La seconda rivoluzione scientifica: fisica e chimica. La guerra dei chimici 1914-1918
La guerra dei chimici 1914-1918
Nella sua breve storia dell'industria chimica tedesca, pubblicata nel 1914 in occasione del venticinquesimo anno di regno dell'imperatore, Bernhard Lepsius citò, a sostegno del suo punto di vista, l'autorevole opinione del principe Otto von Bismarck; secondo il celebre statista tedesco, il lungo periodo di pace che il paese aveva conosciuto nel secolo precedente era in gran parte una conseguenza delle scoperte effettuate dai chimici. Gli effetti devastanti dei nuovi esplosivi avevano agito da deterrente, spingendo i paesi rivali a 'rinfoderare le spade'; si trattava, naturalmente, di una verità parziale. Nell'ultima parte della sua opera, l'autore attribuì i successi della Germania nella competizione globale alla collaborazione pianificata tra scienza e industria. Scientia potestas est! Un terzo settore era però sul punto di inserirsi in questo rapporto di cooperazione: quello militare.
Il conflitto dei Balcani del luglio 1914 ben presto divenne europeo e, infine, mondiale e totale, nella misura in cui le società e le tecnologie dell'epoca lo consentivano. La Grande guerra è passata alla storia anche con il nome di 'guerra dei chimici', soprattutto per l'introduzione delle armi chimiche, ma, forse, si dovrebbe dare maggior risalto al decisivo impatto esercitato da alcune sostanze prodotte chimicamente e, in particolare, agli esplosivi e alle materie prime e intermedie necessarie alla loro fabbricazione. Gran parte dei principali problemi che i chimici si trovarono ad affrontare all'inizio del conflitto concerneva la produzione di queste sostanze. Persino l'uso bellico dei gas derivava dai problemi sollevati dalle sostanze esplosive: le miscele gassose, infatti, furono usate per la prima volta come sostituti sperimentali delle munizioni, inefficaci o scarseggianti, dell'artiglieria convenzionale. A partire dal 1916, infine, divenne possibile introdurre grandi quantità di agenti chimici nei proietti d'artiglieria, integrando la guerra convenzionale con quella chimica; soltanto allora si generalizzò l'uso bellico della chimica. Lo scoppio del conflitto sollevò due ordini di problemi: quello della produzione, della necessità cioè di aumentare in modo drastico la quantità prodotta di sostanze già conosciute o di individuare metodi alternativi (anche se non necessariamente più efficaci) di preparazione delle stesse, e quello dell'applicazione, che riguardava non solo l'invenzione di nuove sostanze ma anche l'impiego di prodotti già noti (anche se quasi sempre in modo superficiale) per scopi spesso diabolicamente distruttivi. Carl Duisberg, direttore tecnico delle fabbriche di coloranti Bayer ‒ il quale fu tra coloro che, nell'autunno del 1914, si dedicarono a quest'ultima attività ‒ definì tale processo "una barbarie, la negazione di qualsiasi tipo di cultura". Egli, tuttavia, si espresse in questi termini soltanto in privato: come la maggior parte dei suoi colleghi di tutti i paesi, Duisberg finì per collaborare a tale progetto non solamente per patriottismo, per assicurare cioè al suo paese una rapida vittoria, ma anche perché prometteva lauti guadagni.
Gli specialisti che dovevano risolvere i problemi di natura chimica sollevati dalla guerra si erano formati prima del 1914, periodo in cui i chimici erano prevalentemente impiegati nel campo delle istituzioni accademiche o in quello delle industrie private e non in ambito militare. I paesi belligeranti non disponevano dello stesso numero di chimici (i dati precisi non sono facilmente determinabili). La Germania, che allora deteneva la leadership mondiale nel campo dello studio e della produzione dei coloranti, era il paese in cui operavano più chimici, forse nove o diecimila, in gran parte almeno formalmente educati alla ricerca. Quindi seguiva la Gran Bretagna, con un quarto dei chimici attivi in Germania, e poi gli altri paesi europei, Francia, Russia, Belgio, Impero austroungarico e Italia (che sarebbe intervenuta nel conflitto nel 1915, insieme all'Impero ottomano), ognuno dei quali disponeva al massimo di poche centinaia di chimici ricercatori. Gli Stati Uniti, che intervennero nel 1917, potevano contare sullo stesso numero di chimici di cui disponeva la Germania, anche se il loro livello di preparazione era in media molto più basso. Nessuna delle maggiori potenze del 1914 aveva adottato le misure necessarie a preservare i giovani talenti da una guerra che, secondo l'opinione dei più, non sarebbe durata a lungo. Così, nei primi due anni del conflitto migliaia di giovani specialisti e di studenti si arruolarono come volontari o furono chiamati alle armi. Di conseguenza, molte istituzioni accademiche e società industriali, incluse quelle che in seguito si sarebbero rivelate di grande importanza per la guerra, sospesero temporaneamente parte delle loro attività. Dopo un certo periodo le autorità militari riconobbero i loro errori e disposero il trasferimento degli specialisti nelle unità chimiche di recente creazione o il loro ritorno al lavoro nelle industrie di importanza strategica e, più raramente, negli istituti di ricerca che conducevano indagini in qualche modo legate ai problemi bellici.
Benché pensassero che il conflitto sarebbe stato di breve durata, molti dirigenti politici e militari adottarono misure economiche che iniziarono a compromettere gli equilibri dell'economia mondiale: i britannici tentarono di isolare gli imperi centrali (la Germania e l'Impero austroungarico) dai paesi neutrali per interrompere il flusso dei rifornimenti di materiali di cruciale importanza bellica, mentre i tedeschi imposero l'embargo sull'esportazione di alcuni prodotti, tra cui, per esempio, i coloranti. Malgrado le veementi proteste dei rappresentanti di questo settore industriale, che non molto dopo riuscirono a ottenere la revoca del provvedimento, ben presto divenne evidente che il rafforzamento del blocco britannico e una serie di altre misure avrebbero comunque impedito ai loro prodotti di avere accesso al mercato mondiale per tutta la durata della guerra. Nel tentativo di colmare il vuoto lasciato dai coloranti tedeschi e da altri prodotti chimici, i britannici, i francesi e i russi requisirono le fabbriche tedesche attive nei loro paesi, ne internarono i dipendenti, confiscarono o sospesero i brevetti tedeschi e adottarono misure volte a incoraggiare le industrie nazionali che operavano negli stessi settori. Prima della guerra, l'importanza della Germania in alcune aree del mercato mondiale era stata tale che la rottura degli equilibri del commercio internazionale causò gravi crisi in alcuni settori industriali (per es., in quello della tintura tessile, dove l'85% dei coloranti impiegati proveniva dalla Germania o da fabbriche tedesche attive in altri paesi). Nel frattempo, i tedeschi tentarono di individuare sostanze atte a sostituire le materie prime e i prodotti chimici precedentemente importati dai paesi nemici. Questo periodo segnò il passaggio dell'economia chimica mondiale dall'interdipendenza a una maggiore autosufficienza nazionale.
