La Scuola italiana di ingegneria
Nel secondo dopoguerra, nei due decenni in cui il Paese passa dalla ricostruzione al miracolo economico, l’ingegneria italiana si impone all’attenzione internazionale con una serie di opere strutturali di grande originalità.
Dopo la Liberazione, le occasioni per realizzare grandi strutture si susseguono numerose. Non è ancora finita la ricostruzione delle migliaia di ponti demoliti che già si avvia l’epica impresa dell’Autostrada del Sole. Nel frattempo, i grandi eventi di rilevanza internazionale, dalle Olimpiadi di Roma del 1960 alle celebrazioni del centenario dell’Unità a Torino nel 1961, richiedono la realizzazione di coperture di grande luce. E poi ci sono gli hangar e le stazioni negli aeroporti internazionali, i grattacieli a Milano e a Roma.
In questo fervore operativo prende corpo una vera e propria scuola di ingegneria. La sottilissima volta minutamente ondulata di Pier Luigi Nervi (1891-1979), l’avveniristica superficie minima del ponte sul Basento di Sergio Musmeci (1926-1981), il cavalletto strallato omogeneo in cemento armato precompresso di Riccardo Morandi (1902-1989), il ponte a travata sobriamente sagomato di Silvano Zorzi (1921-1994) sono le figure di un’ingegneria Italian style che va a occupare un posto di primo piano nel panorama dell’ingegneria internazionale.
A spiegare il paradosso per cui un Paese in forte ritardo tecnologico può esprimere improvvisamente un’ingegneria così avanzata non basta il talento di alcuni protagonisti. Nella prospettiva storica, l’exploit dell’ingegneria made in Italy appare come il momento culminante di una lunga sperimentazione, iniziata con l’avvento del cemento armato ai primi del Novecento e proseguita senza interruzioni negli anni dell’autarchia e della Seconda guerra mondiale. Su questo percorso, l’impegno di alcuni scienziati eredi della tradizione accademica innescata già negli Stati preunitari, in stretta collaborazione con una generazione particolarmente prolifica di progettisti, conduce infine alla maturazione di una maniera originale di progettare e costruire grandi strutture in cemento armato.
Ma l’apparizione dell’ingegneria made in Italy nel firmamento dell’ingegneria mondiale è un fenomeno tanto esaltante quanto fulmineo. Già negli anni della crisi immediatamente successiva al boom economico la meteora risulta scomparsa. E nell’attività successiva, a parte alcune code e qualche eccezione, l’opera strutturale italiana non riuscirà più a recuperare l’identità e l’autorialità del periodo aureo.
L’egemonia del cemento armato
In Italia l’ingegnere moderno nasce negli Stati preunitari precocemente, nell’immediata scia delle ingegnerie che si vengono delineando nei Paesi first comers. Tuttavia, solo più tardi, con l’avvento del cemento armato, assumerà la fisionomia specifica del progettista strutturale.
Durante l’Ottocento, infatti, mentre nelle università si consolida una robusta tradizione scientifica, nei vari corpi dello Stato l’ingegnere assume il profilo professionale del tecnico burocrate. È una figura con competenze molteplici: idraulico, agrimensore, architetto civile che opera soprattutto nella modernizzazione delle grandi sistemazioni catastali, nello sviluppo della rete stradale, nella bonifica delle zone paludose.
La realizzazione delle strutture metalliche, invece, è generalmente affidata a imprese e a progettisti stranieri. È vero che anche ingegneri italiani progettano alcuni dei tanti ponti sospesi disseminati sul territorio e delle centinaia di ponti ferroviari costruiti con lo sviluppo della rete nazionale dopo l’unificazione del Paese. Ma questi hanno acquisito all’estero le competenze necessarie per la progettazione e la costruzione delle strutture in ferro. Come Alfredo Cottrau (1839-1898) che, a partire dal 1870, sviluppa un’estesa attività imprenditoriale con l’Impresa industriale italiana di costruzioni metalliche. E la stessa Società nazionale officine di Savigliano, che pure negli ultimi due decenni del secolo raggiunge una propria autonomia e una dimensione nazionale, ingaggia come direttore l’esperto ingegnere svizzero Jules Röthlisberger (1851-1911), allievo di Karl Culmann al Politecnico di Zurigo. È lui il progettista delle opere più importanti, compreso il ponte di Paderno sull’Adda inaugurato nel 1889, giustamente considerato, con quelli di Alexandre-Gustave Eiffel (1832-1923), tra i ponti più belli del mondo, con la sua arcata di 150 m di luce, dimensionata con l’elegante metodo analitico e grafico dell’ellisse di elasticità.
Sarebbe però inesatto parlare di ritardo generale nello sviluppo ottocentesco dell’ingegneria italiana. Nel frattempo, infatti, sul versante scientifico la ricerca italiana partecipa in prima linea, con i contributi di Federico Menabrea (1809-1896), di Alberto Castigliano (1847-1884), di Luigi Cremona (1830-1903), a una delle fasi più entusiasmanti nello sviluppo della meccanica: quei «trent’anni straordinari», per usare le parole di Edoardo Benvenuto (1940-1998), tra il 1850 e il 1880, in cui per strade diverse (e la via piemontese non è la meno importante) si arriva alla sistematizzazione pressoché definitiva della ‘teoria classica’, con la conseguente messa a punto di strumenti semplici e rapidi per il calcolo delle strutture più complesse.
