La scienza nelle università
Alla fine del Cinquecento, in Italia erano attive ben sedici sedi universitarie (Grendler 2002): Torino, Pavia, Padova, Parma, Ferrara, Bologna, Firenze, Pisa, Siena, Macerata, Perugia, Roma, Napoli, Salerno, Messina e Catania. La rete degli atenei si dispiegava quindi dal Nord della penisola alla Sicilia, offrendo l’opportunità di un’alta formazione culturale non solo agli autoctoni, ma anche ai molti stranieri che vi accorrevano a studiare.
Fin dal Medioevo, il conseguimento di un titolo accademico (licentia docendi) dava accesso alle corporazioni dei medici e dei giuristi, o, in alternativa, consentiva di dedicarsi alla teologia e all’insegnamento universitario. Dal punto di vista degli sbocchi lavorativi nulla mutò nella prima età moderna, se non forse che il costituirsi di una vasta e articolata amministrazione statale, con la conseguente domanda di dirigenti di elevato profilo culturale, estese le occasioni di impiego per i laureati.
Proprio l’emergere di una nuova fisionomia dell’apparato dello Stato innescò un profondo cambiamento nella gestione dell’istituzione accademica, facendole progressivamente perdere gli originari connotati di libera associazione. Sempre più gli atenei furono sottoposti al controllo dei governi, che ne sorvegliavano e regolavano la vita interna attraverso speciali organismi dirigenti. Pur con nomi diversi – Riformatori dello Studio a Padova, Ferrara, Pavia, Parma e Torino, Assunteria di Studio a Bologna, Savi dello Studio a Siena, Provveditore a Pisa – tutte queste strutture, formate da cittadini eminenti e/o da funzionari statali, procedevano ad amministrare le università nel nome e per conto del potere centrale. Di fatto, esse rappresentavano una sede di mediazione tra gli interessi dei governi e le istanze dei professori e degli studenti.
Questi ultimi avevano ormai del tutto perso quel ruolo decisionale proprio della medievale compagine di ‘maestri e scolari’ (universitas magistrorum et scholarium). Nel 16° e 17° sec., il corpo studentesco manteneva ancora il privilegio di eleggere rappresentanze: un rettore e dei consiglieri per ciascuna facoltà, nonché dei procuratori e dei delegati per le varie nationes (i gruppi di provenienza geografica). Tuttavia, tali cariche rivestivano soltanto un valore cerimoniale e simbolico, e, al di là del prestigio, non conferivano alcun vero potere.
Né una maggior autonomia potevano vantare i docenti. L’inesistenza di una normativa di riferimento, di un trattamento stipendiale prefissato, di diritti in qualche modo codificati, assoggettava le loro carriere all’arbitrario variare dei gusti e degli umori di principi e governi. Certo, i più stimati professori potevano far valere il peso della loro fama, e imporre, in qualche modo, delle condizioni. Ma per la maggior parte degli insegnanti, l’impiego universitario costituiva una prospettiva costantemente pervasa di incertezza e precarietà. L’assunzione nei ruoli di un ateneo avveniva tramite un contratto (condotta), che obbligava in genere per un periodo di tempo oscillante tra uno e quattro anni, senza alcuna garanzia di rinnovo. Anche il salario veniva rinegoziato a ogni scadenza, seppure, per consuetudine, non subisse quasi mai diminuzioni. I fattori che determinavano l’entità delle remunerazioni erano soprattutto la reputazione del docente e la sua abilità didattica. Si teneva anche in conto la perizia nelle pubbliche dispute che i maestri dovevano periodicamente sostenere con i ‘concorrenti’. Ogni ateneo di una qualche importanza, infatti, vantava per ciascuna disciplina fondamentale più professori ordinari in costante competizione (oltre a un certo numero di straordinari, con funzioni integrative e ausiliarie). Questo sistema favoriva certamente la possibilità per i giovani di sentire voci differenti e di attingere a esperienze diverse, ma finiva spesso per innescare forti tensioni, creando un clima di accesa rivalità.
L’antagonismo accademico rappresentava una delle principali cause della mobilità dei docenti. Soprattutto i luminari (i più insofferenti alla presenza di competitori) tendevano a spostarsi con una certa frequenza, usufruendo della politica degli atenei più ricchi che ricercavano assiduamente i professori migliori. Nel complesso, però, prevaleva il localismo. Come hanno dimostrato recenti ricerche: «l’80% dei docenti insegnò in una sola università per tutto il corso della carriera, e la maggior parte del restante 20% si mosse solo una volta» (Grendler 2002, p. 164 nota 69).
Gli obblighi di insegnamento dei professori erano fissati dagli statuti e presentavano una cospicua omogeneità nell’ambito degli atenei italiani. I programmi stabilivano dettagliatamente gli argomenti da svolgere di anno in anno nei vari corsi delle quattro grandi aree in cui si articolava la struttura accademica: Giurisprudenza (suddivisa in Diritto civile e Diritto canonico), Medicina, Teologia, Arti.
