La scienza in Cina: dai Qin-Han ai Tang. L'eredita preimperiale
L'eredità preimperiale
La Cina è un paese le cui grandi diversità regionali (da un punto di vista orografico, meteorologico, agricolo, ecc.) in epoca preistorica e protostorica hanno accentuato le diversità tra le molte culture locali; la continuità del territorio cinese ha tuttavia permesso di mantenere i contatti, per quanto difficoltosi, tra tali culture. Le dinamiche di questo intenso scambio interregionale spiegano probabilmente le peculiarità dello sviluppo culturale cinese, caratterizzato sin dai suoi inizi da un processo di omologazione che conduceva a un'apparente uniformità.
I ritrovamenti archeologici testimoniano spesso l'esistenza di una miscela di varie culture locali nell'ambito di una stessa area regionale, come dimostrano la contrapposizione, in epoca neolitica, tra la cultura della ceramica dipinta della Cina occidentale e la cultura della ceramica nera della Cina orientale e, più tardi, la coesistenza delle culture neolitica e dell'Età del bronzo nei territori degli Shang (XVIII-XI sec. a.C.) e dei Zhou occidentali (XI sec.-771 a.C.). Questo permette forse di spiegare la nascita precoce e la prematura scomparsa di molte culture locali e regionali e lo sviluppo 'a salti' dei complessi culturali che ne derivarono. In effetti, molte di queste culture locali non poterono svilupparsi e decadere in modo autonomo, ma furono sopraffatte, attraverso la conquista o l'adattamento, dalle culture confinanti, perdendo le loro caratteristiche specifiche. Questo processo di omologazione cui si è accennato diede origine all'emergere di complessi culturali che si svilupparono in modo discontinuo, passando bruscamente dal Paleolitico al Neolitico o dal Neolitico all'Età del bronzo.
Questo particolare ritmo dello sviluppo culturale può essere forse messo in relazione con la presenza di un tema tragico, dominante nei miti cosmogonici cinesi: tutti gli dèi creatori muoiono prima della comparsa del mondo degli umani. Il più celebre di questi miti narra della morte del gigante Pangu, nato dall'uovo cosmico, e di come il suo cadavere sia divenuto il nostro Universo. L'origine di questo mito è tuttora incerta, ma il tema della morte tragica si riaffaccia in molte altre cosmogonie cinesi, di più sicure origini. Il più importante di essi ha come protagonista Hundun, il 'caos originario', che era privo di qualsiasi orifizio corporeo per gli organi di senso e morì tragicamente dopo che sette aperture (occhi, orecchie, narici e bocca) furono praticate nel suo corpo, per dare all'umanità un Universo sensibile in cui vivere. In un altro celebre mito si parla del dio-sovrano Gonggong ('lavoro comune'), che si uccise battendo la testa contro un pilastro cosmico, causando così il collasso del Cosmo allora esistente, e il suo sprofondare nel caos. In seguito giunse Nüwa, che diede nuovamente forma al Cosmo crollato, che tuttavia rimase in qualche modo danneggiato e imperfetto; Nüwa creò anche gli esseri umani (non uno o due, ma molti), plasmandoli dalla terra gialla, opera che assorbì tutte le sue energie, lasciandola mortalmente esausta; dopo la sua morte, i brandelli del suo intestino furono trasformati in orridi spiriti. I tragici destini di questi e di molti altri esseri mitologici sono narrati in un'opera classica, Domande sul Cielo (Tianwen), attribuita solitamente a Qu Yuan (340-278 a.C. ca.), ma che potrebbe aver avuto origine dalla tradizione mitologica della Cina meridionale di diverse epoche. Come suggerisce il titolo, l'opera pone una serie d'inquietanti interrogativi sull'origine tragica e sulla nefanda genealogia del Cosmo, degli dèi e dell'umanità, gettando l'ombra di un dubbio radicale sul significato e sugli scopi della giustizia celeste.
La caduta della potente dinastia Shang, avvenuta intorno al 1045 a.C., costituisce un esempio ben attestato delle circostanze storiche che presiedettero alla formazione di questa coscienza tragica. Le fonti tradizionali e i ritrovamenti archeologici confermano la storicità della dinastia e il carattere teocratico del suo dominio. Nell'universo Shang, Di, la divinità suprema, comandava le divinità minori che governavano la sfera celeste, proprio come Di, il sovrano, comandava i nobili che governavano lo Stato; attraverso la divinazione, Di il sovrano chiedeva quotidianamente a Di la divinità suprema di guidarlo in ogni genere di decisione. Intorno al 1045 a.C. questa potente teocrazia fu rovesciata dalla dinastia Zhou. Il trauma causato dal crollo degli Shang portò alla diffusione di un atteggiamento più prudente in materia religiosa; infatti, s'iniziò a pensare che potessero esservi un modo sbagliato e un modo giusto di venerare gli dèi, o perfino un genere buono e uno cattivo di dèi (gli spettri), e che spettasse agli uomini regolarsi in modo ragionevole in questo campo.
Nel periodo Zhou, Di, il dio guerrafondaio e sanguinario degli Shang, fu sostituito da una divinità di stampo universalistico, etico e naturalistico: Tian, il Cielo, che regna su tutti gli esseri (compresi gli umani e gli animali) e li ama in modo imparziale, offrendo protezione, nutrimento e riparo alle diecimila specie viventi sotto di lui. In quanto personificazione della giustizia celeste, il Cielo o la Natura consente a ogni essere di svilupparsi secondo la sua natura e lo ricompensa secondo i suoi meriti, affidando al più degno degli uomini il 'mandato celeste' (tianming), cioè il compito di governare su tutto. Dato che ciascuno riceve ciò che si merita, in base a una giustizia celeste e non al favore divino, iniziò a diffondersi l'idea che il successo negli affari del mondo fosse la conseguenza diretta del proprio comportamento e non del favore divino.
La dinastia Zhou (XI sec.-221 a.C.) giustificava il rovesciamento degli Shang affermando che questi ultimi, con le loro azioni malvagie, avevano perduto il mandato del Cielo, che era quindi passato nelle mani del sovrano grazie ai meriti accumulati dai Zhou nel corso delle passate generazioni. Tuttavia, anch'essi avrebbero potuto perdere il mandato in futuro, se si fossero mostrati indegni. La giustizia del Cielo si sarebbe così compiuta, secondo un'ottica umanistica, etica e naturalistica al tempo stesso, per la quale la Via del Cielo o della Natura è anche la Via degli uomini.