L’avvento del cemento armato, alla fine del secolo, imprime una svolta drastica allo sviluppo dell’ingegneria in Italia (e dell’edilizia in generale). Rispetto alla costruzione metallica, infatti, il cemento armato presenta una maggiore compatibilità con lo stato artigianale dell’edilizia italiana. E, dopo un periodo di iniziale scetticismo da parte dell’ambiente accademico, anche nel settore scientifico l’attenzione si concentra interamente sul nuovo materiale: tant’è che, in pochi anni, la struttura metallica scomparirà dalla scena produttiva italiana, per riapparire solo in pochissimi episodi.
Ad agevolare l’inserimento del cemento armato nell’assetto della scienza delle costruzioni, sviluppata in precedenza con esclusivo riferimento alla struttura metallica, sono i due più eminenti rappresentanti della disciplina: Camillo Guidi (1853-1941), che nel 1906 inserisce l’argomento in appendice al suo diffusissimo testo Lezioni sulla scienza delle costruzioni, e Silvio Canevazzi (1852-1918), che dopo una serie di successivi affinamenti nel 1904 pubblica Ferrocemento (cemento armato, smalto cementizio armato). Formule di elasticità e di resistenza.
In entrambi i casi l’iniziale pregiudizio per una tecnica considerata troppo rudimentale è superato grazie alla contiguità degli scienziati con alcuni protagonisti della fase pionieristica del cemento armato. Guidi ha tra i suoi allievi Giovanni A. Porcheddu (1860-1937), uno dei più importanti agenti del sistema Hennebique. Canevazzi insegna a stretto contatto con Attilio Muggia (1861-1936) che, a sua volta, è un agente dello stesso sistema francese.
Comincia così quel proficuo interscambio tra scienza e tecnica che resterà uno dei capisaldi della Scuola italiana. In questo clima a Torino un altro giovane allievo di Guidi, Arturo Danusso (1880-1968), inizia la sua avventura, che scorrerà sempre sul doppio binario della teoria e della sua applicazione pratica. Mentre a Bologna, della compresenza di Canevazzi e Muggia approfitta un altro allievo eccellente, Pier Luigi Nervi, che inizia qui la sua attività di progettista specialista nel progetto e nella costruzione di strutture in cemento armato.
La sperimentazione su modelli e il sistema Nervi
Operando sul doppio fronte della ricerca teorica e della progettazione, Danusso matura la convinzione che la teoria classica sia inadeguata a descrivere il comportamento statico della struttura in cemento armato.
Il calcolo analitico, messo a punto con riferimento al comportamento del materiale in fase elastica, non può tener conto delle risorse nascoste che la struttura in cemento armato attiva nella fase iniziale della deformazione plastica, quando tende a scaricare parti, che in regime elastico risulterebbero eccessivamente caricate, se vi sono altre parti di essa, inizialmente meno impegnate, in cui gli sforzi possono emigrare a beneficio della stabilità dell’insieme. Partendo da questa considerazione, peraltro largamente condivisa, Danusso, anziché impegnarsi per l’affinamento dello strumento analitico, come stava facendo Gustavo Colonnetti (1886-1968), apre una strada nuova in Italia per il calcolo e la verifica delle strutture, basata sulla sperimentazione empirica.
Da un lato, stimola i progettisti a esplorare liberamente il mondo delle nuove forme resistenti che il cemento armato consente di realizzare, senza lasciarsi condizionare dai limiti della teoria, usando l’intuizione nella fase dell’ideazione.
Dall’altro, istituisce già nel 1931 il laboratorio Prove modelli e costruzioni nel Politecnico di Milano. Qui, due anni dopo, entra in funzione la sezione della fotoelasticità, procedimento ottico che consente di ‘vedere’ la distribuzione delle tensioni, e nel 1935 la sezione grandi modelli, attraverso i quali è possibile indagare direttamente lo stato di sollecitazione. Inizia così un’intensa e continua attività di supporto alla progettazione di strutture in cemento armato complesse e altamente iperstatiche, dalle dighe, ai ponti, agli edifici alti, che dal 1951 proseguirà e si amplierà nel laboratorio dell’ISMES (Istituto Sperimentale Modelli e Strutture) istituito dallo stesso Danusso a Bergamo.
Le sollecitazioni di Danusso a mettere in atto una visione sintetica del comportamento statico della struttura si incontrano, all’inizio degli anni Trenta, con l’attività che Nervi, con lo stesso orientamento, stava autonomamente conducendo da alcuni anni. Dopo le strutture del Teatro Banchini a Prato, o del Teatro Augusteo a Napoli (la cui moderna plasticità risultò visibile solo nella fase del cantiere), dopo le dinamiche strutture esibite dello stadio Berta a Firenze, che gli procurarono un’immediata, stupefacente fama internazionale, dalla stessa impostazione intuizionista e sperimentale nascono nel 1936 le aviorimesse per l’aeronautica militare. Qui finalmente la collaborazione tra Nervi e Danusso può concretizzarsi con le prove eseguite nel laboratorio di Milano su un modello di celluloide.
Negli stessi anni dell’autarchia e della guerra, Nervi si impegna, con la sua impresa Nervi & Bartoli, in una sperimentazione parallela, volta a reinventare il modo di fabbricare le strutture in cemento armato. Il problema da risolvere è il costo elevato delle centine e casseforme necessarie per il getto in opera, che rischia di vanificare il risparmio di materiale dovuto all’efficienza statica della complessa struttura. E non si tratta soltanto di economia spicciola: «La cassaforma in legname costituisce un passaggio obbligato attraverso forme proprie del legno, che limita la libertà della struttura cementizia» scrive Nervi in Scienza o arte del costruire? (1945). È necessario dunque inventare un procedimento per costruire la struttura in modo più semplice ed economico (perché più adatto alla natura del materiale).