Sin dall'agosto 1914 si registrarono tra gli scienziati e gli ingegneri più anziani alcuni isolati tentativi, spesso rimasti privi di conseguenze, di mobilitazione a favore dello sforzo bellico ma, non appena divenne evidente che la guerra non sarebbe stata di breve durata, i piani di mobilitazione assunsero un carattere più articolato e sistematico. Nel 1915 tutte le nazioni belligeranti iniziarono a richiamare dal fronte gli esperti più giovani, assegnando loro compiti più adeguati alle loro capacità. Ormai era evidente che la guerra avrebbe imposto all'industria chimica il raggiungimento di obiettivi molto impegnativi: dal perfezionamento e dall'espansione della produzione interna, alla ricerca e al lavoro di informazione (come, per es., l'analisi dei proietti nemici, che costituiva il principale compito del laboratorio centrale di artiglieria francese). Con il passare del tempo, in tutte le maggiori potenze emersero organismi incaricati di coordinare la ricerca e lo sviluppo di orientamento militare, così come le connesse attività di produzione di materiali e di armi. In tutti questi organismi i chimici svolsero un ruolo decisivo, anche se spesso subordinato. In Gran Bretagna, la Royal Society e il sistema universitario furono affiancati da due importanti istituzioni, il Department of Scientific and Industrial Research (DSIR), nato per iniziativa del Committee of the Privy Council for Scientific and Industrial Research creato nel maggio 1915, e il ministero dei Rifornimenti e Approvvigionamenti. Prendendo a modello il DSIR britannico, nel 1917 gli Stati Uniti fondarono il National Research Council che, a sua volta, ispirò la creazione di organismi analoghi in altre nazioni. In Germania, la Kaiser-Wilhelm-Gesellschaft zur Förderung von Wissenschaft und Forschung per il progresso delle scienze militarizzò temporaneamente molti dei suoi istituti di ricerca e, nel 1916, fu creata, da diversi comitati di esperti incaricati di coordinare le indagini legate ai problemi bellici, la Kaiser-Wilhelm Stiftung für Kriegstechnische Wissenschaft, fondazione per la scienza tecnica e militare. I francesi approfittarono dell'occasione della guerra per mettere ordine nelle ricerche condotte dai laboratori municipali, privati, accademici e militari di Parigi. Alla fine del conflitto, questi nuovi organismi avevano assunto forme e funzioni che sembravano destinate a durare anche in tempo di pace e a creare stabili legami tra l'industria, la scienza accademica e l'esercito.
Sin dall'inizio fu chiaro che il problema chimico di più urgente risoluzione era quello del consumo senza precedenti di esplosivi destinati alle munizioni delle armi d'artiglieria. Ancor prima che il conflitto cessasse di configurarsi come una guerra di movimento lungo il fronte occidentale, i generali fecero un uso imprevedibilmente ampio dell'artiglieria: a cinque settimane dall'inizio degli scontri, i tedeschi avevano usato una quantità di proietti di gran lunga superiore a quella consumata nel corso di tutta la guerra franco-prussiana (1870-1871). A ottobre, le scorte di munizioni erano esaurite e le autorità militari tentarono in ogni modo di indurre le fabbriche statali e le industrie private a produrre polvere da sparo ed esplosivi in quantità illimitate. La situazione si aggravò con il passaggio alla guerra di trincea che, per la conduzione di grandi azioni offensive, prevedeva il ricorso a estesi bombardamenti preliminari dell'artiglieria pesante, che consumava enormi quantità di polvere di lancio e di alti esplosivi. Gli shrapnel dell'artiglieria da campo, che richiedevano una piccola quantità di esplosivo, si rivelarono, invece, di scarsa efficacia contro le trincee nemiche e furono ben presto abbandonati. Nell'agosto 1914, le fabbriche tedesche produssero 1000 t di carica di lancio per le armi d'artiglieria, ma nell'autunno dello stesso anno i generali chiesero rifornimenti pari a 7000 t al mese di questo tipo di materiale. Per tutta la durata della guerra le fabbriche di esplosivi tentarono, senza successo, di soddisfare gli ordini dell'esercito in costante aumento. Per espandere la produzione di esplosivi, le autorità militari si rivolsero anche a industrie chimiche impegnate in altri settori e soprattutto a quelle che producevano coloranti. Interpellati nell'agosto 1914, i rappresentanti di tali imprese in un primo momento rifiutarono la proposta di produrre tritolo e altri esplosivi, sostenendo di non disporre delle strutture idonee ad assicurare lo svolgimento di questa attività in condizioni di (relativa) sicurezza ma, verso la fine del conflitto, una serie di circostanze li indusse ad assumere un diverso atteggiamento: il blocco britannico, che impediva ai loro prodotti di accedere al mercato internazionale dei coloranti; il riconoscimento del fatto, sempre più evidente, che la guerra non sarebbe stata di breve durata; la conseguente disponibilità di impianti di produzione e di chimici (i meno giovani, per es., che non erano stati chiamati alle armi) e, non da ultimo, la mediazione di illustri chimici accademici legati a questo settore dell'industria e, in particolare, dei berlinesi Hermann Emil Fischer e Fritz Haber. A eccezione della BASF, che decise di concentrarsi sulla produzione di intermedi e di materie prime, tutte le più importanti industrie di coloranti affidarono ai loro chimici, ormai quasi inattivi, il compito di sviluppare e perfezionare processi di produzione di tritolo, acido picrico e di molti altri alti esplosivi su vasta scala. Non si trattava di un obiettivo impossibile da raggiungere: prima della guerra, infatti, tutti questi specialisti erano impegnati nella preparazione di intermedi aromatici, in alcuni casi usati per produrre coloranti e, in altri, venduti alle fabbriche di esplosivi che, dopo averli sottoposti a nitrazione, li convertivano in esplosivi. Le fabbriche di coloranti dovevano effettuare autonomamente il processo di nitrazione e le operazioni di riempimento dei proietti, che comportavano gravi rischi di esplosione. La prima società che si cimentò con la produzione di tritolo fu la Griesheim-Elektron di Lepsius, seguita dalla Bayer diretta da Duisberg e successivamente dalla sua più agguerrita rivale, la Höchst. Duisberg coltivò con particolare cura le sue relazioni con le autorità militari (avvalendosi della collaborazione del maggiore d'artiglieria, più tardi promosso colonnello, Max Bauer) ottenendo importanti commissioni, fino al punto che, nell'estate 1916, la sua società era giunta a conquistare una posizione dominante nel settore della produzione di tritolo e di alti esplosivi. A quell'epoca, le otto industrie di coloranti più importanti del paese avevano fondato l'IG, un cartello di imprese, in base a un accordo che prevedeva non soltanto la ripartizione del mercato ma anche la condivisione dell'esperienza tecnica, allo scopo di risolvere i problemi sollevati dalla guerra e di prepararsi inoltre ad affrontare la competizione internazionale postbellica.