La facoltà delle Arti, pur rilasciando un peculiare titolo (magister artium), rappresentava una tappa preparatoria agli studi di medicina. Il suo ordinamento prevedeva, insieme all’insegnamento della metafisica, della logica, della matematica e dell’etica, anche quello della ‘filosofia naturale’. La conoscenza approfondita dei principi che dominano l’incessante trasformazione della realtà materiale veniva infatti giudicata imprescindibile per i futuri medici. Non a caso, un motto diffuso in ambito accademico sanciva che ubi desinit physicus, ibi medicus incipit («dove finisce il filosofo naturale, lì comincia il medico»).
E se i lavori di Avicenna e Galeno fornivano il bagaglio teorico necessario alla pratica medica, le nozioni indispensabili alla comprensione scientifica del mondo naturale non potevano trovarsi che nei testi del philosophus per eccellenza: Aristotele.
La filosofia naturale concerneva lo studio di tutti gli aspetti della natura, sia nelle fattispecie che noi definiremmo inorganiche, sia relativamente a ciò che comunemente denominiamo organico.
Nell’ambito di questo dominio rientrava anche la psicologia, in quanto, secondo Aristotele, «spetta al naturalista trattare e aver scienza dell’anima» (De partibus animalium, 641 a 21). In effetti, secondo la concezione aristotelica, ogni realtà vivente è dotata di un’anima che ne costituisce la forma sostanziale, per cui la conoscenza della psyché «contribuisce moltissimo alla verità in generale e specialmente allo studio della natura» (De anima, 402 a 5-6).
Così, il philosophus naturalis era chiamato a coprire uno spettro amplissimo di questioni, svolgendole a lezione in preciso riferimento alle opere aristoteliche. Non deve quindi sorprendere se, nel suddividere in cinque parti la filosofia naturale, l’aristotelico Ludovico Boccadiferro (1482-1545), professore a Bologna e a Roma, si soffermasse a specificare puntigliosamente i pertinenti testi aristotelici:
La prima parte tratta dei principi e accidenti comuni delle realtà naturali, e se ne parla nella Physica. La seconda concerne i corpi semplici, sia eterni (come i corpi celesti), sia generabili e corruttibili (quelli composti dai quattro elementi), e se ne discute nel De caelo e nel De generatione et corruptione. […] La terza attiene ai misti imperfetti, prodotti dal caldo e dall’umido, dal freddo e dal secco […] e da quelli perfetti e inanimati, come i minerali; a ciò sono dedicati i Meteorologici. La quarta riguarda gli animali. La quinta interessa le piante (Explanatio libri primi Physicorum Aristotelis, 1558, f. 3v).
Alle ultime due sezioni, Boccadiferro annetteva ancora altri argomenti, sviluppati in opere di Aristotele quali i Parva naturalia (composti da diversi testi, tra cui: Il senso e i sensibili; La memoria; I sogni; La lunghezza e brevità della vita ecc.), il De anima e i diversi trattati biologici (De partibus animalium, De incessu animalium, De historia animalium ecc.).
Far svolgere, nel consueto triennio curriculare, un programma così ricco e articolato a un solo insegnante era ovviamente impossibile. Ecco perché gli statuti accademici prevedevano una selezione di testi affidata al lavoro integrato di due docenti: un professore ‘ordinario’ e uno ‘straordinario’. La scelta delle opere variava leggermente a seconda dei luoghi. A Pisa, per es., i professori ordinari dovevano leggere nell’ordine, in un ciclo triennale, la Physica, il De caelo e il De anima; e parallelamente gli straordinari sviluppavano argomenti relativi al De generatione et corruptione, ai Meteorologici e ai Parva naturalia. Identico programma era prescritto dagli ordinamenti bolognesi, mentre a Padova si preferiva ripartire l’onere della trattazione delle singole opere: gli ordinari spiegavano in successione il terzo libro del De anima, l’ottavo della Physica e tutto il De generatione et corruptione; negli stessi anni, gli straordinari si dedicavano a illustrare i primi due libri del De anima, i primi due della Physica e, quindi, affrontavano il De caelo.
Per comprendere il ruolo centrale che la filosofia naturale ricopriva nel curriculum accademico basti dire che, con l’eccezione della medicina teorica, il numero dei professori che la insegnavano era il più alto all’interno delle varie facoltà delle Arti. Nel secondo Cinquecento e ai primi del Seicento, gli atenei medio-grandi annoveravano sempre fra i tre e i cinque philosophi naturales, mentre Bologna giunse a contarne anche dieci.
