La scoperta dell'origine comune delle lingue antiche dall'indoeuropeo
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Per quanto ci fossero state fin dal XVI secolo delle osservazioni sulla sorprendente somiglianza tra parole della antica lingua sanscrita ed altrettante espressioni appartenenti alle lingue europee, soltanto con il celebre discorso di William Jones tenuto al terzo congresso della Royal Asiatic Society di Calcutta nel 1786 vengono formulate esplicitamente sia l’idea di una stretta parentela tra sanscrito, greco e latino (con ipotesi di affinità con altre lingue antiche), sia l’idea di una comune discendenza di queste lingue. Nasce simbolicamente da questo episodio la linguistica storica che caratterizzerà l’intero secolo XIX e sancirà definitivamente l’origine comune di greco, latino, sanscrito e di molte altre lingue antiche da una lingua non attestata chiamata “indoeuropeo”. Quest’ultima era parlata da un popolo che, partendo dalla terra in cui era stanziato, presumibilmente le pianure a nord del Mar Caspio e del Mar Nero, si era spinto, con ondate migratorie successive, sia a sud-est, nella penisola del Deccan, sia nell’Occidente europeo.
Nel 1786 il funzionario britannico della East India Company William Jones, che si trova a Calcutta con funzioni di magistrato, ma che prima della carriera giuridica ha fatto studi relativi alle lingue orientali a Oxford, legge presso la sede della Royal Asiatic Society di Calcutta il suo celebre saggio in cui stabilisce, al di là di ogni dubbio, la parentela storica tra il greco, il latino e il sanscrito (quella che era stata per secoli la lingua di cultura dell’India), a cui aggiunge anche una ipotesi di affinità con le lingue celtiche, il gotico e il persiano. Evidenziando le numerose somiglianze, ipotizza decisamente una discendenza comune di queste lingue da una lingua più antica:
“La lingua sanscrita, quale che sia la sua antichità, è una lingua di struttura meravigliosa, più perfetta del greco, più copiosa del latino, e più squisitamente raffinata di ambedue, nonostante abbia con entrambe un’affinità più forte, sia nelle radici dei verbi, sia nelle forme della grammatica, di quanto probabilmente non sarebbe potuto accadere per puro caso; così forte, infatti, che nessun filologo potrebbe indagarle tutt’e tre, senza credere che esse siano sorte da qualche fonte comune, la quale non esiste più. C’è un’altra ragione simile, sebbene non altrettanto cogente, per supporre che tanto il gotico quanto il celtico, sebbene mescolati con un idioma molto differente, abbiano avuto la stessa origine del sanscrito e l’antico persiano potrebbe essere aggiunto alla stessa famiglia.” (citato in Robert H. Robins, Storia della linguistica, Bologna, 1971).
Se vogliamo stabilire un atto di battesimo per la presa di coscienza dell’origine comune di molte lingue diffuse nell’Antichità nei due continenti, rispettivamente, europeo e asiatico e, contemporaneamente, per la nascita della linguistica storica possiamo indicarlo appunto in questo episodio.
La problematica relativa ad una parentela tra alcune antiche lingue europee e il sanscrito non è del tutto nuova. Ad esempio, nel secolo XVI l’italiano Filippo Sassetti ha scritto dall’India mettendo in evidenza, con stupore, la somiglianza di numerose parole sanscrite con altrettante parole italiane; ed ugualmente numerose somiglianze con il tedesco sono state notate da B. Schulze e con il francese da Père Coeurdoux. Tuttavia tali osservazioni, frammentarie e isolate, non avevano prodotto nessun importante effetto scientifico.
La scoperta di Jones non solo è più profonda e documentata di quanto siano state le osservazioni precedenti, ma può godere del propizio momento storico di cui sono in parte responsabili le guerre napoleoniche e Napoleone stesso, il quale incoraggia le ricerche archeologiche dei Francesi in Egitto e nel Vicino Oriente, permettendo una proficua familiarizzazione degli studiosi con le lingue non europee del Mediterraneo.
Lo stesso fenomeno del colonialismo, che ha messo in contatto William Jones con il sanscrito in India, ha prodotto, più in generale, l’esplorazione dei vasti territori asiatici nel corso del Settecento e ha stimolato la curiosità degli studiosi per lingue precedentemente sconosciute. Il movimento romantico, poi, con la sua valorizzazione dell’esotico e del lontano, contribuisce non poco all’interesse per le civiltà e le lingue orientali, tra cui in prima fila il sanscrito e l’antico persiano.
