La scienza presso le civilta precolombiane. Etnoscienza dei Pueblo
Etnoscienza dei Pueblo
I Pueblo del Sud-ovest degli Stati Uniti non costituivano un gruppo unitario, in quanto discendevano da quattro comunità preistoriche linguisticamente distinte, unite dal fatto di vivere concentrate in piccoli villaggi (in spagnolo: pueblo) e di basarsi sull'agricoltura. Anziché in abitazioni unifamiliari isolate, i Pueblo vivevano in gruppi di case di muratura a più piani (adobe), che ospitavano più famiglie. L'interazione sociale e rituale si focalizzava nella piazza (plaza) al centro del villaggio, dove si svolgevano le cerimonie pubbliche. Nei pressi della piazza si trovavano costruzioni cerimoniali parzialmente interrate, note come kiva, che mantenevano i legami spirituali tra il mondo sotterraneo, dal quale il popolo riteneva di essere emerso in un passato mitico, e il mondo di superficie in cui si trovava a vivere. La complessa preistoria dei Pueblo non è stata ancora completamente ricostruita (Ortiz 1979); la loro cultura può in gran parte essere ricondotta al popolo preistorico Anasazi, che creò i maggiori insediamenti a Mesa Verde nel Colorado, nel canyon Chaco e ad Aztec Ruin nel Nuovo Messico, a Wupatki nell'Arizona e, forse, anche a Casas Grandes nello Stato messicano di Chihuahua. I resti architettonici presenti in questi siti archeologici individuano approssimativamente l'estensione geografica del mondo pueblo e indicano il livello di complessità sociale raggiunto, fra il X e il XV sec., da queste comunità (Lekson 1995).
I Pueblo contemporanei occupano solamente una porzione del territorio un tempo abitato da questi popoli. I villaggi orientali, situati sul Rio Grande e sui suoi affluenti nel Nuovo Messico, erano occupati da persone che parlavano i dialetti kere e un gruppo di lingue appartenenti alla famiglia kiowa-tanoa; i villaggi occidentali, situati negli altopiani desertici dell'Arizona settentrionale e del Nuovo Messico, erano abitati invece da parlanti zuni e hopi, una delle lingue uto-azteche.
Ciò che oggi sappiamo delle conoscenze naturali e delle pratiche dei Pueblo orientali e di quelli occidentali è influenzato dalle storie diverse che essi hanno avuto fin dal XVI secolo. Gli Spagnoli incontrarono per la prima volta i Pueblo nel 1539, e intorno al 1630 l'influenza spagnola si era estesa verso ovest fino ai villaggi hopi. Dopo una rivolta generale, che interruppe la dominazione spagnola dal 1680 al 1700, gli Spagnoli poterono ristabilire il dominio soltanto sui villaggi del Rio Grande e sugli Zuñi. Di conseguenza, quando iniziarono negli anni Ottanta del XIX sec. le ricerche etnografiche e antropologiche sui Pueblo, le pratiche dei Pueblo occidentali e degli Zuñi erano state alterate in molti modi da oltre due secoli d'influenza spagnola, o ammantate del segreto rituale.
Numerosi miti riconducono le origini dei Pueblo a un villaggio preistorico chiamato Casa Bianca. Dalla combinazione delle diverse varianti di questi miti, è possibile ottenere il racconto di come a Casa Bianca i Pueblo appresero l'ordine della Natura, le tecniche di coltivazione e di caccia, e la forma dei riti religiosi.
A Casa Bianca gli uomini vennero a conoscenza di tutto ciò che riguardava il mondo in cui vivevano e di come agire nei suoi confronti. A ogni angolo della Terra c'era una casa, e in quella casa viveva un dio: Donna Pensante, il creatore di ogni cosa, a Nord-ovest; Nonna Ragno, a Sud-ovest; Farfalla, a Sud-est; Giovane Uccello Beffardo a Nord-est. A metà strada tra gli angoli della Terra c'erano i quattro punti cardinali sull'orizzonte, oltre ai quali vi erano lo zenit e il nadir; in ognuna delle sei direzioni (le quattro orizzontali nord, est, sud, ovest e le due verticali zenit 'di sopra' e nadir 'di sotto') vi era una montagna, sulla cui cima viveva un dio. Questi dèi provocavano neve e pioggia, erano dunque responsabili del governo del tempo atmosferico e del buon andamento delle colture. A ognuna delle sei direzioni apparteneva un animale, una donna, un albero, un serpente e un guerriero; il volto di ciascuna delle donne era del colore proprio del suo punto cardinale. Così il mondo era ben ordinato, e il principio del suo ordinamento risiedeva nei sei punti cardinali.
