La scienza islamica nella cultura medioevale
Per scienza islamica medioevale s’intende il corpus di testi, commenti e analisi di autori appartenenti all’islam, che tradussero e interpretarono, spesso per tramite cristiano-siriaco o ebraico, le opere del pensiero greco, e recarono in lingua araba esperienze o elaborazioni astronomiche, matematiche e naturalistiche. Essa s’irradiò nell’Europa cristiana medioevale attraverso le traduzioni in latino di opere in lingua araba, circolanti a partire dalla fine del 10° sec., e influenzò sia la rinascita scientifica del 13° sec., sia il successivo affermarsi della scienza occidentale. Da un punto di vista cronologico, il pensiero islamico esercitò il suo influsso sin dai secc. 7° e 8°, quando l’espansione musulmana si affermò nei territori europei del Mediterraneo, interessando la Sicilia e la Spagna, ove furono introdotti gli stili di esegesi al Corano fondati su un’attenta serie di riferimenti testuali; questi stili di analisi furono poi applicati ad altri generi, e in particolare ai testi scientifici, inizialmente considerati derivanti da suggestione diabolica.
L’affermarsi delle scienze naturali, astronomiche e meccaniche avvenne con un progressivo divaricarsi, come ricordato da Tullio Gregory, dei legami tra scrittura e natura, tra uomo inteso come nesso di cause (causarum series, nexus, ordo, machina) e uomo inteso come creatura di Dio, simbolo di orizzonti teologici, tra testo religioso e orizzonte dell’osservazione e dell’esperienza scientifica. Di qui, con l’introduzione dei testi della tradizione greca, islamica ed ebraica, si dipana il dibattito sull’uso delle forze della natura e sul rapporto tra natura e arti, ordo terrestre e astrologia, che è stato legato spesso (Gregory 1992, p. 21) alla costruzione di un sapere utile alla società civile, di una civilis scientia nell’uso di una civilis ratio. Questo percorso si articolò in diverse fasi.
In Spagna, durante il regno dell’emiro omayyade ‛Abd al-Raḥmān I ibn Mu‛āwiya (756-788) iniziò a diffondersi la cultura giuridico-religiosa islamica; poi, durante il regno di ‛Abd al-Raḥmān II (Abū ’l-Muṭarraf ‛Abd al-Raḥmān ibn al-Ḥakam; 822-852), si sviluppò la cultura scientifica. Testimoni di questo processo di affermazione della scienza islamico-andalusa furono: ibn Ǧulǧul (Abū Dāwūd Sulaymān ibn Ḥasan ibn Ǧulǧul, noto in Occidente come ibn Gilgil o ibn Yulyul; 943/944-994 ca.), botanico, medico e storico che nel Ṭabaqāt al-aṭibbā’ wa-’l-ḥukamā’ (Le generazioni dei medici e dei saggi) approntò una delle prime opere di storia della medicina, dalle sue origini mitologiche al 9° sec.; Ṣā‛id al-Andalusī (Abū ’l-Qāsim Ṣā‛id ibn Aḥmad ibn ‛Abd al-Raḥmān ibn Muḥammad ibn Ṣā‛id al-Andalusī, noto in Occidente come ibn Said; 1029-1070), che, oltre a dedicarsi alle osservazioni astronomiche, nel 1068 scrisse un’opera di storia della tradizione scientifica, Al-ta‛rīf bi-ṭabaqāt al-umam (Esposizione delle generazioni delle nazioni). Ambedue questi autori attestano per la Spagna del 10° e 11° sec. la diffusione sia della scrittura numerica posizionale con le cifre arabe di derivazione indiana sia delle dottrine astronomiche e astrologiche provenienti dalla Persia sassanide, oltre all’introduzione del Πεϱὶ ὕλης ἰατϱικής (La materia medica) del greco Pedanio Dioscoride (o Dioscuride; 1° sec.) nella versione araba (seconda metà del 9° sec.), che risultava di più agevole lettura di quella greca. Dall’Andalusia la cultura scientifica islamica s’irradiò a Saragozza e a Barcellona e, attraverso il Rodano, giunse fino in Germania; cardini di questa diffusione furono il monastero di Santa Maria di Ripoll (in Catalogna, al confine con la Francia) e la città di Toledo (in Castiglia).