Le fabbriche tedesche, già impegnate nella produzione di esplosivi nel periodo precedente il conflitto, organizzarono a loro volta un consorzio generale, in ultima analisi incentrato sulla produzione di cariche di lancio, che nel 1916 raggiunse con l'IG un accordo, in base al quale a quest'ultimo veniva affidata tutta la produzione di alti esplosivi di cui le imprese del consorzio avevano bisogno. Molte di queste imprese sospesero la produzione di celluloide o di dinamite per l'estrazione mineraria, che prima della guerra costituiva la loro principale attività, per far spazio a quella di propellenti a base di nitrocellulosa (NC) o di nitroglicerina (NG). Inoltre, le fabbriche di polvere da sparo che dipendevano dal governo ampliarono i loro impianti di produzione; nell'autunno 1914, l'amministrazione prussiana intraprese la costruzione di un grande impianto nel Brandeburgo, destinato a divenire la principale fabbrica statale di materiali esplosivi (in gran parte propellenti) del paese. Al contrario della produzione di alti esplosivi, essenzialmente basata sulla chimica organica, la fabbricazione dei propellenti richiedeva l'effettuazione di una serie piuttosto complessa di procedimenti, soprattutto fisici, che includeva operazioni di missaggio, di essiccazione e di sagomatura, spesso di carattere più artigianale che scientifico, a cui i chimici specializzati nella ricerca non potevano apportare grandi perfezionamenti.
In questo campo, le più importanti innovazioni chimiche vennero dallo sviluppo di esplosivi sostitutivi e dall'intensificazione della ricerca sugli acidi e sui solventi, fino ad allora difficilmente reperibili, utilizzati nei processi di produzione. Una delle sostanze che maggiormente scarseggiava era la canfora del Giappone, usata per sagomare diversi tipi di propellenti per armi di artiglieria. Poco prima della guerra, tuttavia, una delle più importanti società tedesche, la Köln-Rottweil, aveva sviluppato per la produzione di NG una nuova tecnologia senza solventi che riduceva i tempi del processo di essiccazione dei propellenti destinati all'artiglieria pesante da alcuni mesi a poche settimane, risolvendo uno dei tanti problemi legati alla produzione degli esplosivi. Inoltre, si scoprì che era possibile sostituire la canfora con l'essenza di trementina ottenuta dalla resina vegetale.
Gli austriaci, che non disponevano di un settore industriale da riconvertire, equivalente a quello tedesco dei coloranti, e che quindi dovevano basarsi soprattutto sulle fabbriche statali sia per i propellenti sia per gli alti esplosivi, si trovarono a far fronte a una penuria di materiali ancora più grave. Nonostante gli sforzi intrapresi per intensificare la produzione (in special modo nell'arsenale di Blumau, nei pressi di Vienna, che prima della guerra produceva esplosivi militari in regime di monopolio per conto dello Stato) e per mobilitare l'industria privata (e, in particolare, la branca austroungarica del trust della dinamite Nobel), il governo austriaco non riuscì mai a soddisfare le richieste dei comandanti militari, neppure attraverso i rifornimenti supplementari inviati dagli Alleati tedeschi.
Nei primi mesi del conflitto anche le potenze dell'Intesa dovettero affrontare la questione della carenza di munizioni che, all'inizio del 1915, assunse le dimensioni di una vera e propria crisi. Al di là del grave problema costituito dalla mancanza di acetone, un solvente di fondamentale importanza importato dall'estero fino allo scoppio della guerra, i britannici potevano facilmente intensificare la produzione di propellenti per l'artiglieria pesante: a tal fine, infatti, gli arsenali reali e le imprese del gruppo Nobel dovevano limitarsi ad ampliare le loro fabbriche, già molto grandi, complesse e ben organizzate, destinate alla produzione di cordite per la Royal Navy. Il problema dell'acetone non fu risolto che alla fine del 1915, con la scoperta di un processo di fermentazione, innescato da un batterio che produceva butanolo e acetone, che i britannici riprodussero su vasta scala in distillerie riconvertite. Tale processo è associato al nome del chimico russo sionista Chaim Weizmann che, tuttavia, fu solamente uno dei tanti ricercatori che prima della guerra diedero un contributo alla spiegazione di questo meccanismo. Per ridurre il consumo di acetone, in ogni caso, il 15 maggio 1915 il dipartimento di ricerca dell'arsenale reale di Woolwich aveva sviluppato un propellente alternativo per l'artiglieria da campo, la cordite RDB, che richiedeva l'uso dell'etere-alcool e non dell'acetone come solvente.
La questione degli alti esplosivi si rivelò più difficile da risolvere, poiché richiedeva lo sviluppo su vasta scala di nuove tecnologie, anche se gran parte delle materie prime necessarie alla produzione di queste sostanze poteva essere fornita dall'industria del carbone e da quella del coke. Il passaggio dagli shrapnel all'artiglieria pesante richiedeva un notevole aumento della produzione di acido picrico, di tritolo e di altri esplosivi. Dal momento che gli arsenali in attività e l'industria privata si erano rivelati incapaci di assolvere questo compito, il ministero dei rifornimenti e approvvigionamenti dispose la costruzione di una serie di fabbriche statali destinate alla produzione di questi esplosivi, così come di propellenti e riempitivi per granate. Per assicurare il successo di tale iniziativa il governo aveva bisogno di esperti chimici, così come di progettisti e di direttori tecnici. Come ha dimostrato Roy M. MacLeod, molti ingegneri chimici assunti da queste fabbriche provenivano da altre regioni dell'Impero britannico e, in particolare, dall'Australia e dal Sudafrica.
