Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nella seconda metà del XX secolo, le scoperte scientifiche e le invenzioni tecnologiche sul suono hanno consentito di penetrarne i segreti e di usarli a fini espressivi, come avviene nelle musiche di Giacinto Scelsi, di Salvatore Sciarrino e di alcuni compositori francesi, quali Gérard Grisey, Hugues Dufourt e Tristan Murail, riuniti nella corrente dello “spettralismo”.
Approcci compositivi al concetto di “suono”
Henry James
Il carteggio Aspern: America ed Europa
Quando gli americani si recavano all’estero nel 1820, compivano un’impresa romantica, quasi eroica, se la si confronta col perpetuo traghettare dei giorni nostri, di quest’epoca in cui la fotografia e altre invenzioni hanno completamente annullato ogni sorpresa. Miss Bordereau si era imbarcata con la sua famiglia su un traballante brigantino nei giorni in cui i viaggi erano lunghi e i contrasti acuti; aveva provato varie emozioni sull’imperiale di gialle diligenze, aveva passato notti in locande sognando i racconti di altri viaggiatori e, raggiunta la città eterna, era stata colpita dalla bellezza delle perle romane, degli scialli, delle spille a mosaico. In tutto questo v’era qualcosa di commovente per me, che spesso, con la fantasia, tornao a quell’epoca. Se adesso era Juliana Bordereau a ricondurmivi, in altri tempi Jeffrey Aspern v’era riuscito con maggiore efficacia. [...] Nel suo paese aveva passato il più degli anni e la sua musa, come si soleva dire allora, era intrinsecamente americana. Era questa la ragione per cui l’avevo tanto apprezzato fin dal principio: perché in un’epoca in cui il nostro paese era stato nudo e crudo e provinciale, quando della famosa “atmosfera” che si crede gli faccia difetto non si avvertiva neppure la mancanza, allorché la letteratura fioriva isolata e l’arte e la bellezza erano quasi inesistenti, egli aveva trovato il modo di viverci e di scrivere come uno fra i primi.
H. James, Il carteggio Aspern, Torino, Einaudi, 1978
È strano affermarlo, ma quando si parla di musica, una delle maggiori difficoltà è quella di parlare del suono. Il concetto di suono è così ovvio, è così connaturato alla musica, che sembra proprio inutile definirlo: tutti già sanno cos’è. Certamente, il suono di un’automobile che passa nella strada sottostante non è un suono musicale, eppure anche su questa distinzione si potrebbe discutere all’infinito: John Cage (1912-1992) include anche i “suoni-ambiente” nell’esperienza del musicale, e Raymond Murray Schafer, nel suo famoso libro Il paesaggio sonoro, non è molto lontano da posizioni come queste. D’altra parte i “rumori” degli strumenti a percussione sono sempre stati una componente necessaria delle musiche di ogni parte del mondo. Ma, a parte il problema spinoso del rapporto suono-rumore, ci sono altri aspetti che rendono difficile parlare del suono: se dovessimo descrivere ad esempio quali sono le caratteristiche “sonore” di una musica che stiamo ascoltando ci troveremmo un po’ in difficoltà. Insomma, il “suono” che cos’è? È la voce di un cantante o di uno strumento? È l’energia con cui la voce viene articolata? È quel particolare effetto che si ha quando tanti strumenti suonano insieme sovrapponendosi o talvolta ammassandosi l’uno con l’altro? Il suono musicale potrebbe essere tutte queste cose messe insieme. Ma potrebbe essere anche altro. Se io sento ad esempio la voce di un violino e vengo attratto da quella suggestione (e non dalla melodia che il violino sta suonando), se concentro la mia attenzione sul meraviglioso intrico di oscillazioni che quel suono produce, sul modo dolce con cui una certa nota inizia, sulla delicatezza della sua estinzione, sulle infinite e cangianti sfumature di vibrato che entrano nella sua esecuzione, ascolto unità di tempo infinitesime, ma straordinariamente vive. Anche questo è suono.
Il concetto di suono e l’esperienza di tutto ciò che ho appena ricordato sono scoperte moderne. Certo, anche prima di oggi queste cose esistevano, ma, perlomeno in Europa, venivano tenute, per così dire, in sottordine: non erano in primo piano nella coscienza dei musicisti e degli ascoltatori. Quando nel Rinascimento si scrivevano musiche sul cui spartito compariva l’indicazione “per ogni sorta di strumenti”, ciò significava che per la cultura di quell’epoca la cosa più importante era l’ascolto di melodie e di contrappunto: il suono con il quale venivano eseguite era un’entità di supporto, importante, ma non primaria. L’attenzione al suono emerse gradualmente nei secoli, da quando si formarono i primi complessi strumentali, in epoca barocca, a quando si imposero le grandi orchestre sinfoniche ottocentesche. Fra Ottocento e Novecento, nell’epoca di Rimskij-Korsakov e di Debussy, sapienti dosaggi strumentali cominciano a venire ricercati e attesi per la delizia dell’orecchio, e acquistano peso nella grammatica musicale. Con la musica elettronica della seconda metà del Novecento, il suono emerge poi come componente fondamentale, se non unica, del comporre. Ma un passo in più si fa con l’arrivo del computer e con la sua prodigiosa velocità di calcolo: a quel punto il “comporre con i suoni”, che è sempre stato alla base del fare musica, tende a tramutarsi sostanzialmente nell’attività di “comporre i suoni”. La curiosità per i misteri della vibrazione di un corpo elastico, e per le infinite sfumature espressive che da quell’indagine possono scaturire, cambia radicalmente lo statuto delle musiche d’avanguardia. I sintomi di quel cambiamento, tuttavia, non si manifestano solo nell’ambito delle musiche “tecnologiche”. Anzi, le invenzioni più significative si trovano forse nella musica strumentale. Ne sceglieremo qui tre esempi importanti.
