioritura religiosa, in cui si assiste all'introduzione in Cina del nestorianesimo, dell'Islam e del manicheismo. Tuttavia, rispetto ai loro predecessori delle dinastie meridionali, i sovrani Tang si mostrano piuttosto tiepidi nei confronti del buddhismo. Il clan imperiale preferisce affermare le proprie affinità con il taoismo, giungendo a dichiararsi discendente di Laozi, del quale ha il cognome di clan, Li. Ciononostante, molte scuole buddhiste possono svilupparsi e crescere proprio grazie alla politica di patrocinio imperiale di alcuni sovrani. Si tratta ormai di scuole specificamente cinesi, pure espressioni dell'elaborazione e dell'adattamento del messaggio buddhista alla cultura cinese.
Nel corso di questo terzo periodo di vera sinizzazione del buddhismo, i Cinesi iniziano a riformulare in termini propri i problemi della salvezza, dell'illuminazione e delle vie per conseguirle. La riflessione tende così a concentrarsi sulla possibilità di raggiungere il risveglio in questa vita ‒ preferibilmente in modo istantaneo ‒ e sulla credenza in una salvezza universale per tutti gli esseri animati, cosa che presuppone una reinterpretazione delle scritture in un senso nuovo rispetto all'esegesi indiana. Inoltre, una volontà di sintesi tipicamente cinese si esprime nel metodo del panjiao, che consiste nel distinguere differenti periodi nell'insegnamento del Buddha, e di conciliare i testi, nella loro moltitudine e nelle loro contraddizioni, al fine di produrre dottrine coerenti per ciascuna scuola.
La scuola Tiantai
La scuola Tiantai (in giapponese Tendai) è la prima scuola buddhista specificamente cinese. Ai suoi occhi, il Sūtra del loto contiene l'insegnamento essenziale, secondo il quale il Buddha è venuto in questo mondo soltanto per portare la salvezza, ossia un risveglio uguale al suo, a tutti gli esseri viventi senza alcuna discriminazione. Ogni essere umano, se non ogni essere vivente, possiede la natura del Buddha e può dunque divenire uguale a lui; la capacità virtuale di divenire Buddha (lett. l'Illuminato) è infatti innata ed è grazie a essa che gli esseri partecipano potenzialmente della natura del Buddha, pura essenza assoluta. L'idea di salvezza universale della scuola Tiantai deriva da una corrente del buddhismo cinese dell'inizio del V sec., quando Daosheng (355-434 ca.), rifacendosi a una versione incompleta del Mahāparinirvāṇasūtra (Grande sūtra del nirvaṇa definitivo), sostenne che ogni essere umano, anche il più corrotto, può potenzialmente raggiungere la condizione di Buddha.
La scuola Tiantai conferisce però alla lettura del Sūtra del loto un'impronta ancora più cinese, sottolineando non soltanto la possibilità per tutti di accedere alla condizione di Buddha, ma addirittura di poter raggiungere questo stadio nell'arco della vita; taglia così definitivamente i ponti con il buddhismo indiano tradizionale, secondo cui soltanto gli arhat ('asceti'), che hanno raggiunto uno stato di santità, potevano sperare di raggiungere il risveglio, dopo innumerevoli sforzi, a immagine dello stesso Śākyamuni, che sarebbe pervenuto alla condizione di Buddha al termine di millenni di preparazione. Tale visione, che ben si accorda con le concezioni indiane, non soddisfa affatto l'esigenza cinese di ottenere in tempi relativamente rapidi i frutti degli sforzi profusi.
Nella sua dimensione filosofica, la scuola Tiantai eredita la dialettica della scuola Mādhyamika. Poiché ogni oggetto sensibile non ha realtà indipendente e non ha esistenza in sé, può essere considerato come vuoto, ma in quanto fenomeni, le cose godono anche di un'esistenza temporanea e afferrabile con i sensi. Il fatto che una cosa sia allo stesso tempo vuota e provvisoria costituisce la verità mediana, che non è una via di mezzo tra due verità, ma un superamento di entrambe. La verità mediana torna a sottolineare l'idea di totalità e identità; il tutto e le sue parti sono una sola cosa; in altre parole, il Cosmo nella sua interezza e tutti i Buddha di tutti i tempi possono essere considerati come presenti in un granello di sabbia o sulla punta di un capello. Di qui la famosa formula della scuola Tiantai: 'Un solo pensiero sono tremila mondi', vale a dire, ciò che è dettaglio è il tutto, e viceversa. Questa formula, oltre a illustrare la compenetrazione di tutti i dharma e l'unità essenziale dell'Universo, esprime l'identificazione dei fenomeni e dell'assoluto. In questo, la scuola Tiantai è particolarmente rappresentativa della sinizzazione del buddhismo, che conduce a una concezione dell'assoluto in senso immanentista, imboccando, però, una direzione opposta alla visione trascendente propria del buddhismo originale.
