Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il linguaggio della scultura barocca, creato a Roma dal genio di Bernini, si afferma nelle regioni italiane ed europee, pur presentando in molti centri caratteri di notevole autonomia e originalità. Come in pittura, Roma rimane il punto di riferimento costante degli artisti europei, soprattutto francesi, che trovano nel viaggio in Italia il momento formativo centrale per la loro carriera.
Premessa
È con ritardo variabile ma sempre marcato che i principi della statuaria barocca, sanciti a Roma fin dagli anni Venti del secolo, giungono a imporsi sulle tradizioni cinquecentesche delle varie regioni italiane ed europee.
Non sempre tuttavia i modelli romani giungeranno a monopolizzare il panorama locale; in alcune città, come Napoli, Genova o Anversa, si svilupperà un linguaggio barocco autonomo e originale, variamente dialogante con gli esempi di Roma.
A questi esempi ci si atterrà con più fedeltà ad esempio in Toscana: a Firenze col Foggini, formatosi nella bottega romana del Ferrata, e a Siena, dove lavora il Mazzuoli, già collaboratore del Bernini. L’Italia rimane nel corso del Seicento l’ineludibile punto di riferimento di gran parte della scultura europea, innanzitutto di quella francese. Il viaggio in Italia è alla base della formazione dei migliori scultori d’Oltralpe, da Sarazin a Girardon e a Puget; presenze francesi a Roma sono costanti durante tutto il secolo, come d’altronde avviene per la pittura: da Nicolas Cordier, a cavallo tra il Cinquecento e il Seicento, sino alla nutrita comunità presente in città tra Sei e Settecento, da Legros a Théodon, a Monnot. In Italia si erano inoltre formati sullo scorcio del secolo precedente i discepoli nordici del Giambologna, che rappresentano uno dei fatti fondamentali del manierismo internazionale dei primi decenni nell’Europa centrosettentrionale; a Roma ottiene grandi consensi il fiammingo Duquesnoy, che impronta di sé gran parte della scultura delle Fiandre (oltre che francese). A Venezia tutti i protagonisti della vivace stagione barocca sono forestieri: fiamminghi come Giusto De Corte, ma anche tedeschi (Melchior Barthel), inglesi (John Bushnell), ungheresi e tirolesi.
La scultura in Italia
Nella Firenze dei granduchi medicei sarà solo nell’ultimo quarto del Seicento che si giunge a mettere in crisi definitivamente il modello manierista cortese che risale al Giambologna. I modi sofisticati e cesellati dello scultore fiammingo non incontrano praticamente resistenza per tutta la prima parte del secolo, giungendo anzi a esiti ancora altissimi, soprattutto nella personalità di Pietro Tacca, lo scultore carrarese che del Giambologna è in ogni senso l’erede.
Del Tacca sono i quattro grandi Mori bronzei ai piedi del monumento a Ferdinando I a Livorno e le due bizzarre fontanelle, pure in bronzo, oggi elemento irrinunciabile di piazza Santissima Annunziata a Firenze, ma originariamente anch’esse destinate a Livorno (1629). Già i contemporanei riconoscono al Tacca un’abilità tecnica sbalorditiva, che si mostra nel modo più eclatante nel cavallo impennato, che viola apparentemente le leggi della statica, della statua equestre di Filippo IV a Madrid, una commissione di enorme prestigio che conclude la carriera dello scultore.
La situazione fiorentina muta con Giovanni Battista Foggini che si forma presso il Ferrata per l’espresso desiderio di Cosimo III di aggiornare le arti del Granducato sui modelli romani. Gode in patria di enorme prestigio, ricoprendo le cariche di Primo Scultore della Casa serenissima, nonché di Primo Architetto e sovrintendendo alle botteghe granducali delle Pietre Dure. In virtù di questo suo ruolo ufficiale svolge un’attività intensissima e poliedrica che va dai numerosi ritratti, minuziosi nella resa del costume e spietati nelle fisionomie dei membri di casa Medici, alla decorazione scultorea della Cappella Corsini al Carmine, fino ai rilievi bronzei che, per volere di Cosimo III, vengono destinati alla casa di san Francesco Saverio a Goa, in India.
