Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel nome di Bernini fiorisce a Roma una rigenerazione della scultura che porta alla creazione di un linguaggio nuovo. La scultura barocca, sviluppata dai migliori epigoni del Bernini, crea immagini che aboliscono i consueti rapporti spaziali tra l’opera e l’ambiente che la circonda, stabilendo un contatto inedito con lo spettatore, coinvolto innanzitutto sul piano emozionale. Parallelamente si afferma un linguaggio di stampo classicista che avrà un’influenza notevole sulla scultura francese e, in misura minore, fiamminga, godendo del favore di trattatisti e teorici.
La scultura a Roma prima di Bernini
Quale fosse il panorama della scultura a Roma nel secondo decennio del XVII secolo lo testimonia una grandiosa impresa collettiva, la cappella di Paolo V nella basilica di Santa Maria Maggiore. Vi si incontra all’opera una folla di scultori la cui attività rappresenta, nei termini di un tardomanierismo piuttosto retorico e “controriformato”, l’estremo testamento della lezione michelangiolesca.
Appare qui evidente il ritardo della scultura rispetto alle novità clamorose che, in campo pittorico, si erano già manifestate ad apertura di secolo, con Annibale Carracci e Caravaggio.
Tra quanti parteciparono ai lavori della Cappella Paolina si segnalano Stefano Maderno, Pietro Bernini, Francesco Mochi.
Decisamente manierista, Stefano Maderno è uno dei tanti scultori, stuccatori e architetti piovuti a Roma dalle valli comasche ticinesi. La sua fama è legata principalmente a un’opera atipica rispetto alla sua produzione abituale: la Santa Cecilia collocata sotto l’altare maggiore della chiesa intitolata alla martire in Trastevere. A conferire molto del suo fascino a questa immagine è la dolce e patetica iconografia (che avrà poi un larghissimo successo) che riproduce il corpo della santa nella esatta posizione in cui era stato rinvenuto nel corso di lavori nella chiesa nel 1599.
Pietro Bernini, padre di Gian Lorenzo, si innalza nettamente sulla media degli scultori contemporanei per la raffinatezza esecutiva. Il suo esempio di cesellatore di marmi levigatissimi è carico di conseguenze nella formazione del figlio, che con ineguagliabile virtuosismo realizzerà vere e proprie metamorfosi della materia.
Dopo una lunga attività svolta tra Napoli e Firenze, Pietro Bernini approda a Roma nel 1606 e qui lascia alcune delle sue opere più belle, di un manierismo complesso e sofisticato: dalla brulicante pala marmorea col rilievo dell’Assunzione per Santa Maria Maggiore, con cui esordisce sulla scena romana nel 1606-1610, al Battista, dal vello minutamente traforato, della Cappella Barberini in Sant’Andrea della Valle (1616 ca.).
Maggiore di quello del Maderno e del Bernini padre è il peso esercitato nella Roma dei primi decenni del Seicento da un altro toscano: Francesco Mochi.
Giunto in città all’inizio del secolo, dopo una educazione a Firenze presso la bottega del pittore Santi di Tito, entra presto nelle grazie di Mario Farnese, duca di Latera, grazie al quale realizza i suoi capolavori: l’Annunciazione del duomo di Orvieto e i due monumenti equestri bronzei (1612-1629), di Ranuccio Farnese, duca di Parma e del padre Alessandro a Piacenza dove soggiorna dal 1612 al 1629.
Se già nel vortice di nubi che sconvolge i panni dell’Angelo di Orvieto Mochi sembra dire le prime parole di profondo rinnovamento della cultura seicentesca, è con i cavalli di Piacenza che, superando il modello aristocratico dei monumenti equestri del Giambologna, giunge a esiti scenografici e drammatici che possono ormai definirsi barocchi: nel dinamismo delle criniere e dei mantelli squassati dal vento, nelle code attorte, nello scatto trattenuto degli animali.
Al suo ritorno a Roma nel 1629 Mochi viene rapidamente eclissato da Gian Lorenzo Bernini, che durante la sua assenza aveva sbaragliato la scena della città pontificia. Dopo l’ultima grandiosa visione della sconvolta Veronica per San Pietro (1629-1640), lo scultore rinuncia deliberatamente all’esuberanza spaziale delle opere precedenti; la sua rimane una voce isolata nella Roma completamente conquistata dal Bernini al punto che i suoi ultimi lavori, chiusi ed essenziali, verranno in più casi rifiutati dai committenti.