Questi maestri s’impegnavano nella spiegazione delle opere aristoteliche, cercando di illustrare agli uditori un pensiero complesso, ricco di sfumature concettuali e affidato a un linguaggio talvolta sfuggente e ambiguo. A partire dalla seconda metà del Quattrocento, l’esposizione dei testi di Aristotele si avvalse, però, di nuove, fondamentali risorse. Grazie alla sempre più diffusa conoscenza del greco, cominciò a introdursi lo studio diretto degli originali. Importantissima, a questo proposito, fu l’edizione del corpus aristotelico in greco realizzata da Aldo Manuzio, a Venezia, tra il 1492 e il 1498. Si avviarono inoltre nuove traduzioni che soppiantarono quelle medievali (spesso operate dall’arabo), e al vecchio metodo della versione verbum e verbo («parola per parola»), la nuova sensibilità umanistica sostituì il criterio della comprensione del significato globale del testo.
Caratteristica rilevante della rivisitazione dei testi aristotelici fu inoltre la proliferazione di molte traduzioni della medesima opera. L’infaticabile attività dei traduttori – ricordiamo, tra i molti, i nomi di Leonardo Bruni (1370 ca.-1444), Giovanni Argiropulo (1415 ca.-1487), Niccolò Leonico Tomeo (1456-1531), Giulio Pace (1550-1635) – offrì una vasta gamma di edizioni diverse delle opere aristoteliche, in gran parte stampate per le esigenze del mercato universitario. Questa inesausta riflessione su scritti già più volte esaminati è solo in parte conseguenza della intrinseca difficoltà della parola di Aristotele. A motivarla fu anche la consapevolezza filologica, per cui il traduttore – alla luce di una precisa conoscenza delle precedenti versioni – cercava di ridurre progressivamente la discrepanza con una (ideale) resa perfetta del testo.
Accanto ai lavori di Aristotele, vennero tradotti e pubblicati anche i testi dei suoi commentatori ellenistici (scarsamente conosciuti nel Medioevo), tra cui Alessandro di Afrodisia (fine 2°-inizio 3° sec.), Temistio (317 ca.-388 ca.), Simplicio (490 ca.-560 ca.), Ammonio di Ermia (440 ca.-523 ca.). L’orientamento neoplatonico di alcuni di essi e la tendenza a riportare teorie di autori greci non citati da Aristotele e Platone offrì suggestioni nuove e originali per gli studiosi, particolarmente nell’ambito della filosofia naturale.
La vena critica nei confronti della fisica aristotelica dimostrata dal cristiano Giovanni Filopono (490 ca.-567 ca.) ebbe, per es., un notevole impatto sulla discussione dei problemi del «moto violento» (come quello dei proiettili) e della possibilità di esistenza del vuoto. Di contro alla tesi di Aristotele, secondo cui a spingere un corpo scagliato provvederebbe l’aria spostata dalla mano del lanciatore, Filopono riteneva invece che, non all’aria, ma direttamente al proiettile venisse impartita una forza motrice in grado di tenerlo sospeso. A suo giudizio, l’aria circostante non contribuiva affatto al moto, e di fatto fungeva solo da ostacolo. Pertanto, in contrasto con la dottrina di Aristotele che negava la possibilità del vacuo, per Filopono una pietra scagliata si sarebbe mossa con la massima facilità in uno spazio vuoto. Benché alcune sue idee fossero note nel Medioevo attraverso le citazioni di altri autori, le opere di Filopono rimasero sconosciute nell’Occidente latino fino al 15° secolo. In particolare, l’edizione del suo commento alla Physica (uscito a Venezia in greco nel 1535 e in traduzione latina nel 1539 con il titolo Eruditissima commentaria in primos quatuor Aristotelis de naturali auscultatione libros) contribuì a diffonderne le concezioni dinamiche, alimentando un dibattito nel quale si innestarono gli innovativi sviluppi di pensatori radicalmente antiaristotelici come, per es., Giambattista Benedetti (1530-1590) e lo stesso Galileo Galilei.
La varietà delle traduzioni, l’influenza dei commentatori e di autori estranei e spesso ostili alla tradizione peripatetica, la stessa frequente ambiguità dei testi di Aristotele fecero sì che la filosofia naturale aristotelica della prima età moderna fosse caratterizzata da un sostanziale eclettismo. Com’è stato giustamente osservato, per i peripatetici del Cinquecento e del Seicento «Aristotele era generalmente considerato il filosofo dal quale doveva iniziare la ricerca, ma per la maggior parte il modificare la dottrina dello Stagirita o anche il trasformarla ricorrendo a Platone o ad altri filosofi non costituiva un’incoerenza» (Schmitt 1983, trad. it. 1985, p. 14).
I commentari alle opere aristoteliche (forse il genere più diffuso di letteratura scientifica dell’epoca), i trattati di filosofia naturale e le stesse lezioni dei docenti accoglievano dunque spesso echi di teorie non peripatetiche (talvolta anche antiperipatetiche). Si trattava, per lo più, di interpolazioni che avevano la funzione di chiarire o correggere le tesi più dubbie, enigmatiche e controverse di Aristotele. Il suo pensiero, pur nell’ibridazione con altre concezioni, restava però il patrimonio concettuale di riferimento primario per tutti i philosophi naturales delle università.