Giuseppe Mazzuoli lavora tra Roma e Siena, dove si lega a Melchiorre Caffà, collaborando in seguito attivamente col Bernini al monumento funebre di Alessandro VII. Lascia nel duomo della città natale una serie di Apostoli la cui sorte costituisce un caso emblematico del disprezzo tributato per lungo tempo alla scultura barocca: i Senesi, giudicando quelle statue incompatibili col contesto gotico della cattedrale, le vendono (e oggi gli Apostoli si trovano al Brompton Oratory di Londra).
Una intensa e originalissima stagione barocca prende avvio a Genova da quando, nel 1661, Filippo Parodi, il maggiore scultore locale, fa ritorno da un lungo soggiorno romano e contemporaneamente giunge in città un grandissimo maestro francese, il marsigliese Pierre Puget, che si trattiene in Liguria per sei anni.
Il Parodi affonda le proprie radici nella cultura berniniana, ma se ne distingue per una personale propensione verso morbidezze pittoriche e una luminosità vibrante e leggera (Immacolata in San Luca a Genova; Monumento Morosini in San Niccolò dei Tolentini a Venezia). In più occasioni il Parodi sembra costituire un’apertura al brio del Settecento rocaille, come nella grande specchiera di Albisola.
La scultura barocca si afferma a Venezia solo nella seconda metà del Seicento grazie all’attività di numerosi artisti provenienti un po’ da tutta Europa che le conferiscono un carattere atipico rispetto ai modi che si erano consolidati a Roma nel segno del Bernini. Dalle Fiandre, dopo un soggiorno romano, giunge nel 1657 Josse de Court, più noto come Giusto De Corte secondo la italianizzazione che si darà del suo nome, che collabora in più occasioni col genio dell’architettura barocca locale, Baldassarre Longhena.
Tra le opere del De Corte primeggia il grandioso altare della chiesa di Santa Maria della Salute, con la raffigurazione della Vergine che intercede per liberare Venezia dalla peste.
Di un barocco allegorico e concettoso, teatrale nella mimica come nei costumi, l’altare della Salute sembra sventolare nel suo profilo di marmi frastagliati, dalla superficie increspata. La stessa tensione immaginativa si incontra nelle altre opere maggiori dello scultore fiammingo, la tomba di Giorgio Morosini a San Clemente in Isola (1677) o l’altare della chiesa di Sant’Andrea della Zirada (1679), grande macchina scenografica pensata per suscitare meraviglia.
Tra i tanti stranieri, un solo scultore locale emerge nel panorama veneto, Orazio Marinali, attivo soprattutto a Vicenza, dove lascia la sua impresa più impegnativa, la fastosa decorazione del santuario di Monte Berico (1690-1703). Il suo linguaggio, che va in tutt’altra direzione rispetto agli apparati macchinosi e magniloquenti che trionfano a Venezia, si risolve in larghi piani aperti e intrisi di luce, con esiti che richiamano la pittura di Luca Giordano; un timbro chiaro e terso che gli rende particolarmente congeniali le sculture da giardino, che il Marinali dissemina per i parchi delle ville patrizie del vicentino.
A Napoli fin dagli anni Venti si afferma, dominando a lungo la scena locale, la forte e originale personalità di uno scultore e architetto lombardo: Cosimo Fanzago. Nelle sue opere autografe, come i tenebrosi ed enigmatici busti di santi nella Certosa di San Martino o i profeti Davide e Geremia della Chiesa del Gesù Nuovo, l’iconografia atipica e bizzarra, le pose ostentatamente sofisticate e contorte, le arie grifagne e stralunate concorrono alla creazione di una sorta di barocco espressionista, completamente estraneo ai testi canonici dell’ambiente romano.
A contrastare lo strapotere del Fanzago è soltanto Giuliano Finelli, già fedelissimo del Bernini a Roma, reduce da una brusca rottura con Gian Lorenzo quando questi gli preferisce il Bolgi per la realizzazione della statua di Sant’Elena in San Pietro. Negli anni del prolungato soggiorno campano il maggiore successo del Finelli è costituito dalla importante serie di sculture, in marmo e in bronzo, per la Cappella di San Gennaro in duomo. In seguito capita a Napoli proprio Andrea Bolgi, che esegue le statue della Cappella Cacace in San Lorenzo Maggiore, tra le sue cose più belle.