A quest’epoca risale la presenza in Catalogna del francese Gerberto d’Aurillac (940 ca.-1003), futuro papa con il nome di Silvestro II. Egli fu probabilmente fra i primi a leggere le traduzioni di opere scientifiche in lingua araba e a diffondere l’astronomia islamica di là dei Pirenei. Il suo allievo Richero di Saint- Rémi (o di Reims; 949 ca.-dopo il 996), nei suoi Historiarum libri quatuor (scritti tra il 991 e il 998), descrive il metodo d’insegnamento di Gerberto a Reims negli anni successivi al 972. Nello spiegare l’astronomia,
egli riuscì a renderla comprensibile con il sussidio di alcuni strumenti. Rappresentò anzitutto il globo del mondo in modello ridotto, per mezzo di una sfera rotonda di legno pieno; l’inclinò, con i due poli, obliquamente, rispetto all’orizzonte; attorno al polo superiore dispose le costellazioni settentrionali e al polo inferiore le costellazioni australi; […] collocò la sfera sull’orizzonte per mostrare il sorgere e il tramontare delle costellazioni (libro III, paragrafo 50).
[…] Quanto ai circoli che i Greci chiamano paralleli e i Latini equidistanti e il cui carattere incorporeo è fuori dubbio, ecco in qual modo li faceva comprendere. Fabbricò un semicerchio, tagliato da un diametro rappresentato mediante un tubo, alle cui estremità fece segnare i due poli, boreale e australe. Divise da un polo all’altro il semicerchio in trenta parti. Dopo la sesta, a partire dal polo, applicò un tubo che rappresentava il circolo artico. Poi, saltate cinque divisioni, aggiunse un tubo che indicava il circolo dei Paesi caldi. Quattro sezioni più in là, pose un tubo identico per segnare la linea equinoziale. Secondo le stesse proporzioni divise lo spazio rimanente, fino al polo sud. La struttura di questo strumento, con il diametro diretto verso il polo e la convessità del semicerchio rivolta verso l’alto, permetteva di apprendere i circoli invisibili e li imprimeva profondamente nella memoria (paragrafo 51).
Per quel che concerne la geometria, Richero così presenta la costruzione di un abaco da parte di Gerberto:
Come introduzione a questa scienza, fece costruire da un fabbricante di scudi un abaco, cioè una tavola provvista di compartimenti. Essa era divisa nel senso della lunghezza in 27 parti. Vi dispose le nove cifre che rappresentano tutti i numeri. Fece anche fabbricare mille caratteri in corno, a somiglianza di queste cifre. Quando venivano inseriti nei 27 riquadri dell’abaco, indicavano la moltiplicazione e la divisione di qualsiasi numero. In tal modo, si moltiplicava e si divideva una moltitudine di numeri, […] e si giungeva al risultato in un tempo inferiore a quello che sarebbe occorso per formulare l’operazione (paragrafo 54).
A Gerberto è attribuita anche l’introduzione in Occidente dell’astrolabio, strumento che secondo Michele Scoto (lo scozzese Michael Scot o Scott; 1175 ca.-1236 ca.) fu da lui utilizzato per controllare i demoni e per ottenere il soglio pontificio. Su questa tradizione, che lega l’ingresso dei nuovi strumenti astronomici e matematici alle dottrine magiche e demonologiche, vi è una vasta raccolta di fonti coeve, studiate da Arturo Graf in Miti, leggende e superstizioni del Medioevo (2 voll., 1892-1893).
Nel secolo successivo, l’11°, operò a Toledo ibn Wāfid (Abū ’l-Muṭarrif ‛Abd al-Raḥmān ibn Muḥammad al-Laḫmī ibn Wāfid, noto in Occidente come Abenguefit; 1008-1074), che fu autore del Kitāb al-Adwiya al-mufrada (Libro dei medicamenti semplici), un prontuario di sostanze farmacologiche vegetali, accompagnato da un manuale clinico, il Kitāb al-Wasād (Libro del guanciale); inoltre compilò il Maǧmū‛ fī ’l-filāḥa (Compendio di agricoltura), che fu utilizzato sino al Rinascimento.
Nella seconda metà del secolo è da segnalare al-Zarqālī (Abū Isḥāq Ibrāhīm ibn Yaḥyā al-Naqqāsh al-Zarqālī, o al-Zarqālluh, noto nella Spagna cristiana come Azarquiel o El Zarquiel e in Italia come Azarchel o Arzachel; 1029-1100 ca.), che da artigiano costruttore di strumenti astronomici divenne autore di trattati (sulla sfera celeste e sui nuovi astrolabi da lui ideati) in seguito tradotti in castigliano a Toledo, alla corte di Alfonso X detto il Saggio, re di Castiglia e di León dal 1252 al 1284.
La transizione a quel 12° sec. che vedrà il fiorire di testi medici avviene con ibn Zuhr (Abū Marwān ‛Abd al-Malik ibn Abī ’l-‛Alā’ ibn Zuhr, noto in Occidente come Avenzoar, Abumeron, Abhumeron, Albumeron, Abynzohar ecc.; 1072 o 1090/1094-1162 ca.), autore del Kitāb al-Taysīr fī ’l-mudāwāt wa-’l-tadbīr (Libro della semplificazione sulla terapeutica e la dietetica), tradotto nel 1281 a Padova da un medico noto come Paravicius.