L’attaccamento a oltranza ai principi della filosofia di colui che Dante Alighieri aveva definito «maestro di color che sanno» (Inferno, IV, 131) è stato spesso qualificato come un connotato deteriore dell’aristotelismo della prima età moderna. Si possono, in proposito, ricordare i sarcasmi e le invettive polemiche di Galilei e di altri protagonisti della nuova scienza contro il conservatorismo dei filosofi accademici. La propensione a iurare in verba magistri fu senza dubbio un tratto negativo e peculiare di una corrente intellettuale che riteneva di poter comprendere la realtà a partire, in primo luogo, dall’incessante confronto con i testi di Aristotele. Nondimeno, la devozione peripatetica giocò anche un ruolo che potremmo forse definire progressivo, incentrato sulla rivendicazione dell’autonomia della ricerca naturalistica rispetto a ogni condizionamento esterno.
Intervenendo, nel 1516, nel dibattito sull’immortalità dell’anima umana (un tema, non va dimenticato, di filosofia naturale), uno dei più famosi aristotelici rinascimentali, Pietro Pomponazzi (1462-1525), chiariva di aver scritto per rispondere a due specifiche domande:
Primo, messi da parte le rivelazioni e i miracoli, e restando interamente entro i limiti naturali, che cosa pensi della questione? E, in secondo luogo, quale ritieni sia stata l’opinione di Aristotele su tale materia? (Tractatus de immortalitate animae, 1516, ed. 1534, p. 4, corsivo mio).
L’accertamento del genuino pensiero aristotelico costituiva solo una parte del problema; più importante era che la sua soluzione si attestasse intra limites naturales. Si affermava, in sostanza, il principio per cui i fenomeni della natura non dovessero trovare spiegazioni se non all’interno di quel preciso dominio di realtà. Lo stesso Pomponazzi ribadiva tale convinzione nel De naturalium effectuum causis sive de incantationibus (1520), in cui riconduceva i supposti miracoli a cause naturali, negando ogni effettività al prodigioso. Non siamo di fronte a una posizione isolata, anzi. L’aretino Girolamo Borro (o Borri; 1512-1592), professore a Pisa, in un suo trattato sulle maree, sosteneva con decisione che
l’operationi et gli effetti naturali solamente nascono dalla natural forma delle loro cagioni, et d’altronde impossibile che naschino et già mai, se noi con diritto occhio vogliamo mirare et quello che la natura tutto il giorno fa et quello che Aristotele ne ha scritto (Del flusso et reflusso del mare, et dell’inondatione del Nilo, 1577, p. 42).
E, ancora, a proposito dei presunti caratteri portentosi di una fonte nella campagna toscana, rilevava che essi derivavano in realtà dalle esalazioni di cui aveva trattato Aristotele nei Meteorologici, concludendo che proprio da quei vapori scaturivano «tutti gli effetti che agli huomini volgari paiono miracolosi, se bene sono naturali, da cause naturali naturalmente generati» (p. 240).
La tendenza a non ammettere alcun explicans di genere soprannaturale nell’indagine fisica aveva come esito una netta separazione tra il dominio della scienza e quello delle credenze religiose. Lo studio della realtà naturale e la riflessione spirituale dovevano, in tal senso, mantenersi rigorosamente distinti. L’impermeabilità all’influsso di istanze teologiche costituì pertanto un tratto tipico della filosofia aristotelica, almeno in Italia e nelle università ‘pubbliche’.
Non è un caso che in Italia la miscredenza e l’ateismo fossero ben radicati nelle fila dei peripatetici. Pomponazzi dichiarava coraggiosamente che oportet […] in philosophia haereticum esse, qui veritatem invenire cupit («in filosofia, chi vuole trovare la verità dev’essere eretico»). E di fronte alle non infrequenti iniziative inquisitoriali, la risposta era sempre la stessa: il richiamo alla tesi della ‘doppia verità’ (filosofica e teologica) e l’appello ai diritti del pensiero razionale, incarnati in sommo grado da Aristotele. Il docente padovano Cesare Cremonini (1550-1631) così scriveva il 3 luglio 1619 al locale inquisitore:
Quanto al mutar il mio modo di dire, non so come poter io promettere di trasformar me stesso. Chi ha un modo, chi un altro. Non posso né anco voglio retrattare espositioni d’Aristotile, poiché l’intendo così, e son pagato per dichiararlo come l’intendo, e nol facendo, sarei obligato alla restitutione della mercede (cit. in Poppi 1993, p. 105).
La libertà invocata dai filosofi accademici consisteva, dunque, in primo luogo, nella possibilità di seguire i precetti aristotelici in piena autonomia, senza compromessi con le esigenze della fede. Il loro naturalismo si dimostrò tuttavia incapace di sviluppi radicalmente innovativi, rimanendo impastoiato in una sterile discussione di stampo genuinamente scolastico. Nelle università tardorinascimentali l’insegnamento reiterava, infatti, con poche variazioni, il canone tradizionale delle quaestiones legate alla spiegazione di particolari fenomeni naturali secundum opinionem Aristotelis. Non che – come abbiamo accennato – non affiorassero talvolta accenti critici e dissonanti. Ma, in generale, le suggestioni originali non intaccavano la struttura concettuale di riferimento, e venivano presentate, quasi sempre, come tentativi di procedere a una più precisa e genuina interpretazione delle tesi del Philosophus.