Sostanzialmente estranei agli sviluppi della scultura romana, gli artisti piemontesi e lombardi si concentrano soprattutto nella prosecuzione della tradizione cinquecentesca dei Sacri Monti, che toccano nel Seicento un apice di diffusione e di complessità. Si tratta di vere e proprie sacre rappresentazioni delle Storie della Passione (in un caso, Orta, della Vita di san Francesco), nelle quali statue raffiguranti i protagonisti e i comprimari di ogni episodio, puntando su di una vivace policromia e un acceso realismo che non disdegna parrucche, vesti vere e monili, sono messe in scena entro cappelle le cui pareti sono dipinte con figure e paesaggi. A questo tipo di imprese partecipano naturalmente decine di artisti tra scultori, pittori, decoratori, non sempre di grande levatura.
Gran parte della scultura emiliana si alimenta delle idee di un grande assente, il bolognese Algardi, che opera stabilmente a Roma ma che aveva quanto meno inviato in città lo stupendo gruppo della Decollazione di san Paolo per la chiesa del Santo. A modelli della tradizione algardiana fa riferimento anche il maggiore protagonista del Seicento emiliano, Giuseppe Maria Mazza.
Le solenni decorazioni a stucco del Mazza, tra cui quella della chiesa del Corpus Domini, con gli apollinei angeli musicanti dai panneggi luminosi disposti in grandi falde nette e terse, non si spiegherebbe tuttavia senza un aggiornamento sulle opere dei tanti stuccatori ticinesi attivi tra Lombardia, Liguria ed Emilia: la famiglia dei Reti ad esempio o Giovan Battista Barberini, cui viene affidata, a Bologna, la decorazione dell’altar maggiore e delle cantorie di San Petronio.
La scultura in Francia
Almeno per tutto il primo quarto del secolo la scultura francese procede nell’alveo del manierismo tardocinquecentesco. Una prima svolta importante coincide col ritorno in patria nel 1627 di Jacques Sarazin, reduce da un soggiorno romano durato circa diciassette anni, nel corso del quale il giovane scultore aveva avuto modo di lavorare alla decorazione della villa Aldobrandini di Frascati e di stringere relazioni importanti con alcuni dei protagonisti dell’ambiente romano come Duquesnoy e, soprattutto, Domenichino.
Con tali premesse Sarazin si afferma in Francia quale ortodosso classicista, vero parallelo in scultura di Poussin e battistrada delle tendenze auliche e anticheggianti che domineranno a lungo nella scultura francese, emarginando le pulsioni più propriamente barocche, sin quasi alla fine del secolo (situazione di cui sono esempio eloquente il fallimento del soggiorno parigino del Bernini, chiamato nel 1665 a progettare la facciata del Louvre, e l’ostinato disinteresse degli ambienti ufficiali verso il grande Pierre Puget).
Nelle bellissime Cariatidi delPavillon de l’Horloge al Louvre (1641), è evidente, ancor più dei riferimenti alle correnti classicistiche della scultura moderna, lo studio metodico di Sarazin sugli originali antichi. Questa sorta di purismo si attenua nel procedere della carriera dell’artista; la sua ultima realizzazione, il monumento al cuore di Henry de Bourbon, principe di Condé (non ancora terminato alla morte dell’artista), costituito da una serie di figure a tutto tondo e di bassorilievi in bronzo oggi malamente ricomposti nella cappella del castello di Chantilly, raggiunge un eloquio nobile e sontuoso, classico e moderno al tempo stesso, che è la premessa immediata ai modi di Girardon e della decorazione di Versailles.
Anche le arti, nei lunghi anni del regno di Luigi XIV, vengono riorganizzate nel segno dell’assolutismo monarchico: il Colbert affida a Charles Le Brun il compito di guidare e dirigere la produzione artistica (tanta parte della quale era collegata alle officine dei Gobelins) a gloria ed esaltazione del sovrano, concentrando tutti gli sforzi nella decorazione della reggia del Re Sole: Versailles.