Nel 12° sec. i centri di cultura scientifica che fanno da tramite alla tradizione islamica assumono il carattere di una rete, che si estende da Toledo a Costantinopoli e a Palermo.
In Spagna, la cosiddetta scuola toledana fu favorita dalla protezione a essa accordata dall’arcivescovo della città, il francese Francis Raymond de Sauvetât (noto in Italia come Raimondo di Toledo; in carica dal 1125 al 1152). In realtà non si trattò di una vera e propria istituzione scolastica ma di un punto di riferimento ideale, che comprendeva numerosi centri urbani molto distanti tra loro. A Barcellona fu attivo tra il 1110 e il 1145 Platone Tiburtino (noto anche come Platone da Tivoli), cui è attribuita una versione dall’arabo al latino, con il titolo Opus quadripartitum (1138 ca.), della Tetrabiblos di Claudio Tolomeo. A Tarazona (Aragona), Ugo di Santalla (attivo nella prima metà del 12° sec.) tradusse testi alchemici e astronomici sotto la protezione del vescovo della città, Michele (in carica dal 1119 al 1151); a Ugo si ascrivono tra l’altro queste traduzioni: con il titolo Liber de secretis naturae, quella del Kitāb sirr al-halīqa (Libro dei segreti della creazione; opera comparsa in arabo nel 6° sec. e nel Medioevo attribuita al filosofo greco del 1° sec. Apollonio di Tiana); con il titolo Liber de spatula, quella di un’epistola sulla scapulomanzia (la predizione del futuro attraverso le scapole degli animali) scritta da al-Kindī (Abū Yūsuf Ya‛qūb ibn Isḥāq al-Kindī, noto in Occidente come Alchindus; 801-870/ 873 ca.); con il titolo Tabula smaragdina, quella di un testo ermetico dal titolo incerto, comparso in arabo per la prima volta intorno all’825 e tradizionalmente attribuito a Ermete Trismegisto (mitico autore del tardo ellenismo); con il titolo Liber Aristotelis, quella della versione araba di un testo medio-persiano a carattere zoroastriano in cui si dichiara essere racchiusa tutta la sapienza antica del periodo precedente al diluvio. A Toledo fu presente Giovanni di Siviglia, dalla biografia incerta, che collaborò con l’arcidiacono di Segovia, Domingo González (noto in Italia come Dominicus Gundissalinus o Domenico Gundisalvi; m. nel 1181): il primo tradusse dall’arabo al castigliano e il secondo ricostruì il testo in latino. Caratteristica di questo periodo è, infatti, proprio l’utilizzazione di una lingua intermedia (talora un volgare, altre volte l’ebraico) per giungere alla redazione della traduzione in latino.
Il 12° sec. vide inoltre l’arrivo in Spagna dell’inglese Roberto di Chester (o di Retines; m. dopo il 1143), in seguito arcidiacono di Pamplona, che a Segovia tradusse trattati di alchimia, e del croato Ermanno di Carinzia (detto anche Ermanno Dalmata; 1100 ca.-1160 ca.) che, oltre a ricevere nel 1141, da parte dell’abate di Cluny Pietro il Venerabile (1090/1094-1156), l’incarico di tradurre i testi della tradizione coranica assieme a un altro inglese, Roberto di Ketton (attivo tra il 1141 e il 1157, e da alcune fonti identificato con Roberto di Chester), approntò le versioni degli Elementi di Euclide e del Planisfero di Tolomeo, e redasse, operando tra Béziers e Tolosa, il trattato di filosofia aristotelica De essentiis. Nello stesso periodo Burgundione (o Burgundio) da Pisa (1110 ca.-1193), protagonista di varie ambascerie a Costantinopoli, attese a diverse traduzioni dal greco, tra cui quella (a cui diede il titolo di De natura hominis e che dedicò all’imperatore Federico I detto il Barbarossa) del Πεϱὶ φύσεος ἀνϑϱώπου (La natura dell’uomo), un’opera del filosofo cristiano Nemesio (4°-5° sec.), vescovo di Emesa in Siria. Nel 1127 Stefano da Pisa, tesoriere di Antiochia, ritradusse dall’arabo, con il titolo di Liber regni, il Kitāb kāmilal-ṣinā‛a al-ṭibbiyya (Libro completo dell’arte medica, più noto come Kitāb al-malakī, Libro regio) di al-Maǧūsī (‛Alī ibn al-‛Abbās al-Maǧūsī; attivo intorno al 975), già tradotto a Salerno dal monaco benedettino Costantino Africano (o l’Africano; 1010/1015 ca.-1087 ca.) in una versione estremamente lacunosa (pubblicata a proprio nome con il titolo di Pantegni), che tuttavia si affermò nella tradizione medica, come verrà sottolineato anche dal medico fiorentino Taddeo Alderotti (1215/1223-1295), che insegnerà medicina teorica all’Università di Bologna dal 1260 circa.