A Casa Bianca agli uomini fu insegnato il modo di vivere che da allora in poi hanno seguito; furono istruiti su come far crescere il mais, i fagioli, lo squash (una cucurbitacea), il cotone e il tabacco, su come cacciare i cervi e i tacchini sui monti. Impararono così a fabbricare le bacchette per la preghiera e a usarle insieme alla farina di mais sacro per pregare gli dèi e gli spiriti. I kachina solevano venire a Casa Bianca durante l'estate e danzare per la pioggia e i raccolti; dopo una loro visita pioveva sempre, le colture crescevano rigogliose, il popolo prosperava ed era felice (Stirling 1942; White 1985).
L'identità storica di Casa Bianca è incerta; alcuni dicono che fosse Mesa Verde, altri che fosse il grande centro cerimoniale, economico e politico del canyon Chaco; c'è comunque consenso sul fatto che i Pueblo, situati lungo un arco attorno a Chaco, furono influenzati da quella cultura. Una grave siccità, che si protrasse dal 1130 al 1180, condusse al collasso il sistema chacoano; verso il 1300 un'emigrazione su larga scala lasciò poi pressoché deserte Chaco, Mesa Verde e la regione circostante. I discendenti di questi emigrati dotarono i vari Pueblo di una comune tradizione culturale basata su un corpus organico di conoscenze sul mondo naturale, finalizzate soprattutto alla soluzione dei problemi dell'agricoltura in un clima arido.
Nel racconto mitologico della vita a Casa Bianca viene delineata la struttura mediante la quale i Pueblo svilupparono un insieme organico di osservazioni sulla Natura e trasmisero il loro sapere alle generazioni successive. Si tratta di un sistema a sei (o quattro, o sette) direzioni associate con i colori, con i moti del Sole e con quelle categorie di esseri naturali che i Pueblo ritenevano importanti. Questa struttura organizzatrice appare ripetutamente nei miti e nei rituali religiosi; chiunque studi le culture pueblo, e a fortiori chiunque sia cresciuto in una comunità pueblo, non può prescindere da questa struttura direzionale, essenzialmente astronomica. Secondo il mito Acoma, le prime donne che emersero dal sottosuolo, arrampicandosi su uno dei quattro alberi originari, rimasero subito disorientate, non sapendo cosa fossero le direzioni. Fu loro detto di attendere il sorgere del Sole e poi di ringraziarlo per aver recato loro la luce. Avrebbero chiamato 'Est' la direzione verso cui si rivolgevano pregando il Sole; alla loro destra vi sarebbe stato il 'Sud', a sinistra il 'Nord', dietro di loro l''Ovest', sotto di loro il 'Basso' (nadir) da cui provenivano, e sulle loro teste l''Alto' (zenit) (Stirling 1942). Il primo atto degli esseri umani dopo la loro emersione dal mondo sotterraneo, il primo passo nel loro ordinamento della Natura, fu quindi quello di stabilire la struttura delle sei direzioni e di dare loro un nome. Tale struttura fu definita in base a due semplici osservazioni: il luogo ove sorge il Sole e la direzione del suo movimento nel cielo (che si credeva fosse sia la direzione in cui era cresciuto il primo albero, sia quella in cui il popolo delle origini era emerso dal mondo sotterraneo).
Il Sole era un'immagine centrale nella vita e nell'arte pueblo, ed era una delle divinità principali. La sua presenza poteva inaridire le colture, la sua assenza gelarle. Il primo atto quotidiano di ogni Pueblo religioso ‒ atto che ripeteva quello compiuto dal popolo delle origini, nel primo giorno della sua emersione ‒ era la preghiera al Sole che sorgeva a oriente. Dal punto di vista della tradizione scientifica occidentale, si può osservare come questa pratica religiosa producesse una certa dimestichezza con la variazione dei punti, situati lungo la linea dell'orizzonte, da cui il Sole sorge durante l'anno, e ciò può essere stata la base di un calendario solare fondato sull'osservazione. Non si deve però dimenticare che questa conoscenza del movimento del Sole lungo l'orizzonte nasceva da una pratica religiosa; come disse un osservatore hopi del Sole: "credo di capire come voi possiate considerare astronomia quel che faccio, ma io lo considero religione".