Nasce da questa esigenza il sistema Nervi, che si basa su due geniali espedienti: la prefabbricazione strutturale e il ferrocemento.
La prefabbricazione strutturale consiste nel confezionare a piè d’opera piccole parti e nell’unire poi i pezzi prefabbricati con getti di ‘saldatura’, ripristinando integralmente la monoliticità e la continuità strutturale. È lo stratagemma escogitato nella costruzione della seconda serie delle aviorimesse per l’aeronautica (le sei di Orvieto, Orbetello, Torre del Lago), quando lo stesso complicato intreccio degli archi della prima serie viene eseguito, questa volta, senza cassaforma, con il solo ausilio di un leggerissimo ponteggio mobile.
Il ferrocemento è un inedito composto messo a punto negli anni della guerra, nella costruzione di barche. È un feltro composto di reti metalliche inglobate in un impasto di cemento e sabbia, adatto alla realizzazione di solette sottili, che sfruttano la resistenza per forma. Con due, nuove, fondamentali proprietà: strutturalmente si comporta come un materiale omogeneo; il confezionamento non richiede la cassaforma, in quanto la rete d’armatura può trattenere l’impasto applicato direttamente a mano.
Perfezionato attraverso numerose esperienze minori, il sistema si rivela adatto alla realizzazione di grandi coperture. Ed è questa la vera, straordinaria invenzione di Nervi. Nel 1947, per il salone B dell’Esposizione di Torino, saldando in sito piccoli ‘conci d’onda’ in ferrocemento dello spessore di soli tre centimetri, prefabbricati manualmente a piè d’opera, l’ingegnere costruisce una volta a botte di oltre 90 m di luce, con rapidità ed economicità straordinarie.
Su questa strada, nelle grandi coperture minutamente ondulate o nervate dei capolavori della maturità di Nervi, si completa un’interpretazione assolutamente originale della volta sottile, con una strategia tecnologica che nel dopoguerra anche a livello internazionale diventa uno dei motori del rilancio in grande stile della struttura in cemento armato.
Gustavo Colonnetti e la precompressione
Un’altra innovazione basilare per la rivitalizzazione della struttura in cemento armato è la tecnica della precompressione. La difficoltà di realizzare luci ampie, a causa soprattutto della scarsa resistenza a trazione del calcestruzzo – che nella volta sottile viene superata per via geometrica sfruttando la resistenza per forma – con la precompressione è aggirata invece per via meccanica, approfittando della possibilità del composto armatura-calcestruzzo di innescare stati di coazione.
Mentre alla base dello sviluppo delle volte sottili, come abbiamo visto, c’è il sodalizio tra Danusso e Nervi, il protagonista assoluto dello sviluppo del cemento armato precompresso è un altro scienziato, Gustavo Colonnetti, anche lui esponente prestigioso della scuola torinese.
Convinto assertore della necessità di indagare le strutture al di là della teoria classica dell’elasticità, Colonnetti ha studiato a lungo sia il comportamento del corpo elastoplastico sia gli stati di coazione. E quando, sul finire degli anni Trenta, durante un giro di conferenze a Parigi viene affascinato dagli esperimenti di Eugène Freyssinet (1879-1962), intraprende un’efficacissima opera di divulgazione della precompressione in Italia. In quella ‘rivoluzione dell’arte del costruire’ riscontra, infatti, una geniale applicazione delle proprie teorie, al fine di ottimizzare il comportamento strutturale del cemento armato.
Con questo entusiasmo il 1939 diventa un anno particolarmente operoso. A settembre elabora un sistema di calcolo per le travi ad armatura preventivamente tesa; a dicembre deposita un brevetto per travi precompresse, che sintetizza il meglio dei sistemi già messi a punto dallo stesso Freyssinet e, in Germania, da Franz Dischinger (1887-1953).
Ma siamo in piena autarchia, a un passo dall’entrata in guerra, e non è certo il momento più adatto per introdurre innovazioni nell’impiego del cemento armato. Ciò non basta ad arrestare l’azione di Colonnetti. Durante il conflitto, prosegue il suo lavoro nel Campo di internamento universitario italiano, organizzato con la Scuola di ingegneria di Losanna per consentire a giovani universitari fuggiti dall’Italia di proseguire gli studi. Nel Campo transitano alcuni degli ingegneri che saranno gli artefici della nuova tecnologia della precompressione in Italia: Franco Levi (1914-2009), Aldo Favini (1916-2013), Silvano Zorzi.
E quando, richiamato a Roma nel dicembre del 1944 come presidente del CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche), Colonnetti diviene uno dei grandi registi della ricostruzione, lo sviluppo del precompresso è una delle priorità. Nel luglio del 1945 viene istituito, presso il Politecnico di Torino, il Centro di studio sugli stati di coazione elastica, la cui direzione è affidata a Levi. Nel 1947 viene varato il decreto legge che regola l’impiego delle strutture precompresse. Nel 1949 si costituisce l’Associazione nazionale italiana del cemento armato precompresso.
