La scienza presso le civilta precolombiane. La natura della conoscenza e delle pratiche scientifiche nella civilta inca
La natura della conoscenza e delle pratiche scientifiche nella civiltà inca
Il problema fondamentale di chi si accosti allo studio della scienza precolombiana è come valutare l'esistenza e il grado di complessità delle pratiche scientifiche in società per le quali, da un lato, disponiamo di una vasta gamma di prove materiali e documentali (queste ultime di seconda mano) dell'esistenza di complessi corpi di conoscenza esatta e di tecnica, ma che, dall'altro lato, non hanno prodotto testi che esplicitassero chiaramente i principî e le teorie sulle quali erano basate tali presunte pratiche scientifiche.
Per avere un'idea della difficoltà di fronte a cui ci troviamo nel prendere in esame la scienza nelle Ande precolombiane, basti pensare che in nessuna delle diverse lingue parlate nella regione andina in epoca preispanica sono presenti termini che corrispondano al lessico scientifico di base impiegato in Occidente. Tali termini (per es., scienza, deduzione, inferenza, logica, dimostrazione) mancano nella famiglia di lingue nota come quechua, la cui distribuzione si concentra nel territorio dell'odierno Stato del Perù. Una di esse, chiamata 'quechua peruviano meridionale', era la lingua principale, parlata da un capo all'altro delle Ande dai sudditi dell'Impero inca durante i due secoli precedenti la conquista spagnola del 1532. Dal momento che gli Inca non svilupparono un sistema di scrittura o, se lo fecero, non siamo riusciti a individuare e tradurre testi prodotti in quella scrittura nativa, tutti i resoconti scritti sulla scienza inca ci giungono tramite documenti redatti da Spagnoli (oppure da indigeni educati ai costumi spagnoli).
Alla luce dell'assenza di lessici e testi scientifici nelle regioni andine, nello sforzo di comprendere la natura e l'estensione della conoscenza e delle pratiche scientifiche nelle Ande precolombiane emergono alcune ulteriori difficoltà; per esempio, dato che ci sono prove del raggiungimento di risultati complessi in campi quali l'astronomia, l'aritmetica e la matematica, la calendaristica, la metallurgia, l'agronomia, ma non si hanno testi che presentino in dettaglio la conoscenza e i processi di ragionamento che questi risultati presuppongono, possiamo fondatamente presumere che tale conoscenza e tali processi abbiano avuto luogo? E se non è legittimo fare queste congetture, in quale modo possiamo spiegarci i successi tecnici delle popolazioni andine? In altri termini, come possiamo sapere secondo quali criteri le popolazioni andine hanno realizzato quelle opere con metalli, pietre e tessuti, e perfino modificando il territorio (per es., con i sistemi di irrigazione), che si ritrovano nei reperti archeologici o che sono state descritte dai cronisti spagnoli? Potrebbero gli Inca avere realmente effettuato osservazioni 'scientifiche', ragionamenti deduttivi o la formulazione e il controllo di ipotesi secondo modalità che si avvicinano a ciò che noi oggi associamo a simili concetti e pratiche, senza avere esplicitato queste forme di conoscenza e le relative procedure tecniche con termini scientifici metalinguistici? Infine, ammesso che nelle complesse nazioni andine della tarda età precolombiana (per es., presso gli Huari, i Chimú e gli Inca) non ci siano state osservazioni, concetti e pratiche di tipo scientifico, in quale modo era acquisita, organizzata e comunicata in queste società la conoscenza del mondo fisico e dei suoi processi?
A fronte di questi interrogativi, è importante chiarire che nelle Ande in epoca precolombiana effettivamente ci sono state forme di conoscenza e pratiche autenticamente scientifiche, anche se con una fondamentale differenza d'intenti e di finalità rispetto a quelle occidentali. Tali conoscenze e pratiche erano volte primariamente a conseguire una nozione sempre più esatta e completa delle sostanze (per es., pietre e metalli) e dei processi del mondo naturale, allo scopo di adattare di conseguenza la società umana a queste qualità e a questi vincoli naturali. In Occidente, invece, la scienza (almeno dal Rinascimento in poi) sembra essere stata volta primariamente a un controllo sempre più ampio sulle sostanze e sui processi del mondo fisico. Questa differenza fra adattamento e controllo rende conto delle diverse direzioni di sviluppo delle tradizioni scientifiche andina e occidentale, così come dell'esito del loro fatale incontro nel corso del XVI secolo. Con l'obiettivo di dimostrare la stretta connessione esistente fra scienza e società nelle Ande precolombiane, nell'ambito delle società e delle culture che popolarono diverse zone dell'America Meridionale andina in epoca precolombiana prendiamo in esame la civiltà inca (1200 ca.-1532), che si estendeva su gran parte del territorio degli odierni Stati di Perù, Bolivia, Ecuador e Cile. La nostra conoscenza degli Inca è infatti più dettagliata rispetto a quella di ogni altra popolazione andina precolombiana e il linguaggio che era in uso come lingua franca nell'Impero, il quechua, è ancora parlato da molti milioni di persone in tutte le Ande. In alcuni campi di conoscenza e in alcune pratiche (come i numeri, l'aritmetica, l'astronomia, la calendaristica e l'agricoltura) ci sono sorprendenti somiglianze fra le grammatiche e i lessici del quechua attuale e quelli del quechua della prima età coloniale (specialmente nel Perù meridionale e in Bolivia); per ricostruire questi campi di conoscenza e queste pratiche possiamo quindi fare ricorso a materiale contemporaneo per estendere le nostre conoscenze al periodo precedente. Ci soffermeremo su argomenti quali i numeri, l'aritmetica, l'astronomia e il calendario; inoltre, poiché l'agricoltura nelle Ande raggiunse un livello di complessità piuttosto alto, getteremo uno sguardo d'insieme sui sistemi di conoscenza e sulle pratiche che fecero da supporto all'agronomia andina. Naturalmente, questi non sono gli unici argomenti che si potrebbero prendere in esame, ma sono quelli per i quali disponiamo delle conoscenze più ampie, dettagliate e precise.
di Gary Urton
Dal momento che i numeri costituiscono lo strumento di base ‒ e primario ‒ per la descrizione e l'analisi del mondo fisico, la prima domanda da porsi è come erano concepiti, organizzati e utilizzati i numeri nella lingua, nella cultura e nella società quechua al tempo degli Inca.
Dagli studi archeologici emergono chiare attestazioni del fatto che le popolazioni andine precolombiane abbiano prodotto sofisticate manipolazioni di numeri, insiemi, figure e superfici geometriche. I tessuti precolombiani, per esempio, testimoniano ampiamente che i tessitori andini furono fra i più abili che la storia conosca nel contare, correlare e maneggiare insiemi di fili in motivi altamente complessi. Abbiamo addirittura testimonianza di un tale grado di raffinatezza nella conoscenza geometrica e nel calcolo aritmetico da rendere possibile la creazione dell'illusione della prospettiva sulla superficie bidimensionale delle stoffe. Nel campo dell'ingegneria, gli Inca (come altre popolazioni andine prima di loro) svilupparono tradizioni talmente complesse, nella geometria e nei calcoli, che permisero loro di rispondere alle sfide del peso, del volume e delle linee di rottura delle pietre, e li misero in condizione di tagliare e adattare senza giunture enormi blocchi poligonali irregolari di una pietra eccezionalmente dura per la costruzione di alcune delle più impressionanti strutture murarie a noi note. Nella metallurgia, le popolazioni precolombiane di varie zone delle Ande svilupparono progrediti metodi di estrazione dei metalli preziosi dai loro giacimenti minerari, di trattamento dell'argento con il mercurio e di combinazione dei metalli per produrre una buona varietà di leghe; tutte queste attività richiedevano una considerevole abilità nel manipolare e mescolare i materiali secondo rapporti e proporzioni esatte.