A Tudela (Navarra), l’erudito ebreo ’Avrāhām ibn ‛Ezrā’ (noto in Occidente come Abraham Iudaeus o Hebraeus, o Abraham Abenare o Avenare o Abenezra o Avenezra; 1090/1092 ca.-1167) tradusse dall’arabo in ebraico (con il titolo Sēfer be-ta’amei lu’ḥōt al-Ḫwārizmī, Libro delle tavole astronomiche di al-Ḫwārizmī) un commentario di Muḥammad ibn al-Muṯannā (10° sec.) all’opera Ziǧ al-Sindhind (Tavole astronomiche indiane) di al-Ḫwārizmī (Abū Ǧa‛far Muḥammad ibn Mūsā al-Ḫwārizmī; 780 ca.-850 ca.); dal 1140 ca. ibn ‛Ezrā’, lasciata la Spagna, visse in Egitto, Italia, Francia e Inghilterra, dove effettuò rilievi astronomici riportati poi nel testo, in latino, dei Fundamenta tabularum (1154), una guida per l’uso delle tavole astronomiche contenute nel Ṣuwar al-kawākib al-ṯābita (Le forme delle stelle fisse) di ‛Abd al-Raḥmān al-Ṣūfī (m. 986). Quello per l’astronomia sembra essere stato un interesse anche del citato Giovanni di Siviglia, il quale attese inoltre alla traduzione di opere mediche.
In questo periodo si registra un’evoluzione dell’impegno dei traduttori, che mirano anche ad applicare le nuove conoscenze. Gran parte delle traduzioni di testi scientifici fu svolta in Spagna o con l’aiuto di traduttori che lì avevano operato: si suppone, per es., che l’inglese Adelardo (Aethelhard) di Bath (1070 ca.-1160 ca.) abbia collaborato con Mōšeh Sefardí (noto in Occidente come Pedro Alfonso, Pietro Alfonsi o Petrus Alphonsi; 1062 ca.-1140 ca.), un ebreo spagnolo che si era convertito al cristianesimo e che per un certo periodo lavorò in Inghilterra al servizio del re Enrico I. Indubbiamente importante fu l’opera di Gerardo (o Gherardo) da Cremona (1114-1187), perché egli non solo tradusse l’Almagesto di Tolomeo ma introdusse in Occidente sia, con il titolo De chirurgia, il Kitāb al-taṣrīf (Libro della disposizione) del medico andaluso Abū ’l-Qāsim Ḫalāf ibn ‛Abbās al-Zahrāwī (noto in Occidente come Abulcasis, Albulcasis, Bulchasin o Alsaharavi; 936 ca.-1013 ca.), sia, con il titolo Canon medicinae, il Kitāb al-qānūn fī ṭ-ṭibb (Libro del canone di medicina) del medico persiano Abū ‛Alī al-Ḥusayn ibn ‛Abd Allāh ibn Sīnā (noto in Occidente come Avicenna; 980-1037 ca.), testo che sarà utilizzato sino a tutto il 15° sec. nelle università di Montpellier e Lovanio.
Gerardo da Cremona contribuì anche alla diffusione del corpus di opere noto come Aristotele latino, in particolare con le sue versioni dall’arabo al latino della Physica, del De caelo, del De generatione et corruptione e dei Meteorologici (non portò a termine quest’ultima quando si accorse dell’esistenza di una traduzione dal greco di Enrico Aristippo).
La presenza di medici, scienziati e astrologi fu estremamente significativa nell’Italia normanno-sveva, che partecipò attivamente alla rinascita scientifica del 13° secolo. Per metodo e apporto scientifico è rilevante l’opera del siciliano Enrico Aristippo (1105/1110-1162), arcidiacono di Catania, che tra il 1160 e il 1162 fu primo ministro del re di Sicilia Guglielmo I, detto il Malo; importante mediatore tra il pensiero greco e l’Occidente latino, tradusse dal greco il Menone e il Fedone di Platone e il libro quarto dei Meteorologici di Aristotele. In questo contesto operò anche Jacopo (o Giacomo) da Venezia (m. dopo il 1147): presente nel 1136 a Costantinopoli assieme a Burgundione Pisano e a Mosè da Bergamo, fu traduttore dal greco delle opere di Aristotele tra la Physica e il De anima, che così giunsero allo scriptorium di Mont St. Michel in Francia, ove si intrecciarono con gli apporti delle traduzioni dall’arabo e dall’ebraico.