La scuola Huayan
La scuola Huayan (in giapponese Kegon), così chiamata dal nome del testo che essa considera come centrale, il Sūtra della ghirlanda (Huayan jing), è una scuola interamente cinese, che non ha controparte in India e che fiorì nel periodo Tang, grazie al potente patrocinio dell'imperatrice Wu Zetian (che regnò dal 690 al 704). Anche se il Sūtra della ghirlanda condivide alcune idee con il Sūtra del loto, in particolare nozioni religiose come quelle del veicolo unico (senza distinzione tra Hīnayāna e Mahāyāna) o della salvezza universale, è un'opera più complessa sul piano filosofico. Una delle teorie fondamentali di questo sūtra è che l'Universo non sia costituito da dharma discontinui, ma anzi costituisca un tutto perfettamente integrato, ogni parte del quale è organicamente legata alle altre. L'insegnamento dello Huayan è imperniato soprattutto sul principio universale del vuoto, che ricorda in un certo modo l'idea della manifestazione dell'esistente a partire da un principio unico della scuola del mistero; si ritorna dunque a problematiche tipicamente cinesi. Anche la scuola Huayan concepisce i dharma come vuoti, tuttavia questo vuoto comporta due aspetti, ossia che in quanto principio o noumeno (li) esso è statico, ma in quanto fenomeno (shi) è dinamico. Da questi due aspetti non dissociabili del vuoto derivano due concezioni fondamentali della scuola Huayan: da una parte, principio e fenomeno sono intimamente associati e, dall'altra parte, i fenomeni formano un tutto unico.
La scuola Huayan punta dunque, come quella Tiantai, a reintrodurre l'immanenza e l'armonia cosmica nel pensiero buddhista, ma propone una visione totalizzante e centripeta in cui tutto si riporta al centro costituito dal Buddha. Questa visione non poteva non incontrare il favore di monarchi assoluti come l'imperatrice Wu Zetian, consacrata come incarnazione di Maitreya (il Buddha del futuro) e modello del sovrano che protegge la religione, la quale a sua volta legittima il sovrano. Un tale modello avrebbe incontrato notevole fortuna in Giappone e in Corea.
Oltre all'aspetto dottrinale delle scuole Tiantai e Huayan, il buddhismo cinese manifestò un aspetto devozionale rappresentato in particolare dalla scuola detta 'della Terra pura', paradiso dell'Ovest su cui veglia il Buddha Amitābha. Tra gli aspetti più importanti di questa scuola figurano la devozione e la fede riposta nella potenza salvifica di Amitābha, che, nella sua infinita compassione per l'oceano degli esseri, ha creato questo paradiso affinché coloro che credono in lui possano rinascervi.
Il buddhismo Chan
L'assimilazione cinese del buddhismo si è rivolta molto presto, e in modo naturale, verso l'aspetto della meditazione o dhyāna (trascritto in cinese come channa). La filiazione ortodossa della scuola Chan fa risalire la sua fondazione in Cina a Bodhidharma (VI sec. d.C.), il quale l'avrebbe importata dall'India. Nel 732, durante il periodo Tang, un monaco del Sud di nome Shenhui (670?-762) rimette in discussione la dottrina dell'illuminazione graduale, sino ad allora insegnata dalla scuola del Nord, e propone la dottrina dell'illuminazione completa e istantanea, argomentando che la pura saggezza è indivisibile e indifferenziata e, di conseguenza, l'illuminazione può essere raggiunta totalmente e istantaneamente, o non essere raggiunta affatto. Alla scuola del Nord, che considera lo spirito, originariamente puro, impegnato a preservarsi senza sosta da possibili inquinamenti, si oppone ormai la scuola del Sud, per la quale lo spirito è e resta puro, senza avere necessità di purificarsi.