Il contributo forse più decisivo fu quello fornito dall'ingegnere chimico statunitense Kenneth B. Quinan, il quale in precedenza aveva lavorato per un'impresa sudafricana che produceva esplosivi per l'estrazione mineraria. Egli assunse un ruolo di primo piano, progettando grandi fabbriche come, per esempio, quella di Queensferry (in grado di produrre 2000 t di tritolo e 1000 t di NC al mese) e il più grande impianto destinato alla produzione di cordite del paese situato nei pressi di Gretna, in un'area che si estendeva in lunghezza per 12 km, in grado di produrre 4000 t al mese di questo esplosivo da lancio. Nel 1916 le fabbriche statali iniziarono a lavorare a pieno regime, con capacità produttive che superavano di gran lunga quelle delle fabbriche tedesche. Inoltre, per ridurre il consumo di tritolo, si decise di mescolare a questo prodotto una certa quantità di nitrato di ammonio, formando una miscela chiamata amatolo. I ricercatori britannici riuscirono infine a mettere a punto un'efficace miscela esplosiva costituita soltanto per il 20% da tritolo (mentre i tedeschi non andarono oltre il 40%). A partire dal 1915, lo staff tecnico della società chimica specializzata in alcali Brunner Mond sviluppò un processo per la preparazione su vasta scala di nitrato di ammonio, la cui produzione annuale nel 1918 aumentò di duecento volte, raggiungendo le 200.000 tonnellate.
Fino al 1916 la Germania, grazie all'adozione di provvedimenti economici speciali, era riuscita ad aumentare in modo costante ma non rilevante la produzione di esplosivi, che non era infatti quasi mai in grado di soddisfare le richieste dei generali, pur basandosi su uno sfruttamento razionale delle risorse disponibili. Nel luglio di quell'anno, tuttavia, le autorità militari rimasero profondamente colpite dai massicci bombardamenti d'artiglieria che i britannici riuscirono a effettuare durante l'offensiva della Somme, grazie alle enormi fabbriche statali di esplosivi costruite nell'anno precedente. Alla fine di agosto, assumendo il comando supremo dell'esercito, Paul von Hindenburg ed Erich Ludendorff si accinsero (con l'aiuto dell'esperto Bauer) a rispondere ai britannici con una grande offensiva prevista per l'anno seguente. A tal fine, i due generali riorganizzarono lo sforzo bellico tedesco, creando un nuovo organismo per il rifornimento di munizioni (il Wumba, Waffen- und Munitions-Beschaffungsamt) ed elaborando un ambizioso 'programma Hindenburg' con il quale ci si proponeva di raddoppiare la produzione di munizioni entro il maggio 1917. Ciò comportava un incremento della produzione mensile di polvere da sparo da 6000 (dato relativo all'agosto 1916) a 12.000 t (in seguito portate, senza molta convinzione, a 14.000).
Questo piano, tuttavia, avrebbe in primo luogo richiesto l'immediata costruzione di grandi impianti per la fabbricazione di propellenti e di strutture per la produzione di alti esplosivi; dal momento che le risorse utilizzabili per produrre su vasta scala esplosivi a base di tritolo erano decisamente inadeguate, i tedeschi dovettero concentrarsi sull'acido picrico, sul nitrato di ammonio e su altri esplosivi sostitutivi. Inoltre, essi iniziarono a integrare i proietti d'artiglieria ad alto esplosivo con grandi quantità di aggressivi chimici. Il 'programma Hindenburg', che anche gli austriaci tentarono di imitare, si risolse in un parziale insuccesso: i tedeschi, infatti, riuscirono a produrre 12.000 t di propellente soltanto nel settembre 1918 e impegnando una quantità eccessiva di risorse che, diversamente impiegate, avrebbero potuto avere risultati più immediati.
L'esercito francese era quello che faceva un maggiore affidamento sull'artiglieria da campo e, in particolare, sui famosi 75 mm che utilizzavano proietti shrapnel e, di conseguenza, fu preso alla sprovvista dal passaggio alla guerra di trincea che richiedeva una quantità molto maggiore di alti esplosivi. I francesi, inoltre, non disponevano di un adeguato numero di chimici specializzati e di ingegneri chimici anche a causa delle perdite subite nel corso del primo anno di guerra. Al momento della mobilitazione, lo staff del Service des Poudres dell'esercito francese includeva solo 44 ingegneri (alcuni dei quali ancora in corso di formazione) e 78 chimici e tecnici. Come ha dimostrato Patrice Bret, il Service des Poudres, benché in via di ampliamento, non disponeva neppure delle risorse necessarie a gestire tutte le strutture destinate alla produzione di esplosivi civili e il suo Laboratoire Central des Poudres (LCP) era frequentato da un piccolo numero di chimici. Nel 1907 una nave da guerra francese era stata devastata da un'esplosione provocata dall'instabilità della polvere standard B. In seguito a un'inchiesta ufficiale, un comitato di esperti accademici e militari aveva raccomandato l'uso di un nuovo stabilizzatore, la difenilammina, utilizzata regolarmente in altri paesi ma adottata in Francia soltanto contro il parere dello scienziato che aveva sviluppato la polvere, Paul Vieille, il quale in seguito si dimise dall'LCP. Tale episodio aprì la strada a una parziale riforma dell'LCP, che si ampliò fino a includere un certo numero di esperti di esplosivi navali e di ufficiali d'artiglieria. Tra questi, Albert Koehler assunse la guida tecnica del laboratorio durante i primi anni di guerra; alla sua morte, sopraggiunta nel 1916, il suo ruolo fu rilevato dall'ingegnere delle polveri Marius-Daniel Marqueyrol, che ampliò ulteriormente il laboratorio come struttura centrale di ricerca e di verifica degli esplosivi. Le innovazioni introdotte poco dopo l'inizio del conflitto nei metodi di preparazione della polvere da sparo avevano determinato un drastico aumento della produzione.
Allo stesso tempo, gran parte degli impianti chimici, e dell'industria pesante, si trovava nei dipartimenti dell'area nordorientale del paese, occupata sin dai primi giorni della guerra dai tedeschi. I francesi dovettero quindi non soltanto costruire una serie di nuovi impianti, bensì anche trasferire e riorganizzare la produzione degli intermedi nelle aree meridionali e occidentali del paese, utilizzando in parte le fabbriche di coloranti confiscate alle società tedesche. Anche la Francia, naturalmente, doveva fare affidamento sulle importazioni di esplosivi dai paesi neutrali e, in particolare, dalla Svizzera e dagli Stati Uniti (dove la società DuPont volle fare onore alle sue origini francesi).
Il paese belligerante economicamente più arretrato, e quindi più svantaggiato dal punto di vista dell'industria militare, era la Russia che, con le sue cinque fabbriche statali di esplosivi, era in grado di produrre una quantità irrisoria di queste sostanze, soprattutto in rapporto alle enormi dimensioni del suo esercito (che nel 1910 contava 4,5 milioni di uomini). Dal momento che l'industria privata era dominata da imprese straniere (tra le quali figuravano molte ditte tedesche di prodotti di chimica organica) il governo esitava a far ricorso a questa fonte potenzialmente ostile. Come ha dimostrato Nathan Brooks, l'esercito russo era praticamente privo di risorse da destinare alla ricerca e la categoria, relativamente poco numerosa, dei ricercatori chimici era tradizionalmente poco incline a lavorare a stretto contatto con l'industria e con l'esercito; la maggior parte delle tecnologie necessarie alla produzione di materiali bellici era semplicemente fabbricata su licenza o acquistata dall'estero. Sarebbe stato necessario intraprendere eroici sforzi per aumentare la produzione di munizioni, che doveva essere coordinata dai comitati dell'industria di guerra creati nel corso del primo anno del conflitto; così i russi seguitarono a dipendere dai rifornimenti della Gran Bretagna e degli altri paesi alleati, impegnati, in un primo momento, soprattutto a risolvere i loro problemi.