L’eredità normanno-sveva si costituì con l’apporto del pensiero islamico ed ebraico: di qui l’intensa ammirazione di Federico II per le arti pratiche, e non solo per i problemi cosmologici. Questo risulta anche in un preciso intento imperiale di regolare tutte le attività professionali, testimoniato nelle Constitutiones Regni Siciliae del 1231, note come Costituzioni melfitane e considerate come il più grande monumento legislativo laico del Medioevo.
È in questo contesto che Giovanni da Palermo (attivo fra il 1221 e il 1240), presente alla corte di Federico II e in contatto con Leonardo Fibonacci (Leonardo Pisano), tradusse (con il titolo De duabus lineis) l’opera ‛al ‛Inyān y‛ṣî’at šenē qawîn (Sulle due linee che si avvicinano senza mai incontrarsi), un anonimo opuscolo di matematica in arabo (scritto forse nel 12° sec.), che lo studioso ebreo spagnolo Mōšeh ben Maymôn (noto in Occidente come Maimonide; 1135-1204) aveva utilizzato per far rilevare le diversità tra ragione e immaginazione. Dal canto suo, Fibonacci scrisse diverse opere (il Liber abaci, 1202; la Practica geometriae, 1220; il Flos, 1225; il Liber quadratorum, 1225) in cui dimostra la validità delle cifre arabe nelle procedure di calcolo per le transazioni commerciali.
Nella corte dell’imperatore, o intorno a essa, furono numerosi i filosofi ebrei, i quali contribuirono a diffondere il pensiero islamico, soprattutto nel campo dell’astrologia. Va ricordato innanzitutto il provenzale Ya‛aqōv ’Anaṭôlî (noto in Italia come Jacob Anatoli; 1194 ca.-1256 ca.), che dal 1231 fu a Napoli medico alla corte di Federico II; egli tradusse opere di astronomia e di logica, si dedicò all’esegesi biblica assieme a Scoto e allo stesso imperatore, e fu autore di esperimenti alchemici (un fatto inconsueto tra gli studiosi ebrei dell’epoca). Il lavoro di Anatoli fu proseguito da suo cognato Mōšeh ben Šemû’ēl ibn Tibbōn (noto in Italia come Mosè ibn Tibbon), attivo a Montpellier tra il 1240 e il 1283 ma presente a Napoli negli anni 1244-45, che tradusse i commenti di Abū ’l-Walīd Muḥammad ibn Rušd (noto in Occidente come Averroè; 1126-1198), alcuni trattati di Aristotele e altre opere di matematica, astronomia e medicina. Egli ritiene che la natura sia regolata da leggi dipendenti dal moto degli astri; vi sono però anche avvenimenti miracolosi che sono opera di Dio, come già aveva sottolineato Scoto nel suo Liber introductorius (1230).
Importante per l’Italia sveva è anche il pensiero dell’astrologo spagnolo Yehûdāh ben Šelōmōh ha-Kōhēn ibn Matqā (n. 1215 ca.), che tra il 1233 e il 1240 ca. mantenne una corrispondenza epistolare con un filosofo di Federico II, forse identificabile con Scoto, e tra il 1240 e il 1245 ca. risiedette presso la corte dell’imperatore. Le sue idee sembrano coincidere con alcune linee di pensiero affermatesi presso questa corte. In particolare, così come fa Federico II nel suo De arte venandi cum avibus, egli attribuisce grande importanza al concetto di esperimento, in base a cui critica le affermazioni di Aristotele che gli sembrano errate, nonché l’atteggiamento di Averroè, il quale aveva accettato di Galeno solo i passi che non gli sembravano contraddire Aristotele. Inoltre la tesi di Scoto secondo cui l’astronomia è la scienza che permette di giungere alla conoscenza di Dio, è simile a quella di ha-Kōhēn secondo cui per raggiungere la sapienza divina bisogna innanzitutto conoscere la matematica e le discipline da essa derivate (l’astronomia, l’astrologia, la musica).
La critica del principio d’autorità sembrerebbe aver caratterizzato diversi esponenti ebrei del mondo culturale normanno-svevo. Per es., il cabalista spagnolo Yiṣḥāq ibn Lātīf (1210 ca.-1280 ca.) giudica i Meteorologici di Aristotele un insieme di congetture che non provano scientificamente ciò che avviene al di sotto della sfera della Luna; inoltre egli critica le teorie di Tolomeo sia perché affermano che la materia dei cieli condizionerebbe il moto circolare degli astri e sarebbe composta di due sostanze diverse (una brillante e una trasparente), sia perché non ci dicono quante siano effettivamente le stelle e le sfere. Questi dubbi verranno riproposti da Federico II a Scoto, incaricato di preparare il suo Liber introductorius proprio per chiarirli.
