La seconda rivoluzione neolitica: il Neolitico Ceramico
Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, Antichità, edizione in 75 ebook[1]
Il nuovo assetto insediativo e l’area levantina
Intorno al 7000 a.C. un cambiamento di ampia portata interessa il Vicino Oriente. In un periodo di tempo relativamente breve molti siti del Neolitico Preceramico vengono abbandonati e sorgono nuovi insediamenti con caratteri meno aggreganti rispetto al passato. In realtà non è solo il modello d’insediamento a cambiare, gli aspetti coinvolti sono molti: l’architettura, la tecnologia, le pratiche funerarie. Alcuni autori spiegano questa discontinuità tra Neolitico Preceramico e il successivo periodo con il deterioramento climatico e ambientale. Altri attribuiscono questa profonda trasformazione a una crescita demografica che deve aver causato tensioni sociali. Altri ancora preferiscono optare per una combinazione di fattori ecologici e sociali. È tuttavia probabile che la componente sociale abbia giocato un ruolo chiave nel determinare la fine del modello culturale preceramico.
Agricoltura e allevamento diventano attività sempre più economicamente significative, mentre si consolidano le testimonianze di bovini e maiali domestici. Gli insediamenti mostrano analogie tra area levantina e territori del medio Eufrate soprattutto per quanto riguarda la suddivisione degli spazi interni con strade e viottoli che determinano una certa pianificazione, così come la presenza di mura di recinzione dello stesso abitato. Esempi di questo tipo di schema sono documentati a ’Ain Ghazal in Giordania e a Mezraa-Teleilat nella Turchia sudorientale, anche se la qualità delle costruzioni è meno accurata rispetto al passato.
La produzione della ceramica, conosciuta già per pochi frammenti messi in luce in contesti del PPNB, diventa di uso più comune e, anche se risulta malamente cotta, appare sin dalla sua prima comparsa piuttosto elaborata per trattamento e decorazioni.
Durante il Neolitico Ceramico il Levante ha visto lo sviluppo di una miriade di entità culturali locali, tra le quali la più conosciuta, e anche la più antica, è lo Yarmuchiano. I siti sono distribuiti nella fascia a nord del Mar Morto e a sud del Lago Tiberiade, con caratteri che troviamo presenti a Tell es Sultan-Gerico livello IX e Wadi Raba. Gli insediamenti e l’architettura stessa sono meno standardizzati rispetto al periodo preceramico. Alcuni edifici sono circolari, altri rettangolari, altri ancora alla struttura rettangolare associano una specie di abside con fondazioni che lasciano pensare a elevati realizzati con materiale deperibile. Nella fase tarda del periodo gli edifici sono solo rettangolari. ’Ain Ghazal e Sha’ar Hagolan mostrano la pianta del sito articolata da strade e cortili, anche se non tutti i siti Yarmuchiani hanno queste caratteristiche. Le pratiche rituali risultano differenti dal passato. Non ci sono indicazioni per spazi specifici destinati al culto e le sepolture rivelano una grande varietà di deposizione: sepolture primarie e secondarie, con o senza corredo funebre, sotto al pavimento, in cista e, nel caso di infanti, in recipienti ceramici. Con una simile variabilità di comportamento nei confronti dei defunti è difficile riconoscere delle regole condivise.