Nell'astronomia e nella misurazione del tempo le popolazioni andine raggiunsero, poi, un grande livello di precisione nell'osservazione, nella registrazione e nell'intercalazione dei cicli e dei periodi di numerosi fenomeni astronomici tanto da mettere a punto precisi calendari annuali solari e lunari. Tali conoscenze e calcoli esatti erano utilizzati nell'elaborazione di calendari per coordinare e regolare l'agricoltura, l'allevamento e altre attività economiche, cerimoniali e rituali. Una prova incontrovertibile dello sviluppo di raffinate tradizioni nel campo della numerazione, dell'aritmetica e della matematica, è infine rappresentata per i Quechua, gli Aymara e altre popolazioni delle Ande preispaniche, dall'uso di un congegno di registrazione tramite cordicelle annodate, chiamato quipu ('nodo') (Ascher 1981; Radicati di Primeglio 1979). Nelle fonti spagnole, si afferma che il quipu era utilizzato per registrare tanto dati quantitativi quanto informazioni riguardanti genealogie, storie e altri tipi di resoconti narrativi.
Il quipu, del quale sono conservati in musei e collezioni private di tutto il mondo all'incirca 600-800 esemplari, era composto in primo luogo da una corda relativamente spessa (5-10 mm ca.), chiamata corda principale, fatta di peli di camelide o di fibre di cotone filati e ritorti. Attaccato alla corda principale c'era un numero variabile di 'cordicelle pendenti', così dette perché pendono quando la corda è sollevata e mantenuta tesa. Alcuni quipu avevano cordicelle superiori, attaccate alla corda primaria nel verso opposto a quelle pendenti (cioè a 180° da esse). Sia alle cordicelle pendenti sia a quelle superiori potevano essere attaccate ancora altre cordicelle, note come 'sussidiarie'. Le sussidiarie potevano anche avere le loro sussidiarie che, a loro volta, potevano avere altre sussidiarie e così via.
L'organizzazione e la classificazione delle informazioni era segnalata sul quipu attraverso un certo numero di caratteristiche simboliche e strutturali, impresse specialmente durante la costruzione delle cordicelle. Esse comprendevano sia variazioni di direzione nella filatura, nella torsione e nell'annodamento, sia differenze di colore e di posizione, o di modo di raggruppamento, delle cordicelle e dei nodi. L'informazione numerica era registrata sul quipu formando sulle cordicelle gruppi di nodi che rappresentavano unità di valore via via maggiore in un sistema di notazione posizionale a base 10. I nodi che rappresentavano il numero 1 erano fatti il più lontano possibile dal punto di allacciamento delle cordicelle alla corda primaria; i valori dal 2 al 9 erano registrati più sopra; poi erano registrate le decine, successivamente le centinaia, poi le migliaia e così fino alle decine di migliaia. Oltre che con la collocazione dei nodi sulle cordicelle, le differenti classi di valori numerici erano indicate nel quipu da tre diversi tipi di nodi. Quelli a forma di 8 stavano a indicare il numero 1; i nodi 'lunghi' rappresentavano i valori dal 2 al 9; i nodi singoli, o 'incrociati', indicavano decine e multipli di decine (cioè decine, centinaia, migliaia, decine di migliaia). L'assenza di nodi in una posizione deputata alla notazione su una cordicella rappresentava lo zero. Sebbene non sembri che il quipu sia stato impiegato per effettuare calcoli aritmetici, tuttavia i numeri e le configurazioni numeriche registrate su alcuni quipu esprimono chiaramente il risultato di tali calcoli. Le informazioni numeriche registrate sui quipu ci autorizzano dunque ad affermare che gli Inca (al pari di precedenti civiltà andine) possedevano i simboli e gli strumenti di registrazione necessari per la raccolta e l'immagazzinamento di insiemi di dati quantitativi precisi, condizione fondamentale per lo sviluppo di pratiche scientifiche.
Riguardo alla natura dei numeri, occorre specificare che essi non erano considerati oggetti astratti, dotati di un'esistenza separata e indipendente dai limiti e dalle particolarità del linguaggio, della cultura e della società (come nella visione occidentale di tipo platonico). Tutta l'aritmetica e la matematica quechua si basava su valori che derivavano dalle relazioni sociali, o erano quanto meno connessi a esse. In altri termini, i principî ontologici e le relazioni paradigmatiche dei numeri convergevano, fino a esserne indistinguibili, con le norme e le relazioni sociali reperibili a un livello più generale nella società quechua (Urton 1997). I lessemi fondamentali per i nomi dei numeri cardinali in lingua quechua sono riportati nella Tav. II e costituiscono quello che in quechua va sotto il nome di yupana o yupaykuna. Il termine yupay ha come significato di base 'contare, rendere conto' (-na e -kuna sono, rispettivamente, i suffissi della sostantivazione e del plurale). I numeri sono, dunque, 'cose che contano', 'contatori'.
Al di sopra del numero 10 (chunka) il quechua rispetta rigorosamente il principio decimale nella formazione dei nomi dei numeri composti. I nomi dei numeri per le unità da 1 a 9 e quelli per le quantità decimali 10, 100 (pachaq) e 1000 (waranqa) sono ricombinati nella formazione dei numeri composti mediante l'uso di due fondamentali strategie: yapay ('aggiungere') e miray ('moltiplicare'). Lo yapay prevede l'addizione di un nome di unità (1-9) a un nome di quantità decimale, oppure l'addizione di una quantità decimale inferiore a una più grande. In questa operazione il numero dal valore più alto viene sempre prima ‒ nel senso che è pronunciato prima ‒ di quello più basso: per esempio, 13=chunka kinsayuq ('dieci con [possessore di] tre'); 110=pachaq chunkan ('cento con [possessore di] dieci'). Nel processo di miray ('moltiplicazione') per la formazione di vocaboli numerici composti, una quantità decimale può essere moltiplicata per un'unità (per es., 2×10) o per un'altra quantità decimale (per es., 10×100). In questo caso, il nome del numero minore è sempre pronunciato prima di quello maggiore: per esempio, 20=iskay chunka ('due dieci'). Infine, l'addizione e la moltiplicazione possono essere anche combinate in un terzo tipo di operazione per la formazione di numeri composti. In caso di combinazione, l'applicazione del principio della moltiplicazione precede quella del principio dell'addizione, dopodiché le due operazioni sono impiegate in modo alternato: per esempio, tawa pachaq suqta chunka jisqonniyuq ('quattro cento con [possessore di] sei dieci con [possessore di] nove' (4×100)+(6×10)+9=469).
Si sarà notato che nella Tav. II non compare un nome per lo zero. Il numero zero, infatti, non è impiegato nella formazione dei nomi di numeri composti, né è attestato un nome o un vocabolo 'zero' in quechua, a differenza di quanto accadde presso i Maya. Comunque, dato quel che sappiamo sull'inclusione e la rappresentazione dello zero nel sistema dei nodi del quipu inca, dove l'assenza di nodi in una posizione avente la funzione di parte di un numero composto sta per zero (o la totale mancanza di nodi indica lo zero in quanto tale), non possiamo non riconoscere agli Inca la conoscenza dell'insieme vuoto.
Come si è già detto, yupay (-y è la desinenza dell'infinito) è il principale verbo quechua per denotare le azioni del contare e del numerare. La forma aggettivale yupa indica 'molto, molti', e in certe costruzioni assume il significato generale di 'molteplicità' o dell'immensa, non numerabile, 'infinita', quantità di cose che esistono nel mondo. Nel lessico quechua della prima età coloniale si distingueva inoltre il contare persone (yupturani) dal contare tutti gli altri tipi di cose (yupani) (Vocabulario de la lengua general de todo el Perú llamada lengua quichua o del Inca).
