Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nella Scozia della seconda metà del Settecento si assiste a una grande fioritura intellettuale, che fa capo a pensatori e studiosi come Adam Smith, David Hume, William Robertson e Adam Ferguson. Dal fitto scambio di idee fra questi intellettuali emerge l’idea che nelle civiltà umane esista una sfera di rapporti interindividuali non controllata dal potere politico: la società civile, costituita da rapporti sociali non regolati dallo Stato, inteso restrittivamente come forza coattiva.
La crisi della coscienza europea
La cultura classica ha trasmesso all’Europa della prima età moderna l’idea che gli uomini si uniscono in una comunità gerarchizzata, i cui principi, ancora nel XVII secolo, appaiono ispirati da finalità provvidenzialistiche. I sovrani regnano “per grazia di Dio” e l’attentato alla loro persona si configura come parricidio, perché i popoli sono considerati entità in stato di minorità perpetua, dipendenti in tutto da loro. Soltanto quelle profonde trasformazioni della mentalità e della cultura che si verificano a cavallo fra Sei e Settecento, e che uno studioso francese, Paul Hazard (1946) ha valutato come una vera e propria “crisi della coscienza europea”, portano a un cambiamento anche di questa concezione delle società umane.
Fra gli eventi che hanno contribuito a modificare questa visione politica sono certamente da annoverare gli episodi traumatici rappresentati dalle due rivoluzioni inglesi: quella del 1640-1649, con il processo e l’esecuzione di Carlo I, e quella del 1688-1689, con la cacciata di Giacomo II e la proclamazione a re di Gran Bretagna di Maria II e di Guglielmo III d’Orange, previo giuramento del Bill of Rights davanti al parlamento. Tuttavia, ancora più determinanti per il mutamento, che non solo ha finito con il costituire una componente significativa della cultura illuministica, ma è arrivato a influire sulla stessa vita politica, appaiono altri fattori di portata più generale, tale da essere avvertita all’interno di tutte, o quasi, le società europee.
L’intrecciarsi di traffici a lunga distanza sempre più intensi e i nuovi rapporti economici e sociali, che si instaurano in seguito allo sgretolarsi del mondo feudale e signorile, favoriscono la nascita di un’economia di mercato e la commercializzazione delle terre. Nello stesso arco di tempo, la conoscenza sempre più approfondita di popolazioni e di civiltà diverse da quella sviluppatasi nella vecchia respublica christiana stimola la riflessione sulle modalità e sui procedimenti attraverso i quali le società si trasformano, passando dallo stato selvaggio a successivi stadi di incivilimento.
Si fa strada allora l’idea che quella che già Aristotele aveva definito la “comunità politica” non assorba interamente l’esistenza e l’attività degli uomini in società. Fra i principi di unione – oltre all’organizzazione statale contraddistinta prevalentemente da forme coattive – vengono messi in luce quelli costituiti da una rete di rapporti intessuta da sentimenti di solidarietà e da interessi particolari. Lo sviluppo di dottrine economiche, e soprattutto le formulazioni del pensiero fisiocratico, portano a indicare la possibilità di regolare la vita produttiva: questa infatti, non diversamente dal mondo fisico, sarebbe governata da un insieme di leggi che, senza gli ostacoli frapposti da disposizioni in contrasto con il diritto naturale, permetterebbero di elaborare una politica economica in grado di assicurare la prosperità. Dall’idea di legge naturale si fanno dunque derivare conseguenze profondamente innovative rispetto a quelle che erano state sancite dalla patristica e dalla scolastica medievale, e ancora dominanti nel pensiero del XVI secolo e di buona parte del secolo successivo, che vedono ogni atto della natura dipendente dalla volontà divina.
Per la verità, già nel De iure belli ac pacis il giusnaturalista UgoGrozio fa discendere la legge di natura dalla “giusta ragione”, perché “nemmeno Dio può far sì che due per due non facciano quattro, come non può far sì che ciò che è intrinsecamente malvagio non lo sia”. La nuova concezione del diritto naturale, non più vincolato a un ordine trascendente, giunge a sviluppare alcuni presupposti dell’umanesimo giuridico sullo ius gentium fino a elaborare l’idea che i rapporti all’interno delle società siano governati da reciproci obblighi contrattuali.