Le pratiche astronomiche pueblo sono state studiate approfonditamente tra gli Hopi e gli Zuñi, popolazioni che hanno proseguito a tutt'oggi nelle loro osservazioni lunari e solari tradizionali. Come i loro vicini, gli Hopi strutturavano il Cosmo in quattro direzioni associate ai colori, ma le quattro direzioni differivano dai punti cardinali comuni all'Europa e alle genti dei villaggi orientali, in quanto marcavano le direzioni dei luoghi del levarsi e del calare del Sole nei solstizi invernale ed estivo.
I Tewa del villaggio San Juan associavano i punti cardinali ai colori, alle quattro piazze per le danze, ai quattro altari e alle quattro mesa sacre situate a pochi chilometri dal villaggio, e alle quattro montagne sacre (fig. 2) (Ortiz 1969). Tutti questi punti di riferimento erano di fatto orientati verso i punti cardinali. Se è vero che potrebbero aver spostato i loro altari e le loro piazze di danza per renderli conformi alle tradizioni occidentali, certamente però non avrebbero potuto spostare le montagne, e ciò può quindi darci una misura di quanto l'uso dei punti cardinali sia antico. Un'ulteriore prova dell'antichità dei punti cardinali è il loro ruolo nell'orientamento architettonico dei siti anasazi nel canyon di Chaco. Casa Rinconada, la maggior kiva a Chaco, è orientata secondo i punti cardinali, e le terrazze che rappresentano gli alberi sacri si collocano a metà tra una direzione e l'altra. Il piano generale del complesso di Chaco rivela una sistemazione delle singole strutture attorno a un asse di simmetria nord/sud, con la linea di simmetria che mette in collegamento i villaggi di Tsin Kletzin a Pueblo Alto. Tale simmetria nord/sud si estende lungo la cosiddetta Great North Road, che arriva a 50 km a nord di Pueblo Alto.
In definitiva, sembra evidente che sia i resoconti hopi, che attribuiscono una priorità alle direzioni solstiziali, sia quelli tewa, che assegnano la priorità ai punti cardinali, si riferiscano a formulazioni precoloniali dell'abbinamento, fondamentale per tutti i nativi americani, tra le quattro direzioni e i quattro angoli con i colori. Come i miti ricordano, la conoscenza delle direzioni era basata sull'osservazione. Ogni popolo pueblo aveva una propria tradizione nell'osservazione del sorgere del Sole, e talvolta del suo tramontare, al fine di stabilire un calendario colturale e cerimoniale; sebbene i dettagli varino, il modello di base mostra una notevole uniformità in tutto il mondo pueblo. L'osservazione dei solstizi era un elemento comune; in ognuno dei diciannove villaggi per i quali sono state registrate osservazioni solari, esisteva infatti una cerimonia per la celebrazione dei solstizi. Determinare il tempo e il luogo dei solstizi costituiva dunque un passo essenziale, mediante il quale i Pueblo definivano su base empirica la struttura cosmologica delle quattro direzioni e dei quattro angoli (fig. 3).
Oltre a queste osservazioni solstiziali, il calendario hopi presupponeva una serie di osservazioni formali e informali, compiute tanto da coloro che erano preposti ai rituali quanto dai coltivatori, dirette a determinare il momento esatto in cui dare inizio ai preparativi di una cerimonia o della semina. Sebbene il principale metodo formale per le osservazioni solari fosse quello di fissare albe e tramonti rispetto a determinati segni sull'orizzonte, a volte si procedeva con osservazioni informali basandosi su un raggio solare che, passando attraverso un'apertura in un muro, arrivava a colpire un segno particolare su una parete.
I capi religiosi, tra gli Hopi come tra gli Zuñi, osservavano con cura il Sole e la Luna al fine di regolare il sistema dei mesi lunari; tuttavia, sebbene i Pueblo abbiano elaborato un'interpretazione dettagliata del viaggio annuale del Sole lungo l'orizzonte, non vi è segno che essi abbiano compreso i simili moti della Luna. Uno dei primi resoconti sui Pueblo Walpi descrive la Luna come folle (lett. 'non-hopi') perché, a differenza del Sole, non ha una casa dalla quale emergere e nella quale ridiscendere. Questi osservatori erano evidentemente consapevoli del fatto che la Luna, alla fine del suo viaggio lungo l'orizzonte, non raggiunge ogni mese lo stesso punto, ma non avevano trovato nessun modello intelligibile di questo comportamento (Stephen 1891-94).