L’effetto dell’azione promozionale è immediato. Tra il 1949 e il 1951 si costruiscono i primi ponti in cemento armato precompresso: quello sul Samoggia di Giuseppe Rinaldi, collaudato nel marzo del 1950; il ponte sull’Elsa di Riccardo Morandi, completato a settembre dello stesso anno; il ponte per l’impianto sul Mucone, del 1951, del più giovane Zorzi.
In queste primissime opere lo schema statico è quello più semplice, la trave appoggiata, e la tecnica è quella più comune a cavi scorrevoli post-tesi. È una fase sperimentale e il cantiere del precompresso diventa luogo ideale per mettere a punto sul campo la necessaria collaborazione fra teorici e progettisti. Come stabilito nel decreto del 1947, infatti, è il Centro studi delle coazioni elastiche che approva i progetti e collauda opere e brevetti.
Per i progettisti più appassionati, il precompresso spalanca un nuovo, stimolante campo sperimentale. Da questa rivoluzionaria tecnologia nasceranno le inedite, stupefacenti strutture di Morandi e la stessa magia alimenterà il più sobrio, ma non meno sofisticato rinnovamento stilistico che Zorzi condurrà sugli schemi strutturali più semplici.
Dalla ricostruzione al boom economico
Con la sperimentazione di Nervi sulle volte sottili e con i primi ponti in precompresso siamo già entrati nel vivo della ricostruzione postbellica: è la fase in cui si innesca un periodo di straordinaria operatività per l’ingegneria italiana, che finalmente può applicare nella realizzazione di grandi piani infrastrutturali gli esiti di linee sperimentali lungamente elaborate negli anni precedenti.
Nella ricostruzione delle migliaia di ponti demoliti durante il conflitto, l’arco in cemento armato ordinario, che ha avuto ampia diffusione nel periodo tra le due guerre, continua a dominare la scena. Lo stesso Morandi, che pure è già intensamente impegnato con martinetti e trefoli, nella ricostruzione del ponte San Niccolò a Firenze, fatto saltare con tutti gli altri nella notte del 3 agosto 1944, ripropone un arco ribassato risultante dalla ricerca di una soluzione ‘a flessibilità confrontabile’ lungo l’intera luce.
Sebbene ampiamente collaudata, la tipologia del ponte ad arco riaccende anche l’interesse della scienza oltre che dei progettisti. Lo dimostra una sottile linea sperimentale che si snoda tra le minute vicende della ricostruzione e che consiste nella riproposizione di uno dei tipi strutturali messi a punto da Robert Maillart (1872-1940): il ponte a volta sottile con impalcato irrigidente. È una struttura che funziona, grosso modo, come un ponte sospeso ribaltato. L’eleganza dello schema affascina i giovani, progettisti e teorici. Il ponte sul Nera e il ponte sul Frigido sono progettati nel 1947 da due esponenti della scuola romana, Arrigo Carè (1919-2004) e Giorgio Giannelli (1918-1985), a stretto contatto con il teorico Giulio Ceradini (1918-2005), che nei tre anni precedenti ha studiato la tipologia nel Laboratorio federale di prova sui materiali di Zurigo. In seguito, nel 1955 il ponte sul Corace e nel 1956 il ponte sul Vernotico sono realizzati da Adriano Galli (1904-1956) e Vincenzo Franciosi (1925-1989), che tengono viva la solida tradizione della scuola napoletana.
Sulla fase della ricostruzione vera e propria, mirata al ripristino del patrimonio distrutto durante la guerra, s’innesta, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, un vasto programma di nuove opere edilizie e infrastrutturali. È il periodo, breve e straordinario, del miracolo economico (più o meno coincidente con la presidenza della Repubblica di Giovanni Gronchi). Nel giro di pochi anni, dallo stato di cronica arretratezza l’Italia balza direttamente nel piccolo gruppo dei Paesi più sviluppati. Un salto acrobatico che ha indotto recentemente gli storici dell’economia a definire il Paese ritardatario di successo sulla via della modernizzazione.
È la fase in cui la Scuola italiana di ingegneria si consolida sul campo. Non solo con le opere dei suoi protagonisti più noti, ma grazie alla diffusa collaborazione nella pratica fra due intere generazioni di teorici e progettisti: i maestri Colonnetti e Danusso, affiancati dagli allievi Levi, Giulio Pizzetti (1915-1990), Guido Oberti (1907-2003), Ceradini; i progettisti, Giulio Krall (1901-1971), Nervi, Morandi, Carlo Cestelli Guidi (1906-1995) inseguiti da vicino dai più giovani Zorzi, Musmeci, Carè e Giannelli, Galli e Franciosi.
L’Autostrada del Sole, primo tronco di un vasto e ambizioso piano autostradale, promosso nel 1955 dal ministro Giuseppe Romita, destinato a favorire il trasporto automobilistico privato, per l’ingegneria strutturale ha un effetto propulsivo straordinario, paragonabile a quello che il piano Ina-Casa (che è entrato nel secondo settennio) esercita sull’architettura.
È anche l’occasione per la definitiva affermazione del cemento armato, sia ordinario sia precompresso: solo due, su circa 400, saranno i ponti in acciaio, entrambi progettati da Fabrizio de Miranda (n. 1926).