È soprattutto in Germania che si sviluppa uno studio sistematico relativo alla comparazione e all’origine delle lingue. Tra i primi, Friedrich von Schlegel si dedica a questa ricerca ampliando la base dei confronti linguistici e gettando, così, solide fondamenta per lo studio della linguistica comparata. Tuttavia, a identificare in maniera pienamente scientifica le corrispondenze fonetiche tra le lingue che in seguito si sarebbero dette indoeuropee (ma che i tedeschi preferiscono sempre identificare come famiglia dell’indogermanisch, “indogermanico”) sono due studiosi che traggono le loro conclusioni, almeno nella prima fase, indipendentemente: uno tedesco, Jakob Grimm e uno danese Rasmus Rask. In particolare Grimm mostra (formulando quella che è stata definita “legge di Grimm”) che per quello che riguarda le occlusive l’insieme delle lingue germaniche si comporta in maniera del tutto specifica, anche se sistematica, rispetto alle altre lingue della stessa famiglia indoeuropea. In seguito Franz Bopp estenderà lo studio comparato nella direzione di una messa a confronto delle unità di tipo morfologico, con particolare attenzione per la morfologia verbale.
Uno sviluppo importante negli studi relativi alla ricostruzione storica delle lingue è quello costituito dalle ricerche di August Schleicher. Formatosi come botanico, prima ancora che come linguista, Schleicher applica alla lingistica le categorie delle scienze naturali e dell’evoluzionismo darwiniano. Riproponendo in maniera decisa l’ipotesi già intravista dal Jones che il sanscrito, il latino, il greco e le altre lingue imparentate derivano da una protolingua comune più antica di tutte, l’indoeuropeo (o “indogermanico”) formula l’ipotesi (su un modello biologico e completamente a-storico, in cui l’uomo – come dice – ha la stessa possibilità di intervenire quanto ne ha un usignolo di modificare il suo canto) di un albero genealogico in cui queste lingue si inserirebbero: esse, infatti, partendo dalla comune lingua madre, si sarebbero differenziate per ramificazioni successive (ogni ramificazione rappresentando una scissione da un nucleo volta per volta unitario) fino ad arrivare alle attuali forme presentate dalle lingue moderne.
Questa visione strettamente genealogica ha l’indubbio merito di catturare le somiglianze che si stabiliscono in linea ereditaria tra le lingue, ma non permette di cogliere le relazioni, per così dire, “orizzontali” tra lingua e lingua, che possono stabilirsi a prescindere dall’origine di ciascuna delle lingue stesse. Pur conservando una sua utilità dal punto di vista dell’immediatezza visiva dei rapporti di filiazione, la teoria di Schleicher ha ricevuto molte critiche, che hanno portato ad abbandonarla a favore di una nuova teoria dei rapporti di dipendenza e parentela tra le lingue formulata da un suo allievo, Johannes Schmidt, chiamata “teoria delle onde”. Recuperando la dimensione storica e non meccanicistica delle lingue, Schmidt mostra come le innovazioni linguistiche che si determinano partono da centri che possono essere di volta in volta differenti e si diffondono nello spazio come le onde provocate dal lancio di un sasso in uno stagno. Le onde che si generano sono metafora delle innovazioni operate dai gruppi dei parlanti, partendo da un centro di irradiazione ed indebolendosi man mano che giungono verso la periferia. Così le varie lingue sono interpretabili non solo come il risultato della filiazione genealogica, ma anche e soprattutto come determinate dalla diversa esposizione dei gruppi alla forza innovatrice e spaziale delle onde linguistiche. Questo fa sì che gli elementi comuni a più lingue vengano organizzati in una maniera specifica e differenziata rispetto alla dislocazione geografica: così ci saranno più elementi comuni tra lingue che si trovano vicine spazialmente rispetto a lingue che si trovano distanti nello spazio. In sintesi, si comincia a tener conto anche della variazione diatopica, oltre che di quella diacronica.