Un problema fondamentale è quello di spiegare l'esistenza della numerazione decimale nella civiltà inca. Tale questione è di particolare interesse in considerazione del fatto che le altre due civiltà 'avanzate' del nuovo mondo (gli Aztechi e i Maya) utilizzavano un sistema vigesimale (cioè a base 20). Occorre quindi chiedersi se nella cultura quechua si trovi forse una particolare logica o una semantica o entrambe, che funga da motivazione e da supporto della numerazione decimale. Per rispondere a questa domanda dobbiamo riconoscere la centralità di due principî interconnessi nella società e nella cultura inca: il dualismo, o il primato dei numeri pari sui numeri dispari, e l'eccezionale importanza dei 'gruppi di cinque'.
La distinzione classificatoria e simbolica che esiste in quechua fra numeri pari e numeri dispari ha il suo fondamento logico-semantico nel contrasto fra uno (uj) e due (iskay), quest'ultimo inteso anche nel senso di 'coppia'. Gli esempi più chiari del valore dell'uno e del due e delle loro relazioni reciproche sono reperibili in diverse espressioni quechua impiegate per indicare numeri dispari di piccola entità: per esempio, kinsa ('tre')=uj yunta ch'ullayuq ('coppia insieme con uno'); phishqa ('cinque')=tawaq ujnin ('quattro insieme con uno'), oppure tawaq ñawpaqnin ('l'uno dopo/seguente il quattro'), oppure ancora suqtaq sullk'an ('quello più giovane del sei'). L'aspetto più rilevante al riguardo è che, al di sopra del numero uno, i numeri dispari sono considerati composti di un certo numero di 'coppie' (o di due) più o meno uno. Visto il primato della coppia come unità di riferimento, desta allora sorpresa il fatto che i termini quechua relativi ai numeri pari derivino, in linea generale, da modificazioni sintattiche dei termini relativi ai numeri dispari (come si può notare nelle espressioni descrittive, impiegate in riferimento a gruppi di cose di numero pari o dispari, riportate nella Tav. II). Così, mentre molti dei termini che denotano il pari sono costruiti modificando termini relativi al dispari, questi ultimi sono a loro volta formulati semanticamente come espressioni che individuano un membro di una coppia naturale o potenziale. Ciò emerge, per esempio, dalla relazione sussistente fra ch'ulla ('dispari'; 'metà di una coppia') e ch'ullantin ('pari'; 'l'uno [o metà; parte] insieme con il suo compagno'). A partire da queste osservazioni è possibile ricostruire la logica soggiacente, in quechua, alla cosiddetta 'funzione di successore' (vale a dire la spiegazione del come e del perché un numero segua quello precedente) e va ricordato che la spiegazione della funzione di successore è stata una delle grandi sfide della filosofia matematica occidentale. In quechua la motivazione per ogni dato numero pari è la 'solitudine' (ch'ulla) del precedente numero dispari; per esempio, 'uno' è un'entità incompleta, alienata, che ha bisogno di un 'compagno' (ch'ullantin) per essere intera e completa. Questo dato mette in evidenza i fondamenti sociali dell'ontologia quechua dei numeri.
Il secondo principio utile per spiegare la logica della numerazione decimale è quello della centralità dei 'gruppi di cinque' nella società e nella cultura inca. Possiamo comprendere questo principio con maggiore facilità se consideriamo vari esempi di classificazione e denominazione delle dita (nella Tav. III sono riportati due sistemi di denominazione delle dita tratti da fonti di età coloniale), dai quali si evidenzia come essi si basino sulle relazioni di parentela, di genere e di età. In questi sistemi di denominazione, il pollice è il dito più anziano, l'antenato, mentre il mignolo (cioè il quinto dito) è il più giovane, l'ultimo. Inoltre, uno (uj), il primo di una serie (uj kaq), e spesso anche il pollice sono comunemente connotati come mama ('madre'). L'indicazione iniziale è, allora, che pollice=mama=uno. La natura della relazione sussistente fra il primo e il secondo membro di una serie ordinale è quindi tale per cui il secondo sta al primo come un primogenito sta a sua madre. Questo dato conferma il generale carattere sociale della relazione sussistente tra numeri pari e numeri dispari (per es., nel sistema dei nomi delle dita fornitoci da Santo Tomás, XVI sec., le dita dispari risultano complementari alle rispettive dita pari, 'accompagnatrici'). Così, l'unità costituita dalle cinque dita della mano intese come un tutto è concepita nell'ontologia dei numeri quechua nei termini di una linea di discendenza, formata da una madre (un 'primo') che dà origine a una numerosa prole (cioè un 'secondo', un 'terzo', ecc.).
Studiando le varie manifestazioni di questa costruzione dei numeri incentrata sul modello della famiglia, è possibile scorgere la pervasività del modulo dei 'gruppi di cinque' secondo le relazioni seguenti: 1=primo=madre; 2=secondo=primogenito; 3=terzo=secondogenito; 4=quarto=terzogenito; 5=quinto=quartogenito/ultimogenito. Nell'ideologia quechua sono quindi le relazioni sociali costitutive di un gruppo riproduttivo a fornire la principale fonte di ordine ‒ di gerarchia, di successione, ecc. ‒ alla quale si ricorre per quantificare la realtà. Si può dunque giungere, sulla base delle considerazioni precedenti, a una conclusione relativa ai principî di generazione e di organizzazione della numerazione decimale inca: l'organizzazione concettuale dei numeri cardinali e ordinali è basata su un gruppo composto di cinque membri. Il numero uno (uj) e la prima posizione (ñawpa ñaqen/kaq) del gruppo di cinque sono coerentemente connotati come una donna matura per la riproduzione (mama); le posizioni da 2 a 5, oppure dal secondo al quinto, sono indicate come la prole di mama, ordinata per età. La logica e le relazioni di questo 'modello dei cinque' possono essere estese nella forma di un insieme che genera e organizza in successione raggruppamenti di cinque via via più alti/grandi/giovani nella serie infinita dei numeri interi positivi (cioè 1…5; 6…10; 11…15; 16…20; ecc.).
Il modello dei cinque è comunque soltanto una parte dell'ontologia quechua dei numeri. L'altro elemento essenziale è ‒ come si è detto ‒ il dualismo o principio di 'accoppiamento'. Secondo questo principio, che è espresso in quechua come una relazione di complementarità (come quella fra ch'ulla 'dispari' e ch'ullantin 'pari; il compagno di dispari'), ogni singolo elemento deve avere il suo compagno. Usando il simbolo per indicare l'unificazione dei membri pari e dispari di un insieme, e coniugando il modello dei cinque con il principio del dualismo, o dell'accoppiamento, ricaviamo i valori semantici, i principî strutturali e la logica del sistema decimale di numerazione nella lingua e nella cultura quechua. La serie dei numeri può essere rappresentata come una sequenza di gruppi di cinque, organizzata per mezzo della relazione sussistente fra un gruppo dispari (per es., 1…5) seguito, o accompagnato, dal gruppo pari a esso complementare (per es., 6…10). Questi gruppi di cinque pari e dispari ‒ come la relazione fra le due mani (accoppiate) del corpo umano ‒ sono collegati nella serie dei numeri naturali secondo il modello della relazione di base pari/dispari sussistente fra l'uno e il due: 1 e (1…5)=ch'ulla, 2 e (6…10)=ch'ullantin. In sintesi, in forza del principio di accoppiamento ciascun gruppo dispari (per es., 1…5) diviene 'completo' quando è congiunto con il suo 'successore/compagno' gruppo pari; in altri termini (1…5) (6…10) è un raggruppamento completo, 'accoppiato'. Il risultato di questo accoppiamento di gruppi di cinque pari e dispari alternati, adiacenti e complementari, dà luogo alla serie decimale: (1…5) (6…10)=10; (11…15) (16…20)=20; … (91…95) (96…100)=100; ecc.
di Gary Urton
Una volta comprese la logica e la semantica della numerazione decimale quechua, vediamo in quali modi la società inca impiegasse questo sistema a un livello più generale, come principio di organizzazione. La testimonianza più diretta di cui disponiamo per affrontare tale questione proviene dalle informazioni concernenti le registrazioni tramite quipu della riscossione dei tributi. Da quello che possiamo apprendere sui quipu dai documenti e dalle cronache spagnole, è chiaro che gli Inca utilizzavano questo congegno per registrare i dati dei censimenti, comprese le informazioni sulla popolazione, sulla produzione agricola e sugli animali d'allevamento, sulla stima dei tributi (per es., il numero dei giorni dovuti allo Stato in prestazioni lavorative), sulla quantità e la qualità delle derrate immagazzinate nei depositi dello Stato, come pure informazioni calendaristiche riguardanti la programmazione delle attività agricole e pastorizie e la celebrazione di feste in tutto l'Impero.