Completamente diverso è il discorso per altre regioni europee in cui l’insegnamento della teologia esercitava un ruolo assai più importante e influente di quello (piuttosto limitato) giocato nella nostra penisola.
Ovviamente, alla tendenza ‘naturalistica’ di cui abbiamo appena parlato si sottraggono le scuole degli ordini religiosi (si può citare il gesuita Collegio romano), in cui il dominio delle tematiche teologiche condizionava pesantemente la trattazione delle questioni di filosofia naturale.
Com’è noto, alla lunga la filosofia di Aristotele si rivelò una prospettiva epistemologica del tutto inadeguata. L’impianto ilemorfico, il finalismo, la disamina in termini di qualità dovettero cedere il passo a una nuova visione del mondo e della conoscenza, saldamente incentrata sul ruolo decisivo della matematica.
Ora, va in proposito ricordato che, secondo Aristotele, gli enti fisici e quelli matematici hanno un carattere affatto differente, poiché i primi sono strettamente associati alla materia e al movimento, mentre i secondi rappresentano il prodotto di una considerazione astratta, svincolata da ogni elemento di ordine sensibile (cfr., per es., Metaphysica, 997 b 34-998 a 6, 1025 b 31-1026 a 7; Physica, 194 a 5; De caelo, 199 a 15-18). Le due scienze (fisica e matematica) dovevano dunque restare separate: la loro sovrapposizione o mescolanza avrebbe di fatto implicato la confusione di domini rispondenti a contrastanti statuti ontologici.
Come notava il padovano Giacomo Zabarella (1533-1589) – uno dei più influenti aristotelici del 16° sec. –, il punto di vista del philosophus naturalis è molto diverso da quello del mathematicus, dal momento che il primo considera le cose ut sensiles («in quanto soggette ai sensi») mentre l’altro ne tratta ut mente abiunctas a materia sensili («in quanto intellettualmente separate dalla materia sensibile», Opera logica, 1603, col. 797).
L’approccio qualitativo, tipico dell’aristotelismo, fece dunque sì che la filosofia naturale sviluppata nelle università rimanesse sostanzialmente estranea (e spesso ostile) all’emergere del nuovo paradigma scientifico fisico-matematico. Non che i physici rifuggissero del tutto dall’uso della matematica nell’ambito del discorso naturale. Tuttavia, il trattamento quantitativo aveva una portata limitata e contingente, e non costituiva in alcun modo il nucleo di riferimento nell’analisi dei fenomeni. Anche l’applicazione dei metodi matematici alle variazioni qualitative sviluppata nel Medioevo dagli studiosi parigini e da quelli del Merton College di Oxford – con le sue interessanti conseguenze cinematiche – ebbe scarsa eco nelle università italiane del Cinquecento e primo Seicento, e venne utilizzata da pochi professori e, per lo più, con scarsa competenza e creatività (cfr. Lewis 1980).
Non mancarono invece rilievi interessanti e originali basati su riscontri che potremmo definire protosperimentali. È a tutti noto l’esperimento che Galilei avrebbe operato dalla Torre di Pisa per dimostrare l’infondatezza delle tesi aristoteliche sul moto di caduta dei gravi. Ebbene, qualunque realtà si voglia riconoscere a questo semileggendario episodio, va detto che analoghe prove vennero, nel medesimo periodo, compiute da professori aristotelici. Il già citato Borro narra di aver fatto cadere dalla finestra della propria dimora un pezzo di legno e uno di piombo dello stesso peso al fine di constatare quale fosse più veloce, e di smentire così le opinioni del collega Francesco Buonamici (1533-1603), sostenitore, sempre su base sperimentale, di conclusioni opposte (cfr. Camerota, Helbing 2000). In quegli stessi anni, poi, un altro toscano, Francesco Piccolomini (1520-1604), docente a Padova, faceva appello all’esperienza direttamente contra Aristotelem:
In merito al moto dei corpi gravi e leggeri, Aristotele ha sostenuto diverse cose in contrasto con l’esperienza sensibile, e ha tramandato delle regole sui rapporti tra la velocità e la tardità dei moti che sembrano manifestamente false. Così, ha sostenuto che quanto più un grave è di dimensioni maggiori, tanto più velocemente si muove. Ciò è contraddetto dall’esperienza. Infatti, una pietra che sia di grandezza doppia di un’altra non è due volte più veloce, né una quattro volte più grande è quattro volte più rapida, ma entrambe, la più grande e la più piccola, discendono con la stessa velocità nell’aria. Non solo, ma quattro parti di una pietra cadono separate con la medesima velocità di quando sono congiunte.