I russi riuscirono tuttavia ad aumentare la produzione interna più di quanto fosse lecito aspettarsi, prima del crollo del 1917. La figura che più si distinse in questa impresa fu quella di Vladimir Nikolaevič Ipatev, generale d'artiglieria e professore di chimica organica presso l'Accademia di Artiglieria. Ipatev assunse la guida della Commissione per la preparazione degli esplosivi creata nel febbraio 1915 e dotata di uno staff composto da ingegneri e scienziati militari, che dovevano coordinare la produzione delle materie prime e dei prodotti finali. Vincendo la resistenza dell'industria privata e l'iniziale scetticismo delle più alte autorità, secondo cui le esigenze della Russia potevano essere soddisfatte soltanto dalle importazioni dall'estero, la Commissione riuscì a decuplicare la produzione interna di esplosivi nel corso del primo anno di attività, un risultato ottenuto soprattutto grazie agli impianti privati (incluse le fabbriche confiscate, non senza esitazioni, alla Germania), che nel 1915 produssero una quantità di esplosivi cinque volte maggiore di quella dell'anno precedente, mentre le fabbriche statali si limitarono a raddoppiare il loro prodotto.
Già prima di intervenire nel conflitto, nell'aprile 1917, gli americani avevano rifornito di esplosivi gli Alleati, incrementando le loro capacità produttive (la DuPont, per es., aveva ampliato i suoi tre impianti e aveva costruito una grande fabbrica di fulmicotone (NC) a Hopewell, in Virginia). Ora era necessario procedere a un'ulteriore espansione della produzione in modo da far fronte alla domanda interna. Gli Stati Uniti decisero di affidare l'incarico di costruire e di gestire una serie di fabbriche statali a imprese private che producevano esplosivi, in cambio di una quota dei profitti. Molte società private aderirono a quest'iniziativa, ma la DuPont assunse un ruolo di primo piano con la costruzione nel Tennessee dell'Old Hickory, un enorme complesso destinato alla produzione di propellenti a base di NC che era in grado di produrre 450 t al giorno di queste sostanze (ossia 13.500 t al mese, più del triplo dell'impianto di Gretna). Entrato in funzione nel luglio 1918, alla fine della guerra l'Old Hickory era stato quasi del tutto completato.
L'incremento della produzione di esplosivi presupponeva un proporzionale aumento della domanda di materie prime e di intermedi. Da questo punto di vista le maggiori potenze si trovarono ad affrontare problemi diversi. L'interruzione del flusso delle importazioni di materie prime provocata dal blocco britannico e il controllo, sempre più rigoroso, esercitato sui rifornimenti che passavano per i paesi neutrali obbligarono i tedeschi a individuare fonti di approvvigionamento interne al paese. La Germania scarseggiava soprattutto di nitrati (in precedenza importati dal Cile) e di piriti (importate in prevalenza dalla Spagna), sostanze necessarie alla preparazione degli acidi impiegati per fabbricare esplosivi e propellenti, come, per esempio, il toluene, la cellulosa e la glicerina. In alcuni casi furono individuate sostanze sostitutive reperibili all'interno del paese: alla fine della guerra, per esempio, i tedeschi riuscirono a ricavare la cellulosa dai prodotti cartacei invece che dal cotone. Per ottenere la glicerina occorreva utilizzare lo zucchero, per preparare la polvere di nitrocellulosa bisognava impiegare l'etere ottenuto dalla fermentazione delle patate (15 t di patate per una di nitrocellulosa) e per produrre i nitrati non si poteva fare a meno di ricorrere all'ammoniaca destinata ai fertilizzanti. L'industria del coke avrebbe potuto fornire molti intermedi di grande utilità, come, per esempio, l'ammoniaca diluita e il toluene, ma all'inizio della guerra le autorità militari non avevano idea delle capacità o delle esigenze produttive. Alcuni chimici accademici berlinesi (soprattutto Fischer e Haber) sottoposero a un esame critico questi problemi, cooperando con l'Ufficio delle materie prime del ministero della Guerra prussiano (sotto la guida di Walter Rathenau, direttore dell'industria elettrotecnica AEG, e del suo socio Wichard von Moellendorf) e con l'Ente dei prodotti chimici bellici (più tardi, anche con la Commissione degli acidi e con altri organismi ed enti bellici creati per affrontare i problemi relativi a specifiche risorse strategiche). Nel corso della prima parte della guerra, quando le nuove strutture manifatturiere non erano state ancora completate, questi organismi svolsero un ruolo di capitale importanza, razionando e requisendo le scorte di prodotti chimici esistenti in Germania e coordinando i tentativi di ottenere ulteriori quantitativi (di limitato valore) di sostanze dai paesi neutrali e soprattutto dai territori occupati, in Belgio e nell'area nordorientale della Francia. Alcuni chimici e ingegneri, tra cui Lepsius, furono inviati in queste regioni per prendere visione di quanto poteva essere confiscato: non soltanto materiali ma anche impianti e apparati, alcuni dei quali furono trasportati in Germania. La quantità di nitrati che i tedeschi trovarono in Belgio fu appena sufficiente a superare l'estate del 1915, periodo in cui decollò la produzione interna.
Sotto la direzione tecnica di Carl Bosch e grazie ai fondi stanziati dal governo imperiale a partire dall'autunno 1914, la divisione per l'azoto della BASF aumentò la produzione di ammoniaca sintetica ottenuta dall'azoto atmosferico, mediante un procedimento applicato alla produzione soltanto un anno prima del conflitto. La BASF inoltre costruì le sue prime strutture per la produzione di acido nitrico a partire da quest'ammoniaca concentrata, per mezzo di un catalizzatore relativamente poco costoso che la sua équipe di ricerca guidata da Alwin Mittasch aveva sviluppato poco prima della guerra. Per la produzione di acido nitrico a partire dall'ammoniaca diluita delle fabbriche di coke altre industrie di coloranti costruirono impianti che, tuttavia, si rivelarono molto meno efficienti. La messa a punto del nuovo processo era di vitale importanza: allo scoppio della guerra, infatti, la Germania disponeva di un solo impianto funzionante per l'ossidazione dell'ammoniaca, che impiegava un processo sviluppato da Friedrich Wilhelm Ostwald e basato su un dispendioso catalizzatore al platino.