I funzionari che raccoglievano questi vari tipi di informazioni ‒ i quipucamayoc ('facitori/conservatori di nodi') ‒ erano organizzati in modo gerarchico. Le informazioni raccolte da gruppi più piccoli, di livello locale, erano trasmesse ai livelli della burocrazia statale via via più elevati e a giurisdizione più ampia, passando dai soprintendenti di dieci famiglie a quelli di cinquanta, cento, cinquecento, mille e così via fino ai signori di quarantamila famiglie.
Disponiamo di una descrizione assai dettagliata del modo in cui erano stimati e assegnati, oppure distribuiti, i tributi inca in una data popolazione (Julien 1988). Il processo aveva inizio con un censimento della popolazione nella regione in questione (ai fini del censimento il popolo era suddiviso in cinque fasce d'età nell'ambito di un'organizzazione decimale); si procedeva quindi a formulare una stima, che consisteva in un'assegnazione di lavoro permanente a tutte le famiglie della popolazione; infine, a gruppi di un determinato numero di famiglie erano assegnate particolari prestazioni lavorative. Una caratteristica fondamentale di tale sistema lavorativo era l'istituzione di un rapporto standardizzato fra il conteggio effettivo della popolazione di un dato gruppo tributario e il calcolo, fatto a partire da quel valore, di un totale ideale in termini decimali.
Gli Inca calcolavano poi i tributi sulla base di quote percentuali del totale ideale decimale, trascurando nell'assegnazione dei carichi tributari la differenza fra il conteggio effettivo e quello ideale della popolazione. Le registrazioni dei censimenti inca conservate sui quipu erano quindi tanto complesse quanto accurate (nella misura in cui una qualsiasi burocrazia può tenere il conto dei mutamenti demografici effettivi). Quel che è più degno di nota è che le procedure di conteggio decimale per organizzare la società inca erano basate su una concezione e una organizzazione dei numeri fondata essa stessa, come abbiamo visto in precedenza, su principî e relazioni sociali.
La numerazione decimale era utilizzata anche nell'organizzazione di altri aspetti della vita nell'Impero inca. Oltre al caso già ampiamente discusso, queste precise operazioni di conteggio e di calcolo sono attestate nell'astronomia e nella calendaristica, due fra i campi di osservazione dei fenomeni naturali maggiormente sviluppati dalla popolazione inca nel tentativo di adattare la società ai modelli spaziali e temporali del mondo naturale.
di Gary Urton
Le informazioni più dettagliate in nostro possesso sulle credenze e sulle pratiche astronomiche nelle Ande precolombiane provengono dalle cronache e dai documenti spagnoli che furono redatti all'incirca nei primi cinquant'anni successivi alla conquista dell'Impero inca, iniziata nel 1532 (Bauer 1995). Fra le difficoltà che s'incontrano nel lavorare oggi con questo materiale e nell'interpretarlo, vi è quella di determinare le differenze esistenti fra la tradizione europea e quella andina (precolombiana) e al tempo stesso di percepire chiaramente quali idee e quali pratiche siano passate da una tradizione all'altra nel corso dell'età coloniale. È importante anche il riconoscimento della stretta relazione esistente fra le idee sui corpi celesti (in special modo il Sole, la Luna e le stelle) e sui loro cicli e periodi, e i simboli e le cerimonie politiche e religiose nelle quali tali concezioni trovavano applicazione.
Il Sole (inti) giocava un ruolo di grande importanza nell'ideologia inca; il re, per esempio, era chiamato 'figlio del Sole'. Gli astronomi ‒ denominati amauta ‒ osservavano il movimento del Sole lungo la linea dell'orizzonte come se esso si spostasse dai punti più meridionali di levata e di tramonto (nel solstizio d'inverno) a quelli più settentrionali (nel solstizio d'estate). I momenti dei solstizi erano contrassegnati, probabilmente mediante colonne sull'orizzonte, e celebrati durante importanti riti di Stato nella capitale Cuzco. Gli equinozi (vale a dire i luoghi e i momenti di levata e tramonto intermedi fra quelli estremi che rappresentavano i solstizi) erano indicati e celebrati allo stesso modo in tutto l'Impero. Inoltre, poiché la capitale inca è situata all'interno della fascia tropicale (a 13° 31′ di latitudine sud), il So-le passava esattamente a perpendicolo (allo zenit) su Cuzco due giorni all'anno: il 30 ottobre e il 13 febbraio. Oltre a indicare l'occorrenza di questi importanti eventi solari sul loro calendario, gli Inca sembrano anche essere stati consapevoli di quelli che potremmo chiamare i 'reciproci' degli zenit solari, i due passaggi del Sole al nadir a mezzanotte, che cadevano il 18 agosto e il 26 aprile. Il passaggio al nadir il 18 agosto sembra effettivamente essere stato di notevole importanza per gli Inca, poiché segnava il momento d'inizio della stagione della semina nella valle di Cuzco. Il passaggio al nadir il 26 aprile coincideva invece approssimativamente con l'inizio della raccolta nella valle. Le osservazioni del Sole erano dunque piuttosto complesse e basate su almeno due 'coppie' (ch'ullantin; v. sopra) reciproche di osservazioni a nord e a sud della linea mediana formata dagli equinozi: la coppia solstizio d'inverno/solstizio d'estate e la coppia zenit/nadir.
La Luna (quilla) era anch'essa di grande importanza per gli Inca. Simbolicamente, essa trovava il suo equivalente nella famiglia reale nella persona della regina (coya), che era al tempo stesso sorella e moglie del re (cioè del 'figlio del Sole'). Gli amauta annotavano accuratamente le fasi lunari così come il movimento siderale mensile della Luna nella volta stellare. Il calendario comprendeva periodicità basate su due aspetti ciclici del comportamento della Luna: il ciclo lunare sinodico (le fasi) di 29,5 giorni e il ciclo lunare siderale (il movimento nord-sud) di 27,3 giorni. Le date di celebrazione di numerose feste civili a Cuzco erano fissate sulla base di una relazione fra le fasi della Luna e il movimento annuale del Sole lungo quella varietà di posizioni cui si è accennato (i solstizi, gli equinozi e i passaggi allo zenit e al nadir). Inoltre, il calendario rituale, composto di un periodo di 328 giorni, era basato su 12 mesi lunari siderali.