I classicisti
Finché Bernini tiene il monopolio delle imprese papali in campo architettonico e scultoreo, finché alla sua autorità viene demandata la scelta dei collaboratori e degli assistenti, non c’è spazio a Roma per l’affermarsi di proposte alternative. Ma appena la sua fortuna subisce un temporaneo declino negli anni del papato di Innocenzo X, ecco affacciarsi alla ribalta, contemporaneamente al Borromini, una nuova personalità forte che, senza poter giungere a contendere col genio berniniano, determina l’affermazione di un gusto classicista che svolgerà un fondamentale ruolo dialettico nei confronti del barocco: Alessandro Algardi.
Giunto a Roma nel 1625, dopo avere a lungo frequentato la bottega bolognese di Ludovico Carracci, esperienza questa determinante per la formazione del suo gusto classicista, Alessandro Algardi si inserisce lentamente nel panorama artistico già affollato e difficile della città papale. Qui lo scultore stringe le proprie amicizie nell’ambiente del classicismo bolognese e innanzitutto col Domenichino, che gli procura i primi lavori. L’affermazione pubblica giunge nel 1634 con la commissione del monumento sepolcrale di Leone XI in San Pietro, che si richiama all’imprescindibile modello inaugurato dal Bernini con la tomba di Urbano VIII, rifiutandone però i toni drammatici a vantaggio di una composizione di luminosa eloquenza.
Le due maggiori imprese algardiane nel corso del pontificato del Pamphilj sono la colossale statua bronzea di Innocenzo X benedicente (1645-1650), posta nel Palazzo dei Conservatori in Campidoglio a fronteggiare l’effigie di Urbano VIII realizzata dal Bernini, e la pala marmorea a rilievo con Leone Magno che respinge Attila in San Pietro. Quest’ultima porta allo scultore la definitiva affermazione e diviene presto uno dei modelli canonici per il rilievo classicista della scultura in Europa.
All’Algardi risale anche la creazione di una tipologia del busto-ritratto alternativa al vitalismo e alla tensione comunicativa che sempre animano i ritratti berniniani. I suoi modelli esibiscono piuttosto, in forme chiuse e severe, la propria austera dignità: così il Laudivio Zacchia dei Musei di Berlino, la Olimpia Maidalchini della Galleria Doria Pamphilj, il cui viso si staglia solenne sul grande velo inamidato dell’acconciatura.
Amico di Poussin, collaboratore stretto di Cassiano Dal Pozzo, il fiammingo François Duquesnoy è invece l’interprete di un classicismo studiato sugli originali antichi, ma rievocati in toni di lirismo appassionato: la Santa Susanna di Santa Maria di Loreto (1626-1630), quasi purista nella fedeltà al prototipo classico, vibra in realtà di ombre sfumate e velature leggere. La sua scultura risulta estranea al tono aulico e un po’ retorico dell’Algardi, che trova piuttosto un parallelo nella pittura di Guido Reni.
Defilato rispetto alle commissioni ufficiali, con l’eccezione del Sant’Andrea per uno dei piloni della cupola di San Pietro (1628-1640), Duquesnoy è particolarmente apprezzato per i numerosi rilievi di putti, come quelli che ornano le due delicate ed elegantissime tombe di Adriaen Vryburgh (1628-1629) e Ferdinand van den Eynde (1640) in Santa Maria dell’Anima.
L’eredità di Bernini
L’incessante attività di organizzatore e supervisore di imprese colossali porta ben presto il Bernini a circondarsi di una schiera di collaboratori, ora occasionali ora invece stabilmente inseriti nella sua bottega; ed è proprio nei cantieri del baldacchino di San Pietro, della fontana dei Quattro Fiumi o degli Angeli di Ponte Sant’Angelo che si formano quasi tutti i protagonisti della scultura romana della seconda metà del secolo.
I più antichi collaboratori del Bernini sono tre carraresi: Giuliano Finelli, Andrea Bolgi e Francesco Baratta. Il Finelli, la personalità di maggiore spicco, entra nella bottega berniniana fin dal 1622, collaborando già all’Apollo e Dafne e alla Santa Bibiana. Delle sue straordinarie capacità tecniche fanno fede i suoi intensi ritratti, analitici eppure movimentati e vibranti di luce (si veda il busto di Michelangelo Buonarroti il Giovane nel Museo di Casa Buonarroti a Firenze).