Legittimata e guidata da questa nuova fede, la dinastia Zhou riuscì a unificare politicamente molte tribù e clan, espressioni di diverse culture locali. L'unificazione, guidata dal sovrano Zhou in quanto investito del mandato del Cielo, dava luogo a una gerarchia di molte centinaia di Stati feudali più o meno autonomi, ciascuno dei quali aveva a sua volta una propria casa regnante e una propria gerarchia feudale, che partecipava della benevolenza celeste attraverso la mediazione del re Zhou. L'unione comprendeva non soltanto alcuni rami minori degli stessi Zhou, i loro antichi alleati, gruppi superstiti degli Shang e altri popoli soggiogati un tempo dagli Shang, ma anche popolazioni stanziate al di fuori dei territori dominati dagli Shang e dai Zhou. Sino ad allora, queste popolazioni si erano combattute tra loro, e soprattutto avevano combattuto contro la tirannia degli Shang; nel periodo Zhou furono cooptate in una confederazione (chiamata a volte 'sistema feudale'), nella quale erano trattate non soltanto come confederati ma come membri di una stessa famiglia allargata, in cui ognuno partecipava del favore del Cielo. Dei cinque titoli feudali introdotti dai Zhou, quattro designavano anche gradi di parentela: gong, che in genere è equiparato al titolo di duca nel sistema feudale europeo, significava anche 'nonno' o 'prozio'; bo ('conte'), significava 'zio'; zi ('visconte'), 'fratello' o 'figlio'; nan ('barone'), 'nipote'.
Al tempo degli Shang, i vantaggi tecnici offerti dall'avanzata Età del bronzo (i manufatti di bronzo, la scrittura, la vita urbana, i carri, ecc.) erano riservati quasi esclusivamente agli abitanti di un unico centro, la Grande Città Shang; nel periodo Zhou, questi benefici furono estesi a centinaia di città capoluoghi della Cina settentrionale. I siti funerari dei Zhou rivelano che fu bruscamente interrotta la crudele pratica dei sacrifici umani, un'importante componente della teocrazia Shang: al posto delle vittime umane, i Zhou sacrificavano infatti figurine di terracotta. L'avvento dei Zhou segnò l'inizio di un lunghissimo periodo di relativa pace tra gli Stati appartenenti all'unione; come testimoniano le iscrizioni bronzee dei Zhou occidentali, per molti secoli quasi tutte le dispute tra i diversi Stati furono ricomposte ricorrendo all'arbitrato del sovrano.
Nella teocrazia Shang, il clero e l'aristocrazia tendevano a formare un'unica classe dirigente, le cui imprese terrene erano sanzionate e guidate dagli dèi attraverso la divinazione, che conferiva loro un carattere sacro. Al tempo dei Zhou si realizzò una separazione tra il clero e gli aristocratici, che formarono la nuova classe dominante dei feudatari; le funzioni svolte dalla vecchia casta sacerdotale furono assunte da una nuova classe di sacerdoti secolarizzati (shi), che successivamente si divise in due distinte categorie: quella dei funzionari (li), incaricati delle attività amministrative, e quella dei letterati (ru), che avevano il compito di preservare i culti e i riti legati alle antiche tradizioni. Nel sistema di valori confuciano, l'importante istituzione della burocrazia (guan) e il prestigio sociale della categoria dei letterati-funzionari ebbero origine da questa trasformazione della classe sacerdotale. Ai funzionari si deve un'abbondante produzione di documenti amministrativi e la creazione dei primi manuali di arte del governo; i letterati, invece, furono responsabili della secolarizzazione degli antichi rituali sacri e della loro trasformazione in cerimonie volte a celebrare una condotta virtuosa, moralmente corretta e socialmente accettabile. Questi testi, con l'aggiunta di commentari sotto forma di discorsi razionalistici e moralistici, formarono il nucleo di quelli che, durante l'ultima fase della dinastia Zhou (770-221 a.C.), furono chiamati 'antichi insegnamenti' o 'antiche tradizioni', custoditi dai letterati confuciani, che seguitarono a compilare ed emendare quelli che consideravano i loro libri canonici o Classici (jing).
I Cinque classici, o sei, se si considera anche il Canone della musica (Yuejing), che entrarono a far parte dei canoni dell'ortodossia confuciana durante la dinastia degli Han anteriori (206 a.C.-9 d.C.), sono i seguenti: il Classico dei documenti (Shujing), il Classico delle odi (Shijing), le Memorie sui riti (Liji), il Classico dei mutamenti (Yijing), gli Annali delle Primavere e autunni (Chunqiu); tra questi testi, l'evoluzione del corpus del Classico dei mutamenti può servire a illustrare il complesso processo attraverso cui gli antichi riti si trasformarono in Classici. Il popolo Zhou, ai tempi in cui era ancora una tribù nomade, aveva elaborato un semplice metodo di divinazione (yi); dopo la conquista dell'Impero Shang, intorno al 1045 a.C., questo metodo sostituì l'elaborata pratica oracolare Shang, basata sull'osservazione delle ossa, dando origine a un complesso sistema divinatorio numerologico. La procedura di divinazione consisteva nel suddividere diverse volte un mazzo di steli di achillea, sino a ottenere un insieme composto da 6, 7, 8 o 9 steli. I mazzi di 6 o 8 steli (i numeri pari) indicavano l'elemento yin, simboleggiato da una linea interrotta (−−yin), mentre quelli formati da 7 o 9 steli (i numeri dispari) indicavano l'elemento yang, simboleggiato da una linea continua (- yang). Ripetendo tre volte questa operazione si ottenevano tre linee che formavano uno degli otto possibili trigrammi e ripetendola sei volte si ottenevano sei linee che formavano uno dei 64 possibili esagrammi.
La coppia yin-yang serviva a esprimere una serie innumerevole di concetti contrapposti: ombra/luce, oscuro/luminoso, spezzato/intero, pari/dispari, femmina/maschio, debole/forte, morbido/duro, indietreggiare/avanzare, ricettivo/assertivo, passivo/attivo, vuoto/pieno, come anche negativo/positivo, esterno/interno, non essere/essere. Analoghe indicazioni erano ricavate da altre contrapposizioni rilevabili nell'esagramma, come quella tra la qualità delle singole linee (yin-yang) e la posizione yin o yang delle stesse linee all'interno del trigramma o dell'esagramma (la prima, la terza e la quinta linea erano considerate posizioni yang, mentre la seconda, la quarta e la sesta posizioni yin), o tra il trigramma superiore e quello inferiore dell'esagramma, o tra due linee collocate in posizioni corrispondenti (come, per es., la prima linea del trigramma superiore e la prima di quello inferiore, ossia la prima e la quarta linea dell'esagramma).