Quando, a partire dal maggio 1915, una serie di incursioni aeree mise fuori uso gli impianti di Oppau e di Ludwigshafen, le autorità militari assegnarono alla BASF l'incarico di costruirne uno completamente nuovo e molto più grande per la produzione di ammoniaca sintetica in una località meno esposta agli attacchi nemici situata nei pressi di Leuna, a breve distanza da Merseburg, nella Germania centrale. L'impianto di Leuna, le cui prime unità entrarono in attività nell'aprile 1917, divenne il più grande complesso manifatturiero tedesco, anche se alla fine della guerra era ben lungi dall'essere stato completato. Inoltre, il governo finanziò la costruzione di fabbriche imperiali di azoto, che utilizzavano il processo basato sull'uso del cianammide messo a punto prima della guerra da Nikodemus Caro e da Adolph Frank, e creò una Commissione per l'azoto che includeva tra i suoi membri rappresentanti delle diverse società di produzione e due chimici accademici 'neutrali', Fischer e Haber. Essi, in realtà, erano strettamente legati alla BASF e ad altre aziende di coloranti, tanto che Haber pretese una provvigione su ogni unità di ammoniaca sintetica prodotta. I due scienziati quindi sostennero ‒ con successo ‒ che non era consigliabile usare i nitrati prodotti dalle fabbriche che si basavano sull'uso del cianammide per la fabbricazione di esplosivi.
Questi impianti furono utilizzati, in definitiva, per produrre fertilizzanti a base di azoto, dal momento che tutte le riserve disponibili di ammoniaca erano destinate agli esplosivi (e i tedeschi dovevano rifornire gli alleati austroungarici di composti a base di azoto utilizzati per la medesima finalità). Le scorte di fertilizzanti a base di azoto rimasero però inadeguate e la produzione agricola risultò inferiore alla media per tutto il periodo della guerra, provocando una carenza di prodotti alimentari che contribuì a suscitare il malcontento popolare e condusse alla rivoluzione del novembre 1918. Dopo la fine della guerra, tuttavia, grazie ai nuovi metodi di produzione dei fertilizzanti a partire dall'ammoniaca e dal cianammide, la Germania riuscì a svincolarsi dalla dipendenza dall'importazione di nitrati.
Nel 1916-1917 i tedeschi scarseggiavano non tanto di acido nitrico quanto di acido solforico e, in particolare, dell'oleum (o acido solforico fumante) necessario alla fabbricazione di esplosivi. Non era disponibile un processo di produzione dei solfati comparabile a quello messo a punto dalla BASF per la sintesi dell'ammoniaca e benché alcune società, tra cui la stessa BASF, avessero tentato di sviluppare procedimenti destinati all'estrazione dei solfati dai depositi di gesso che si trovavano sotto il loro controllo, le sostanze così ottenute non erano in grado di sostituire in modo adeguato quelle in precedenza importate dall'estero. Tali problemi furono parzialmente risolti con l'introduzione di severe norme volte a regolamentare e a limitare l'uso di questi prodotti e di procedimenti più efficaci di recupero degli acidi utilizzati nei processi di produzione ma, verso la fine della guerra, la carenza di tali sostanze limitò gli sforzi intrapresi per aumentare la produzione di esplosivi.
Le nazioni dell'Intesa crearono a loro volta comitati centrali od organismi governativi incaricati di valutare le loro risorse chimiche e di gestirne la produzione, compito che nella maggior parte dei casi portò alla nascita di fabbriche nazionali o alla nazionalizzazione di industrie private; questi organismi si trovarono spesso ad agire in una situazione più favorevole di quella affrontata dai loro omologhi tedeschi. Benché avessero sperimentato processi analoghi a quelli messi a punto da Bosch e da Haber per la produzione dell'ammoniaca sintetica senza ottenere alcun risultato pratico prima dell'armistizio, le potenze dell'Intesa e gli Stati Uniti non furono ostacolati da questo problema poiché potevano importare quantità illimitate di nitrati cileni, utilizzabili per produrre sia esplosivi sia fertilizzanti, e procurarsi una sufficiente quantità di piriti spagnole, necessarie alla produzione di acido solforico e di oleum. In compenso, i britannici dovettero preoccuparsi dei sottomarini tedeschi e tutti i paesi belligeranti furono comunque costretti a costruire impianti per la produzione degli acidi necessari alle esigenze belliche e di altri intermedi. Come aveva fatto per gli esplosivi, il ministero dei Rifornimenti e degli Approvvigionamenti della Gran Bretagna dispose la costruzione di fabbriche nazionali destinate a questa attività, spesso (come, per es., nel caso di Gretna) integrate negli stessi complessi. I britannici, che in un primo momento si trovarono a dipendere da un piccolo numero di aziende per quanto riguardava gli intermedi organici necessari alla fabbricazione di esplosivi, riuscirono a espanderne la produzione coordinando l'attività di tutte le fabbriche di sapone (per la glicerina), degli impianti per la distillazione di carbone e delle cokerie. A partire dal 1915, essi tentarono di rafforzare la loro capacità produttiva nel campo della chimica organica, di importanza strategica in vista della competizione postbellica con la Germania, promuovendo la nazionalizzazione e la fusione tra società in questo settore industriale. La più importante industria di coloranti, la Read Holliday, cambiò nome e proprietà divenendo la British Dyes Ltd., una società controllata dal governo, e nel novembre dello stesso anno si fuse con la seconda azienda in ordine d'importanza del settore, la Levinstein Ltd., formando la British Dyestuff Ltd., di cui il governo deteneva una quota minoritaria.
Nel 1916-1917, nel corso del processo di riorganizzazione generale dell'industria imposto dall'invasione tedesca, anche i francesi crearono una società nazionale di produzione di coloranti, la Compagnie Nationale de Matières Colorantes (CNMC), che era diretta da un ufficiale del Service des Poudres, impiegava alcuni chimici accademici nominati dal ministero dell'Istruzione e si avvaleva delle strutture delle fabbriche statali di munizioni. Alla fine del 1916 anche gli italiani, fino ad allora non rappresentati in questo settore industriale, crearono una società nazionale di coloranti. Dal momento che tali strutture non erano in grado di soddisfare le esigenze belliche, le nazioni dell'Intesa dovettero importare coloranti e altre sostanze chimiche dalla Svizzera, dove questo settore industriale registrò una notevole crescita durante la guerra, e un'ampia gamma di altri prodotti dagli Stati Uniti. La Royal Dutch-Shell fornì il suo sostegno ai britannici, aiutandoli a costruire fabbriche, destinate alla produzione di intermedi e di esplosivi, che si avvalevano delle tecnologie petrolchimiche che essa aveva iniziato a sviluppare prima del conflitto e assicurando loro rifornimenti di borneolo da utilizzare come carica. Nel quadro dello sviluppo relativamente costante registrato dai paesi dell'Intesa la principale eccezione era costituita dalla situazione di caos in cui venne a trovarsi la Russia a causa del crollo del 1917-1918.