Nel contesto della vasta mobilità intellettuale che caratterizzò l’Italia del 13° sec. va inserito un altro cabalista spagnolo, ’Avrāhām ben Šemû’ēl Abûlāfiyā (noto in Italia come Abramo Abulafia; 1240-1291 ca.), studioso di opere di Maimonide come la Dalālat al-ḥā’irīn (Guida dei perplessi) e il trattato (noto in Italia come Libro della conoscenza) che costituisce la prima parte della Mišneh Tôrāh (Seconda Legge). Abulafia collaborò a Capua con altri due studiosi ebrei, Hillel ben Šemu’el ben Eli’ezer mi-Verona (Hillel da Verona; 1220 ca.-1295 ca.) e Baruch Šeli’aḥ ẓibbur Togarmi (Baruch Togarmi; attivo intorno al 1260).
È noto anche Mōšeh ben Šelōmōh (Mosè da Salerno; m. 1279), allievo di Anatoli, che scrisse un commento alla Guida dei perplessi ove si fanno frequenti riferimenti alla versione latina dell’opera di Maimonide.
L’organizzazione della scienza riguardava tutta la corte federiciana, che intesseva una fitta trama di relazioni soprattutto con il mondo islamico, nel quale si riscontra l’eco delle iniziative scientifico-culturali dell’imperatore. Così, a proposito della città di Lucera in Puglia, scriveva il siriano ibn Wāṣil (Abū ‛Abd Allāh Ǧamāl al-Dīn Muḥammad ibn Sālim ibn Naṣr Allāh ibn Sālim ibn Wāṣil; 1208 ca.-1298 ca.) nel Mufarriǧ al-kurūb fī dawla Banī ’l-Ayyūb (Il dissipatore delle ansietà nei rapporti agli Ayyubidi; 1272-1285): «Questa città è così dal tempo dell’Imperatore padre di Manfredi. Egli aveva intrapreso colà la costruzione di un istituto scientifico perché vi fossero coltivati tutti i rami delle scienze speculative».
Fu fitta la rete di scambi epistolari, librari e persino personali che abbracciava l’Oriente e l’Occidente: per es., nel 1228 Federico II incontrò ad Acri il sultano di Egitto e Siria, al-Kāmil (al-Malik al-Kāmil Naṣīr al-Dīn Abū ’l-Ma‛ali Muḥammad; 1177/1180-1238), e pose ai suoi esperti questioni di filosofia, geometria e matematica, come si vede in una miniatura di un’edizione della Historia rerum in partibus transmarinis gestarum del cronista siriano Guglielmo di Tiro (1130 ca.-dopo il 1186). Nel 1240 Sirāj al-Dīn Maḥmūd ibn Abī Bakr al-Urmawī (noto in Occidente come Siraggadin; 1198-1283) venne mandato in Sicilia per insegnare la logica, per poi rientrare in patria.
Nel 1236 Federico II incaricò Teodoro di Antiochia (1155/1158-1246) di tradurre un trattato arabo sulla falconeria della seconda metà del 9° sec., di cui oggi sono perduti testo e titolo e del cui autore (Moamin o Moamyn) non si sa nulla. Si tratta della rielaborazione di varie opere precedenti sullo stesso tema, in particolare il Kitāb al-Mutawakkilī (Libro di al-Mutawakkilī), testo di autore ignoto dedicato al decimo califfo abasside, al-Mutawakkilī Bi-llāh (regnante dall’847 all’861). La traduzione in latino effettuata da Teodoro venne intitolata De scientia venandi per aves, ma è più conosciuta con il nome di Moamin latino; essa costituì una delle fonti del citato manuale di Federico II De arte venandi cum avibus, nel quale si trattano, oltre che falconeria, ornitologia e veterinaria.
Nello stesso periodo, l’interesse per la cura pratica degli animali portò Giordano Ruffo di Calabria (1200 ca.-1260 ca.), maniscalco maggiore di Federico II e poi di suo figlio Manfredi, a rielaborare fonti in lingua araba, componendole con osservazioni personali, nel suo trattato d’ippiatria, che nella tradizione manoscritta ci è stato tramandato con diversi titoli (Mariscalcia equorum; Liber de curis equorum; Cyrurgia equorum).
Ma, più in generale, in tutte le corti italiane l’apporto delle fonti islamiche indirizzò la scienza verso un deciso orientamento pratico, così come si rileva anche nel trattato De practica oculorum, composto intorno al 1234 (o forse nel 1256) e attribuito ad Aldobrandino da Siena (m. prima del 1287).