L'esame di queste coppie simmetriche di 'contrasti' era accompagnato da formule della magia popolare o da espressioni del linguaggio rurale, di cui possiamo soltanto cercare d'indovinare il significato metaforico. Queste locuzioni possono riferirsi a un esagramma completo, nel qual caso ne designano presumibilmente il nome e la predizione a esso collegata in origine, oppure a ciascuna linea dell'esagramma, di cui rivelano il significato occulto. La difficoltà di mettere in relazione le strutture simboliche degli esagrammi con le profezie metaforiche a essi collegate ha messo a dura prova la mente di molti pensatori cinesi (compreso Confucio), che composero innumerevoli commentari e glosse al corpus originale, tentando di esporre le varie interpretazioni cosmologiche, numerologiche, ontologiche, sociopolitiche o etiche delle diverse correlazioni. In questo modo il Classico dei mutamenti fornì l'impulso iniziale allo sviluppo del pensiero speculativo in Cina.
Il tema dominante del Classico dei mutamenti è la fugacità di tutte le cose, sia naturali sia umane, e gli esagrammi erano utilizzati alla stregua di guide simboliche per affrontare con ragionevole distacco le situazioni complesse nonché pericolose, secondo un criterio numerologico. L'opera è tradizionalmente attribuita al re Wen dei Zhou, il quale l'avrebbe composta mentre era prigioniero dell'ultimo sovrano della dinastia Shang. Al trauma religioso prodotto dal crollo della teocrazia Shang fece dunque seguito, intorno al 1000 a.C., questa prima espressione della mentalità naturalistica, umanistica ed etica che avrebbe caratterizzato gran parte del pensiero cinese successivo. Tra il tardo periodo Zhou e l'inizio dell'epoca imperiale, questa nuova corrente spirituale-culturale costituì la base di un'idealizzazione della dinastia Zhou (la più longeva della storia cinese, almeno formalmente) e della sua civiltà, considerata da molti pensatori cinesi, e in particolare dai confuciani, come l''età dell'oro' della Cina. Questo retaggio idealizzato formò a sua volta il nucleo della millenaria tradizione culturale, intellettuale e scolastica della Cina.
La caduta della dinastia dei Zhou occidentali, nel 771 a.C., produsse un trauma ancora più profondo nella coscienza storica dei Cinesi, interpretato in seguito come la 'perdita dell'età dell'oro'; le incessanti guerre tra i diversi Stati che caratterizzarono i periodi successivi, noti con i nomi di Primavere e autunni (770-481 a.C.) e degli Stati combattenti (480-221 a.C.), acuirono la nostalgia del popolo per 'il buon tempo andato' dei Zhou. La vasta produzione di armi di ferro, a partire dal V sec. a.C., aumentò moltissimo l'intensità, l'estensione e le conseguenze distruttive dei conflitti. I circa 800 Stati feudali esistenti all'inizio dell'epoca Zhou si ridussero a una manciata nel periodo degli Stati combattenti; questo significa che oltre il 99% degli antichi clan aristocratici, i cui avi fondatori avevano condiviso il mandato del Cielo con i re Zhou, si trovarono ad aver perso tutto, compresa la fede nell'esistenza di un Cielo benevolo e giusto e nell'efficacia dei vecchi valori feudali, e il popolo rimase sconcertato dalla 'perdita della Via' dei primi re.
Questa crisi religiosa diede origine alle Cento scuole del pensiero classico, fondate da pensatori di diverso valore, originari delle diverse regioni della Cina e provenienti da varie classi sociali (oltre ai figli di famiglie nobili o ex nobili, ne fecero parte perfino braccianti e schiavi affrancati), che si sforzarono di trovare una via, o la Via, per uscire dalla crisi.
La tradizione menziona un Laozi (lett. 'Vecchio Maestro' o 'Vecchio bambino') vissuto nel VI sec. a.C. o probabilmente anche prima, come il primo grande filosofo che cercò di afferrare il significato profondo ma sfuggente dell'infinita, ineffabile e onnipotente Via (Dao o Tao), attribuendogli la paternità di un conciso volume, il Libro della Via e della Virtù (Laozi o Daode jing) e la fondazione della scuola taoista. Secondo la tradizione, inoltre, questo Vecchio Maestro avrebbe fornito alcuni consigli a Confucio in merito ai riti, esercitando così un'influenza determinante sullo sviluppo del pensiero classico cinese. La credibilità di tali leggende è stata messa in dubbio da molti studiosi, secondo i quali il Libro della Via e della Virtù sarebbe un'opera sincretica taoista del III sec. a.C.; ciò non esclude tuttavia la possibilità che almeno alcune delle idee fondamentali esposte nel libro siano state formulate in un'epoca molto precedente e trasmesse oralmente da un oscuro Vecchio Maestro o da una serie di vecchi maestri, prima di essere fissate definitivamente sulla carta.
I temi affrontati nel Libro della Via e della Virtù sono almeno in parte riconducibili alla crisi religiosa esplosa nel periodo delle Primavere e autunni. Ne citiamo alcuni: (1) gli esseri umani sono incapaci di comprendere la Via assoluta, permanente (il Grande Tao, preesistente al Cosmo che esso produce e governa); (2) la Via è destinata dunque a rimanere un mistero per l'umanità; (3) confinati nel mondo finito, mutevole e crudele al quale appartengono, gli esseri umani sono posti di fronte a un numero limitato di possibilità: accettare passivamente, rifiutare con la fuga, manipolare astutamente, o trascendere misticamente la propria condizione; ciascuno deve scegliere la propria via nel variegato panorama di piccoli Tao umani; (4) ognuna di queste vie richiede un impegno da parte dell'uomo nel momento cruciale. Questi temi sottendono l'intero spettro del pensiero classico cinese, come si evince dalla cauta riaffermazione confuciana del pragmatismo umanistico.
Confucio (551-479 a.C.) è il primo pensatore cinese dell'Antichità del quale si possiedono informazioni sufficienti e attendibili, grazie ai Dialoghi (Lunyu) compilati dai suoi discepoli. Anche Confucio lamentò l'infelicità umana in un mondo caotico, rimpiangendo la pace e l'armonia dell''età dell'oro' degli antichi Zhou. Egli aspirava a ricreare nel mondo una condizione di pace e armonia, instillando un nobile senso del decoro che nasceva dall'osservanza dei 'riti' (li); Confucio riteneva infatti che tale senso del decoro esistesse durante i regni dei primi sovrani Zhou, in una nuova classe di 'uomini nobili' (shi o junzi) ‒ individui nobili non per nascita ma per nobiltà della loro condotta. Confucio lavorò per tutta la vita come educatore privato, insegnando le 'nobili arti' dell'aristocrazia Zhou ormai scomparsa agli uomini 'nuovi' della sua epoca. Egli concepiva, tuttavia, il decoro non come semplice adesione a un rituale prescritto da un'autorità esterna (che tra l'altro a quel tempo era del tutto inesistente), ma come l'esternazione della qualità o della potenza più intima dell'essere umano, il ren ('umanità'): "Se un uomo non possiede l'umanità, a che gli varranno i riti? Il li è simile a uno splendido dipinto, ma il ren è il materiale su cui sono applicati i colori" (Lunyu, III, 3-8).