Secondo questo 'nuovo Chan' del Sud, che prevale nel periodo Tang a partire dall'VIII sec., l'assoluto, ossia la natura del Buddha, è allo stesso tempo universale (esso è presente in ogni essere vivente o addirittura inanimato) e vuoto (śūnya), cioè indicibile e addirittura inconcepibile per il pensiero, e non può essere conosciuto che in un lampo d'intuizione, in modo totale e istantaneo. Dal momento che l'assoluto può essere compreso soltanto in modo negativo, bisogna svuotare lo spirito, così che esso non generi più alcun contenuto mentale. Il pensiero cosciente è in effetti in primo luogo coscienza di sé stessi e generatore di karman, processo universale per cui l'istante e l'atto presenti sono, allo stesso modo, condizionati da quelli che li precedono e condizionano quelli che li seguono. Bisogna dunque liberarsi da ogni 'progetto' dello spirito, sia pure il progetto d'iniziarsi agli insegnamenti del Buddha, recitare i sūtra, adorare le immagini del Buddha o compiere rituali. Ciò che conta è soltanto lo spirito, il quale va riportato alla capacità di pura intuizione e lasciato muovere a suo agio, senza alcuna limitazione, al fine di poter comprendere la natura del Buddha in un'esperienza spirituale chiamata risveglio o illuminazione (in cinese wu, in giapponese satori), stato di unità indifferenziata nel quale nulla più ci tocca. In questo istante lo spirito è allo stesso tempo sé stesso e il contrario di sé stesso, ed è la 'visione subitanea della nostra propria natura', ossia 'non mentale'.
Le varie ramificazioni della scuola Chan mirano tutte a questo perfetto vuoto dello spirito, ma raccomandano vie diverse per raggiungerlo. In opposizione ai metodi attivi, se non addirittura violenti della scuola di Linji (m. 866), la scuola Cao-Dong privilegia la via calma, contemplativa, della meditazione in posizione seduta (in cinese zuochan, in giapponese zazen), cioè l'introspezione silenziosa sotto la direzione di un maestro che può comunicare telepaticamente o, se necessario, ricorrere al discorso parlato. Le due scuole Linji e Cao-Dong furono introdotte in Giappone tra il XII e il XIII sec., sotto le denominazioni rispettivamente di Rinzai e Sōtō, in particolare dal monaco Dōgen (1200-1253). Tra i metodi di trasmissione da maestro a discepolo che la scuola Chan dei secc. X-XI privilegiava, i più celebri erano i gong'an (in giapponese kōan). Essi consistono nel riferirsi alle cose non direttamente, e addirittura utilizzando le parole contro le parole, attraverso una serie di 'antidiscorsi' che si servono delle parole soltanto per ridurle al nulla, all'assurdo. Alcuni possono consistere in una risposta senza alcun rapporto con la domanda ("Cos'è il Buddha?", "Tre libbre di canapa"), altri in una domanda che rimane senza risposta ("Che rumore fa una sola mano che applaude?").
Vi è in questi metodi un rifiuto della trasmissione attraverso il discorso, una presa di posizione antintellettuale, se non addirittura iconoclasta, che era già al centro del Libro del Maestro Zhuang (Zhuangzi). Sotto questo profilo, la scuola Chan può essere considerata la più rappresentativa dello sviluppo buddhista in Cina poiché incarna la sublimazione dello spirito cinese, quale si manifesta nel taoismo filosofico, e ha ispirato i più grandi poeti Tang, come Li Bai (o Li Bo, 701-762) o Wang Wei (701?-761). Tuttavia, la scuola Chan non può essere ridotta a una semplice trasformazione o rinascita del taoismo. Il taoismo filosofico non faceva altro che proporre un naturalismo, mentre la scuola Chan cristallizza la nozione di spontaneità dandole un senso di risveglio, concetto tipicamente buddhista. In realtà, il Chan pretende addirittura di aver ritrovato il cuore stesso della spiritualità buddhista andando diritto al suo scopo primario, cioè la salvezza tramite l'illuminazione. è forse la perfetta simbiosi dello spirito buddhista e del genio cinese, realizzata nella scuola Chan, a spiegare in parte come quest'ultima sia stata l'unica scuola risparmiata dalla grande ondata di persecuzioni contro il buddhismo nell'845, che segna l'inizio del declino dell'influenza buddhista in Cina.