Instancabile ed efficientissimo Le Brun rimane, fino alla morte di Colbert nel 1683, il vero dittatore delle arti in Francia, fornendo in prima persona una quantità impressionante di disegni e modelli per le più svariate esigenze decorative e dettando legge nel campo del gusto. Ne discende una generale omologazione attorno a uno stile “nazionale”, aulico e anticheggiante. Moltissimi scultori, anche di non primissima grandezza, riempiono di stucchi i saloni e le gallerie di Versailles e di gruppi mitologici o allegorici i viali, le grotte artificiali, le fontane dei giardini.
Una posizione decisamente preminente ha François Girardon, reduce da un soggiorno romano effettuato attorno al 1645-50.
A Versailles lascia, nel 1666, la sua opera più celebre, vero manifesto dello stile Luigi XIV, il gruppo di Apollo e le Ninfe, dove la figura principale deriva dall’Apollo del Belvedere, mentre la composizione dichiara un’ammirazione incondizionata per la pittura di Poussin.Nel giudicarlo bisogna considerare tuttavia come oggi le statue appaiono sradicate dal contesto originario, la “Grotta di Teti”, dove erano ambientate entro uno scenario roccioso, con pareti gremite di stalattiti e conchiglie, affiancate da altri gruppi scultorei.
La fase finale della carriera di Girardon è in calando: attorno al 1690, morto Colbert e incrinato il sistema di produzione artistica da lui voluto e governato in Francia, sembra tramontare la stagione del classicismo e appaiono finalmente anche a corte sculture di uno stile che si può più propriamente definire barocco. È il momento di Antoine Coysevox.
Coysevox nella sua intensa attività per Versailles sembra giocare su due registri: classico “alla Girardon”, per omologazione al gusto dominante (nelle statue per le fontane e per il giardino), più fantasioso, pittorico, barocco invece nella decorazione degli interni (dalla Galerie des Glaces allo Scalone degli Ambasciatori al salone della Guerra col grande ovale in stucco raffigurante Luigi XIV trionfante a cavallo).
I risultati più sorprendenti di Coysevox sono i suoi numerosi ritratti (a Luigi XIV e Colbert, quello sulla tomba del Mazzarino e l’autoritratto) nei quali egli, unico forse tra gli scultori francesi di valore di questi anni a non aver mai messo piede in Italia, si dimostra il solo capace di intendere la lezione del Bernini, assunta evidentemente attraverso la presenza dello scultore italiano a Parigi (dove lascia non a caso il busto di Luigi XIV).
Mentre gli scultori si affollano a Versailles e le città della provincia francese tentano di emulare in ogni modo lo stile di corte, Pierre Puget, il più grande scultore barocco del Seicento francese, lavora appartato tra Marsiglia, Tolone e la Liguria.
Un suo tentativo di inserimento nella committenza ufficiale viene rapidamente frustrato dal crollo della fortuna del suo protettore, il sovrintendente Nicolas Fouquet, nemico mortale di Colbert; ma subito dopo questo fallimento inizia il periodo genovese dello scultore (1661-1667), probabilmente il più felice della sua attività.
Le figure patetiche e tormentate di Puget denunciano indubbiamente il debito contratto, nel corso di una giovanile esperienza a Roma, innanzitutto verso il Bernini; tali premesse sono tuttavia superate nella creazione di uno stile che proprio nella sua drammaticità impetuosa trova i risultati più originali, come nel Milone di Crotone del Louvre o nei capolavori genovesi, dal San Sebastiano in Santa Maria in Carignano all’Immacolata in San Filippo Neri.
La scultura nel resto d’Europa
Una larga parte della scultura fiamminga del Seicento vive nel mito di Duquesnoy che, lasciata la patria in età ancora giovanile, non vi farà mai più ritorno: a Bruxelles rimangono però il padre e soprattutto il fratello, Jérôme Duquesnoy il Giovane, entrambi scultori. Quest’ultimo, che a sua volta trascorre diverso tempo in Italia, impiega largamente al suo ritorno modelli e schemi desunti dalla scultura romana, operando una trasposizione del classicismo del fratello, ma più fredda ed impassibile, come nella tomba del vescovo Antoine Triest in San Bavone a Gand, che gli varrà la celebrità.