Il significato di 'umanità', come nucleo centrale della dottrina confuciana, è estremamente complesso: nella sua forma più semplice, è una qualità innata o potenziale, facilmente individuabile in ogni essere umano, ma al livello più alto è un ideale che nessun essere umano potrà mai realizzare completamente e perfettamente. Il nesso cruciale che lega il ren, inteso come potenzialità innata, al ren come ideale supremo va ricercato nell'educazione, nel processo di apprendimento e d'insegnamento (aiutare gli altri ad 'apprendere'). Confucio afferma: "Come oserei pretendere di possedere la sensibilità umana? Tuttavia non mi sazio di ricercarla, né mi stanco d'insegnarla agli altri" (ibidem, VII, 33). In un altro passo descrive così la propria evoluzione: "A quindici anni mi impegnai a imparare, a trenta mi sono retto in piedi. A quarant'anni sono cessati i dubbi. A cinquanta ho conosciuto la volontà del Cielo. A sessanta, l'orecchio si è fatto ubbidiente e a settanta posso seguire i desideri dell'animo, senza infrangere le regole" (ibidem, II, 4). Poiché a quell'epoca era raro che una persona superasse l'età di settant'anni, Confucio intendeva chiaramente affermare che l'educazione deve prolungarsi per tutto l'arco dell'esistenza.
Secondo Confucio, imparare significa in primo luogo, e per ciascun essere umano, "imparare a essere umani (ren)", in tutte le proprie azioni e in ogni stadio della vita. "L'istruzione non discrimina nessuno, ma trasforma tutti" (ibidem, XV, 38) e di conseguenza consente di stabilire l'ordine e l'armonia nel mondo. I Dialoghi sono densi di esempi che vedono Confucio impegnato ad apprendere e ad aiutare gli altri ad apprendere, ma non dedicano molto spazio alla descrizione sistematica o analitica della Natura e del significato dell''apprendere' in astratto; come l'umanità (ren), anche l'apprendimento è concepito come qualcosa che può essere realizzato solamente come attività concreta degli esseri umani.
Per molti versi il moismo, la dottrina attribuita a Mo Di, le cui date di nascita e morte, in assenza di riferimenti certi, possono essere comprese tra il 468 e il 376 a.C. ca., è l'esatto contrario di quella di Confucio. Mentre questi parlava di situazioni concrete appartenenti all'esperienza esistenziale degli uomini, Mo Di si esprimeva in termini di ragioni, cause, principî e ideali. Egli affermava che per curare il mondo dai suoi mali (caos, conflitti, sofferenze, ecc.) era necessario innanzitutto scoprirne la causa, che a suo avviso era individuabile in un unico fattore, l'egoismo (lett. "mancanza di amore universale, o di sollecitudine imparziale"). "Chi ama solamente sé stesso non si preoccupa di recare danno agli altri; una famiglia che ama soltanto sé stessa non si preoccupa di recare danno alle altre famiglie; uno stato che ama soltanto sé stesso non si preoccupa di recare danno agli altri stati; così, giorno dopo giorno, fanno del male agli altri e ne ricevono in cambio" (Mozi, 14). Inoltre, "una persona che ama solamente sé stessa è convinta che ciò che essa ritiene 'giusto' (yi) sia giusto, e che ciò che gli altri ritengono 'giusto' sia invece 'sbagliato'; così una sola persona ha un'unica idea di 'giustizia'; […] dieci persone hanno dieci idee differenti di 'giustizia'; più persone abbiamo, più numerose sono le idee di 'giustizia'; così, ognuno si serve della sua idea di 'giustizia' per 'fare torto' agli altri" (ibidem, 11).
Per salvare il mondo, sostiene Mo Di, è necessario sostituire questa causa di tutti i mali con una causa opposta, l'amore universale (o sollecitudine imparziale). Chiunque ami gli altri quanto sé stesso non può fare loro del male; lo stesso principio vale per una famiglia o per uno Stato. Di conseguenza, se prevalesse questa causa, nessuno sarebbe danneggiato o danneggerebbe gli altri. Quando si amano gli altri come sé stessi, è necessario saper accettare in modo costruttivo la ragione degli altri nel suo giusto valore. In questo modo sarà possibile gettare le basi per stabilire regole comuni, principî universali e modelli ideali che permettano di unire il genere umano. I membri di una comunità eleggeranno il migliore tra loro come guida; salendo di livello, si giungerà così fino al sovrano, che sarà l'uomo più virtuoso sotto il Cielo; tutti i membri delle comunità esistenti sotto il Cielo dovranno adeguare i propri pensieri e le proprie azioni a quelli dei loro superiori, seguendo la scala gerarchica sino al re, che dovrà conformare i propri pensieri e le proprie azioni a quelli del Cielo. In ultima analisi, soltanto il Cielo è privo d'imperfezioni e realmente superlativo, e soltanto il Cielo (non i genitori e neppure il re, che non è privo di difetti) è dunque degno di rappresentare il "modello ideale, o norma, che tutti devono tentare di emulare", come la squadra e il compasso del carpentiere servono da norma per i quadrati o i cerchi tracciati dagli uomini.
L'importanza attribuita dai moisti a termini quali causa, modello, principio e ideale sembrerebbe del tutto inconciliabile con l'approccio pragmatico di Confucio, tuttavia, nella versione del Libro del Maestro Mo che ci è giunta, la dottrina moista appare minata da una certa incoerenza, o addirittura contraddizione, tra la sua base idealista e l'esplicita accettazione di un utilitarismo pragmatico. Per esempio, i moisti sostenevano che l'umanità doveva praticare l'amore universale, non solo per conformarsi a un imperativo divino o ideale del Cielo, ma anche perché questa era la scelta più vantaggiosa sul piano concreto per l'intera umanità.
Il desiderio di risolvere queste contraddizioni e l'esaltazione della conoscenza 'intellettualistica', cioè riguardante le cause e i principî delle cose, spinsero i moisti a interessarsi ai problemi di carattere epistemologico, logico e metodologico, trascurati sino a quel momento dai pensatori cinesi. Partendo dal postulato secondo cui il Cielo rappresenta la norma perfetta cui l'umanità deve adeguarsi, i moisti giunsero a porsi una domanda fondamentale: in che modo l'umanità può arrivare a conoscere la causa del Cielo o, più semplicemente, come avviene la conoscenza? Tale questione è al centro del Canone moista che forma alcuni capitoli del Libro del Maestro Mo (v. cap. V, par. 1).