La rinascita confuciana, detta comunemente 'neoconfucianesimo', che si manifesta alla fine dei Tang e si sviluppa nel periodo dei Song settentrionali nell'XI sec., consiste in effetti in un immenso sforzo di ripensamento della tradizione da parte di una coscienza cinese travagliata da quasi dieci secoli di problematica buddhista. Questa revisione radicale è condotta in particolare nel senso di un'educazione del sé spirituale, se non addirittura mistica; invece di volgere lo sguardo all'interno, per percepire lo spirito come natura del Buddha, per questi confuciani di nuova ispirazione si tratta di mettere alla prova lo spirito, nella ricerca di una saggezza indissociabile da una concezione dell'uomo presente nel mondo e impegnato nella società. Il messaggio di Confucio e di Mencio si trova quindi a essere applicato in modo più diretto alla vita personale e ai problemi del tempo.
Han Yu (768-824) è generalmente considerato il precursore dello spirito neoconfuciano, poiché vi è in lui una nuova volontà di ritrovare i fondamenti, di risalire alla fonte vivente dell'etica e dell'insegnamento confuciani. Mentre Li Ao (772-836) rappresenta ancora uno stato di fusione tra confucianesimo, taoismo e buddhismo, il successivo neoconfucianesimo dei Song riaffermerà con vigore il primato dell'uomo rispetto alle concezioni buddhiste e taoiste che presentano l'Universo come indifferente ai valori umani e ai tormenti della vita sociale.
Il neoconfucianesimo, conosciuto in un primo tempo con il nome cinese di 'studio della Via' (daoxue), nasce da una nuova esigenza educativa, generata dallo sviluppo delle tecniche di stampa, come pure dalla necessità di riaffermare i valori morali confuciani in una società votata all'egualitarismo del taoismo e del buddhismo Mahāyāna. Si osserva una nuova aspirazione a ravvivare, al di là del confucianesimo scolastico degli Han e dei Tang, il soffio profetico dell'originario insegnamento confuciano. Tutti i grandi pensatori del rinnovamento confuciano nel periodo Song condividono l'idea che la Via è una, che è necessario risvegliarla dal suo lungo sonno dopo Mencio, e che è possibile tornare a essa attraverso la comprensione globale del messaggio dei Classici e l'educazione morale che porta alla santità. È così che, tornando alle intuizioni originali di Confucio, lo 'studio della Via' tenta di renderle praticabili nel vissuto concreto; di qui un rinnovamento radicale, nel periodo Song, degli studi dei Classici, interpretati non più in un contesto ritualistico, ma come un'etica individuale e critica.
Per il mondo intellettuale dei Song si tratta di cercare una nuova visione sintetica dopo il grande sconvolgimento buddhista. Alternando violente reazioni di rigetto a un'assimilazione più o meno consapevole, i pensatori che si richiamano allo 'studio della Via' rivendicano la specificità confuciana sulla base di una spiritualità buddhista. Essi riprendono in particolare la distinzione, introdotta dai buddhisti, tra 'realtà ultima' (li) e 'realtà concrete' (shi) per ricostruire la relazione organica instaurata dall'antica cosmologia cinese tra gli esseri e il loro generatore unico e unificante (il Tao), e sostituiscono la nozione di 'energia vitale' (qi) a quella di 'realtà concrete', condannate dai buddhisti come scarti della vera realtà.
Tutti gli sforzi neoconfuciani di ripensare il mondo a seguito delle problematiche introdotte dai buddhisti si fondano sull'idea che la comprensione della relazione tra l'uomo e il Cosmo condizioni fondamentalmente la moralità; in altre parole, la riflessione sull'etica e la ricerca della santità sono da ricollocare su base cosmologica. Di fronte al buddhismo, che ha offerto una riflessione senza precedenti sulla condizione umana, si tratta di reintrodurre la questione della natura umana e, così facendo, di salvare dal dubbio buddhista i fondamenti della condotta etica e dei valori morali. Il problema della natura dell'uomo, che era stato oggetto di tanti dibattiti nel periodo preimperiale, ritorna prepotentemente d'attualità; la posta in gioco è stabilire se la natura umana è in sé stessa morale, come affermava Mencio, il che porterebbe naturalmente alla santità. Il problema consiste nell'ineluttabilità di riconoscere l'esistenza del male nel mondo, sottolineata dal buddhismo sotto l'aspetto dell'universalità del duḥkha ('dolore'), come pure nell'estrema difficoltà, se non addirittura impossibilità, per la maggior parte degli esseri umani, di raggiungere la santità. Il rinnovamento dello spirito confuciano si traduce così in un moto di ottimismo, una riproposta potente della scommessa originale di Confucio sull'uomo, della sua fiducia nella perfettibilità della natura umana ‒ uno sforzo immenso che si protrarrà ancora nel corso di molti secoli.
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