Le stelle e i pianeti erano altrettanto importanti per ragioni simboliche, calendaristiche e cosmologiche. Oltre a individuare i pianeti (specialmente Venere) e certi gruppi di stelle brillanti (come la coppia di stelle α e β Centauri e le tre stelle note in Occidente come Cintura di Orione), gli Inca riconoscevano due tipi assai diversi di costellazioni: le costellazioni stella-a-stella e quelle a 'nuvola scura' (yana phuyu). Le prime erano, per molti versi, simili alle corrispettive occidentali: le costellazioni stella-a-stella, infatti, erano (e sono tuttora) formate congiungendo idealmente stelle brillanti vicine fra loro per comporre le forme di oggetti diversi (per es., ponti, magazzini, e croci di varie forme). Alcune costellazioni stella-a-stella erano osservate più attentamente e i loro tempi di levata e di tramonto eliaci (ossia il giorno in cui la stella comincia oppure cessa di essere visibile perché non più offuscata oppure perché inizia a essere offuscata dalla luce del Sole), così come i loro passaggi osservati in meridiano locale (la linea di direzione nord-sud che passa sopra il punto d'osservazione) alla mezzanotte, erano importanti per la definizione dei tempi del rituale e delle attività economiche (per es., i tempi della semina e del raccolto delle colture e di conservazione dei prodotti). Il più importante fenomeno stellare nell'astronomia e nella calendaristica inca era legato all'ammasso di stelle a noi noto come Pleiadi, nella costellazione occidentale del Toro. Gli Inca indicavano questo ammasso di stelle con i termini collca ('magazzino') e mama ('madre'), e collca/mama era la madre non soltanto delle altre stelle in cielo, ma anche dei gruppi sociali in terra. Il raggrupparsi ‒ o la molteplicità ‒ delle stelle nelle Pleiadi può aver fornito lo spunto per cui questo fenomeno stellare era identificato come una 'femmina pronta alla riproduzione' (mama); le Pleiadi, quindi, avrebbero avuto rispetto alle altre stelle lo stesso status che il numero uno (uj) aveva in relazione ai numeri successivi ('uno' era la 'madre' di tutti i numeri). Sul ruolo delle Pleiadi nel calendario inca torneremo comunque più avanti.
Le costellazioni a 'nuvola scura' (oggi diremmo 'nebulose oscure'), che sono state descritte in pochissime altre culture in tutto il mondo, sono situate nella parte meridionale della Via Lattea nota in quechua come mayu ('fiume'), là dove si scorge il più denso ammasso di stelle e l'area più brillante, e dove, di conseguenza, le nubi permanenti di polvere interstellare che solcano il tracciato luminoso della Via Lattea appaiono con un netto contrasto. Dalla Terra queste chiazze scure ‒ le costellazioni a 'nuvola scura', appunto ‒ appaiono come enormi ombre o figure affisse lungo il tracciato della Via Lattea. In contrasto con le forme geometriche e architettoniche che erano immaginate dagli Inca nelle costellazioni stella-a-stella, quelle a 'nuvola scura' erano tutte identificate con animali: un serpente, un rospo, il tinamou (un volatile simile alla pernice), un lama con il suo piccolo che succhia il latte, e una volpe. Gli Inca ritenevano che le costellazioni a 'nuvola scura' rappresentassero qualcosa come i prototipi celesti di quegli stessi animali sulla Terra; come ci riferisce un cronista spagnolo della fine del XVI sec., Polo de Ondegardo: "[gli Inca] credevano che tutti gli animali e gli uccelli della Terra avessero le loro copie in cielo, alle quali erano affidate la loro procreazione e la loro proliferazione" (Informaciones acerca de la religión y gobierno de los Incas, cap. 1).
Oltre che per il loro ruolo simbolico, di procreazione e di animazione nel Cosmo inca, le costellazioni a 'nuvola scura' erano importanti anche nel calendario. Tale funzione emerge chiaramente dalle cronache riguardanti la costellazione a 'nuvola scura' del lama, che era messa in stretta relazione con le brillanti stelle gemelle α e β Centauri, note come Llamacñawin, 'gli occhi del lama'. Il periodo della culminazione inferiore di queste due stelle alla mezzanotte durava all'incirca dal 7 ottobre al 2 novembre. Questo arco di tempo, che era importante per motivi connessi con l'agricoltura, come stabilire l'epoca della semina e quella della prima maturazione delle colture, costituiva il legame fra altri due importanti periodi del calendario inca: quello del movimento del Sole dal suo passaggio del 18 agosto al nadir fino al suo successivo passaggio allo zenit, il 30 ottobre, e il periodo della culminazione superiore delle Pleiadi alla mezzanotte, dal 5 al 18 novembre. Il calendario era dunque il prodotto dell'integrazione di eventi e periodi solari, lunari e stellari. Per sapere in quale modo gli Inca integravano, regolavano e utilizzavano i molti e diversi fenomeni, cicli e periodi celesti fin qui illustrati, occorre tenere presente una straordinaria istituzione incaica: il sistema dei ceque di Cuzco.
di Gary Urton
Si è fin qui rilevato un certo numero di casi in cui le osservazioni astronomiche e le celebrazioni delle festività erano connesse con l'agricoltura. L'economia dell'Impero era basata sulla produzione di una grande varietà di colture alimentari, unita ‒ a seconda delle zone ‒ alle ulteriori capacità produttive della pastorizia, della pesca e della caccia. Ciascuna di queste attività produttive richiedeva un ampio bagaglio di conoscenze relative alla cura, al controllo e alla rinnovabilità (o riproduzione) delle risorse, come pure l'osservanza di esigenze di programmazione in vista del loro sfruttamento ottimale.
L'agricoltura è ovunque un'impresa complessa, ma in nessun luogo più che nelle Ande; ciò è dovuto alle variazioni di altitudine del territorio, alle differenze fra i tipi di terreno, fra le modalità di drenaggio, ecc., come pure ai cambiamenti stagionali nell'entità delle precipitazioni e dell'esposizione al Sole, e via continuando con tutto ciò con cui ci si scontra in un ambiente aspro, verticale, come quello andino. I sistemi di coltivazione iniziarono a evolversi nelle Ande fin dal 2000 a.C., l'epoca alla quale risalgono le nostre prime testimonianze di un'attività economica basata in qualche misura su piante coltivate e animali addomesticati. Al tempo dell'Impero inca l'agricoltura aveva raggiunto il livello di un'autentica scienza agronomica, caratterizzata dalla sperimentazione con diverse colture in differenti tipi di terreno, a svariate altitudini e con cambiamenti nei metodi di irrigazione, di rotazione delle colture e di periodicità della tenuta a maggese: un sistema di conoscenze che è stato definito come art de la localité ('arte del [particolare] luogo'; van der Ploeg 1993).
Tali caratteristiche dell'agronomia andina sono state documentate abbastanza bene in rapporto alla coltivazione della patata, che è stata per millenni alla base del regime alimentare. A proposito della grande importanza di questa pianta nell'alimentazione, è stato messo in luce che i coltivatori andini hanno tradizionalmente mirato a produrre tramite ibridazione e a conservare una molteplicità di specie. Essi svilupparono, inoltre, un inventario eterogeneo di strategie di coltivazione per far fronte alle particolari condizioni proprie di ogni piccola superficie di terreno (la fig. 9 mostra l'ampia varietà di patate coltivate in un solo piccolo campo o chacrita). In effetti, come lascia intendere il riferimento all'ibridazione, l'agricoltura può essere stata uno dei pochi settori in cui le pratiche scientifiche andine ‒ già descritte come miranti all'adattamento all'ambiente naturale, piuttosto che al suo controllo ‒ erano di fatto più simili alla tradizione europea. Ciò era probabilmente il risultato di due fattori, ossia la conformazione estremamente aspra e complessa dell'ambiente andino, e l'interesse delle comunità e degli Stati di questa regione alla produzione di un surplus di beni alimentari per sostenere le attività dello Stato. La ricerca archeologica non è ancora riuscita a reperire esempi della varietà di specie coltivate nell'agricoltura d'epoca precolombiana; le ricostruzioni archeologiche ed etnostoriche dell'economia politica inca e delle diverse forme di immagazzinamento mettono tuttavia in luce che le componenti tecniche e sociali dell'art de la localité andina erano già operanti al tempo degli Inca e senza dubbio anche molto prima.