In contrasto con il ben documentato calendario luni-solare dei Pueblo occidentali, i Pueblo orientali usavano un calendario di dodici mesi che mostrava i segni di una forte influenza spagnola, in quanto alcuni mesi avevano nomi di santi. Il villaggio Tewa di Hano, fondato nel XVII sec. da emigranti dal Rio Grande alla regione hopi, aveva un calendario in cui solamente la metà dei mesi, dall'inverno all'estate, aveva nomi propri, e gli stessi mesi erano poi ripetuti dall'estate all'inverno. Questa ripetizione rifletteva una dualità fondamentale nella concezione del tempo: la dualità dei mesi in Alto e in Basso, la crescita e l'emersione dal Basso all'Alto, definivano l'asse verticale della struttura direzionale pueblo. Nella nostra resa metaforica del tempo, ciò che è davanti, lungo un percorso orizzontale di lavoro, precede quello che sta dietro; in quella pueblo, ciò che era in basso, lungo un asse verticale di crescita, emergeva per diventare a sua volta ciò che stava in alto.
Le sei direzioni, inoltre, non costituivano soltanto un modo per orientarsi nello spazio e nel tempo; nelle narrazioni mitiche esse erano spesso associate con gruppi di sei esseri che definivano categorie importanti nel pensiero pueblo (si veda la classificazione riprodotta nella Tav. I); elemento, questo, che ci consente di capire il modo in cui tali popolazioni attribuivano un ordine al proprio Universo.
Osservando la classificazione della Tav. I si nota l'assenza di un tratto comune a ciò che è associato a una direzione. Qualora si volesse scegliere il colore, si troverebbe difficoltà a chiarire, per esempio, la presenza dell'orso tra il colore blu. Molte categorie primarie (indicate nella prima colonna a sinistra della Tav. I) erano simili a quelle degli schemi classificatori occidentali, ma l'esistenza di un gruppo eterogeneo di animali associati all'acqua indica quanto la categorizzazione pueblo si distanziasse dalla nostra. Ugualmente sorprendente è il fatto che vi fossero categorie primarie per i fagioli e per il mais, i quali, a nostro modo di vedere, avrebbero dovuto comparire in posizione subordinata. Eppure, quelle categorie primarie così diverse dalle nostre individuavano gli aspetti del mondo naturale che i Pueblo sentivano più vicini, ritenendoli importanti nella sfera economica della caccia, della raccolta e dell'agricoltura, oppure nell'universo simbolico delle idee scientifiche e religiose.
L'associazione delle nuvole colorate con le direzioni deriva da un costrutto culturale di cui non ci è chiara la motivazione e le cui origini si perdono nell'Antichità. È tuttavia uno di quei concetti che i miti trattano come primari. La variante hopi del mito dell'emersione narra che, quando il popolo viveva ancora nel mondo sotterraneo, gli anziani avevano inviato Locusta a vedere che cosa ci fosse di sopra. Mentre saliva, Locusta suonò il suo flauto e subito si attirò l'ira di Capo Nuvola Gialla del Nord-ovest, che lo dardeggiò di fulmini gialli. A turno, ciascun Capo Nuvola di tutte le direzioni lo colpì con un saettare di lampi colorati, ma egli continuò a suonare il suo flauto. Dopo questa prova di coraggio, i Capi Nuvola permisero a Locusta di far emergere il suo popolo dal mondo sotterraneo. In questa versione del mito pueblo della emersione, le nuvole colorate abbinate a ciascuna direzione furono dunque fra le prime cose che gli uomini appresero sul mondo in cui vivevano (Stephen 1929). La pioggia era infatti considerata un dono raro e prezioso, non c'è quindi da stupirsi che i Pueblo rappresentassero, nei miti e nei riti, le nuvole come divinità centrali alle quali durante l'estate si levavano le suppliche per avere la pioggia.
Soltanto due delle direzioni sacre degli Hopi erano segnalate dalle montagne, i San Francisco Peaks e il Monte Taylor. Le altre due direzioni sacre erano segnalate da fonti d'acqua: la sorgente vicino alla Black Mountain a Nord-ovest e il lago We'nima a Sud-est. Quest'ultimo era anche considerato, dai Pueblo occidentali e dagli Zuñi, la residenza dei kachina, portatori di nuvole e di pioggia; gli Hopi ritenevano invece che i kachina risiedessero sui San Francisco Peaks. Nella tarda estate, quando l'aria carica d'umidità si spostava dal golfo di California verso nord, le nuvole foriere di pioggia dapprima si formavano sulle cime delle montagne sacre, poi si spostavano verso nord, portando pioggia e buoni raccolti ai Pueblo. Le montagne e le direzioni sacre, i Capi Nuvola e i colori, tutto serviva a rappresentare in termini mitologici i fenomeni meteorologici vitali.