Inoltre, Aristotele afferma che quanto più un corpo è pesante, tanto più si muove velocemente. Anche questo è in contrasto con l’esperienza. Infatti, se si prendono due palle eguali, una di piombo e l’altra di legno, per quanto la palla di piombo sia molto più pesante, tuttavia la sua velocità non è proporzionale al suo maggior peso, bensì risulterà che entrambe cadono con una velocità quasi eguale (Librorum ad scientiam de natura attinentium partes quinque, 1597, p. 834).
Le posizioni di Piccolomini ricordano molto da vicino quelle di Benedetti e del giovane Galilei. Ciò attesta come, anche tra i seguaci dell’aristotelismo, emergessero talvolta opinioni critiche, fondate su riscontri empirici.
Nel complesso, tuttavia, l’aristotelismo accademico fu ben lungi dal produrre risultati organicamente innovativi. Impegnati a riproporre gli stanchi moduli della tradizione, i philosophi naturales delle università si rivelarono incapaci di abbandonare il paradigma qualitativo e teleologico della fisica aristotelica, che continuò così a fornire, fino alla metà del 17° sec., la griglia categoriale attraverso cui osservare e interpretare il mondo della natura.
Tra le discipline curriculari delle facoltà delle Arti era annoverata anche la matematica. Il suo insegnamento serviva non solo a fornire una formazione aritmetica e geometrica, ma anche a far fronte alle necessità della pratica medica, sbocco naturale per gli studenti che conseguivano il titolo di magister artium.
La medicina del tempo riteneva che i movimenti celesti influenzassero il decorso delle patologie come pure l’azione di contrasto svolta dalle cure. Di conseguenza, per intervenire efficacemente occorreva avvalersi dei calcoli astrologici, in modo da identificare il momento più propizio alla somministrazione del trattamento terapeutico. La matematica insegnata nelle università comprendeva dunque una specifica istruzione di tipo astronomico/astrologico, finalizzata all’individuazione dei cruciali ‘giorni critici’ delle malattie.
La natura funzionale di tale insegnamento è, del resto, attestata dal fatto che, nel 15° sec. e nella prima metà del 16°, non pochi atenei lo rubricavano sotto il titolo di astrologia, pur prevedendo un programma che combinava testi astronomici e astrologici con altri più propriamente matematici. Nel corso del Cinquecento, si affermò la tendenza a denominare l’insegnamento matematica, senza per questo rinunciare allo studio dei contenuti astronomici. I programmi si incentravano, in particolare, sull’insegnamento di Euclide, del De sphaera mundi (13° sec.) dell’inglese Giovanni di Sacrobosco (John of Holywood) e del Quadripartitum (Tetrabiblos), l’opera astrologica di Claudio Tolomeo. A Pisa, per fare un esempio, gli statuti emanati dal granduca di Toscana Cosimo I nel 1545-46 disponevano che gli ‘astronomi’ «primo anno legant auctorem Sphaerae [cioè Sacrobosco]; secundo Euclidem interpretentur; tertio quaedam Ptolomei».
I docenti si attenevano alle indicazioni, seppure non mancassero talvolta di aggiungere l’illustrazione anche di qualche altra opera. Per restare a Pisa, il matematico Filippo Fantoni (1530 ca.-1591), svolse, negli anni tra il 1582 e il 1588, i seguenti argomenti (cfr. Schmitt 1978, p. 57): 1582-83, Quintum librum Euclidis et theoricas planetarum; 1583-84, Sphaeram Ptolomei et primum librum Euclidis; 1584-85, Quintum librum Euclidis et theoricas planetarum; 1585-86, Primum Euclidis, primum librum Quadripartiti Ptolomei, quaestiones ad facultatem medicinae pertinentes, et secundum delineationes planetarum; 1586-87, Sphaeram Horontii [il manuale astronomico del francese Oronce Finé, 1494-1555] et primum librum Euclidis; 1587-88, Primum Euclidis et Sphaeram Horontii simul cum Sphaera Ptolomei.
Più o meno nello stesso torno di tempo, secondo i rotuli dell’Università di Padova, il messinese Giuseppe Moletti (1531-1588) spiegò Euclide nell’anno accademico 1579-80; ancora Euclide e dei non meglio precisati Elementa optica nel 1582-83; il De sphaera di Sacrobosco e gli Elementi euclidei nel 1584-85, mentre nei due anni successivi, 1585-86 e 1586-87, svolse anche un corso sulla teoria della prospettiva e uno sui Mechanica pseudoaristotelici. Secondo altre fonti, Moletti avrebbe anche trattato argomenti di geografia, anemografia, idrologia e ottica.
La varietà dei temi affrontati da Moletti non costituiva un’eccezione. Anche il suo predecessore, Pietro Catena (1501-1576), e il suo successore, Galilei, tennero lezioni sulla meccanica pseudoaristotelica. Ciò sembra indicare una prevalente tendenza ingegneristica da parte dei matematici patavini, un’attitudine per cui la matematica veniva largamente utilizzata per risolvere problemi pratici.