Nel sistema andino di coltivazione i contadini dovevano conoscere in modo approfondito un gran numero di proprietà del lotto di terra e delle varietà di patate in questione. Le mutevoli condizioni climatiche rendevano necessario un alto grado di flessibilità nel processo decisionale delle attività agricole, quali semina, irrigazione e raccolta delle colture, che erano influenzate anche da considerazioni di carattere calendaristico. Infine un ruolo preminente nell'agricoltura era svolto dai rapporti sociali che legavano i diversi individui e che determinavano, per esempio, gli scambi di prestazioni lavorative, l'eredità e lo scambio delle sementi, l'eredità e l'utilizzazione della terra.
di Jean-François Genotte
I cronisti spagnoli all'epoca della Conquista rimasero fortemente impressionati dalle capacità tecniche possedute dagli Inca. Questo popolo, infatti, era riuscito a raggiungere alti livelli di specializzazione in vari campi come la tessitura, l'architettura (in particolare nell'edificazione delle mura) e la costruzione di terrazzamenti agricoli. Tra le civiltà precolombiane del Perù, non essendo presente alcun tipo di moneta, il tessuto svolse un'importante funzione sociale, in particolare negli scambi, nei tributi e nelle offerte rituali; nell'Impero inca ogni famiglia con la tessitura pagava un tributo allo Stato. Il tessuto era il dono più apprezzato per sanzionare matrimoni e alleanze con altre popolazioni, così come costituiva la conferma della vittoria e della sottomissione di gruppi lontani.
Ancora ai tempi della Conquista, la posizione sociale di un individuo era indicata dalla qualità della stoffa, dal disegno e dalla fattura dei vestiti che indossava; il copricapo e i gioielli accentuavano poi una tale distinzione sociale. L'abbigliamento peruviano era molto semplice: una tunica corta o camicia per gli uomini (unku), una tunica lunga o acsu per le donne, con sopra un manto chiamato llacolla per gli uomini e llicolla per le donne.
Tessitura
L'arte di intrecciare le fibre ha preceduto la comparsa della ceramica e della metallurgia e ha acquisito nel corso della sua evoluzione una grande importanza nello sviluppo delle attività economiche del mondo andino. La trecciatura, cioè la fase che precede la tessitura, iniziò nel Perù tra l'8600 e l'8000 a.C., mentre le prime tracce di tessuto intrecciato, o forse già realizzato su un telaio rudimentale, risalgono al 5780 a.C. A partire del 2500-1800 a.C., appaiono le prime testimonianze dell'uso del cotone. Poiché l'arte tessile ha origini così remote, preceduta soltanto dall'arte parietale delle caverne, può essere considerata come la matrice principale di ogni forma d'arte peruviana. Si può quindi sostenere che dal tessuto siano nate tutte le arti plastiche dell'antico Perù: la pittura murale, l'incisione su metallo, su legno, su conchiglia e su pietra dura, la ceramica e anche la scultura su pietra. Le fibre usate più frequentemente erano il cotone (Gossipium barbadense) e la lana dei camelidi andini: il lama, l'alpaca e la vigogna (un animale non addomesticato, la cui lana, particolarmente preziosa, era destinata alla nobiltà). Il cotone, più resistente, era utilizzato per le telerie o, nei tessuti lavorati, per l'ordito, mentre la lana, più setosa e ricettiva alle tinture, era riservata ai lavori di trama.
Le fibre, una volta filate, erano tinte dai canticamayo, con sostanze in gran parte di origine vegetale. L'indaco (Indigofera suffruticosa) era utilizzato come componente del blu, del verde, del nero, del viola; la chilca (Baccharis polyanta) e le foglie di Lafoemia acuminata servivano a ottenere il giallo e il grigio, il cordoncillo (Piper lieatum) aggiunto al blu dava il verde; per ottenere l'arancio si usava la polpa dell'achiote (Bixia orellana). Il colore rosso era estratto sia dalle radici di Rebulnium nitidum, sia da un insetto, la cocciniglia (Coccus cacti), un parassita del cactus Opuntia, mentre il colore porpora era estratto dai molluschi Murex brandaris e Murex trunculus. Erano invece sconosciuti i fissativi delle tinture sul cotone, a parte l'utilizzazione di mordenti come l'allume e l'urina.
Gli utensili per la filatura e per la tessitura erano molto semplici e furono introdotti soltanto con l'uso del cotone e della lana. La filatura era effettuata a mano, secondo la tecnica del 'fuso a caduta', in cui il fuso, tenuto dalla filatrice nella mano destra, era girato a sinistra o a destra secondo la direzione della torsione, mentre, con la mano sinistra, la filatrice tendeva i filamenti di cotone o di lana posti su una conocchia di legno. Con la palma della mano destra si imprimeva al fuso una rotazione in modo da ottenere un filo lungo e ritorto che si arrotolava sul fuso e che poteva essere disposto sul telaio per iniziare il lavoro di tessitura. Il telaio più comune era quello 'a martingala', costituito da due barre di legno duro chiamate subbi d'ordito; una veniva fissata a un palo mentre l'altra era tenuta dietro la schiena della tessitrice mediante una cinghia di cuoio. Con tale sistema, l'artigiano poteva controllare la tensione dell'ordito, realizzando così tessuti d'ordito impossibili da ottenere su un telaio fisso. Con la prima operazione, chiamata orditura, i fili legati a due cordoncini, legati a loro volta ai subbi d'ordito, passano da una barra all'altra senza essere tagliati. Al di sopra e al di sotto dei fili d'ordito vengono passati i fili della trama alzando alternativamente i primi fili mediante il liccio, un bastone di legno a sezione circolare. I cronisti menzionano la presenza di telai fissi, probabilmente verticali. L'etnologia ci segnala anche l'esistenza di un telaio orizzontale che consiste in quattro pali di legno piantati nel suolo che reggono i due subbi d'ordito; il quale era quindi disposto orizzontalmente, come la trama che gli era perpendicolare.
La più semplice delle tecniche di tessitura a telaio è la 'tela' nella quale un filo di ordito e un filo di trama si incrociano regolarmente; quando i fili di ordito sono più densi e compatti rispetto a quelli della trama, la tela viene definita 'a faccia d'ordito'. Viceversa, quando dominano i fili di trama, la tela risulta 'a faccia di trama'. Direttamente derivato dalla tela a faccia di trama, l'arazzo è composto da porzioni contigue di trame di diverso colore. In epoca precolombiana, i tessuti più fini indossati dalle élite erano realizzati con la tecnica dell'arazzo. Arazzi di grande qualità furono prodotti durante le fasi Nazca Tardo (500-650 ca.) e Huari (500-800 ca.). Un particolare tipo di tela, denominato tela doppia, consiste nella tessitura simultanea di due strati sovrapposti di tessuto; in corrispondenza della decorazione si attua uno scambio fra i fili dei due strati. Fra le tecniche più diffuse dall'Antichità a oggi nelle regioni montuose della sierra, le 'strutture a orditi complementari' vengono utilizzate per creare bande verticali la cui decorazione è formata dal diverso ritmo di slegatura dei fili di ordito sulle due facce del tessuto. Per realizzare stoffe particolarmente resistenti come cinture e cinghie si utilizzava la versione in tessuto doppio della 'struttura a orditi complementari'.
Le tecniche a trame complementari sono l'equivalente, nel senso della trama, delle 'strutture a orditi complementari', ma a differenza di queste, essendo diffuse principalmente sulla costa, dopo la Conquista sono cadute rapidamente in disuso. Decorazioni d'oro e d'argento e di piume erano talvolta applicate sui tessuti già terminati; altri invece venivano dipinti mediante l'applicazione diretta di liquidi coloranti sulla stoffa o stampati per mezzo di cilindri.
Durante l'Impero huari, i tessuti erano ornati con tre tecniche: la prima consisteva nell'increspare strettamente il tessuto con un grosso punto di imbastitura, per immergerlo successivamente in un bagno colorante, affinché le parti che non avevano assorbito il colore formassero il disegno; la seconda consisteva nell'arrotolare strettamente la stoffa, legarla in diversi punti e immergerla nella tintura; nella terza il tessuto era parzialmente o totalmente arrotolato in forma conica mediante l'utilizzo di cordicelle di cotone o di un altro vegetale, in modo che il colore non raggiungesse zone relativamente estese.