Le posizioni assunte da questi primi pensatori sul problema epistemologico della conoscenza umana mettono in luce i limiti tematici e lo schematismo del pensiero classico cinese. I primi taoisti, pur manifestando un atteggiamento fondamentalmente agnostico nei riguardi della Via trascendente, avevano mantenuto ambiguamente l'assunto secondo cui gli esseri umani rimangono comunque, nel loro mondo, gli unici agenti della conoscenza. Confucio, riprendendo questo agnosticismo, aveva sottolineato la portata esistenziale dell'impegno umano (apprendere il ren), senza però definire sul piano concettuale la natura di tale impegno, ma preferendo affrontare l'argomento in termini più circostanziati. I moisti tentarono di operare una grande sintesi, restituendo al Cielo il suo ruolo d'ideale assoluto, ossia di norma perfetta, che implicava per l'intero genere umano l'imperativo universale della Grande Unità. Questo schema grandioso incontrò tuttavia la ferma opposizione di due validi avversari, Yang Zhu (395-335 a.C. ca.) e Mencio (Mengzi, 372-289 a.C. ca.).
Yang Zhu divenne celebre come sostenitore della tesi dell'assoluto amore di sé, in opposizione all'amore universale dei moisti. Secondo quanto riferisce Mencio, egli avrebbe affermato che ognuno deve amare e aver cura solamente di sé stesso, sino al punto di rifiutarsi di portare beneficio al mondo intero se ciò avesse implicato la rinuncia anche a un solo pelo del proprio corpo, perché riteneva che in questo modo ogni essere umano sarebbe rimasto integro e autosufficiente, senza recare danno né a sé né agli altri.
Il ragionamento originale di Yang Zhu era forse un po' più sofisticato, almeno a giudicare dal capitolo intitolato Yang Zhu del Libro del Maestro Lie (Liezi), opera per la quale sono state proposte datazioni che spaziano dal III sec. a.C. al IV sec. d.C. Qui Yang Zhu respinge l'ipotesi di "strappare un pelo dal proprio corpo per portare beneficio al mondo intero" perché pragmaticamente impossibile. Egli argomenta che così come nessuno sarebbe disposto a privarsi di un arto per una piccola ricompensa, bisognerebbe anche rifiutarsi di rinunciare a un solo pelo del proprio corpo in cambio di un guadagno molto maggiore, quale potrebbe essere il dominio del mondo. Questo perché in entrambi i casi abbiamo a che fare con le stesse categorie: un pelo e un arto (piccolo o grande) sono intrinseci alla nostra identità corporea, mentre i vantaggi esterni (grandi o piccoli) non lo sono, e in linea di principio non si dovrebbe sacrificare ciò che è intrinseco a favore di ciò che è estrinseco.
Mencio fu uno dei principali artefici dell'affermazione del confucianesimo come scuola di pensiero distinta dalle altre, soprattutto grazie agli attacchi da lui portati ai suoi più diretti avversari, i moisti e Yang Zhu. Mencio rimproverava ai primi di negare, con la loro dottrina dell'amore universale (o sollecitudine imparziale), il principio "del[l'amore o sollecitudine particolare per il proprio] padre", e al secondo di cancellare, con la sua esaltazione dell'assoluto amore di sé (o perfetta autosufficienza), qualunque senso di "[lealtà o rispetto verso il proprio] governante" (Mengzi, III b, 9); ciò equivaleva a esortare gli uomini a essere simili alle bestie, che non conoscono né padre, né governo. Secondo Mencio, gli esseri umani si distinguono dagli uccelli e dagli altri animali per la loro natura morale (xing), che è innata e, in quanto tale, deve essere considerata un dono del Cielo. Egli definisce questa natura morale come ciò che appartiene unicamente agli esseri umani e che li rende tali, distinguendola da altre qualità innate e naturali che gli esseri umani condividono con altre creature viventi. Tutti gli esseri umani, sostiene Mencio, possiedono una naturale inclinazione verso il bene, come l'acqua possiede una tendenza naturale a scendere verso il basso. Con questa metafora, Mencio intendeva esprimere l'identità tra Natura e morale.
Nelle pagine iniziali del Libro del Maestro Mencio (Mengzi), l'autore mette eloquentemente in contrapposizione la ricerca del profitto, tipica del governante, e quella della 'rettitudine' (yi), da lui sostenuta, affermando che ogni profitto è per natura particolaristico e finito e che pertanto ciò che può rappresentare un guadagno per una persona, una famiglia o uno Stato, potrebbe non esserlo per altre persone, famiglie o Stati, o potrebbe perfino arrecare loro danno; la ricerca particolaristica del profitto conduce quindi inevitabilmente all'insorgere di conflitti tra gli individui, le famiglie e gli Stati. Al contrario, la ricerca universalistica della rettitudine, in quanto elemento comune insito nella natura morale di tutti gli esseri umani, non può che promuovere la solidarietà tra gli uomini e favorire la loro aggregazione; di conseguenza, il governante che sceglie di perseguire questo obiettivo diverrà invincibile, come dire che il massimo profitto si ottiene non ricercando il profitto.
L'approccio alle questioni personali, sociali, economiche e politiche di Mencio è caratterizzato da un marcato realismo; benché la bontà sia una qualità innata della natura umana, essa deve essere alimentata e coltivata, altrimenti le circostanze sfavorevoli potrebbero soffocarla. Il pieno sviluppo della bontà naturale insita in ciascun essere umano richiede il miglioramento delle condizioni di vita, l'adozione di metodi e programmi educativi appropriati, un'equilibrata programmazione dei tempi di lavoro e di riposo e la possibilità di disporre di sufficienti mezzi di sussistenza; il principale obiettivo del governo benevolo (renzheng) del saggio deve essere quello di garantire tutto ciò al popolo. Un governante capace di realizzare questo programma sarà reso invincibile dalla forza della sua 'rettitudine' (yi), grazie alla quale sarà in grado non soltanto di unire tutti gli esseri umani, ma anche di porsi in armonia con il Cosmo.
La tradizione esegetica confuciana attribuisce a Mencio il merito di aver formulato per primo l'ideale di yi o 'rettitudine', in aggiunta a quello di ren o 'umanità, sensibilità umana', proposto da Confucio; è probabile tuttavia che esso sia stato ispirato a Mencio dalla discussione dello yi nel senso di 'idea di giustizia', contenuta nel Libro del Maestro Mo. Sempre Mo Di potrebbe aver suggerito a Mencio l'idea di consigliare al governante di promuovere la solidarietà umana e l'unione del popolo; ma queste ipotesi sono in contraddizione con le dure critiche rivolte da Mencio a Mo Di e all'utilitarismo dei moisti. Con la sua grande eloquenza, Mencio conquistò per sé e per il confucianesimo un ruolo di preminenza nel panorama intellettuale cinese, ma contribuì anche a suscitare ulteriori problemi epistemologici.