Al classicismo un po’ secco dei cultori di Duquesnoy si contrappone un barocco largo e opulento, di estrazione rubensiana, diffuso dai maestri di Anversa. La loro produzione è sorprendente anche sul piano quantitativo, essi riempiono le chiese cittadine di statue, pulpiti, confessionali. I più noti sono Artus Quellin il Vecchio, cui si deve la ricchissima decorazione, interna ed esterna del municipio di Amsterdam, e Lucas Faydherbe, che di Rubens è allievo e protetto (suo è l’altare di Saint Rombaut a Malines).
Le corti principesche della Germania e dell’Europa centrale per il primo quarto del Seicento prediligono quello stile internazionale, raffinato e sottile fino alla morbosità, che in pittura si esprime nel modo più tipico in Bartholomaeus Spranger. A diffondere modi analoghi in scultura sono gli allievi nordici del Giambologna, formatisi a Firenze a fianco del maestro: gli olandesi Hubert Gerhardt e Adriaen De Vries o il bavarese Hans Reichle.
Un itinerario degli spostamenti di questi scultori serve a rendere l’idea delle dimensioni e della capillarità di questo fenomeno: Hubert approdato in Germania nel 1581, è attivo ad Augusta per i Fugger, per il duca di Baviera, per l’arciduca Massimiliano a Innsbruck e per l’imperatore Rodolfo II a Praga; a Praga trascorre gran parte della propria esistenza il DeVries, lavorando però anche per i Savoia o per il re Cristiano IV di Danimarca; Reichle infine è attivo a Bressanone per il cardinale d’Austria, invia opere a Danzica, ma lavora soprattutto ad Augusta, lasciando in città almeno un capolavoro, il gruppo bronzeo di San Michele sulla facciata del municipio.
È solo alla fine del secolo che le famiglie regnanti e gli ordini religiosi delle corti del cuore d’Europa si aprono al barocco: in Austria in particolare, contemporaneamente all’attività architettonica di Johann Bernhard Fischer von Erlach e spesso in relazione con quella, lavorano Balthasar Permoser, più tardi attivo allo Zwigler di Dresda, o Matthias Rauchmiller, che è tra gli autori delle sculture della Colonna della peste di Vienna: in entrambi i casi si tratta di premesse che troveranno il loro naturale svolgimento nella grande scultura rococò austriaca e bavarese.
Caratteri assolutamente peculiari e ben riconoscibili presenta la scultura del Seicento in Spagna. Oltre agli scenografici e sempre più complessi retabli ereditati dalla tradizione cinquecentesca, abbondano le sculture lignee accesamente policrome: si tratta per la gran parte di Madonne addolorate ed Immacolate, Crocifissi, Cristi morti o alla colonna, monaci ed asceti di un realismo esasperato, drammatico, di un patetismo convulso e tragico.
Un estremizzato intento verista giunge ad applicare talora capelli veri ed occhi di vetro a queste sculture, rendendone ancor più impressionante e allucinato l’aspetto. Nell’abbondante produzione scultorea coeva delle colonie spagnole d’America il livello di qualità è sensibilmente inferiore ai prodotti della madrepatria e sconfinano spesso nel grottesco.
Tra i maggiori esponenti di questo tipo di statuaria eminentemente devozionale è Gregorio Fernández, i cui stupendi Cristi morti e Crocifissi (a Valladolid, Madrid, Léon), dagli occhi ancora semiaperti e con le labbra livide, schiuse a mostrare i denti, sono percorsi da fiumi di sangue mentre la policromia esaspera i segni delle percosse e la macerazione della carne in un crescendo immaginativo che sembra non conoscere limiti, giocando sui tasti del realismo, del patetico, del sensuale.
Una profonda esigenza di realismo è alla base anche della scultura di Alonso Cano. Personalità multiforme di architetto, scultore e pittore, Cano si forma in gioventù nella bottega sivigliana di Francisco Pacheco, dove ha modo di incontrare Velázquez: rispetto alle immagini tetre e agonizzanti di Fernández, le sue giovani Madonne ed i suoi Santi dall’aria quasi infantile non mancano mai di una eleganza delicata e idealizzante e sono risolti in un plasticismo sintetico che verrà portato a ulteriori conseguenze dal suo miglior allievo, Pedro de Mena, le cui figure mistiche, di concentrata essenzialità ricordano la pittura di Zurbarán.