In altri contesti, l’insegnamento sembra invece aver avuto una connotazione più marcatamente astronomica, con una predominanza dei temi astrologici. È il caso di Pisa, dove – prima che Galilei assumesse la cattedra per il breve periodo 1589-92 – i suoi predecessori, Giuliano Ristori, Francesco Ottonaio, Giuseppe Nozzolino, Francesco Pifferi e il già citato Fantoni, alternarono la spiegazione di Euclide a quella della cosmografia e delle theoricae planetarum, dedicando una costante attenzione alla dottrina astrologica del Quadripartitum tolemaico.
Anche a Bologna – forse, con Padova, il centro universitario di maggior prestigio nelle matematiche – l’insegnamento dell’astronomia fu particolarmente coltivato. A differenza degli altri atenei che prevedevano un solo lettore, l’Alma Mater vantava diverse cattedre: in genere due, ma in certi periodi si arrivò anche a quattro. Negli anni tra il 1555 e il 1570, Bologna aveva un titolare di matematica, e uno (o due) di astronomia, cui si affiancava uno studente incaricato di leggere esclusivamente materie astronomiche. In seguito, ci si avvalse di due professori ordinari, che svolgevano lezioni di matematica e di astronomia uno per le classes matutinae e l’altro per le pomeridianae.
Tra i più insigni docenti bolognesi possiamo ricordare Domenico Maria Novara (1454-1504), maestro di Nicola Copernico ed esperto osservatore celeste nonché attivo compilatore di pronostici; Egnazio Danti (1536-1586), che diede contributi interessanti in molti campi (dalla cosmografia alla cartografia, dall’architettura militare alla prospettiva) e costruì notevoli meridiane in S. Maria Novella a Firenze e in S. Petronio a Bologna; Giovanni Antonio Magini (1555-1617), provetto geografo e famoso compilatore di effemeridi; Pietro Antonio Cataldi (1552-1626), che pubblicò numerosi lavori di aritmetica, geometria e astronomia, ma che eccelse soprattutto come algebrista.
Proprio lo sviluppo creativo dell’algebra vantava una notevole tradizione a Bologna. Qui, dal 1496 al 1525, tenne cattedra Scipione dal Ferro (1465-1526), il primo a trovare una formula per la risoluzione delle equazioni di terzo grado. Si trattava di un risultato di notevole importanza; basti pensare che Luca Pacioli – il quale insegnò anch’egli a Bologna per un breve periodo – la giudicava impossibile. Dal Ferro non pubblicò la propria scoperta, ma la comunicò al suo successore Annibale Della Nave (1500-1558) e a un allievo, Antonio Maria Fior (fine 15° sec.-dopo il 1540). Questi, nel 1535 a Venezia, forte della rivelazione del maestro, sfidò il bresciano Niccolò Fontana detto il Tartaglia a risolvere trenta equazioni cubiche. Tartaglia, come egli stesso scrisse, pose «ogni mio studio, cura et arte per ritrovar regola a tal capitolo e così per mia bona sorte […] la ritrovai 8 giorni avanti al termine di dar li detti 30 quesiti al notaro» (Quesiti et inventioni diverse, 1546, ed. 1554, f. 106v). La «regola», che decise di non divulgare, gli consentì di risolvere tutti i problemi. Qualche anno dopo, nel 1539, Girolamo Cardano seppe della scoperta e si rivolse a Tartaglia perché gliela comunicasse. Dopo un lungo rifiuto, il matematico bresciano acconsentì infine a svelare la propria acquisizione, vincolando però il collega a tenerla ancora segreta. Cardano non ottemperò alla promessa, e nel 1545 pubblicò la formula nel suo Artis magnae, sive de regulis algebraicis liber unus (noto come Ars magna). Furibondo per il ‘tradimento’, Tartaglia attaccò Cardano, in difesa del quale scese in campo il discepolo (e poi professore a Bologna) Ludovico Ferrari (1522-1565). Ne nacque una disputa che si concretò in sei «cartelli di matematica disfida», prima che un pubblico confronto, svoltosi a Milano il 10 agosto 1548, mettesse fine alla contesa con l’abbandono di Tartaglia, offeso per l’atteggiamento (a suo dire) ostile dell’uditorio.
Lo sviluppo dell’algebra venne in quel periodo segnato dall’opera dell’ingegnere bolognese Raffaele Bombelli (m. dopo il 1572). Questi nel 1572 diede alle stampe un imponente trattato, L’algebra, che, ancora un secolo dopo, verrà considerato un autorevole testo di riferimento dai matematici di tutta Europa, tanto da essere utilizzato con profitto dallo stesso Gottfried W. von Leibniz. L’algebra forniva una trattazione sistematica di tutta la materia, formulando chiare definizioni dei numeri negativi e immaginari, perfezionando la teoria delle equazioni (conteneva, tra l’altro, un’efficace soluzione per le equazioni di quarto grado) e istituendo una più avanzata notazione. Bombelli vi dichiarava di essersi ispirato in particolare ai matematici dell’antichità: «io mi son posto nell’animo di veramente insegnare la disciplina della parte maggiore dell’aritmetica (detta Algebra) immitando gli antichi scrittori e qualche uno de Moderni» (p. 414). Il punto di riferimento era rappresentato in particolare dal matematico del 3° sec. Diofanto, della cui Arithmetica Bombelli curò – in collaborazione con Antonio Maria Pazzi, professore a Roma – una traduzione (non rinvenuta) dei primi cinque libri.