I filosofi continuarono dunque a porsi domande del tipo: come è possibile giudicare se un certo ragionamento o un certo ideale sia giusto o sbagliato? E, soprattutto, come avviene la conoscenza? È raggiungibile solamente attraverso gli organi sensoriali, ossia "il colore bianco è visto dagli occhi, la durezza è percepita dalla mano"? Ma allora cosa ci permette di collegare tra loro il colore bianco e la durezza, e di riconoscere come tale "una pietra bianca e dura?" (Gongsun Longzi, 5). È forse il pensiero? Ma essendo il pensiero un processo interiore, come può avere cognizione della realtà esteriore? Se può farlo servendosi di strumenti di riferimento, di quali strumenti si tratta?
Nel Libro del Maestro Gongsun Long (Gongsun Longzi) si osserva che il processo cognitivo presuppone (a) un agente di riferimento, cioè un dito indicatore; (b) un atto di riferimento, cioè l'atto di indicare una cosa; (c) il significato cui ci si riferisce, cioè la cosa che è indicata ('cosità'). Tuttavia, non sempre è possibile esprimere un certo significato con un'indicazione; per esempio, come connotare un cavallo giallo in un gruppo di cavalli che non si trova alla nostra presenza e che pertanto non può essere indicato con un dito? Ci serviamo delle parole, in questo caso dei termini 'colore giallo' e 'cavallo', ma cosa sono le parole e in che modo possono svolgere una funzione di riferimento? La risposta del Libro del Maestro Gongsun Long è che le parole sono 'nomi' (ming), che si riferiscono a 'cose esistenti' (wu) nella 'realtà effettuale' (shi). Questi temi furono approfonditi dai pensatori appartenenti alla cosiddetta 'scuola dei nomi' (Mingjia), i cui esponenti più noti furono Hui Shi (vissuto tra il 370 e il 310) e Gongsun Long (320-250 ca.), ma di cui avrebbero potuto fare parte anche alcuni seguaci tardi del moismo.
Le ragioni per cui questa corrente di pensiero conobbe uno sviluppo limitato sono varie e molteplici: il più grave difetto degli esponenti della scuola dei nomi era la tendenza a servirsi in modo non convenzionale dei termini convenzionali, per confezionare paradossi. In cinese lo stesso termine può essere impiegato infatti come sostantivo, come verbo o come aggettivo a seconda del contesto, determinato a sua volta dalle convenzioni linguistiche. Così, per esempio, la tesi della scuola dei nomi riguardante gli strumenti di riferimento, che abbiamo appena ricordato, significa in effetti: "È importante distinguere tra (a) il 'dito' [che serve per indicare], (b) il 'dito' [cioè l'azione d'indicare] e (c) [la cosa che è indicata dal] 'dito'"; tradotta letteralmente, essa suonerebbe però in questo modo: "Un dito non è un dito, che non è un dito" (Gongsun Longzi, 3). La scelta di servirsi della stessa parola (dito), invece di ricorrere a tre diverse parole o espressioni per differenziare i tre referenti, finisce per confondere la questione, piuttosto che chiarirla. La stessa debolezza si riscontra anche in altri celebri enunciati, come per esempio "un cavallo bianco non è un cavallo" e "non può esistere una pietra dura e bianca" (ibidem, 2, 5). Per questa ragione, i pensatori appartenenti a questa scuola furono accusati di servirsi dei nomi (parole) per confondere la realtà.
Il risultato più importante del dibattito intorno al significato delle parole, dei nomi e degli strumenti di riferimento fu forse quello di portare in primo piano il problema della concettualizzazione dell'immateriale. I concetti di 'infinito' e di 'zero', elaborati da questi pensatori, ebbero notevole importanza nello sviluppo del pensiero protoscientifico cinese; la loro tesi più celebre recita: "Il massimo non ha nulla oltre sé stesso, ed è chiamato 'Quello Grande' [ossia l'infinitamente grande è così grande che non può esistere nulla al suo esterno]; il minimo non ha nulla entro sé stesso, ed è chiamato 'Quello Piccolo' [ossia l'infinitamente piccolo è così piccolo che non può esistere nulla al suo interno, cioè è prossimo allo zero]". Di conseguenza, infinito e zero non possono essere oggetto di esperienza, ma possono soltanto essere definiti come concetti.
Come osservarono giustamente i seguaci della scuola dei nomi, l'esperienza insegna che "ciò che non ha spessore" non esiste, poiché tutte le cose esistenti sono tridimensionali, possiedono cioè una lunghezza, una larghezza e un'altezza (o spessore); ciò che è immateriale (ossia "ciò che non ha spessore") può essere soltanto rappresentato come concetto, ma in quanto tale esso manifesta la sua presenza con un significato, come nel caso del referente numerico 'mille', che non ha uno spessore e quindi è privo di esistenza concreta, ma si manifesta sul piano concettuale con una forza tale da poter coprire mille miglia (cioè il significato concettuale di mille nell'espressione mille miglia). Seguendo lo stesso metodo, si può affermare che "il Sud non ha limite eppure ha un limite"; infatti, è possibile definire il concetto di un Sud dotato di un limite anche qualora quest'ultimo non possa essere conosciuto empiricamente (cioè nella realtà) oppure, al contrario, è possibile formarsi il concetto di un Sud privo di limite, anche se non possiamo afferrarne empiricamente (cioè nella realtà) questa qualità (l'illimitatezza) (Zhuangzi, 33).
Dal punto di vista superiore dell'infinito, ogni entità finita possiede soltanto una validità limitata, relativa alla validità limitata di altre entità finite. Per esempio, una sfera finita possiede un solo centro, che non può trovarsi a nord o a sud della sfera (cioè in posizione eccentrica); ma il centro dell'Universo infinito può trovarsi in un punto qualsiasi, compresi il nord del nord e il sud del sud, o in qualunque altro luogo; in altre parole, l'infinito ha un numero infinito di centri e nessun centro (ibidem).
La concettualizzazione dell'infinito fu quindi accompagnata dall'affermarsi di una visione relativistica, che comportò una certa banalizzazione delle questioni epistemologiche riguardanti i diversi modi di conoscere, di nominare e di fare riferimento alla realtà e, in ultima analisi, della realtà stessa. In questo senso, si può affermare che la maggior parte delle ricerche portate avanti dalla scuola dei nomi riguardava il sapere convenzionale. Per esempio, noi pensiamo e affermiamo normalmente che prima di mezzogiorno il Sole sale nel cielo e dopo mezzogiorno cala, ma si tratta in effetti di una pura convenzione umana; rispetto al Sole, queste due fasi (il sorgere e il tramontare) fanno parte di un unico movimento continuo, per cui "il Sole che sorge e raggiunge lo zenit già declina; un essere appena nato sta già morendo [poiché crescere e morire sono termini convenzionali puramente umani]" (ibidem).