Tre itinerari convergenti
Per quanto riguarda la musica italiana parleremo di due casi fuori contesto rispetto alle tendenze allora dominanti dello strutturalismo, nato in Germania in seno alla scuola di Darmstadt: quello di Salvatore Sciarrino (1947-) e quello di Giacinto Scelsi (1905-1988). Il primo vive un’esperienza rara in tutta la musica contemporanea: quella d’imporsi giovanissimo all’attenzione generale, e di imporsi subito con una chiave stilistica propria. Il tema più tipico della sua musica è quello della ricerca dei limiti fra il suono e il silenzio, del suono nel suo momento genetico primordiale, o nel suo stato precedente l’estinzione. In una situazione come questa, la “composizione del suono” diventa essenziale: ogni corpo vibrante (e questa è una legge della fisica, ma anche della musica) produce un suono, ma produce anche innumerevoli altri suoni (“suoni armonici”) che normalmente non si sentono indipendentemente l’uno dall’altro, ma si fondono e creano un timbro globale. Ad esempio una corda vibra nella sua interezza, ma vibra anche dividendosi in due, tre, quattro, cinque… parti, e ciascuna parte produce un suo suono, debole, debolissimo, ma esistente. Ci sono tecniche strumentali particolari, in grado di mettere in rilievo e rendere udibili questi suoni “parziali”. La fantasia di Sciarrino è inesauribile nel creare fasce ben dosate di suoni armonici sovrapposti, unità vibranti mobili, traslucide, trasparenti. È anche inesauribile nel cercare corrispondenze fra suoni e immagini visive o poetiche: a volte arcaiche e ispirate alla mitologia greca, come l’opera in un atto Amore e Psiche, altre volte oscure e inquietanti, legate alla coscienza e subcoscienza europea come Aspern, dal racconto omonimo di Henry James.
La scoperta del suono è per Scelsi la risoluzione di una violenta crisi non solo artistica, ma esistenziale, che lo colpisce quand’egli è ormai quasi cinquantenne. In campo estetico domina in lui la delusione per un “comporre” che ha perso le ragioni di una tradizione centenaria: si deve comporre per chi e per che scopo? Così il suono gli si presenta improvvisamente come un’immagine misterica, come l’epifania di un evento “altro” più vero e più autenticamente umano di quello a cui i destini tradizionali della musica sembrano legati: così la verità delle illuminazioni filosofiche orientali diventa per lui un valore esistenziale e al tempo stesso musicale. Un valore fine a se stesso, capace di dar senso alla vita indipendentemente dal fatto che la musica circoli in società. L’isolamento in cui Scelsi vive, che si sta risolvendo solo ora a oltre vent’anni dalla morte, è coerentemente inscritto in questa concezione. Nel suo caso il “suono” è soprattutto immaginato come oggetto di contemplazione, come realtà fuori dal tempo sociale e fuori dal tempo musicale. Nelle sue musiche il termine “tensione” non significa “tendere verso”, non significa “stare per raggiungere”, ma significa “essere in un campo di forze in movimento”. Lo strumento di questa mobile staticità, scopo della musica e della vita stessa, è costituito da infinitesime variazioni di timbro, d’intensità e d’altezza (in quest’ultimo caso intervalli “microtonali” al di sotto del semitono) che continuamente si alternano e creano avventure immaginifiche, ma senza l’attesa di un obiettivo finale. Ne sono testimonianza ad esempio i Quattro pezzi per orchestra sopra una nota sola (1959).
Non a caso i musicisti francesi che vanno sotto il nome di “spettralisti” (Grisey, Dufourt, Murail e altri) frequentano Scelsi negli anni Cinquanta e Sessanta. Lo “spettro” di cui parlano è naturalmente lo “spettro sonoro” cioè l’insieme di tutte le possibilità udibili, che comprende i suoni armonici, le connessioni intervallari microtonali e le proprietà timbriche scoperte dalla computer music. Lo spettro sonoro viene esplorato in tutte le sue potenzialità: l’idea di “comporre suoni” trova a questo punto la sua realizzazione più matura. Le composizioni degli spettralisti utilizzano sia suoni di computer sia suoni strumentali ottenuti con tecniche non troppo dissimili da quelle di Sciarrino o di Scelsi, ma recuperano anche una nuova capacità di costruire ampi brani drammaticamente articolati. È come se la scoperta di risorse sonore inedite dia loro una fiducia nella comunicazione musicale che le avanguardie in genere stanno perdendo. Ne sono testimonianza ad esempio, opere come L’icone paradoxale. Hommage à Piero della Francesca di Gérard Grisey o come L’esprit des dunes di Tristan Murail.