Il rapido avvio della costruzione (il progetto di massima era già stato elaborato, tra il 1953 e il 1955, da Francesco Aimone Jelmoni, 1910-1991) è seguito da una straordinaria efficienza nella fase esecutiva. Il 19 maggio 1956 si posa il primo cippo chilometrico a San Donato Milanese e già il 4 ottobre 1964 sono aperti al traffico i 750 chilometri complessivi. Il segreto della rapidità sta nella frammentazione dei lavori in piccoli lotti, ciascuno di pochi chilometri. La conseguenza è che nei tanti appalti-concorso le opere vengono ridisegnate una a una. Nella dimensione del piccolo cantiere il vantaggio della standardizzazione viene meno. E alla fine, nella varietà dei ponti e dei viadotti, la ‘strada dell’Unità’ diventa un repertorio completo delle diverse anime della Scuola italiana.
Alla travata o al portale in precompresso vengono affidati gli attraversamenti dei fiumi più prestigiosi (il Po, l’Arno, il Tevere), con soluzioni, per lo più isostatiche, elaborate dagli specialisti della tecnologia, Zorzi, Morandi, Cestelli Guidi, Castiglia, Levi, Turazza. Sono questi i cantieri nei quali la collaborazione tra teorici e progettisti viene istituzionalizzata: l’apposito Ufficio collaudi, che dal maggio 1958 affianca i direttori dei lavori, si avvale della collaborazione del Centro studi delle coazioni elastiche.
Contemporaneamente l’arco in cemento armato di grande luce, con la sua eleganza, svolge il ruolo della primadonna nel tratto appenninico. Nello spazio di poche decine di chilometri si susseguono alcuni dei ponti più belli del Novecento italiano: il viadotto sull’Aglio di Oberti, il Poggettone e Pecora Vecchia di Carè e Giannelli, i ponti sul Merizzano e sul Gambellato di Krall, quello sul Sambro di Morandi.
Ma il vero artefice di un’opera così imponente, portata a termine in tempi tanto rapidi, è il piccolo cantiere italiano (disseminato lungo tutto il percorso). A restituire il carattere epico e artigianale della grande impresa sono la centina per il getto in opera dei ponti, una splendida incastellatura di tralicci tubolari in acciaio disposti a ventaglio, e i temerari Blondin tipo Cruciani, teleferiche a falconi oscillanti utilizzate per la distribuzione dei getti.
All’opera collettiva per eccellenza dell’ingegneria manca l’apporto del suo più importante protagonista, Nervi. In compenso negli stessi anni la sua opera sta entrando in tutte le case con le immagini televisive delle Olimpiadi di Roma del 1960.
Dopo la realizzazione del Salone dell’automobile di Torino, Nervi ha avuto i più ampi riconoscimenti in campo internazionale. Numerose, autorevoli monografie ne illustrano l’opera; i suoi stessi scritti spiegano i principi, i metodi e i procedimenti; le conferenze e le tante lauree honoris causa nelle più prestigiose università confermano l’interesse del mondo scientifico per il suo lavoro. Eppure, la definitiva sua consacrazione tra i maestri dell’ingegneria del Novecento avviene tra il 1957 e il 1962, «periodo questo particolarmente intenso», sottolinea lo stesso ultrasettantenne ingegnere nell’introduzione a Nuove strutture (1963), ultima puntata della sua autobiografia saggistica, iniziata con Scienza o arte del costruire? e proseguita con Costruire correttamente (1955).
Nella circostanza, con la sua impresa Nervi & Bartoli l’ingegnere progetta e costruisce in pochi mesi quattro autentici capolavori. Il Palazzetto dello sport al Flaminio, in cui la cupola di 60 m di diametro sostenuta da 36 cavalletti radiali è disegnata all’interno da una minuta trama di nervature romboidali. Il Palazzo dello sport all’Eur, coperto da una cupola di 100 m, fortemente ribassata e plasmata con fitte onde radiali. Lo Stadio Flaminio, scandito all’esterno dalla ripetizione dei telai delle gradonate, sulle quali spicca la snella pensilina dal profilo corrugato. Il viadotto di corso Francia, sostenuto da piloni sagomati, la cui sezione, cruciforme alla base, vira seguendo una rigata verso il rettangolo in sommità.
Nell’insieme le forme architettoniche appaiono piuttosto tradizionali, con una netta predilezione per le curve simmetriche. L’originalità e la modernità stanno nelle minute modellature della struttura in cemento armato: trame e ondulazioni delle cupole e delle volte, sagomature dei pilastri.
In queste forme si coglie il tratto inconfondibile dell’architettura di Nervi. Le superfici, sebbene ricche e articolate come è tipico della decorazione, in realtà riproducono fedelmente il flusso delle tensioni all’interno della struttura. Sfruttando la natura di pietra fusa del cemento armato, la forma segue, punto per punto, l’andamento delle sollecitazioni. Nel carattere minuziosamente descrittivo, la sincerità strutturale, che rimanda alla tradizione ingegneristica moderna, assume una sua personalissima intonazione. L’immagine non si accontenta di evidenziare la congruità tra forma e struttura, ne ostenta la totale identificazione.
È il risultato della capacità di Nervi di intuire il comportamento strutturale, naturalmente. Ma anche delle potenzialità del sistema Nervi, di cui le opere olimpiche sono il teatro. Nonostante la dimensione, la costruzione delle articolate forme strutturali si svolge manualmente, in modo straordinariamente economico. Ampiamente collaudato in opere minori negli anni precedenti, il sistema Nervi viene applicato in tutte le sue varianti, escogitando di volta in volta la più conveniente combinazione tra pezzi da prefabbricare e getti di completamento in opera.