Queste e altre analoghe affermazioni attribuite a Hui Shi sono contenute nell'opera collettiva Libro del Maestro Zhuang (Zhuangzi), composta dal celebre filosofo taoista Zhuangzi (vissuto forse negli anni dal 369 al 286 a.C.), dai suoi allievi e da altri seguaci del taoismo. Non sappiamo dunque se esse furono effettivamente pronunciate da Hui Shi o se gli furono attribuite dagli autori del Libro del Maestro Zhuang. È certo tuttavia che le questioni dibattute dalla scuola dei nomi influirono profondamente sul pensiero di Zhuangzi, al punto da far supporre ad alcuni studiosi che la maggior parte del Libro del Maestro Zhuang sia stata scritta per controbattere le questioni sollevate da Hui Shi (Graham 1990).
Come si osserva giustamente nel Libro del Maestro Zhuang, il concetto d'infinito relativizza le differenze tra tutte le cose esistenti, cielo e Terra compresi. Il Grande Peng, un uccello mitologico, possiede ali lunghe mille miglia, ogni loro battito dura tre mesi e lo innalza per un'altezza di diecimila miglia; ma la sua libertà di movimento è, in termini relativi, paragonabile a quella di una cicala o di una colomba (la colomba non può volare come il Grande Peng, ma neppure quest'ultimo può volare come una colomba). La differenza tra la vita di un fungo, che dura soltanto poche ore, e quella di Peng l'Antenato, che visse ottocento anni, è altrettanto relativa; l'esistenza di entrambi è breve se paragonata a quella dell'albero Grande Chun, le cui stagioni duravano ottomila anni l'una; ma la durata di tutte queste esistenze è comunque irrilevante in confronto all'eternità. Dato che ogni verità convenzionale è parziale e relativa, cogliendo una verità se ne perdono inevitabilmente molte altre; così anche nel parlare, affermando una certa cosa, se ne tralasciano tante altre.
Come si osserva nel Libro del Maestro Gongsun Long, la validità di un enunciato dipende da ciò che esso rappresenta, cioè dal cosiddetto 'stato delle cose'. Il Libro del Maestro Zhuang aggiunge che questo stato delle cose dipende a sua volta da altri stati delle cose, per esempio dal modo in cui un certo stato delle cose è visto o conosciuto e così via, ad infinitum. Non esistono enunciati autonomamente o incondizionatamente validi; inoltre, un enunciato, una volta espresso, rimane immutabile, mentre la realtà o lo stato delle cose che esso rappresenta (ossia 'dice') muta continuamente. È del tutto improbabile quindi che qualunque enunciato umano immutabile possa rappresentare adeguatamente la fluidità delle 'cose in sé'; pertanto gli enunciati possiedono soltanto una validità limitata e il loro grado di correttezza e di utilità è sempre relativo. Secondo il taoismo, il discorso assertivo è sempre inferiore a quello non assertivo (come l'espressione poetica), che a sua volta è inferiore al non dire, il quale ultimo corrisponde alla natura indefinita della realtà in sé.
Quanto alla cognizione umana, Zhuangzi fa mostra di un relativismo altrettanto radicale. Dopo aver narrato un sogno in cui era una farfalla, ignara di essere Zhuangzi, egli confessa che se qualcuno gli avesse chiesto se era veramente Zhuangzi che aveva sognato di essere una farfalla, o piuttosto una farfalla che sognava di essere Zhuangzi, avrebbe probabilmente risposto di essere veramente Zhuangzi, ma soltanto perché la domanda era stata rivolta a Zhuangzi, ed era lui stesso a rispondere; se la domanda, però, fosse stata posta alla farfalla, e fosse stata quest'ultima a rispondere, allora probabilmente avrebbe detto di essere in realtà una farfalla. Anche la coscienza è quindi condizionata dal soggetto cosciente e non si può parlare di una coscienza assoluta. La posizione agnostica di Zhuangzi nei confronti del linguaggio e della coscienza umana è riassunta nelle parole iniziali del Libro della Via e della Virtù: "Il Tao [Via] che può essere [concepito dagli esseri umani e quindi] descritto come Tao non è il Tao permanente" (Zhuangzi, 1).
Alcuni ritengono che il relativismo e l'agnosticismo di Zhuangzi fossero soltanto apparenti; i suoi ragionamenti si applicano in effetti solamente alle persone non illuminate e alla loro visione della realtà, di cui mettono in luce i limiti e l'incongruenza per renderle consapevoli dell'esistenza del trascendente e dell'assoluto. Secondo Zhuangzi, perfino la libertà del Grande Uccello Peng, che può volare in tutto il mondo, è relativa e non assoluta, perché ha bisogno del vento per sollevarsi in alto. In altre parole, soltanto chi non dipende dagli altri è assolutamente libero e, di conseguenza, autenticamente 'sé stesso', fedele alla sua natura (zhenren, l'autentico). In ultima analisi, solamente la Natura infinita è 'autoreferenziale' (ziran), quindi indipendente e libera in modo assoluto. È possibile però agli esseri umani raggiungere un tale stato? Zhuangzi sostiene che gli esseri umani sono soltanto apparentemente finiti, ossia lo sono soltanto nella misura in cui si pongono nella prospettiva del finito e considerano sé stessi come esseri finiti; se però si accorgessero del loro errore e si ponessero nella prospettiva dell'infinito, allora capirebbero di far parte della Natura infinita e potrebbero unirsi all'infinito nel regno dell'assoluto. Perfino nel regno umano del relativo è possibile essere fedeli a sé stessi o alla propria vera natura, ed esistere in modo autentico.