La Prima guerra mondiale è passata alla storia con il nome di 'guerra dei chimici' a causa dell'introduzione su vasta scala degli aggressivi chimici, utilizzati per la prima volta nel 1914 in sostituzione degli esplosivi che erano disponibili in quantità insufficienti e per superare i limiti mostrati dagli shrapnel nella guerra di trincea. Nonostante la Convenzione dell'Aia del 1899 e il divieto dell'uso di armi disumane stabilito nel 1907, nel periodo precedente il conflitto, i ricercatori militari di entrambi gli schieramenti avevano sperimentato gli effetti di una serie di armi chimiche. Come ha dimostrato Olivier Lepick, furono i francesi a inaugurare la guerra chimica lungo il fronte occidentale, introducendo agenti irritanti in cartucce fabbricate prima del 1914, un metodo che fu ben presto abbandonato a causa dell'impossibilità di produrre una quantità sufficiente di questo tipo di sostanze. Nel frattempo, tra la fine del 1914 e l'inizio del 1915, i tedeschi sperimentarono su scala ridotta agenti irritanti non letali che agivano sugli occhi e sulla gola, sia sul fronte occidentale sia su quello russo. Successivamente, l'uso degli aggressivi chimici si diffuse con l'impiego, nel 1915-1916, di gas asfissianti e velenosi, come, per esempio, il cloro e il fosgene e, infine (per rispondere all'adozione di misure protettive sempre più efficaci) con sostanze più raffinate, quali i composti a base di arsenico, in grado di penetrare nelle maschere e gli agenti vescicanti che colpivano la pelle, gli occhi e le mucose.
Come ha osservato L.F. Haber, per gran parte della guerra l'iniziativa partì dai tedeschi; i loro avversari tuttavia risposero, quasi sempre imitandoli, e, in alcune occasioni, con effetti ancora più devastanti. I chimici, che spesso lavoravano a stretto contatto con i ricercatori medici, svolsero un ruolo di cruciale importanza sia nello sviluppo degli agenti aggressivi sia in quello delle misure di protezione. A partire dal 1915, prima i chimici tedeschi e poi quelli francesi e britannici entrarono a far parte delle unità d'assalto che conducevano azioni offensive basate sull'uso di gas. Nonostante le speranze riposte in questo genere di azioni, l'uso dei gas non si rivelò decisivo sul fronte occidentale.
Tali metodi avrebbero forse potuto incontrare un maggior successo sul fronte orientale, dal momento che i russi erano in possesso di uno scarso numero di aggressivi chimici e di dispositivi di protezione. Dopo il 1916, le unità che conducevano azioni offensive basate sull'uso di gas sul fronte occidentale assunsero un ruolo di secondo piano: perfezionando le maschere antigas, infatti, entrambi gli schieramenti erano riusciti a neutralizzare gli effetti di questo genere di attacchi. Una parziale eccezione era costituita dal proiettore britannico Livens introdotto nel 1916 che, nel corso di attacchi a sorpresa, era in grado di inondare, a distanza relativamente ravvicinata, le trincee nemiche di gas ad alta concentrazione di fosgene, provocando un gran numero di vittime. Tuttavia, l'uso di quest'arma si rivelò decisivo non tanto nello sfondamento delle linee nemiche quanto nella guerra di logoramento. In ogni caso, anche in seguito i chimici specializzati furono arruolati nelle unità regolari, in qualità di ufficiali esperti nell'uso dei gas e nell'artiglieria, dove svolsero il ruolo di consulenti sull'uso più appropriato dei proietti chimici, che contenevano gli ultimi aggressivi sviluppati (costituiti non più da gas ma da polveri, liquidi o aerosol).
Per condurre la guerra chimica, produrre i relativi aggressivi, sviluppare nuovi agenti e mettere a punto i necessari dispositivi di protezione, i principali paesi belligeranti costruirono nuovi complessi produttivi e di ricerca. In Germania, il quadro della situazione era diverso da quello degli altri paesi, soprattutto perché nell'autunno del 1914 il comando supremo aveva creato una commissione ‒ di cui facevano parte alcuni ufficiali dell'esercito, Walther Hermann Nernst, scienziato accademico, e Duisberg ‒ affidandole il compito di sperimentare aggressivi chimici (letali e non) e agenti incendiari. La Bayer iniziò così a partecipare allo sforzo bellico con indagini legate all'uso di aggressivi chimici ‒ sebbene in un primo momento i ricercatori che si dedicavano allo studio di questo genere di problemi non fossero molti ‒ come anche la Höchst, la principale rivale della Bayer.
Inizialmente entrambe le società lavorarono in concorrenza con il Kaiser-Wilhelm-Institut per la chimica fisica di Dahlem, nei pressi di Berlino, un istituto accademico di ricerca fondato nel 1912 sotto gli auspici del ministero dell'Istruzione prussiano e della Fondazione Koppel, nel quadro delle attività di ricerca della Kaiser-Wilhelm-Gesellschaft per il progresso delle scienze, di recente creazione. Queste prime indagini, tuttavia, non produssero risultati importanti dal punto di vista pratico, soprattutto perché furono condotte a partire dal presupposto che gli agenti chimici dovevano essere inseriti nei proietti d'artiglieria, di cui a quel tempo si possedevano scorte molto limitate. Ciononostante nel marzo 1915 la Commissione Duisberg aveva sperimentato gli effetti di quasi tutti gli aggressivi chimici che sarebbero stati usati nel corso della guerra (a eccezione, a quanto ci risulta, di quelle a base di arsenico).
Nel gennaio 1915 Haber affrontò in modo diverso il problema, proponendo di diffondere nubi di gas di cloro a partire da un gran numero di bombole collocate lungo la linea del fronte. Nonostante il diffuso scetticismo suscitato dalla constatazione che i venti prevalenti lungo il fronte occidentale soffiavano in senso inverso, Haber ottenne l'autorizzazione a creare alcune unità di 'pionieri del gas' formate da specialisti che, il 22 aprile 1915 a Ypres, condussero il primo attacco della storia militare basato sull'uso di nubi di gas contro le truppe alleate, che non disponevano a quel tempo di dispositivi di protezione. Benché avesse dato luogo soltanto a un successo locale, grazie a questa impresa Haber ottenne una nomina a capitano e l'autorizzazione a sperimentare la sua innovazione sul fronte russo dove, nel maggio 1915, guidò i primi attacchi basati sull'uso del cloro.