Quando Gronchi dichiara aperti i Giochi di Roma, il 25 agosto 1960, fervono già i preparativi per un altro evento di rilievo internazionale: le celebrazioni per il centenario dell’Unità d’Italia, a Torino. È un’altra occasione nella quale alcuni tra i più importanti protagonisti della Scuola italiana si confrontano direttamente.
Al concorso più ambito, l’appalto per la costruzione del Palazzo del lavoro, partecipano varie coppie illustri di architetti e ingegneri, da Roberto Gabetti e Aimaro Oreglia d’Isola con Morandi a Carlo Mollino con Musmeci. Ma vince anche qui Nervi, che più degli altri garantisce il rispetto dei tempi, ormai serratissimi. Anche se per costruire il colossale edificio in meno di un anno (da febbraio a dicembre del 1960) deve rinunciare alle sue più tipiche soluzioni strutturali in cemento armato, affidando la realizzazione degli spettacolari ombrelli di acciaio a Gino Covre (1892-1971) e alla ditta Antonio Badoni di Lecco.
A poche decine di metri, intanto, si erige il Palazzo delle mostre: una copertura a vela appoggiata su tre punti, ideata da Levi con la collaborazione di Nicolas Esquillan (1902-1989), che ha calcolato la volta molto simile del Centre des nouvelles industries et technologies (CNIT) di Parigi, in cemento armato precompresso. È l’ennesimo esempio di come la stretta collaborazione tra scienza e progettazione in questo aureo periodo produca risultati di grande rilevanza.
L’invenzione di Morandi
Nelle grandi realizzazioni del boom la partecipazione di Morandi è defilata. A Roma progetta il cavalcavia della via Olimpica. A Torino disegna la futuristica monorotaia sopraelevata. Per l’Autostrada del Sole firma alcuni ponti singolarmente sobri. Ma, parallelamente, l’ingegnere romano, alle prese con opere ben più impegnative, ha imboccato un percorso che lo condurrà presto a mettere a punto uno stile architettonico assolutamente unico.
Fin dai primi lavori degli anni Trenta è emersa la sua spiccata propensione a ridisegnare le più convenzionali strutture in cemento armato – ad arco, a travata, a telaio – con una maggiore leggerezza ed essenzialità. Nelle sue opere, i setti e le lastre curve delle classiche strutture in cemento armato sono scomposti in fasci di elementi lineari. Dalla continuità di superfici prevalentemente iperstatiche si passa a lineari sistemi di aste, preferibilmente isostatici, scanditi da evidenti cerniere. Applicata al classico ponte ad arco questa strategia conduce agli alleggerimenti dei ponti sull’autostrada Genova-Savona, della passerella sul Lussia, del ponte sullo Storms River (Sudafrica), prima di arrivare all’impressionante esilità del ponte sulla Fiumarella a Catanzaro, con il suo arco di oltre 230 m di luce.
Nel frattempo, in una sperimentazione iniziata negli anni della guerra, la strategia della leggerezza viene rafforzata dall’impiego sapiente e appassionato della precompressione. Autore di una serie di brevetti di dispositivi per la tensione dei cavi e di alcune prove sperimentali eseguite nell’ambito dell’impresa F.lli Giovannetti, dopo il pionieristico ponte sull’Elsa, Morandi fa leva sulla nuova tecnica per riproporre versioni ancora più sofisticate e ultraleggere delle tipologie strutturali di base: la travata isostatica Gerber, il telaio incernierato al piede, la trave bilanciata con tiranti sottesi.
È la strada che porta Morandi alla sua più spettacolare invenzione: la trave strallata su cavalletto bilanciato. La prima realizzazione nel grandioso ponte sulla laguna di Maracaibo (Venezuela), il più lungo del mondo con i suoi 9 chilometri, gli procura una fama internazionale paragonabile, tra gli italiani, solo a quella di Nervi.
Alla consueta disarticolazione in elementi lineari del pilone e dell’impalcato Gerber si aggiunge il sistema antenna-stralli, che rende le membrature più esili e l’insieme più imponente e spettacolare.
L’originalità del cavalletto strallato non consiste nella scelta della tipologia strutturale, già ampiamente collaudata nel campo della costruzione metallica, ma nella sua esecuzione con la tecnica del cemento armato precompresso, che prevede la modellazione artigianale degli elementi. Dal contrasto fra la leggerezza di struttura tirantata e la natura sostanzialmente muraria nasce la forza figurativa e simbolica del cavalletto strallato. Ne è pienamente consapevole Morandi, che nelle successive realizzazioni italiane – il viadotto del Polcevera a Genova soprattutto, ma poi anche il viadotto nell’ansa del Tevere alla Magliana (Roma) e gli hangar all’aeroporto di Fiumicino – estende l’impiego del cemento in coazione alla struttura complessiva. Appaiono alla fine plasmati in cemento persino gli stralli, evidentemente sollecitati a trazione e dunque di solito ragionevolmente di acciaio.
Ingegneria Italian style
All’inizio degli anni Sessanta la fama internazionale dell’ingegneria italiana dilaga in tutto il mondo. Le cupole di Nervi, che fanno da sfondo alla premiazione con la medaglia d’oro di Cassius Clay, ammirate da Grace Kelly durante una celebre visita in Italia, diffondono i simboli del miracolo italiano. Nel cavalletto strallato di Morandi si riconosce uno dei segni più monumentali del made in Italy. Alla mostra Twentieth century engineering al Museum of modern art di New York, nel 1964, in un succinto panorama mondiale, è incluso un numero elevatissimo di opere italiane.