Proprio la pubblicazione degli scritti dei grandi autori dell’antichità greca ed ellenistica costituisce uno degli aspetti più significativi della cultura matematica dei secoli 16° e 17°. Possiamo, solo per fare qualche esempio, ricordare le edizioni di opere di Archimede e delle Collezioni matematiche di Pappo (fine 3° sec.-metà del 4°) date alle stampe da Federico Commandino (1509-1575), la traduzione degli Elementi sferici di Teodosio Tripolita (1° sec. a.C.) realizzata da Francesco Maurolico, la versione dei libri I-IV delle Coniche di Apollonio di Perge (262 a.C. ca.-180 a.C. ca.) curata da Commandino e completata da quella dei libri V-VII curata da Giovanni Alfonso Borelli (1608-1679), che vide la luce a Firenze nel 1661.
La riscoperta dei lavori degli antichi giocò un ruolo non secondario nel promuovere il progresso e l’innovazione in campo matematico, stimolando gli studiosi a confrontarsi con la lezione dei grandi del passato e a cercare di superarla creativamente. L’impatto sull’insegnamento universitario sembra però esser stato piuttosto limitato. Troppo elementare e troppo rigidamente strutturato era il programma che i professori avevano l’obbligo di svolgere nei loro corsi. Gli spunti desumibili dai trattati greci potevano rivelarsi utilissimi per gli specialisti, ma non si prestavano alle necessità di una didattica che mirava essenzialmente a favorire l’acquisizione dei rudimenti della disciplina. Tuttavia, seppure non in modo diretto, il ‘Rinascimento matematico’ ebbe un qualche effetto in ambito accademico poiché contribuì ad allentare i legami con l’astrologia. Come ha notato Paul Grendler (2002):
La ripresa di autori come Archimede focalizzò l’attenzione su un tipo di matematica priva di relazioni con l’astrologia. Di fatto, gli studiosi impegnati nella rinascita della matematica greca cominciarono ad accusare l’astrologia di costituire un sapere non certo. Per questa e per altre ragioni, gli studi astrologici persero importanza. Non fu dunque un caso se, a partire dalla metà del XVI secolo, in tutte le università (con l’eccezione di Ferrara) alla cattedra fu attribuito il nome esclusivo di “matematica” (pp. 427-28).
Accanto a tale aspetto ne va annoverato un altro, ancora più rilevante. Le opere di alcuni matematici antichi (Archimede in primo luogo) delineavano chiaramente la possibilità di un’applicazione dei metodi quantitativi allo studio della realtà fisica. Con l’assunzione di un tale modello, la rigida barriera che separava il dominio dei fenomeni naturali (di esclusiva pertinenza della philosophia naturalis) dal campo di attività dei mathematici era destinata a sgretolarsi. L’esempio di Galilei è in tal senso emblematico. A partire dai primi decenni del 17° sec., i matematici delle università (seguiti a ruota da non pochi filosofi naturali) si incammineranno senza esitazioni sulla strada della fisica matematico-sperimentale di stampo galileiano.
La matematica costituirà pertanto lo strumento privilegiato per accedere alla conoscenza del reale. Così, nel 1627, un allievo di Galilei, Niccolò Aggiunti (1600-1635), professore di matematica presso lo Studio pisano, in una sua Oratio de mathematicae laudibus non esiterà a rilevare che
al di là della geometria, tutte le altre discipline o non esistono, o scaturiscono da essa come da una fonte. […] Vagate col pensiero nel mondo degli astri e in quello terrestre, considerate con attenzione questo mobile universo. Che cosa cogliamo di tutte queste entità, le cui specie per mezzo dei sensi arrivano alla mente? Che cosa percepiamo al di fuori dei movimenti, dei colori, dei numeri e delle figure? Certamente nulla. Se dunque vogliamo acquistare conoscenza della realtà, bisognerà rivolgere completamente il pensiero verso questi elementi, e applicare la mente alla loro esclusiva contemplazione. Ma solo la geometria esamina con attenzione e investiga in modo sagace tali aspetti, di conseguenza, chiunque voglia (per quel che è consentito nell’ambito delle umane possibilità) conoscere qualcosa e di ciò scientemente e dottamente disputare, è necessario che si rifugi nelle dottrine geometriche. Pertanto, unicamente la geometria ci conduce alla conoscenza delle cose, e, da sola, essa abbraccia tutti i campi del sapere (p. 8).
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