Nell’Alta Mesopotamia tra VII e V millennio si succedono aspetti culturali del Neolitico Ceramico che si sovrappongono parzialmente sia dal punto di vista regionale che cronologico. Una delle più antiche culture del Neolitico Ceramico diffuse nella pianura dell’Iraq settentrionale è quella cosiddetta di Umm Dabaghiya, nome che deriva da un piccolo sito a sud-ovest di Ninive. L’insediamento copre meno di un ettaro, ma gli scavi hanno restituito interessanti resti architettonici. Accanto a poche e semplici case sono state messe in luce lunghe strutture suddivise in una serie di celle rettangolari interpretate come piccoli ambienti di stoccaggio. Dal sito provengono anche importanti pitture parietali che rappresentano scene di caccia all’onagro (asino selvatico). La caccia è determinante in questo sito, infatti l’84 percento dei resti animali è costituito di fauna selvatica come gazzelle e onagri, ma sono presenti, anche se in percentuale minima, animali domestici come pecore, capre, bovini e maiali. Le piante domestiche riguardano cereali e legumi. Umm Dabaghiya giace attualmente al di fuori del territorio ad agricoltura non irrigua. Questa condizione ha lasciato supporre che i resti di piante coltivate fossero frutto di scambio e non di produzione diretta. In ogni caso non è escluso che vi fossero state situazioni climatiche leggermente differenti tali da favorire un aumento della piovosità in queste aree. Altri siti associati a questo aspetto culturale sono Yarim Tepe e Tell Sotto. La ceramica di questo periodo è abbondante e riccamente decorata, molto simile a quella di poco successiva definita come Hassuna arcaica. In realtà alcuni autori assimilano gli aspetti Umm Dabaghiya proprio alla cosiddetta cultura Hassuna (6900-6200), i siti della quale si distribuiscono nella fascia pedemontana più estrema della Mesopotamia settentrionale in una zona al di sopra della linea dei 200 millimetri di piovosità annua, che garantisce la pratica dell’agricoltura non irrigua. La popolazione Hassuna, che può essere considerata la prima vera e propria cultura contadina di queste regioni, viveva in piccoli villaggi che non superavano i tre ettari, ma molti di essi coprivano meno di un ettaro e probabilmente costituivano delle fattorie. Le case, costruite in fango pressato intorno a cortili attrezzati con focolari esterni, erano a pianta rettangolare con l’interno suddiviso in più ambienti. Le stanze erano piccole, dotate di pavimenti intonacati, nicchie, forni e, a volte, pareti dipinte. Nel sito di Tell Hassuna oltre alle case era stato costruito un edificio centrale con pareti non intonacate e una serie di piccoli ambienti quadrati, simili a quelli rinvenuti a Umm Dabaghiya. Anche in questo caso è possibile che l’edificio sia stato destinato allo stoccaggio di beni. In uno di questi ambienti sono stati trovati più di 2000 cosiddetti “proiettili da fionda” in argilla e un centinaio di sfere, anch’esse in argilla. Questi oggetti sono stati interpretati come vere e proprie armi, mentre alcuni autori considerano la possibilità che si tratti di utensili destinati a prime forme di contabilità. Questo tipo di architettura suggerisce forme di immagazzinamento comunitario, non tanto per accumulare ricchezza, la cui esistenza richiederebbe anche un’élite consolidata in questo periodo ancora non emergente, quanto per proteggere beni alimentari comuni destinati al consumo o allo scambio. Si delinea, dunque, un meccanismo di gestione delle risorse acquisite che però non assurge ancora a sistema.
Altri particolari oggetti che compaiono proprio in questo periodo sono le cretulae, cioè grumi di argilla che presentano da una parte l’impronta dell’oggetto su cui la cretula veniva applicata, dall’altra l’impronta di un sigillo. I segni riconosciuti su questi materiali sono in genere le corde che chiudevano sacchi e cesti, il tessuto o la pelle con cui venivano coperti i vasi in ceramica e, in periodi successivi, i pioli di chiusura delle porte dei depositi. L’uso di questo tipo di oggetti garantiva il controllo su eventuali effrazioni dei beni immagazzinati.
La società Hassuna coltiva grano e orzo, ma ha una forte vocazione venatoria specialmente rivolta all’onagro e alla gazzella. È probabile si tratti di comunità stabili con una parziale mobilità. La ceramica prodotta ha un ingobbio color crema; spesso è dipinta in rosso con motivi lineari e geometrici, e sono presenti anche decorazioni applicate come occhi, orecchie, teste di animali.