Ma quali sono gli elementi fondamentali su cui si basa l’identità così spiccata che è venuta assumendo nel corso di queste vicende l’ingegneria strutturale italiana? L’artefice della Scuola di ingegneria italiana è una figura polivalente di scienziato, costruttore, designer. Figura che, se da una parte resta saldamente radicata nell’alveo del positivismo di stampo ottocentesco, dall’altra, assume una connotazione spiccatamente umanistica.
Il singolare positivismo umanistico, che distingue l’ingegneria italiana dalle altre, per es. quella anglosassone, è conseguenza del suo profondo legame con la storia culturale del Paese, dalla quale assorbe i principali caratteri. Il neoidealismo, prima di tutto. Sappiamo bene come non ci sia altro caso al mondo in cui un filosofo abbia influenzato tanto la cultura di un Paese, come Benedetto Croce nei confronti dell’Italia. La sua estetica, in particolare, è penetrata in tutti i settori della cultura, suscitando entusiasmi, alimentando vere e proprie fedi, innescando il più sofisticato dibattito, arrivando a forgiare il buon senso comune (anche di quella professionalità illuminata che si viene riscoprendo come una delle anime più originali del modernismo italiano). Particolarmente sensibile a questa influenza è l’ingegnere. Che anziché opporsi alla subordinazione della scienza rispetto alla cultura umanistica, ne diventa paradossalmente il più convinto assertore.
Poi, il cattolicismo. Anche nel dibattito che porta verso il concordismo tra scienza e fede religiosa, centrale nella cultura italiana, l’ingegnere è parte molto attiva. La tesi della reciproca compatibilità, basata, non sull’indipendenza della scienza (per quel che riguarda la conoscenza), ma sulla sua presunta natura metafisica e spiritualistica, trova nell’ingegnere il più entusiasta sostenitore. Soprattutto tra gli scienziati. Colonnetti parla di ingegnere aiutante di Dio e allude a una sostanziale equivalenza tra giustizia distributiva delle tensioni e giustizia divina. Danusso prospetta «l’ordine fisico (come) specchio analogico dell’ordine morale» (secondo il titolo di un suo saggio del 1965) e non perde occasione per tracciare suggestive analogie tra la meccanica e la vita.
Il futurismo, anche. L’affinità tra l’ingegneria e la più importante avanguardia italiana nasce da un’attrazione reciproca. L’iconografia futurista usa tutti i caratteri dell’ingegneria strutturale: positivismo, scientismo, tecnologismo, artigianalità. La macchina più adatta a evocare velocità, leggerezza, dinamismo è la struttura moderna. Nel dramma di Tommaso Marinetti Poupées électriques (1909) l’ingegnere è metafora non del buon senso comune, ma della genialità futurista. E, d’altra parte, non è nella tensistruttura progettata dall’ingegnere Guido Fiorini (1891-1965) che troviamo la trascrizione più fedele delle visioni di Antonio Sant’Elia (1888-1916)? Reciprocamente, infatti, l’ingegneria italiana assorbe dal futurismo il carattere figurativo, il lirismo, il gusto visionario.
Dal complesso di questi caratteri deriva la speciale italianità dell’opera strutturale. Che accomuna l’ingegneria di questi anni con il design, non a caso protagonista di un successo internazionale altrettanto eclatante. D’altra parte, il tavolo e il ponte condividono, oltre alla centralità dell’aspetto strutturale nella morfologia, una delle radici più profonde dell’Italian style: la conservazione della natura artigianale nell’oggetto tecnologicamente avanzato.
La scomparsa delle lucciole
Alla fine degli anni Sessanta il periodo aureo dell’ingegneria italiana si conclude bruscamente. Alla base di questa involuzione c’è il mutamento delle condizioni produttive, con il passaggio dall’eccezionale sviluppo degli anni del boom alla successiva crisi congiunturale, all’instabilità politica fino alle crisi energetiche e all’austerity degli anni Settanta.
Ma la quasi totale eclisse di opere d’autore nei decenni successivi al miracolo è anche la conseguenza di una trasformazione più generale e profonda del settore dell’ingegneria strutturale, che conduce, in un quadro più ampio, all’estinzione della figura classica del progettista di grandi strutture.
Con l’avvento dell’informatica e i mutamenti nelle modalità di applicazione dello strumento scientifico, da una parte, e con la specializzazione avanzante, dall’altra, il rapporto tra scienza e tecnica – così intenso e fecondo nel periodo aureo dell’ingegneria Italian style – diviene ora indiretto e mediato (in Italia addirittura accademicamente conflittuale). La grande struttura non è più l’opera individuale di un autore: è il prodotto, impeccabile, sofisticato, ma spersonalizzato del team multinazionale e plurispecialistico.
A impreziosire il declino dell’ingegneria italiana, il periodo aureo lascia varie code da cui scaturiscono alcuni memorabili capolavori postumi.
I viadotti anonimi e standardizzati della Salerno-Reggio Calabria (confrontati con quelli d’autore dell’Autostrada del Sole) restituiscono una delle immagini più chiare del declino della scuola italiana. Con due eccezioni: il viadotto Italia sul fiume Lao e il viadotto sulla fiumara dello Sfalassà, che trovano, entrambi, una nuova identità nel felice inserimento di gigantesche travi di acciaio tra le campate in precompresso.