Questa visione scettica e agnostica dei primi taoisti si trasformò in un canone imperativo nella redazione definitiva del Laozi, noto dal tardo periodo Han anche con il titolo Libro della Via e della Virtù, che aprì la strada alle dottrine convenzionali, pragmatiche, autoritarie e dogmatiche di Xunzi (313-230 a.C. ca.), di Han Fei (280-233 a.C. ca.), del taoismo Huang-Lao (dai nomi dell'Imperatore Giallo e di Laozi) e dei cosmologi dello yin-yang e delle Cinque fasi (wuxing), che dominano la parte finale del pensiero classico cinese. Le cause di questa evoluzione furono diverse; prima di tutto, malgrado lo scetticismo e l'agnosticismo delle loro posizioni, i pensatori della Cina antica non abbandonarono mai completamente l'approccio empirico e radicalmente umano alle questioni epistemologiche. Pur mettendo in dubbio la validità del sapere umano o la capacità dell'uomo di conoscere l'infinito, non giunsero mai a negare l'origine umana della conoscenza e il ruolo degli esseri umani come agenti conoscitivi; ciò che era messo in discussione era il 'modo' (via) della conoscenza umana, non la conoscenza umana in quanto tale. In secondo luogo, se la conoscenza umana fosse finita e relativa, allora le verità finite e relative sarebbero le uniche verità conoscibili dal genere umano e di conseguenza possederebbero un valore assoluto nel regno degli esseri umani. In terzo luogo, la scuola dei nomi e il Libro del Maestro Zhuang, con il loro pensiero anticonformista, avevano costretto gli altri filosofi a uscire dagli schemi convenzionali e ad approfondire la propria visione della Natura infinita e del suo Tao assoluto, contribuendo così ad accrescere la fiducia nelle possibilità del pensiero umano e nella potenza del ragionamento. In quarto luogo, la tesi del Libro del Maestro Zhuang, secondo cui gli esseri umani non possono realizzarsi in modo autentico nel regno mondano del relativo, ma devono ricercare l'assoluto e uniformarsi a esso, fu interpretata in senso autoritario dai pensatori successivi. Infine, il pensiero classico aveva avuto origine dalla ricerca di una via per salvare il mondo, e il mondo (o chi lo governava) iniziò a domandargli soluzioni positive per risolvere i suoi numerosi e impellenti problemi.
Come abbiamo già detto, la data della versione definitiva del Laozi è ancora oggetto di discussione; alcune delle idee che contiene potrebbero precedere Confucio, ma il tono dogmatico di molti suoi giudizi (in confronto a quello del Libro del Maestro Zhuang) sembra indicare una data molto posteriore. L'opera ispirò gran parte delle dottrine relative all'arte di governo, la strategia militare e l'attività legislativa, elaborate dal taoismo Huang-Lao, che affermò il principio secondo cui "il Tao della Natura genera la Legge umana" (fa, che significa anche 'imitare').
L'aspirazione ad apprendere dalla Natura portò i cosmologi naturalisti a utilizzare una combinazione finita di simboli, e in particolare quelli appartenenti al sistema yin-yang del Classico dei mutamenti e al sistema delle Cinque fasi (metallo, legno, terra, acqua e fuoco), al fine di descrivere il corso infinitamente variabile della Natura o identificare le modalità e le leggi (vie) dei suoi mutamenti. Tale metodo divenne in seguito una caratteristica costante del pensiero protoscientifico in Cina.
Un'altra caratteristica del pensiero di questo periodo, che continuò a manifestarsi anche nelle epoche successive, è l'atteggiamento eclettico-sincretico; poiché gli esseri umani non possono comprendere la Via della Natura nella sua interezza, ma possono giungere a conoscerne, individualmente o riuniti in scuole, una piccola parte, ne consegue che ogni dottrina abbia una sua validità, valutabile in rapporto alle altre. L'atteggiamento più proficuo che un essere umano, nella sua finitezza, possa assumere è quindi un approccio sincretico ed eclettico che adotti e combini tra loro gli elementi validi delle diverse dottrine. Tale posizione caratterizza due celebri opere, il Libro del Maestro Guan (Guanzi), attribuito a Guan Zhong (importante uomo politico e riformatore dello Stato di Qi, morto nel 645 a.C.), ma composto in realtà intorno alla metà del III sec. a.C. dai letterati della famosa Accademia Jixia di Qi, e Primavere e autunni del Signor Lü (Lüshi chunqiu), un'altra opera collettiva composta dai letterati appartenenti al circolo del mecenate Lü Buwei (cancelliere dello Stato di Qin, morto nel 235 a.C.). Lo stesso atteggiamento è inoltre alla base delle dottrine di Xunzi e di Han Fei.
Xunzi pensava che fosse impossibile e inutile raggiungere una totale comprensione della Natura (cioè del Cielo) e che per gli esseri umani fosse sufficiente conoscere quegli aspetti elementari della Natura che potevano trovare un'applicazione nel loro mondo. La cultura umana è la somma delle conoscenze utili accumulate da una data società, che le permettono di sopravvivere nonostante la malvagità della natura umana individuale e la minaccia rappresentata dagli animali selvaggi; attraverso l'apprendimento (cioè l'educazione) è possibile coltivare e civilizzare gli individui, rendendoli adatti a vivere in una società umana.
Per Xunzi il linguaggio stesso è un prodotto culturale e sociale, e sono il suo uso e le convenzioni, stabilite dagli antichi re-saggi, a determinare il significato delle parole; quando, a causa delle mutate condizioni storiche, gli antichi usi e le antiche convenzioni perdono la loro forza, spetta a un nuovo re-saggio rimettere le cose a posto, ristabilendo l'ordine sociale e politico e rettificando l'utilizzazione errata delle parole (zhengming). Xunzi, adottando criteri puramente convenzionali e pragmatici, appianò le controversie riguardanti le questioni epistemologiche e linguistiche; a suo parere, infatti, gli individui che avevano accumulato una considerevole quantità di conoscenze convenzionali e pragmatiche (tra cui quelle riguardanti il corretto uso della lingua) dovevano essere impiegati come insegnanti, in modo da conservare il retaggio socioculturale del passato e trasmetterlo alle generazioni successive; era chiamato Saggio (shengren) chi aveva accumulato la maggiore quantità di conoscenze di questo tipo. Uno dei mezzi principali di cui i Saggi si erano serviti per conservare e trasmettere l'eredità culturale del passato alle generazioni successive erano i libri, noti come Classici (jing); per Xunzi, come per innumerevoli successivi esponenti della scuola confuciana, l'educazione s'identificava così con lo studio di queste opere. Per questo, Xunzi è considerato il fondatore della scuola confuciana ortodossa nella Cina imperiale.
Per il legista Han Fei, un ex discepolo di Xunzi, una volta stabilita l'onnipotenza della Natura e il carattere assoluto della sua Legge (Via, Tao), era necessario cercare d'imitarli, per rendere l'organizzazione sociale altrettanto onnipotente e l'autorità delle leggi umane altrettanto assoluta. Han Fei propugnò quindi la necessità della supremazia politica del potere imperiale, sostenuta da un'accorta arte di governo e da una severa legislazione penale (fa), che diede il nome alla scuola legista. Nel 221 a.C., l'unificazione della Cina sotto il controllo del primo imperatore della dinastia Qin, che nominò primo ministro e consigliere il legista Li Si, pose fine simultaneamente alle guerre tra gli Stati combattenti e alle interminabili dispute tra le Cento scuole del pensiero classico.
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