Anche gli uccelli costituivano una categoria importante, in quanto i loro colori brillanti erano utilizzati nei riti proprio per rendere manifesta la struttura colori-direzioni: piume o penne di sei uccelli colorati apparivano infatti frequentemente, accanto alle spighe di mais colorato, negli altari rivolti verso le sei direzioni. Gli uccelli associati alle direzioni portavano alle nuvole le richieste di pioggia e di messi copiose. Tranne le are, tutte le altre specie erano locali, ma, a dispetto della sua rarità, l'uccello più importante era proprio l'ara, al quale era attribuito un particolare significato rituale. Resti di ornamenti e di semplici penne di ara sono stati infatti rinvenuti nelle vestigia pueblo dell'intera regione; le penne erano avidamente cercate a scopi cerimoniali e sembra provata l'esistenza di un traffico preistorico di are provenienti da Casas Grandes in Messico.
L'interesse fondamentale dei Pueblo per un buon raccolto traspare da una delle voci di più difficile interpretazione presenti nella Tav. I: le farfalle colorate. È infatti legittimo chiedersi perché le farfalle fossero associate alle sei direzioni e commemorate nell'annuale danza delle farfalle. La risposta, probabilmente, risiede nella loro capacità di impollinare le piante di cui si alimentano, come altri insetti che si nutrono di nettare. Gli Hopi credevano che le farfalle fossero gli esseri prediletti dal dio della germinazione, Muyingwu, e le consideravano esseri spiritualmente potenti, con un posto speciale nell'ordine della Natura; il polline, il loro nutrimento, era anche offerto al Sole e ai kachina nei riti. Tuttavia, sebbene esse fossero associate alla fertilità e descritte come mangiatrici di polline, non vi sono prove che gli Hopi avessero identificato il loro specifico ruolo nella fecondazione delle piante. Essi osservavano solamente che le farfalle significavano pioggia e messi copiose, apparentemente non postulando alcun nesso causale tra la pioggia o l'abbondanza dei raccolti e questi animali.
Se i motivi dell'importanza delle farfalle nella cultura pueblo non sono subito chiari, la centralità del mais è di tutta evidenza. Come indicato sia dai resti archeologici sia dalle ricerche etnografiche, il mais era l'elemento principale dell'alimentazione pueblo. Una funzione altrettanto rilevante era rivestita però dal mais sul piano rituale; l'uso di pasti sacri a base di granturco è stato infatti documentato tra i Pueblo, Hopi, Zuñi, Tewa, Isleta e Keres; questi pasti erano per lo più offerti agli spiriti nel corso delle preghiere. Le più importanti cerimonie hopi iniziavano allestendo sul suolo della kiva un altare, marcando le sei direzioni con linee di farina di granturco, e collocando un recipiente di 'acqua-medicina' nel centro; sei spighe di mais dai colori simboleggianti le diverse direzioni erano poi adagiate alle estremità delle linee di farina. Il mais costituiva dunque per i Pueblo tanto la base del sostentamento quanto il punto di partenza dei loro rituali.
Tutte le popolazioni identificavano molte differenti varietà di mais, e mantenerle pure era quindi di interesse generale. La caratteristica distintiva più evidente era il colore della spiga; le varietà principali avevano infatti pannocchie consistenti unicamente di chicchi gialli, blu, rossi, bianchi e di colore bruno-violaceo o nero. Più importanti di queste differenze di colore erano però alcune capacità di adattamento all'ambiente desertico; a differenza delle alte piante di mais americano, le varietà pueblo erano basse, superavano raramente il metro e mezzo di altezza, per conservare al meglio l'umidità nel clima arido. Per sfruttare l'acqua che rimaneva nel sottosuolo dopo le nevi invernali, i Pueblo collocavano i semi a una profondità di circa 25-30 cm; di conseguenza la pianta sviluppava un lungo mesocotile, che permetteva ai germogli di raggiungere la superficie, e un lungo fittone che scendeva fino a trovare l'acqua. Poiché la stagione delle piogge era spesso resa più breve dalle gelate tardo-primaverili o autunnali, le piante crescevano rapidamente, raggiungendo la maturità in 115-130 giorni.