Parallelamente, l’identificazione di una sfera di rapporti interindividuali, non subordinati necessariamente all’esistenza di un potere coattivo statale, ossia l’individuazione di una vita economica capace di autoregolarsi, porta a distinguere l’ambito dei rapporti sociali da quello dei rapporti politici, la società civile da quella politica. Come dirà il rivoluzionario americano Thomas Paine nel 1776: “la società è creata dai nostri bisogni e lo Stato dalla nostra malvagità”.
Il “rinascimento scozzese”
È da notare che la più compiuta formulazione delle nuove idee sulla società civile si sviluppa in particolare nella Scozia della seconda metà del Settecento.
Dopo la dura repressione della rivolta giacobita nel 1745, che colpisce soprattutto l’arcaica società delle Highlands, sovvertendone i costumi tribali fino allora dominanti, il Paese giunge ad acquistare un’omogeneità di ordinamenti e di istituzioni che ne favorisce il rapido progredire.
Mentre la rivoluzione agraria arriva a trasformare la regione a sud-est di Edimburgo in un florido territorio di grande operosità, già l’Atto di Unione del 1707, con cui l’Inghilterra e la Scozia vengono politicamente unificate, apre a Glasgow i commerci con le colonie americane, che favoriscono l’importazione e la lavorazione del tabacco e del cotone.
Con la crescita economica i centri urbani assumono sempre maggiore vivacità, e si assiste a una fioritura culturale; si parla addirittura di un “rinascimento scozzese” che ha come centri l’università di Glasgow, dove insegna Adam Smith, e la capitale, dove comincia a essere pubblicata la “Edinburgh Review”, a cui collaborano lo stesso Smith, David Hume, William Robertson, Lord Kames, John Millar e Adam Ferguson.
“Si tratta - ha scritto lo storico italiano Delio Cantimori - di uomini di penna, di scuola e di toga, che sono anche patrioti scozzesi, quasi tutti, a stretto contatto gli uni con gli altri, che hanno problemi comuni, che si scambiano idee”; un gruppo di pensatori e studiosi “unito negli interessi e nell’attività, come documentano gli epistolari”.
L’università di Glasgow, in stretto rapporto con la cultura del continente, in particolare con quella francese e quella olandese, ha introdotto fin dagli ultimi anni del Seicento l’insegnamento dell’economia e della politica, e, insieme con quella di Edimburgo, dà un contributo rilevante alla vita scientifica, soprattutto nello studio della chimica, essenziale per lo sviluppo dell’agricoltura e delle attività industriali. Università e industria, è stato notato, non sono in Scozia mondi separati: gli studiosi si interessano ai problemi della vita economica, così come gli uomini di affari si rendono conto del contributo che l’alta cultura può dare alle loro attività; nei vivaci club cittadini gli uni e gli altri si ritrovano per discutere dei problemi del tempo, rivelandosi particolarmente attenti alle questioni legate allo sviluppo della società.
Le esperienze vissute da questi studiosi contribuiscono indubbiamente a caratterizzare i loro scritti per la forza di penetrazione della realtà e per il senso di concretezza. Significativamente, il sociologo, moralista e storico Adam Ferguson nel suo Saggio sulla storia della società civile (1767), osserva che “gli uomini devono essere stimati non per quello che sanno, ma per quelle cose che sono capaci di realizzare”; i dotti devono “agire con gli uomini”, perché la conoscenza si acquista “in mezzo al sudore e alla polvere”. Può quindi affermare che “l’influenza delle leggi, quando esse hanno un qualche concreto effetto nel conservare la libertà, non è un potere magico che derivi da scaffali carichi di libri, ma è in realtà l’influenza di uomini decisi ad essere liberi”.