Nell'arte tessile peruviana, ogni figura, astratta o no, era in realtà realizzata non soltanto per fini estetici, ma anche simbolici, allo scopo di veicolare messaggi che restano ancora oggi enigmatici.
Arte muraria
Machu Picchu è, senza dubbio, il sito archeologico inca più noto, nel quale risaltano l'integrazione fra la costruzione e l'ambiente, l'unità delle forme architettoniche e la semplice perfezione del taglio della pietra. Quest'ultima può essere ammirata anche nelle muraglie dell'imponente fortezza di Sacsahuaman e nelle mura del complesso residenziale e cerimoniale di Pisac, presso Cuzco, nella valle del fiume Urubamba.
Le pietre di questi muri ciclopici sono perfettamente connesse a secco. Gli Inca non tagliavano la pietra dalla roccia né la staccavano con tagli sottostanti; essi prendevano i blocchi da una parete franata oppure scegliendoli da superfici rocciose fratturate. Gli enormi blocchi nelle cave erano soltanto sbozzati, mentre tutto il lavoro di rifinitura veniva eseguito nel cantiere edile. Pietre da costruzione di dimensioni più piccole erano invece tagliate, cinque facce su sei, nella cava e solamente la rifinitura e la commessura con le altre pietre era eseguita nel cantiere.
Per lavorare le pietre gli Inca usavano, come martelli, i ciottoli di fiume. Numerose pietre da costruzione in tutti gli stadi di lavorazione e diversi martelli litici, rotti o interi, sono stati trovati nelle cave. I più grandi erano usati per sgrezzare le pietre, i medi per tagliare la faccia della pietra da costruzione e i più piccoli, delle dimensioni di un uovo, per la rifinitura di margini e angoli. Gli Inca usavano rompere le pietre piuttosto che tagliarle. L'impatto prodotto lasciava un piccolo incavo sulla superficie della roccia, visibile su tutte le pietre da costruzione. Incavi ancora più piccoli, minutissimi, si osservano lungo i margini delle pietre da costruzione, realizzati secondo una tecnica che consisteva nel colpire i margini di striscio e in senso centrifugo, producendo angoli diedri maggiori di 90°. Sono questi angoli ottusi che danno alle giunzioni dei muri quel caratteristico effetto di chiaroscuro.
Il problema più dibattuto riguardo ai muri in pietra tagliata concerne la perfetta connessione esistente fra i blocchi che li compongono. Si è spesso detto che i tagliapietre inca levigavano i blocchi litici, mano a mano che li mettevano in opera, con una miscela di sabbia e acqua, ipotesi non comprovata da dati di fatto. Le impronte rilevate su muri smantellati rivelano invece che essi lavoravano la faccia superiore di ogni pietra soltanto quando era pronta a ricevere quella della nuova fila. La faccia inferiore delle pietre della nuova fila era, a sua volta, tagliata per prima in modo che una base adeguata si formasse con le pietre già messe in opera. Un approccio simile era usato per le giunzioni laterali: le facce laterali della pietra già messa in opera erano tagliate in modo da connettersi con quelle della pietra da aggiungere. Questa tecnica può spiegare anche la costruzione con blocchi megalitici del peso di parecchie tonnellate, senza l'utilizzazione di strumenti e di macchine.
La maestria dei tagliapietre inca non si è sviluppata durante il periodo dell'affermazione inca (1438-1532), ma risale alla cultura di Tiwanaku (200-1000 d.C.), fiorita sul versante meridionale del lago Titicaca. Alcuni monumenti di questa cultura presentano conci rettangolari ben connessi, mura ciclopiche poligonali, porte e statue monolitiche di squisita fattura. Secondo la tradizione, Pachacuti (1438-1471 d.C.), il nono Inca, sarebbe stato così impressionato dalle opere in pietra viste nella città di Tiwanaku da desiderare che Cuzco, la capitale inca, fosse costruita allo stesso modo. Gli enormi massi da costruzione erano trascinati dalla cava ai cantieri con corde vegetali, a forza di braccia, da migliaia di persone, lungo alzaie che uno strato di terra bagnata o di ghiaia rendeva scivolose. Si ritiene che per spostare i blocchi più pesanti fossero necessari tra i 2000 e i 2500 uomini. A Ollantaytambo, un sito vicino a Machu Picchu, sono state trovate tracce di questa operazione lungo il terreno. Tronchi o slitte di legno erano probabilmente usati per facilitare il trasporto. Occorre però specificare che le distanze percorse non superavano i 35 chilometri. Per esempio, le muraglie del sito di Sacsahuaman furono costruite con blocchi provenienti per la maggior parte dalle cave di Huacay Pata, situate a poche centinaia di metri di distanza.
L'arte di tagliare le pietre è, senza dubbio, la maggiore conquista dei maestri muratori inca. Tuttavia è importante notare che i muri di pietre finemente lavorate erano riservati alle abitazioni di personaggi di alto rango o a edifici di particolare importanza, mentre la grande maggioranza delle costruzioni era realizzata con pietre non tagliate, o tagliate soltanto in parte, cementate con una malta argillosa. Molti edifici erano costruiti in adobe (argilla cruda essiccata al Sole) o in tapia (terra compressa mescolata a pietre e paglia).
Terrazzamenti agricoli
L'arte di costruire i terrazzamenti agricoli è una tecnica molto antica, presente nelle Americhe, nel Sud-est asiatico e nell'Asia centrale. Nell'area andina, quest'arte rientra in un insieme di tecniche utilizzate per far fronte a tre fenomeni ricorrenti: la mancanza di risorse idriche, la rarità di terre coltivabili e la grave erosione del suolo. I terrazzamenti agricoli furono chiamati senza distinzione campi artificiali, terrazze, gradini, o piattaforme d'irrigazione. Essi modificavano la morfologia naturale dei declivi, al fine di creare un'architettura paesaggistica di spazi piatti di terra per uso agricolo. In genere, i terrazzamenti sono sostenuti da muri di pietre e provvisti di canali d'irrigazione. Furono costruiti in quasi tutti gli ambienti adatti all'agricoltura, con o senza irrigazione, sulla costa e nelle valli andine, come dimostrano i terrazzamenti estesi di Pisac e Ollantaytambo. Esistono anche alcune strette terrazze lungo le pendici delle montagne fino a circa 4000 m di altitudine, e nella foresta alta, tra i 2200 e i 2800 m.
Una delle caratteristiche principali della regione andina è la presenza di un gran numero di habitat naturali diversi. In questa varietà di ambienti, soltanto due furono sistematicamente e pienamente sfruttati dall'uomo poiché davano ottimi risultati: le pianure costiere occidentali e la sierra montagnosa, suddivisa in due zone, quechua e puna. La zona chiamata puna corrisponde all'ecosistema del freddo, qui l'economia agricola era basata sulla coltivazione di tuberi e di graminacee altoandine e sull'allevamento di armenti. Essa si trova ad altitudini diverse: bassa, stretta e umida vicino all'equatore; più alta, più larga e secca vicino al tropico. La zona chiamata quechua si localizza tra i 2200 e i 3500 m ed era abitata dalla maggior parte della popolazione di epoca preispanica. Era possibile coltivare un grande spettro di piante, fra le quali veniva privilegiato il mais.