In parte contemporanea ad Hassuna, ma leggermente più recente, è la cultura Samarra (6200-5800). Gli insediamenti si distribuiscono lungo i margini settentrionali dell’alluvium e sono i primi siti ad agricoltura irrigua. L’introduzione di sistemi d’irrigazione favorisce un maggior investimento da parte di questi gruppi sulla terra e quindi sulle attività agricole, una maggiore stabilità degli insediamenti e una economia di sussistenza che vede diminuire gradualmente la propria dipendenza dalla caccia, come è possibile osservare nei siti lungo il Tigri di Tell es Sawwan, una collina posta a poco più di 100 chilometri a nord di Baghdad nella provincia di Salah ad-Din, e di Choga Mami, nella piana di Mandali non lontano dal confine con l’Iran. In entrambi i siti gli scavi hanno messo in luce chiare tracce di canali d’irrigazione e di solide strutture murarie perimetrali. La casa cambia rispetto al modello tradizionale e assume, mantenendo uno schema a pianta rettangolare, una forma a T, anticipando gli edifici a pianta tripartita che saranno in seguito caratteristici per le residenze delle élite e per gli edifici religiosi. Questo tipo di costruzioni oltre ad avere funzioni residenziali presenta ambienti destinati alla conservazione dei cereali, ma anche luoghi probabilmente connessi a forme cultuali. Infatti sono da interpretare in questo modo le elaborate figurine femminili rinvenute in questi edifici. A Samarra è attribuita una ceramica fine, dipinta, decorata su di un fondo marrone con articolati motivi geometrici, e non mancano figure umane e uccelli. Oggetti in turchese, cornalina, ossidiana, alabastro e rame, provenienti dai siti Samarra, documentano una intensa attività di scambio tra Iran, Anatolia e Caucaso. È molto probabile che la stessa ceramica, particolarmente raffinata e decorata con motivi che richiamano forme simboliche attualmente per noi indecifrabili, fosse inserita in un circuito di scambio ritualizzato. Nella cultura Samarra si riscontrano, dunque, molti elementi di innovazione che possono essere riassunti in due aspetti fondamentali. Il primo riguarda l’organizzazione sociale: da un lato i gruppi Samarra mantengono un substrato di forma egalitaria, ma allo stesso tempo vi sono indizi che rivelano la crescita all’interno della società di famiglie o individui che assumono ruoli preminenti anche se forse ancora in forma effimera; il secondo aspetto è quello della sussistenza che va di pari passo con l’organizzazione sociale. La terra e i suoi prodotti diventano sempre più i protagonisti della scena economica, l’agricoltura e l’allevamento non sono più attività marginali, ma dominanti. Con l’introduzione dell’agricoltura irrigua il tempo e le energie vengono progressivamente rivolte al miglioramento e al controllo della produzione: un cambiamento certamente epocale, di cui percepiamo i segni tangibili, senza per questo comprenderne i dettagli.
Nel Vicino Oriente buona parte del VI millennio, e più precisamente il periodo compreso fra il 6000 e il 5200, è associato alla cultura Halaf. Per la prima volta materiali ceramici attribuibili a questi aspetti culturali sono venuti alla luce negli scavi di Carchemish, a sud-est di Gaziantep in Turchia, condotti da Sir Leonard Wolley nel 1912-13 e in quelli di Tell Halaf presso Mossul in Iraq effettuati da Max von Oppenheim tra il 1911 e il 1929. La ceramica recuperata in questi scavi testimonia una produzione fine dipinta, cui fu attribuito particolare rilievo. Le successive ricerche condotte dall’archeologo inglese Max Mallowan a Chaga Bazar, Tell Brak e Arpachiyah, in Siria settentrionale, e da Arthur Tobler a Tepe Gawra, a nord-est di Mossul, hanno permesso di definire con maggiore precisione questa cultura. I quattro tratti più significativi di Halaf riguardano in primo luogo la diffusione degli insediamenti in un territorio molto ampio comprendente a ovest la valle del Balikh, al centro buona parte della Mesopotamia settentrionale e a est le sponde del lago di Van. Il secondo tratto caratterizzante è l’architettura. La casa Halaf è costituita da una struttura circolare, erroneamente denominata tholos, il cui diametro varia da un metro per le strutture adibite a silos, fino a cinque metri per le case vere e proprie. Spesso annessi rettangolari alla struttura circolare offrono alla planimetria la tipica forma detta “a buco di serratura”, ma al contrario di quanto si pensasse fino a pochi anni or sono, nei siti Halaf oltre alle strutture circolari gli edifici rettangolari isolati non sono rari. Il terzo elemento qualificante sono i caratteri dell’insediamento. I siti sono in genere di piccole dimensioni, con una media di 1,5 ettari, spesso poco distanziati tra loro e con una bassa densità interna. In alcuni casi si tratta di semplici fattorie o accampamenti. Questi insediamenti mostrano un carattere bimodale, cioè da una parte vi sono siti di tipo permanente con una popolazione piuttosto stabile, dall’altra numerosi villaggi hanno costruzioni effimere di natura stagionale, il che denota una certa mobilità della popolazione. Non vi sono edifici con specifiche funzioni pubbliche o religiose, il culto si doveva svolgere soprattutto nell’ambito della sfera domestica. Nei costumi funerari non c’è alcuna standardizzazione ed è difficile riconoscere gerarchie emergenti all’interno della società. La maggior parte delle sepolture riguardano semplici fosse ovali o