Del resto Ferguson, studioso di filosofia morale (una delle sue opere più tradotte nell’Europa del suo tempo è Istituzioni di filosofia morale), non può non porsi il problema della contraddizione fra individuo e società, fra privato e pubblico, che si manifesta in termini particolarmente drammatici nello sviluppo della Scozia settecentesca. Al tempo stesso, la sua visione etica lo spinge ad affermare che “gli uomini si riuniscono per istinto” e “agiscono in società spinti dalle disposizioni della bontà e dell’amicizia”, tanto che “mentre la loro prosperità è guardata con indifferenza, le loro sofferenze sono considerate con compassione”. Esiste uno stretto rapporto di interdipendenza tra la felicità individuale e quella della comunità in cui si vive. Se l’individuo “deve rinunciare alla sua felicità e alla sua libertà, quando esse sono incompatibili con il bene della società”, non si può dimenticare che “la felicità degli individui è il grande fine della società civile”. Un ordinamento pubblico vitale dev’essere fondato sul consenso: “lo Stato più felice è quello che è più amato dai suoi membri”.
Proprietà privata e incivilimento
La dimensione etica è sempre presente nella concezione del mondo di questi pensatori (non si dimentichi che il più celebre di loro, Adam Smith, è autore di una Teoria dei sentimenti morali), ma proprio l’analisi della società aiuta a distinguere la sfera individuale da quella pubblica. I principi utilitaristici, che ispirano il loro modo di pensare, consentono di dare piena autonomia alla riflessione sulla società e sulla vita economica: se la storia è il prodotto dei bisogni umani, come dimostrano le vicende dei popoli primitivi, il passaggio dallo stato del “selvaggio, che non ha ancora conosciuto la proprietà” a uno stadio più progredito, avviene appunto quando la proprietà, “sebbene non sia ancora garantita da leggi, è già un principale oggetto di preoccupazione e di desiderio”. In tal senso “la proprietà è un fatto di progresso”: infatti “l’attività attraverso la quale essa viene acquistata e migliorata richiede una tale abitudine ad agire in vista di scopi lontani, che [...] viene acquistata lentamente ed è ciò che distingue realmente le nazioni nello stato avanzato delle arti meccaniche e commerciali”.
Viene colto in tal modo il nuovo significato che la proprietà assume nelle società mercantili agli albori del capitalismo industriale, e quindi l’idea stessa di società civile si configura attraverso la storia dell’incivilimento nelle sue diverse fasi.
Anche per il filosofo e illuminista John Millar, autore di uno studio sulla progressiva distinzione in classi della società, Le origini della distinzione delle classi (1779), la causa motrice della storia è la proprietà, “la più grande fonte di distinzione fra gli uomini”. È possibile, in altri termini, capire la storia esaminandone i fondamenti economici, anche se il solo principio di utilità, quando non sia contemperato dal principio di autorità, non assicura la libertà civile, obiettivo principale degli uomini.
“La diffusione delle conoscenze tende sempre più a incoraggiare e a sviluppare il principio di utilità in tutte le discussioni politiche; ma non dobbiamo concludere da ciò che l’influenza della mera autorità, operando senza riflessione, sia interamente inutile”. La società civile non può esistere senza la società politica e quindi la naturale inclinazione a rispettare le “superiori qualità umane” è da considerare “una saggia disposizione della natura per affermare l’ordine e il governo della società”, che sono da condannare soltanto quando escano dai loro limiti per diventare “strumenti di tirannide e di oppressione”. Ma l’autonomia da ogni valutazione morale è chiaramente affermata anche da Millar, quando indica in questi eccessi del potere soprattutto un freno per lo sviluppo della società. Del resto, proprio queste considerazioni utilitaristiche, tendenti a prescindere da ogni giudizio morale, portano Millar a condannare duramente – così come aveva fatto Adam Smith – la schiavitù, in quanto indice di arretratezza economica prima ancora che civile. “Sotto qualunque aspetto consideriamo l’istituzione della schiavitù, questa appare egualmente dannosa e pericolosa”, perché gli uomini sono attivi solo quando lavorano a proprio vantaggio. Perciò “l’introduzione della libertà personale tende immancabilmente a rendere gli abitanti di un Paese più industriosi e, col produrre una maggiore abbondanza di beni, accresce necessariamente la popolosità, come pure la forza e la sicurezza di una nazione”.
Le idee di questi pensatori scozzesi sulla società civile sono destinate a essere successivamente riprese e sviluppate da Georg Wilhelm Hegel e da Karl Marx.