L'arte di costruire i terrazzamenti agricoli spiega molti aspetti della vita quotidiana e politico-sociale delle popolazioni andine preispaniche. Le prime tracce di questa tecnica risalgono alla cultura Huarpa (200-600 d.C.) nelle Ande centrali, anche se alcuni esempi sono stati rinvenuti nella zona di Cuzco sul sito Formativo di Chanapata (500-400 a.C. ca.); più tardi la ritroviamo utilizzata nell'altopiano di Titicaca e nelle valli occidentali occupate da Tiwanaku. Con il Periodo inca (1438-1532) questa tecnica si estese a tutto l'Impero, raggiungendo alti livelli di perfezione. Questa era il risultato di una lunga osservazione e sperimentazione, i cui progressi tecnici possono essere suddivisi in quattro fasi: terrazze naturali, terrazze con un intervento minimo dell'uomo, terrazze con mura di pietre e fango (pirca) e terrazze complesse. Il primo tipo di terrazza non richiedeva alcun intervento dell'uomo in quanto la configurazione naturale del terreno presentava una superficie pianeggiante adatta alla semina. Nel secondo tipo, rami secchi e pietre erano accumulati per impedire alla terra di essere erosa durante le forti piogge. Nei terrazzamenti di tipo pirca, l'uomo rispettava la morfologia del terreno modificandone però la pendenza mediante pietre di varie dimensioni. Nelle Ande centrali, questa tecnica, usata da gruppi locali, risale al 500 e forse addirittura al 1000 a.C. ca. Infine, i terrazzamenti agricoli complessi modificavano la pendenza e la morfologia del terreno. Essi furono costruiti da società politiche avanzate che potevano contare su un sistema di lavoro comune, basato su nuove tecniche. I più rappresentativi corrispondono al Periodo inca, anche se un buon livello di perfezione fu raggiunto anche da alcune società complesse e avanzate pre-inca, come Huari (600-1100 d.C.) e Tiwanaku (200-1000 d.C.).
Nell'Impero inca, il mais era utilizzato più per usi cerimoniali che come base dell'alimentazione della popolazione, la quale si nutriva soprattutto di tuberi (patate, ecc.). L'interesse a possedere una grande quantità di mais determinò il ricorso alla migliore tecnica possibile e ai più sofisticati rituali per la sua produzione. La costruzione massiccia di terrazze per la coltivazione di questo cereale con l'uso di mano d'opera su grande scala e di un'amministrazione organizzata si giustificava in quanto permetteva di ottenere raccolti più abbondanti di un bene molto richiesto per i suoi usi cerimoniali. In questo modo si ottenne una maggiore fertilità, un uso razionale dell'acqua, un sistema di coltivazione estensiva e non rotativa e una minore erosione del terreno.
Le caratteristiche tecniche di una terrazza variavano a seconda che fosse di proprietà del paese, dello Stato e delle famiglie reali (panaca), o che rientrasse fra le costruzioni sacre (huaca). I terrazzamenti di proprietà del paese erano meno innovativi da un punto di vista tecnico e avevano una scarsa irrigazione. Gli altri tipi possedevano una struttura complessa composta da quattro elementi: una piattaforma di terra di coltura, un muro di pietra che sosteneva la piattaforma, scale d'accesso alle terrazze e canali di diversa lunghezza e larghezza, generalmente in pietra. Ciascuna terrazza era in genere composta da 4 o 5 elementi: (1) un muro di forma trapezoidale che sosteneva la terrazza costituito da pietre mescolate a fango, l'altezza del quale dipendeva della pendenza del terreno; (2) pietre di dimensione media e piccola come riempimento iniziale della superficie; (3) terra scura mescolata ad argilla e sabbia; (4) terra scura mescolata a sabbia; (5) un suolo agricolo composto di terra scura di alluvione trasportata da un altro luogo. La semina avveniva a 40-50 cm ca. dal bordo del terrazzamento; lo strato d'argilla impediva la rapida infiltrazione dell'acqua e manteneva l'umidità del suolo. Gli strati (2)-(4) servivano per il drenaggio, l'acqua veniva infine fatta uscire attraverso i piccoli canali verticali e le fessure del muro di sostegno.
La costruzione dei terrazzamenti statali richiedeva la presenza di una mano d'opera qualificata e di una non qualificata, impiegata per i lavori pesanti, quali il trasporto delle pietre e della terra, e la preparazione dei materiali. Il lavoro di costruzione era effettuato a rotazione (mita) da un gran numero di uomini, a causa della mancanza di utensili efficaci. Al contrario, la mano d'opera qualificata era composta da artigiani o tecnici specializzati nel lavoro delle pietre, della posa e dei calcoli (resistenza dei materiali, inclinazione del muro di sostegno, ecc.). Le terrazze si costruivano di solito durante l'estate nella stagione delle piogge (gennaio, febbraio e marzo), perché la terra umida era più compatta, impediva una rapida infiltrazione dell'acqua e, di conseguenza, la frana del terrazzamento. Le terrazze agricole furono costruite con criteri di carattere generale, ma anche tenendo conto delle variazioni microclimatiche, dell'uso dell'acqua o della terra. Curiosamente in vari settori di Machu Picchu o di Pisac, ci sono terrazzamenti talmente stretti e con così poca terra coltivabile che è quasi accertato che furono costruiti per scopi cerimoniali o estetici.
Come si è detto, gli Inca costruirono quattro tipi di terrazzamenti agricoli: statali, legati al culto (del Sole, dei luoghi sacri nazionali e locali), delle famiglie reali e paesani. La maggiore varietà di stili è presente nelle proprietà reali (per esempio nelle valli di Anta e Urubamba), dove si localizzano le terrazze del Sole e le terrazze usate per i rituali. La pianta poteva essere di tipo rettangolare, quadrangolare, trapezoidale, circolare, ovale, ellittica e irregolare. Per esempio, nel sito di Pisac, sono state identificate 14 varianti, dovute a tre diversi fattori: le caratteristiche topografiche del terreno, la struttura della terrazza e la pendenza. La costruzione di terrazze e di canali trasformava l'ambiente da naturale in culturale. La terrazza era un'espressione propria dei canoni artistici predominanti nell'estetica inca, e forse faceva parte di un concetto più ampio e profondo, nel quale il simbolo 'a forma di gradino' sarebbe stato usato dalle popolazioni andine come un'immagine simbolica; esso, infatti, si ritrova ovunque nell'arte inca: nella ceramica, nella tessitura e nel taglio delle pietre.
I canali costituivano un sistema d'irrigazione molto complesso all'interno di uno o più terrazzamenti agricoli. L'acqua proveniente da un fiume, da un lago o da una sorgente era portata, attraverso il canale conduttore centrale, nei diversi canali di distribuzione verso i vari settori di terrazzamento agricolo. Una volta arrivata a destinazione, l'acqua era distribuita nel terreno coltivato mediante canali d'irrigazione posti in superficie e, quindi, attraverso canali verticali nel muro di sostegno della terrazza. Così come per la costruzione e l'uso delle terrazze, il sistema d'irrigazione e della rete dei canali richiedeva un grande investimento di mano d'opera. La distanza da percorrere e la quantità di acqua da trasportare furono due fattori importanti nell'organizzazione della mano d'opera e nell'applicazione delle conoscenze tecniche. Non a caso, specialisti in possesso di un buon livello di conoscenze idrauliche furono impiegati nella progettazione e nella costruzione dei canali. Durante l'Impero inca (1438-1532), c'erano due tipi di canali, vale a dire quelli destinati all'irrigazione agricola e quelli usati a scopo cerimoniale. Infatti le risorse idriche date da laghi, fiumi e sorgenti, oltre al loro uso razionale nell'agricoltura, erano utilizzate nei vari contesti rituali.
fonti
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de González Holguín: de González Holguín, Diego, Vocabulario de la lengua general de todo el Perú llamada lengua quichua o del Inca, Lima, Universidad Nacional Mayor de San Marcos, Imprenta Santa María, 1952 (ed. orig.: 1608).
Polo de Ondegardo: Polo de Ondegardo, Juan, Informaciones acerca de la religión y gobierno de los Incas, in: Colección de libros y documentos referentes a la historia del Perú, notas biográficas y concordancias de los textos por Horacio H. Urteaga, Carlos A. Romero, Lima, Sanmarti, 1916-1917, 2 v.; v. I, pp. 49-55 (ed. orig.: 1571).
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