C’è poi lo sforzo solitario di Zorzi che, pur accettando l’inevitabile egemonia del viadotto a travata, non si rassegna alla spersonalizzazione dell’opera strutturale e s’impegna nel disperato tentativo di sublimare la semplicità di quello schema attraverso l’accurato design. Operazione che lascia tracce, quasi invisibili, ma profonde, in alcuni viadotti di ultima generazione, per es. quello sul Gorsexio. E che lo porta a disegnare uno dei più bei ponti italiani del Novecento, il quasi sconosciuto ponte di Pinzano sul Tagliamento, un portale a tre cerniere di 163 m di luce, gettato senza centine.
Ma il più affascinante capolavoro postumo della scuola italiana è il ponte sul Basento a Potenza di Musmeci. Dal tentativo di ricavare scientificamente la forma minima, scaturisce uno dei simboli più originali ed efficaci dell’intera sperimentazione italiana: una forma plastica, possente e inedita, in cui la superficie in cemento diviene immagine speculare della membrana tesa.
Un capitolo a parte richiederebbero poi le tante opere realizzate all’estero dagli ingegneri italiani. Prima di tutto quelle di Nervi, vera archistar ante litteram. In architetture come la sede dell’Unesco a Parigi, la stazione degli autobus a New York, la torre di Montréal, l’ambasciata italiana a Brasilia, lo stile Nervi continua a diffondersi nel mondo. Mentre in patria riceve la definitiva consacrazione con la costruzione dell’Aula vaticana.
Contemporaneamente, anche nella generalizzata difficoltà di un reinserimento nel quadro internazionale, si registra qualche eccezione. Massimo Majowiecki (n. 1945) operando nel settore delle tensostrutture fin dagli esordi negli anni Settanta, fornisce contributi originali sul versante teorico con l’uso del calcolatore elettronico, con particolare riferimento alla interattività. Una sperimentazione che gli consente di realizzare opere importanti, in Italia e all’estero.
Così come Mario Petrangeli (n. 1938), allievo di Ceradini e di Morandi, che sa conquistare una dimensione internazionale, fino a misurarsi con la sfida del ponte strallato ferroviario: quello sul Po lungo la linea Alta velocità Bologna-Milano, inaugurato nel 2005.
Con queste e altre eccezioni, resta il fatto che nel suo insieme l’ingegneria italiana, dopo gli anni del miracolo, stenta a ritrovare una propria identità nelle nuove dinamiche sovranazionali. La generazione di Nervi, Morandi, Musmeci, Zorzi, Cestelli Guidi consegna ai posteri un cospicuo patrimonio di opere di altissima qualità. Ma non lascia eredi. Mentre si dissolve l’humus culturale ed economico in cui è cresciuta la figura demiurgica del progettista tuttofare protagonista dell’ingegneria made in Italy, i gloriosi studi dei protagonisti chiudono uno dopo l’altro. E vengono meno anche le condizioni che hanno consentito la sopravvivenza del cantiere artigianale, basato sul massiccio impiego di maestranze ancora legate alla gloriosa tradizione e tuttavia a buon mercato.
Tra le figure coinvolte nella pasoliniana «scomparsa delle lucciole» – metafora del dissolvimento della tradizione culturale italiana nel dilagante processo di omologazione – una delle più illustri è l’ingegnere.
Opere
C. Guidi, Lezioni sulla scienza delle costruzioni, Torino 1891.
S. Canevazzi, Ferrocemento (cemento armato, smalto cementizio armato). Formule di elasticità e resistenza, Torino 1904.
A. Danusso, Le autotensioni. Spunti teorici ed applicazioni pratiche, «Rendiconti del seminario matematico e fisico di Milano», 1934, 8, pp. 217-46.
G. Colonnetti, Scienza delle costruzioni, Torino 1941.
P.L. Nervi, Scienza o arte del costruire? Caratteristiche e possibilità del cemento armato, Roma 1945.
C. Cestelli Guidi, Il conglomerato precompresso. Teoria, esperienza, applicazioni, Roma 1947.
G. Boaga, B. Boni, Riccardo Morandi, Milano 1962.
Twentieth century engineering, New York 1964.
S. Musmeci, La statica e le strutture, Roma 1971.
Silvano Zorzi. Ponti e viadotti, Roma 1981.
Bibliografia
E. Benvenuto, La scienza delle costruzioni e il suo sviluppo storico, Firenze 1981.
E. Benvenuto, Contributi italiani alla scienza delle costruzioni, in Storia delle scienze, a cura di C. Maccagni, P. Freguglia, Busto Arsizio 1989, pp. 875-938.
T. Iori, Il cemento armato in Italia dalle origini alla seconda guerra mondiale, Roma 2001.
S. Poretti, Un tempo felice dell’ingegneria italiana. Le grandi opere strutturali dalla ricostruzione al miracolo economico, «Casabella», 2006, 739-40, pp. 6-11.
«Rassegna di architettura e urbanistica», gennaio-agosto 2007, 121-22, nr. monografico: Ingegneria italiana, a cura di T. Iori, S. Poretti.
T. Iori, S. Poretti, Pier Luigi Nervi. L’Ambasciata d’Italia a Brasilia, Milano 2008.
S. Poretti, Modernismi italiani. Architettura e costruzione nel Novecento, Roma 2008.
T. Iori, Pier Luigi Nervi, Milano 2009.
«Rassegna di architettura e urbanistica», maggio-dicembre 2012, 137-38, nr. monografico: Ingegneria oggi, a cura di T. Iori, S. Poretti.