ellittiche con l’inumato collocato in posizione rannicchiata su di un fianco. Non mancano però sepolture multiple, secondarie e alcune tombe a grotticella, anche se più rare. Dai corredi, costituiti da vasi in ceramica e qualche ornamento, non sembra poter riconoscere individui preminenti, anche se è possibile che sia esistita una distinzione per classi di età. Il quarto tratto caratterizzante della cultura Halaf è la ceramica. Quella dominante è una ceramica fine dipinta, che ha attratto l’attenzione dei primi studiosi. In alcuni siti questa produzione raggiunge anche il 90 percento del materiale ceramico raccolto negli scavi. La decorazione mostra un ricco e articolato repertorio di motivi geometrici, ma un motivo-guida di questo periodo può essere considerato il bukranium, cioè la rappresentazione più o meno stilizzata del cranio di un bue, ricorrente in quasi tutti i siti Halaf. La ceramica costituisce, con i suoi repertori iconografici, uno strumento di identificazione e probabilmente di comunicazione simbolica, meccanismo forse già avviato in ambiente Hassuna e Samarra. Halaf non è una società gerarchizzata e ha una economia che mostra strategie di sussistenza basate sulla caccia, la pastorizia transumante e l’agricoltura. Le materie prime circolanti sono rare, soprattutto basalto, steatite e ossidiana, ed è molto probabile che siano i beni alimentari e la ceramica dipinta, strumento relazionale e di riconoscimento, a essere coinvolti come principali prodotti del sistema di scambio attraverso un meccanismo complesso di reciprocità. Le comunità Halaf si caratterizzano per un grande dinamismo demografico basato su vincoli familiari e inter-familiari con una struttura sostanzialmente egalitaria. Il modello d’insediamento sparso, creato dalla grande mobilità dei gruppi, si espande per fissione della comunità; una parte di essa abbandona il villaggio con l’obiettivo di occupare nuovi luoghi, ma mantenendo costantemente ridotte le dimensioni dell’insediamento. In questo modo una società poco strutturata come quella Halaf riesce a contenere un eventuale stress demografico riprendendo lo stile di vita tradizionale. Se di fatto non vi sono edifici pubblici, alcune strutture particolari, simili per funzione e planimetrie a quelli di Umm Dabaghiya, sono state messe in luce a Tell Sabi Abyad, nella provincia di Raqqa, in Siria settentrionale, ed a Yarim Tepe II nella piana del Sinjar, in Iraq settentrionale. Si tratta di una serie di piccoli ambienti a celle probabilmente destinati allo stoccaggio di beni. Cretulae, sigilli, gettoni-contatori (i cosiddetti tokens) provengono da vari siti Halaf e documentano in modo chiaro che il controllo delle merci, anche se a uso solamente interno al villaggio, era un meccanismo esistente e ben conosciuto. Per la grande omogeneità di caratteri distribuiti su di un territorio vasto ed eterogeneo, in cui però non mancano variabili regionali e locali, Halaf può essere considerata una delle più antiche testimonianze di “unificazione” culturale nel Vicino Oriente.
Il processo di neolitizzazione nell’Anatolia centrale, un territorio al di fuori della cosiddetta “mezzaluna fertile”, ha avuto esiti diversi rispetto alle regioni sudorientali. Il Neolitico Preceramico B è presente soprattutto nei suoi momenti finali e mostra stretti legami con il periodo immediatamente successivo del tardo Neolitico. I siti di Aþikli Höyük e Musular, nella provincia di Aksaray lungo le rive del fiume Melendiz, costituiscono un ponte tra il Neolitico Preceramico e il ceramico di queste regioni. Aþikli è un villaggio con una sequenza cronologica che occupa l’intero VIII millennio. Contrariamente a quanto osservato nel sud-est anatolico, dove l’insediamento è costituito da grandi case rettangolari isolate, il villaggio di Aþikli mostra un’architettura agglutinante. Questi complessi architettonici sono distribuiti intorno a due assi viari e a un ampio cortile centrale, e comprendono case fittamente raggruppate insieme. Le singole costruzioni hanno una pianta rettangolare ripartita in più stanze. Nelle case non ci sono porte che si affacciano all’esterno, ma solo passaggi tra gli ambienti interni. È probabile che la viabilità principale avvenisse tramite i tetti. La maggior parte di questa architettura domestica è stata realizzata in mattoni crudi senza fondazioni in pietra. Una cinta muraria, solo parzialmente esposta, delimitava l’abitato. Aþikli è un villaggio pienamente agricolo, dove però la caccia non viene del tutto abbandonata ed è presente inoltre una rudimentale metallurgia non fusoria simile a quella osservata a Çayönü. Oggetti di agata, di ossidiana e una fiorente industria su osso documentano che nel sito venivano praticate attività artigianali e di scambio. Il sito di Musular dista solo 400 metri da Aþikli e copre un periodo tra il 7500 e il 6500 a.C., e la sua prima occupazione inizia proprio con i livelli più recenti di Aþikli. Musular non sembra un villaggio, esso viene piuttosto interpretato come una località preposta ad attività cerimoniali per la presenza di un ampio edificio quadrangolare con fondazioni in pietra, panchine laterali, focolare centrale e un pavimento dipinto in rosso realizzato con un intonaco ottenuto da pietre calcaree. La caccia al Bos primigenius è una prerogativa del sito per la presenza consistente di ossa di questo bovino selvatico e lame in ossidiana per la macellazione.