Tutto il 13° sec. e buona parte del 14° sono caratterizzati dai dibattiti che emergono, attraverso le diverse linee di lettura, dalla conoscenza della filosofia greco-islamica. Ciò non riguarda ovviamente soltanto la riscoperta di Aristotele, fatto di per sé fondamentale, ma anche le interpretazioni e i commenti che accompagnarono l’arrivo delle idee aristoteliche in Occidente.
La filosofia di Aristotele non soltanto presentava una visione razionale della realtà senza alcun tipo di rapporto con la tradizione cristiana, ma consegnava al mondo latino uno strumento filosofico e una metodologia utile all’interpretazione dei fenomeni naturali. Beninteso, per molti secoli prevalse una lettura ‘cristiana’ della filosofia aristotelica e platonica nonché delle nuove scienze.
I testi della tradizione greca e islamico-ebraica erano entrati nel mondo latino insieme a un enorme apparato di glosse, commenti e trattati, risalenti ad autori greci, come Alessandro di Afrodisia (fine 2°-inizio 3° sec.), bizantini, come Michele di Efeso (11°-12° sec.) ed Eustrazio (1050 ca.-1120), ebraici, come il citato Maimonide, e soprattutto islamici, come i citati Averroè, Avicenna e Albucasis.
Questi sistemi interpretativi e questi metodi scientifici influenzarono gli studia universitari europei, ove si può constatare un’importante differenza tra coloro che scelsero di adottare la filosofia e la scienza islamiche (come già quelle greche) quali strumenti ausiliari e subalterni rispetto alla teologia, e coloro che invece, muovendo dalla soluzione averroistica al problema del rapporto tra scienza e religione (che aveva suscitato una immediata reazione negativa già nel mondo islamico), seppure rielaborandola, esercitavano una radicale distinzione fra i due piani, invocando l’autonomia del discorso naturale. Questi ultimi venivano accusati dai loro avversari, in primo luogo da Tommaso d’Aquino, di proporre una ‘doppia verità’, secondo la ragione e secondo la fede. Il dibattito, assai aspro, colpì in particolare lo Studium di Parigi; di qui la necessità, ravvisata dalla curia di Parigi, dalle autorità universitarie e dalla curia romana, di provvedere a regolamentazioni e divieti.
La prima proibizione ufficiale della lettura dei libri naturales di Aristotele risale al 1210, e colpì la nascente Università di Parigi. In occasione di un concilio provinciale, Pierre de Corbeil, arcivescovo di Sens, sancì sotto pena di scomunica il divieto di ‘leggere’ (cioè di insegnare), sia in pubblico sia in privato, le opere naturali di Aristotele e i commenti a esse dedicate. Nel corso del medesimo concilio furono condannati gli scritti del filosofo e teologo Amaury de Bène (o de Chartres, noto in Italia come Amalrico di Bène; m. nel 1204/1207 ca.), del suo seguace David di Dinant (1160 ca.-1217 ca.) e di un certo ‘Maurizio Ispano’. Pochi anni dopo (1215), il legato pontificio, il cardinale inglese Robert Curzon (Roberto di Courçon), nel riorganizzare i curricula della stessa università, in particolare della facoltà delle Arti, ribadì il divieto di leggere i ‘libri naturali’ e la Metafisica di Aristotele. Il problema, tuttavia, era complesso, e di ciò vi era consapevolezza; infatti, nella celebre bolla Parens scientiarum del 1231, con la quale papa Gregorio IX sancì la regolare ripresa delle attività accademiche dell’Università di Parigi, si confermò il divieto di usare i libri naturales, ma solo temporaneamente, cioè finché essi non fossero stati esaminati ed emendati da ogni sospetto di errore. In molti di questi dibattiti intervennero anche i grandi maestri universitari con opuscoli e ‘questioni disputate’ specifiche, che rivelano ampiamente la vitalità del confronto e la durezza dello scontro d’idee nel basso Medioevo.
A tali discussioni seguirono anche altre famose condanne. Particolarmente rilevante fu il divieto emesso il 10 dicembre 1270 dal vescovo di Parigi Étienne Tempier (noto anche come Stéphane d’Orléans; m. nel 1279), che riguardava tredici proposizioni filosofiche, per lo più d’ispirazione averroista, le più importanti delle quali vertevano sul determinismo astrale e sull’eternità del mondo.