Preservare queste varietà di mais era essenziale per il successo dell'agricoltura pueblo e, di conseguenza, si svilupparono numerose pratiche al fine di garantire la purezza delle sementi. Dopo il raccolto, le pannocchie erano divise per colore e selezionate allo scopo di essere usate come semenza (solamente quelle che non mostravano segni di ibridismo e che possedevano i caratteri desiderati); in genere i grani di colore uniforme erano considerati il segno della purezza genetica di una spiga di granturco. Le sementi erano solitamente mantenute all'interno di un singolo gruppo familiare, oppure cedute a un altro gruppo appartenente allo stesso clan, o alleato per rapporti di parentela. Inoltre, gli agricoltori pueblo avevano cura di piantare soltanto un tipo di semente per campo; occasionalmente, però, gli Hopi potevano seminare un terreno con una semente mista data loro dai kachina durante i rituali. Questi semi, considerati un dono degli dèi, erano piantati in campi protetti, e le pannocchie ibride che ne nascevano, che non erano ritenute adatte per le sementi, erano raccolte anzitempo e mangiate verdi. Ogni clan coltivava appezzamenti molto distanziati, disseminati in quelle aree dove l'esperienza aveva dimostrato che sarebbe stata disponibile acqua in quantità sufficiente. L'ampia separazione dei terreni, con una semina a fila singola per ogni appezzamento, impedendo l'impollinazione incrociata dai campi confinanti forniva un meccanismo addizionale di preservazione della purezza del tipo di semenza. Tuttavia, sebbene i Pueblo usassero il polline nei loro rituali, non vi è prova a conferma del fatto che essi conoscessero il ruolo dell'impollinazione nella formazione dei chicchi, e ancor meno nella trasmissione di caratteristiche ereditarie percettibili, come la forma della spiga o il colore dei chicchi.
I fagioli erano piantati con il mais durante la cerimonia Powamu e come questo erano una specie di importanza primaria, le cui molteplici varietà erano classificate secondo il colore (già nel XVI sec. gli Spagnoli osservarono che nei villaggi del Rio Grande si coltivavano fagioli di diverso colore). Lo statuto dei fagioli come categoria vegetale primaria (Tav. I) rifletteva la loro importanza nell'agricoltura pueblo: i legumi erano infatti essenziali per l'alimentazione, in quanto fornivano gli amminoacidi mancanti nel mais. Questi legumi, al pari del mais, avevano anche usi rituali; tra i Keres del villaggio Santa Ana, i fagioli venivano deposti per terra come pasti votivi e offerti agli spiriti dei canali d'irrigazione. Nel mito keres della emersione, quando a Locusta fu chiesto di richiudere la cavità che si estende dalla regione sotterranea alla superficie, egli domandò in cambio un piatto di fagioli. Il più importante uso rituale dei fagioli tra gli Hopi era quello, già ricordato, della cerimonia Powamu in gennaio e febbraio, quando questi legumi erano coltivati nelle kiva sotterranee per implorare Muyingwu di concedere piantagioni fruttifere e per ottenere un segno dei futuri raccolti.
Se il mais e i fagioli costituivano la base dell'alimentazione pueblo, erano comunque integrati da altri cibi. Il pasto comprendeva mais, nello stufato e in vari tipi di pane, integrato da carne di pecora domestica e di coniglio selvatico e da quattro dei vegetali classificati nella categoria 'altre piante' della struttura colori-direzioni, ossia i fagioli, lo squash, il melone e il cocomero; come il mais e i fagioli, infatti, anche lo squash e varie altre cucurbitacee erano parte integrante della dieta in tutto il mondo pueblo. Le rimanenti 'altre piante' avevano molti usi pratici e rituali; le zucche, per esempio, erano usate come cucchiai, piatti fondi e da portata, come raschietti per pulire le stoviglie, come corni e sonagli nei riti.
Sebbene oggi tra i Pueblo il cotone non sia molto coltivato, un tempo rivestiva un'importanza quasi pari a quella del mais: nel 1630 gli Spagnoli esigevano l'imposta di una iarda di tessuto di cotone e di uno staio di mais per ogni famiglia dei villaggi dei dintorni di Santa Fe. Gli Zuñi dicevano di aver portato con loro il cotone dal mondo sotterraneo e ritenevano che esso fosse un'immagine delle nuvole, con il loro simbolismo della pioggia e del mondo spirituale del popolo delle nubi. Hopi e Zuñi deponevano una maschera di cotone (chiamata 'maschera di nuvola bianca') sul volto del defunto prima della sepoltura; gli Zuñi arrotolavano strettamente intorno ai polsi e alle caviglie dei neonati cordoncini di cotone, pregando affinché il popolo delle nuvole portasse pioggia e abbondanza per il bambino. Anche dopo l'impiego della lana nella tessitura, il cotone ha continuato a essere coltivato o acquistato per scopi rituali. L'intera categoria delle 'altre piante' possedeva una connessione rituale con la fertilità, come dimostra un'immagine della cerimonia per il solstizio invernale in cui Muyingwu, il dio della germinazione, è rappresentato affiancato dal Sole e dalla Luna e con nubi, pioggia e lampi sulla testa, mentre si erge sopra un campo pieno di semi di cocomeri, squash, cotone, zucche e di chicchi di mais.