Ad Andrea Bolgi, che aveva soppiantato il Finelli nelle grazie del maestro, il Bernini affida la realizzazione della colossale Sant’Elena per San Pietro (1629-40), di una freddezza impacciata e poco espressiva che non incontra il gusto dei contemporanei e che certo perde il confronto con i vicini capolavori di Bernini, Mochi e Duquesnoy.
Francesco Baratta invece è scultore di qualche valore solo quando si trova a lavorare con la scorta di disegni di Gian Lorenzo, come nel rilievo con l’Estasi di san Francesco in San Pietro in Montorio.
Più forti sono le personalità di Antonio Raggi e Melchiorre Caffà. Il Raggi è l’interprete più fedele degli esiti teatrali e scenografici della maturità del Bernini; col maestro collabora alla decorazione a stucco della chiesa di Sant’Andrea al Quirinale, progettata dallo stesso Bernini, svolgendo panneggi amplissimi e cartigli volanti con una grazia e una leggerezza già rococò.
Un impianto decorativo simile a quello di Sant’Andrea al Quirinale ritorna negli stucchi distesi a profusione dal Raggi sotto la volta della Chiesa del Gesù a Roma, affrescata dal Baciccio, dove pittura scultura e architettura si fondono in un’unica grandiosa visione illusionistica che abbatte e travalica i limiti dello spazio reale.
Raffinatissime, ipersensibili, languide sino allo sfinimento sono le rare opere del maltese Melchiorre Caffà, quali la Santa Rosa e l’angelo, trasportato nel 1670 nella chiesa di Santo Domingo a Lima e soprattutto l’Estasi di santa Caterina nella chiesa romana di Santa Caterina a Magnanapoli, dove la santa è sospesa nel rapimento dell’estasi su di una candida nube carica di presenze angeliche che si stagliano sul fondo, a marmi di vivacissima policromia.
È questo uno dei testi esemplari della scultura barocca, che mira, tramite una resa spettacolare e scenografica, a stabilire un rapporto tutto emotivo con lo spettatore.
Il classicismo dell’Algardi trova i suoi attivissimi epigoni in Ercole Ferrata e Domenico Guidi. Il Ferrata giunge in realtà a fondere le istanze classiciste con i moti esteriori della scultura barocca berniniana (Sant’Agnese sul rogo, 1660, chiesa di Sant’Agnese in Agone). Ne nasce uno stile medio che avrà larga diffusione tramite l’industriosa e organizzatissima bottega dello scultore, dove transitano d’altra parte alcuni dei maggiori scultori presenti a Roma tra la metà e la fine del Seicento: il Caffà, Giuseppe Mazzuoli, Camillo Rusconi.
Il Guidi, tra i pochissimi scultori attivi a Roma rimasto sostanzialmente estraneo all’orbita berniniana, è allievo e collaboratore prediletto dell’Algardi; in seguito giunge a organizzare attorno a sé una bottega capace di mandare avanti simultaneamente le più diverse commissioni, talora con un sensibile abbassamento della qualità esecutiva. Ciò non gli impedisce, tuttavia, di godere di un successo larghissimo, che va ben oltre i confini italiani, – Germania, Spagna, Malta e soprattutto Francia, dove realizza sculture anche per la reggia di Versailles.
Tra le opere in cui l’autografia del Guidi appare più evidente sono la pala della Deposizione nella Cappella del Monte di Pietà (1660-1676) e la Sacra Famiglia in Sant’Agnese in Agone, maturi sviluppi della tradizione del rilievo classicista, dove è ben leggibile, nell’articolato disporsi dei volumi pieni e delle figure solennemente panneggiate, l’influenza di Algardi, e in particolare dell’Attila di San Pietro, nella cui realizzazione materiale lo stesso Guidi aveva avuto una parte importante.
Il passaggio della scultura romana dal XVII al XVIII secolo è segnato dalla folta presenza di scultori francesi, giunti per il tramite dell’Académie de Rome istituita dal Colbert nel 1666 a Palazzo Mancini. Tra costoro è Pierre Legros, autore, ancora entro la fine del secolo, dell’animatissimo gruppo con la Religione che scaccia l’eresia, a fianco del grandioso altare di Sant’Ignazio progettato da Andrea Pozzo nella Chiesa del Gesù (1695-1699 ca.).
Con questa apoteosi del barocco allegorico e concettoso, vero manifesto della propaganda per immagini promossa dai Gesuiti, si chiude la grande stagione del Seicento romano.