Nella civiltà islamica, anche per l’influsso di fonti orientali, la dottrina delle influenze astrali aveva conosciuto un consistente sviluppo già dal 9° sec., a partire dal citato al-Kindī. A questo ambito culturale apparteneva anche il persiano Ǧa‛far ibn Muḥammad al-Balḫī Abū Ma‛šar (noto in Occidente come Giafar Albumazar o Albumasar; 787-886), autore del grande trattato Kitāb al-mudḫal al Kabīr ilā ’ilm aḥkām an nuǧūm (Libro della grande introduzione alla scienza dell’astrologia), tradotto in latino nel 1133 da Giovanni da Siviglia (come Liber introductorii maioris ad scientiam judiciorum astrorum) e nel 1140 da Ermanno di Carinzia (come Introductorium maius in astronomiam). Già nel 1120 Adelardo di Bath aveva tradotto (con il titolo Ysagoge minor Iapharis) un’edizione ridotta di questa grande opera e (con il titolo De revolutionibus nativitatum) un trattato sui singoli aspetti tecnici dell’astrologia, il Kitāb taḥāwīl sinī al-mawālīd (Libro delle rivoluzioni degli anni delle natività). Per Richard Lemay (Abu Ma’shar and Latin Aristotelianism in the twelfth century: the recovery of Aristotle’s natural philosophy through Arabic astrology, 1962), l’opera di Albumasar rappresenta uno dei più importanti veicoli dell’introduzione del pensiero scientifico di Aristotele. Tutte queste dottrine ebbero una grande influenza sugli astrologi europei, e in particolare sul medico e filosofo Pietro d’Abano (o Pietro Patavino; 1250/1257 ca.-1315/1317 ca.). Occorre comunque ricordare che le impostazioni astrologiche di derivazione islamica rimasero radicate lungamente nel pensiero medioevale e moderno.
Il tema dell’eternità del mondo, proposto da Averroè e ripreso da Sigieri di Brabante (Sigerus o Sigerius de Brabantia; prima metà del 13° sec.-1282), provocò aspri conflitti: l’eternità della specie umana confliggeva con la teologia cattolica così come con quella musulmana.
La condanna che ebbe maggior risonanza, e di cui tuttavia la storiografia ancora discute l’effettiva efficacia, fu quella del 1277, di nuovo irrogata dal vescovo Tempier; essa rappresentò un momento decisivo del pensiero medioevale, perché in quell’occasione l’autorità ecclesiastica intervenne in modo restrittivo sulla libertà di ricerca degli universitari allo scopo di tenere sotto controllo un conflitto dottrinale esistente già da alcuni anni e che il precedente tentativo di censura del 1210 non aveva risolto. La condanna prendeva spunto dalla richiesta di papa Giovanni XXI (il portoghese Pedro Julião, detto Pietro di Giuliano o Pietro Ispano, che era stato medico e scienziato) di condurre un’indagine per accertare l’ortodossia delle tesi filosofiche che andavano diffondendosi all’Università di Parigi. Allora il vescovo Tempier costituì una commissione di sedici teologi, tra cui Enrico di Gand (Henricus de Gandavo; 1217/1233-1293), per esaminare i testi che circolavano nell’università, e in particolare nella facoltà delle Arti, ossia tra i filosofi. Il 7 marzo 1277 il vescovo condannò, senza citarne la fonte, 219 tesi di vario carattere e di autori diversi, fra i quali Sigieri di Brabante e il danese Boezio di Dacia (Boethius Dacii; 1240/1245 ca.-1280/1290 ca.) – cioè i massimi rappresentanti dei cosiddetti averroisti latini –, ma anche l’esponente della cultura cortese francese André le Chapelain (noto in Italia come Andrea Cappellano; 1150 ca.-1220 ca.), autore del trattato De amore.
Queste condanne, e le normative adottate nell’Università di Parigi e, sul suo esempio, in altre università europee, a giudizio della storiografia recente ebbero sulla cultura filosofica e scientifica europea un’influenza che si protrasse almeno fino a tutto il 17° sec., indicando un criterio di ortodossia del pensiero filosofico- scientifico portato a sistemazione teologica da Tommaso d’Aquino e sviluppato nella legislazione ecclesiastica cattolica in materia, tra Medioevo ed età moderna. Correnti importanti del pensiero filosofico e scientifico del Rinascimento e della prima età moderna avrebbero fatto tuttavia riferimento in diversi modi all’averroismo latino, come alla matrice di una visione alternativa del rapporto tra scienza e teologia (Landucci 2006; Bianchi 2008). I provvedimenti parigini e quelli che vi fecero seguito sulla stessa scia non avrebbero infatti impedito nell’Occidente europeo la circolazione e la larga fortuna editoriale e culturale della scienza islamica e dei commenti aristotelici di Averroè e di altri islamici, né diminuito la loro capacità di penetrazione, sì da costituirsi fra i tramiti della trasmissione e interpretazione dell’eredità classica nel mondo medioevale e moderno.
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Si veda inoltre:
D.N. Hasse, Influence of Arabic and islamic philosophy on the latin west, voce della Stanford encyclopedia of philosophy, http://plato.stanford.edu/entries/arabic-islamic-influence (9 febbraio 2013).