Se il mais, i fagioli e le 'altre piante' erano considerate categorie botaniche primarie in virtù del loro significato pratico e rituale, i quattro fiori presenti nella classificazione (v. Tav. I) formavano una categoria primaria principalmente per i loro colori e per la loro associazione simbolica con la fertilità. Dei quattro fiori erano particolarmente importanti per i rituali Hopi la mariposa e la speronella, coltivate per ottenere i pollini gialli e blu usati nella cerimonia del Flauto, e il fiore rosso della castilloa (mansi), che non era usato da solo, ma incluso in una preparazione di pollini misti. Questi tre fiori erano rappresentati nella cerimonia Powamu, associata alla fertilità del nuovo anno, da fiori artificiali colorati di giallo, blu e rosso. Le primule (poli'si) comparivano invece nei rituali dedicati alla fertilità del mais tra gli Zuñi, quando le fanciulle che danzavano per celebrare l'avvento delle Vergini del mais si dipingevano braccia, mani, collo e seno con una tintura bianca ricavata da questi fiori.
La relazione dei quattro fiori con la fertilità valeva anche per la fecondità e il corteggiamento umani; così, in certe occasioni rituali le fanciulle hopi davano la caccia ai giovani che tenevano sopra la testa mazzetti di mariposa e speronella. Gli altri due fiori erano invece associati alle donne: il termine hopi mansi ('il Fiore della fanciulla') era esplicito, poli'si ('il Fiore della farfalla') si riferiva invece metaforicamente alle fanciulle in età da marito, che nei giorni di festa intrecciavano i capelli con nodi a farfalla. Il senso simbolico della dualità maschio/femmina era legato al fatto che i fiori delle giovani erano associati all'alba, e quelli dei giovani al tramonto. In un caso particolare questi fiori erano connessi però alla fertilità a un livello non solamente simbolico; infatti le donne hopi usavano il 'Fiore della fanciulla' come contraccettivo orale.
Le popolazioni pueblo, come molti altri gruppi, consideravano gli alberi una categoria botanica primaria e li definivano tipologicamente come piante lignee notevolmente più alte rispetto ad altre piante della zona. I quattro alberi che gli Hopi avevano incluso nella loro struttura colori-direzioni ‒ l'abete odoroso, l'abete bianco, il salice rosso, e il pioppo tremulo ‒ corrispondevano in effetti a questa definizione generica; tuttavia tranne il salice rosso, gli altri tre alberi non si rinvenivano in loco e si trovavano soltanto a notevole distanza. Mentre la categoria hopi degli alberi includeva dunque specie provenienti da luoghi distanti, ometteva i due alberi più comuni nella regione, cioè il ginepro e il pino. I motivi di questa omissione sono chiariti dal tema, presente nella maggior parte dei miti pueblo delle origini, della emersione del popolo dal mondo sotterraneo su grandi alberi. Nella versione Acoma, Donna Pensante disse alle prime sorelle che raggiunsero la superficie di raccogliere i semi dei quattro alberi, e di piantarli nelle quattro montagne sacre: "Questi alberi cresceranno alti e da essi potrete ottenere dei tronchi. Poi li userete per costruire case" (Stirling 1942, pp. 1-2, 8). Per soddisfare le condizioni che definivano la categoria pueblo degli alberi, quindi, un albero doveva essere alto e robusto e produrre tronchi che potessero essere usati come materiali da costruzione. I pini e i ginepri non rientravano in questa categoria perché non fornivano tronchi abbastanza grandi. Essi comparivano nel mito Acoma in una diversa categoria botanica; infatti, dopo che le sorelle ebbero piantato le conifere, Donna Pensante disse loro che esistevano altri semi di alberi che avrebbero fornito cibo: il pino produceva le pigne, il ginepro le bacche, la quercia le ghiande e il noce le noci. Gli agricoltori pueblo non dipendevano infatti esclusivamente dalle piante coltivate, ma raccoglievano bacche selvatiche e noci sia per variare il cibo da consumare durante i viaggi, sia come riserve d'emergenza in tempi di carestia. Oltre ad avere un uso alimentare, pini e ginepri costituivano anche la fonte principale di combustibile; i Pueblo infatti li preferivano agli altri alberi come legna da ardere perché ricchi di resine aromatiche, e la gomma di pino e di ginepro era utilizzata anche nelle fumigazioni rituali e come protezione contro le streghe.