Lo studio della dimensione diacronica delle lingue prosegue nella seconda metà dell’Ottocento attraverso le ricerche di un movimento che viene definito dei “neogrammatici”, del quale sono fondatori Hermann Osthoff e Karl Brugmann. Ad essi è legata la formulazione del principio della “ineccepibilità delle leggi fonetiche”. Esso può essere così formulato: se, nella trasformazione diacronica di una lingua, a diventa b nel contesto X, allora qualunque caso di a che si venga a trovare nel contesto X ineccepibilmente deve trasformarsi in b, presso tutti i parlanti di quella lingua. La base per la formulazione di questa legge è individuata nel principio della costanza delle abitudini articolatorie dei parlanti e, più a monte ancora, nella conformazione dell’apparato fonatorio dei parlanti, non tanto nei termini per cui gruppi diversi di homo sapiens hanno apparati fonatori diversi, quanto nel senso che degli apparati fonatori abituati per generazioni a certe produzioni linguistiche tendono automaticamente a riprodurle.
La teoria dei neogrammatici sembra incontrare molte eccezioni che, però, vengono via via spiegate ricorrendo alla elaborazione di leggi che permettono di ricondurle a regolarità, come avviene con le leggi rispettive di Hermann Grassman (1863) sul fenomeno della dissimilazione, di Karl Verner (1877) sulla trasformazione delle occlusive sorde in indoeuropeo in fricative sonore specificamente nelle lingue germaniche, di Ferdinand de Saussure (1878) sui tre timbri vocalici *e, *a, *o in indoeuropeo che si conservano distinti in latino e greco mentre in sanscrito si fondono in una sola vocale a, definendo al contempo il ruolo del fonema ricostruito schwa.
Finora abbiamo parlato della ricostruzione della lingua degli indoeuropei sulla base delle testimonianze forniteci dalle lingue storicamente attestate. Ma potremmo interrogarci anche su chi fossero, dove abitassero e quando abbiano iniziato le loro migrazioni gli effettivi parlanti di quella lingua. A questo proposito siamo costretti a muoverci in una completa assenza di documentazione e possiamo solo formulare delle ipotesi basandoci su dati che ci forniscono le lingue indoeuropee stesse. Analizzando le unità lessicali (metodo lessicalistico) si può osservare, ad esempio, che tutte le lingue indoeuropee contengono dei termini che sono la continuazione di termini presenti nella lingua originaria per designare sia gli “ovini”, sia i “bovini”. Incrociando questi dati con quelli che provengono dal confronto con i testi elaborati nelle varie lingue (metodo testuale), si ricava l’immagine di un popolo nomade (non esiste infatti nella lingua madre un termine per “città”), dedito all’allevamento, patriarcale, che pratica una religiosità di tipo celeste, organizzato per tribù e sottomesso ad un re (la cui autorità non è tanto politica o militare, quanto di tipo religioso).
Contemporaneamente, dal confronto tra le varie lingue si ricavano indicazioni sulla loro geografia. Innanzitutto si può rilevare che nella lingua madre non c’è un termine per indicare il “mare”, ma nel corso della loro espansione gli indoeuropei assumono i termini, diversi tra loro, usati dalle popolazioni del cosiddetto “sostrato indomediterraneo” (popoli che abitavano già da prima le terre in cui vanno ad insediarsi gli indoeuropei). In secondo luogo non ci sono nella lingua madre termini che indichino le piante mediterranee come la “rosa”, il “fico”, la “vite” (e prodotti, come il “vino”, l’“olio”), l’“alloro”, il “cipresso” ecc.: gli indoeuropei, nel corso delle varie migrazioni, hanno preso in prestito anche i termini per questi concetti dalle popolazioni preesistenti (fatto di cui c’è l’ulteriore indizio che alcuni di questi termini avevano una radice comune anche a lingue semitiche). Considerazioni di questo tipo hanno fatto giungere all’ipotesi conclusiva che il luogo in cui gli indoeuropei sono originariamente stanziati sia una regione interna e lontana dal mare, come le steppe dell’Eurasia. Una archeologa, Marija Gimbutas, ha recentemente suggerito di collegare gli indoeuropei con la cultura detta kurgan (con cui si indicano i tumoli funerari tipici di questa cultura), fiorita a partire dal VI-V millennio a.C. e stanziata in un’ampia area situata a nord del Mar Nero e del Mar Caspio. A partire da quest’area, in ondate successive, gli indoeuropei si sarebbero spostati, tra V e III millennio, sia verso l’Europa, sia verso l’Asia sud-occidentale, per conquistare nuove terre approfittando anche della superiorità garantita loro dall’uso del cavallo, che avevano cominciato ad addomesticare a partire dal V millennio (Cfr. Franco Fanciullo, Introduzione alla linguistica storica, Bologna, 2007; Silvia Luraghi, Introduzione alla linguistica storica, Roma, 2006).