Probabilmente il luogo era adibito a feste comunitarie o aveva funzioni cerimoniali legate alla caccia. Aþikli e Musular anticipano molti elementi che saranno tipici del tardo Neolitico della piana di Konya. In questa zona il sito chiave è quello di Çatalhöyük. Scoperto negli anni Cinquanta ma scavato in quattro campagne distinte, tra il 1961 e il 1965, da James Mellaart, Çatalhöyük è uno dei siti neolitici forse più conosciuti al mondo per estensione degli scavi e per le straordinarie scoperte effettuate nel sito. Le ricerche riprese nel 1993 da Ian Hodder, e ancora in corso, hanno permesso di definire con maggiore precisione molti dei risultati ottenuti negli anni Sessanta, ma anche di proporre nuovi itinerari di ricerca. Il villaggio Neolitico di Çatalhöyük copre un arco di tempo compreso tra il 7200 e il 6200 a.C. Dal punto di vista architettonico segue la tradizione già presente in questa parte dell’Anatolia nel Neolitico Preceramico di Aþikli. L’esteso abitato, infatti, ha uno schema agglutinante con case rettangolari costruite in mattone crudo con l’accesso all’interno degli ambienti dal tetto. Queste abitazioni consistevano di due stanze, una più ampia destinata all’attività domestica e l’altra molto più piccola spesso utilizzata come deposito. L’ambiente più grande era quello principale dove si svolgeva la vita quotidiana: aveva piattaforme, panchine, focolari, forni; talvolta le pareti erano dipinte o arricchite da figure a rilievo intonacate e rappresentanti forme umane o animali. Talvolta queste case presentano alcune istallazioni per il culto, come bacini, corna di bue e bucrani inseriti come parte strutturale nelle piattaforme o nelle panchine o sulle pareti. Non di rado sono presenti sepolture all’interno delle mura o nelle piattaforme. Le pitture e le decorazioni plastiche di Çatalhöyük sono testimonianze straordinarie di un mondo simbolico che trova le sue radici nel Preceramico anatolico, come nei siti di Göbekli Höyük e di Nevalý Çori. Però contrariamente a essi, dove il culto veniva svolto in luoghi comunitari, separati dalle case, a Çatalhöyük le case stesse diventano luoghi di culto. La religione coinvolge la sfera domestica. Le pitture e i rilievi, in stretta relazione con le sepolture all’interno della casa, sembrano avere un significativo rapporto con il ciclo di vita dell’abitazione e con coloro che l’hanno frequentata. La mancanza nell’insediamento di edifici pubblici e comunitari e di particolari costruzioni residenziali emergenti, lascia pensare a una società di tipo ancora egalitario, con divisione dei ruoli soprattutto per sesso ed età. L’attività economica è pienamente agricola con la coltivazione di grano e legumi e l’allevamento di pecore e capre, ma allo stesso tempo viene praticata la pesca, l’uccellagione e la caccia al cinghiale. L’industria litica ha rivelato una raffinata capacità nella lavorazione di diverse materie prime, tra cui l’ossidiana reperibile nei giacimenti dell’Anatolia centrale e orientale. A Çatalhöyük il rame e il piombo subiscono il primo processo di fusione, ma questa metallurgia del VII millennio consiste, come in precedenza, di oggetti d’ornamento e piccoli strumenti. Bisogna attendere il IV millennio affinché il metallo acquisti un vero e proprio ruolo sociale.
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, Antichità, Il Vicino Oriente Antico, Storia