I Pueblo, essendo agricoltori, dedicavano molta più attenzione alle piante che non agli animali; gli Hopi, tuttavia, identificavano diverse categorie di animali significativi sotto il profilo economico o rituale: la prima, nonché la più peculiare, comprendeva rane, girini e uccelli acquatici, che erano animali identificati come i beniamini dell'acqua o dei kachina. Nel mito zuni delle origini, alcuni bambini, portati in braccio durante il guado di un fiume, furono trasformati in animali acquatici e nuotarono fino a un lago dove divennero kachina. Gli 'Animali dell'Acqua' non corrispondevano ad alcuna categoria tassonomica occidentale e il fatto di passare la maggior parte del tempo in acqua era l'unica cosa che li accomunasse. L'associazione con i kachina, che per i Pueblo erano i portatori di pioggia, conferma che la natura di questa categoria era determinata esclusivamente da una comune relazione con l'ambiente, cosa evidentemente considerata più significativa della similarità anatomica.
Analoghe difformità anatomiche compaiono nella categoria degli animali carnivori connessi con la caccia e con la guerra; in questa categoria sono infatti accomunati lupi, orsi, due specie di felini, il tasso che scava gallerie sottoterra e l'aquila che si libra nei cieli. A Zuñi e a Santa Ana il puma è associato al Nord, l'orso o il coguaro all'Ovest, il tasso o la lince rossa al Sud, il lupo all'Est, l'aquila all'Alto, il citello o il toporagno al Basso; a Santa Ana, inoltre, il tasso è associato al Centro. Anche in questo caso, dunque, il ruolo che gli animali svolgono nell'ambiente come predatori e la loro conseguente connessione rituale con la guerra, costituiscono il fattore predominante rispetto a quello anatomico sul quale sono basate le tassonomie occidentali.
Anche la categoria della selvaggina (Somai'kolĭ) era composta di differenti generi, sebbene si trattasse, complessivamente, sempre di animali che contribuivano all'alimentazione dei Pueblo; essa ci consente quindi di ricostruire le loro conoscenze naturali relative all'alimentazione mediante la caccia, anziché mediante l'agricoltura. Prove archeologiche dimostrano che sebbene i leporidi costituissero la selvaggina principale, le due specie cacciate (la lepre americana e il silvilago) rappresentavano soltanto il 20% della quantità totale di carne. La percentuale restante era per lo più procurata da cervi, pecore delle montagne e antilopi, e solamente di rado dall'alce. Ciò rispecchia il modello di caccia dei Pueblo, secondo il quale i conigli erano cacciati frequentemente, per ottenere cibo e per tenerli lontano dai campi; battute di caccia all'orso o all'antilope erano invece organizzate soltanto occasionalmente.
Abbiamo finora preso in esame solamente alcune delle conoscenze possedute dai Pueblo; più significativa dei dati in sé e per sé, tuttavia, è la struttura concettuale che essi elaborarono per imporre un ordine agli elementi naturali e renderli perciò intelligibili, un ordine che aveva come termini di riferimento il sorgere e il tramontare del Sole, e che si esprimeva nel simbolismo puramente arbitrario dei colori. La struttura colori-direzioni costituiva dunque la matrice mediante cui i Pueblo organizzavano tutta una serie di altri dati relativi al loro ambiente. Sebbene la scelta di questa struttura sembri alquanto arbitraria, tuttavia il suo uso era perfettamente razionale.
Il modello pueblo era inoltre grandemente efficace in senso pedagogico; l'immediata impressione visiva della struttura colori-direzioni e le sue ripetizioni nel mito e nel rito favorivano la creazione di una potente traccia mnemonica e didattica, ottima per trasmettere, di generazione in generazione, idee sistematiche sulla Natura e sui riti. In questo modo, dunque, i Pueblo avevano escogitato una soluzione veramente efficace per il problema della trasmissione delle conoscenze ritenute essenziali, in un ambiente ostile, al funzionamento della loro società.
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