Haber divenne il più illustre chimico militare tedesco e ottenne l'incarico di direttore del Dipartimento A10 del ministero della Guerra, che richiese la sua consulenza in merito a questioni generali relative alla produzione di sostanze chimiche e gli affidò la responsabilità amministrativa e tecnica della conduzione della guerra chimica, anche se le autorità militari si rifiutarono sempre di promuoverlo (probabilmente a causa delle sue origini ebraiche). L'istituto di Haber quindi fu temporaneamente sottoposto al controllo dell'esercito e lo scienziato coordinò, insieme al suo staff, la ricerca e lo sviluppo degli agenti chimici e dei dispositivi di protezione, cooperando con la Bayer e la Höchst, così come con altri centri industriali e accademici. Haber si interessò soprattutto alle sostanze a base di arsenico che erano in grado di penetrare nelle maschere protettive, anche se questo tipo di agenti si rivelò di scarsa efficacia nel corso del conflitto. Benché il suo complesso di centri di ricerca chimica bellica si fosse costantemente ampliato nel corso della guerra, assumendo il controllo delle strutture di laboratorio degli altri istituti Kaiser-Wilhelm di Dahlem e reclutando dozzine di chimici accademici dagli istituti universitari tedeschi per impiegarli nel campo della ricerca, dello sviluppo e della verifica, Haber lo considerò sempre una misura d'emergenza temporanea legata alla guerra. Nel settembre del 1917, egli sottolineò la necessità di fondare un vero e proprio istituto di ricerca militare, una proposta accolta dal ministro della Guerra, che stanziò
i fondi necessari alla sua creazione, ma l'esito della guerra impedì la realizzazione del progetto.
Alcuni dei paesi alleati crearono centri speciali fondati e direttamente controllati dall'esercito, all'interno dei quali lavoravano chimici che avevano indossato l'uniforme militare. All'inizio del 1916, i britannici crearono il primo di questi complessi a Porton Down e l'anno seguente l'esercito statunitense costruì l'arsenale di Edgewood. Il proiettore Livens fu sviluppato proprio nel centro di Porton Down. Questi complessi, tuttavia, non monopolizzavano l'attività di ricerca. In Gran Bretagna, nonostante il peso di Porton Down che impiegava mille persone alla fine del 1916, erano attivi circa 40 laboratori che svolgevano indagini legate all'uso bellico di sostanze chimiche, incluso, per esempio, quello diretto dal chimico dell'Università di Cambridge William J. Pope. In Francia non esisteva un solo centro di ricerca, sviluppo e produzione legato alla guerra chimica ma diversi laboratori accademici, militari e privati (quasi tutti situati a Parigi) lavoravano in questa prospettiva. Tra i più illustri ricercatori francesi ricorderemo l'esperto di analisi e chimica minerale Georges Urbain, che lavorando in collaborazione con François-Auguste-Victor Grignard sviluppò un nuovo processo per la produzione di fosgene. I francesi subappaltarono parte della produzione di questo gas a piccole imprese private distribuite in tutto il paese. Una di esse, la Poulenc Frères, iniziò a produrre fosgene attraverso il metodo messo a punto da Urbain e Grignard nel 1916; il fosgene francese, inserito nei proietti d'artiglieria (un sistema poco efficace dato il loro volume relativamente ridotto), fu impiegato contro i tedeschi a Verdun all'inizio del 1916: era la prima volta che un agente chimico letale veniva impiegato su vasta scala per mezzo di proietti d'artiglieria. Anche negli Stati Uniti, il laboratorio dell'American University di Washington, DC, così come altri laboratori accademici, lavorarono allo sviluppo di agenti chimici. Il risultato principale di queste indagini fu il Lewisite, un agente chimico vescicante letale e, a quanto sembra, ad alta efficacia; ma il Lewisite fu sviluppato troppo tardi per poter essere impiegato nel conflitto e lo stesso Haber dubitava della sua efficacia in campo aperto.
La più significativa e duratura innovazione nell'ambito della guerra chimica sviluppata nel rapporto di collaborazione tra istituti accademici e industrie tedesche fu il solfuro dicloroetilico o 'gas mostarda' che i tedeschi chiamavano in codice 'Lost' dai nomi del chimico ricercatore Wilhelm Lommel, che per primo ne aveva proposto l'uso, e di Wilhelm Steinkopf del Collegio di tecnologia di Karlsruhe, che aveva verificato la sua efficacia nell'istituto che Haber dirigeva a Berlino. L'industria chimica tedesca poteva produrre grandi quantità di questa sostanza utilizzando un intermedio prodotto dalla BASF (attraverso l'uso di strutture in origine destinate al processo di preparazione dell'indaco). La Bayer forniva gran parte del prodotto finale, che i tedeschi iniziarono a usare nella primavera del 1917. Si trattava di un agente ad alta efficacia che, pur apparendo in un primo momento innocuo, in breve tempo attaccava la pelle e le mucose. Questo gas non provocava enormi perdite di uomini in modo diretto ma, privando i soldati della vista e coprendo i loro corpi di vesciche. Haber consigliò al comando supremo tedesco di non utilizzare il gas mostarda a meno di non essere certo di ottenere la vittoria, perché temeva un contrattacco da parte del nemico. Lo scienziato, infatti, si era reso conto che non sarebbe stato facile proteggere i soldati tedeschi contro gli effetti di quell'agente ed era consapevole del fatto che i chimici non erano stati in grado di sviluppare adeguati metodi di decontaminazione di equipaggiamenti e abiti. I francesi, che avevano già esaminato e rifiutato questo aggressivo chimico giudicandolo non abbastanza devastante, identificarono con relativa facilità la sostanza che i tedeschi inserivano nei loro proietti e ben presto elaborarono un efficace processo di produzione del gas, tanto che, nella primavera del 1918, furono in grado di contrattaccare il nemico con proietti a gas mostarda. In Inghilterra, invece, una serie di controversie sorte tra Pope e altri ricercatori in merito al metodo da adottare per produrre questo agente ne posticiparono la disponibilità all'autunno dello stesso anno, quando era quasi troppo tardi. Tuttavia, alla fine, la superiorità degli Alleati nell'ambito delle risorse oppose ostacoli insormontabili ai tedeschi; se fossero riusciti a resistere fino alla primavera del 1919, essi si sarebbero trovati privi di difese contro una campagna di bombardamenti, molto probabilmente basata anche sul lancio di bombe chimiche sulle città del paese. Inoltre tra le file tedesche si erano registrate enormi perdite causate dal gas mostarda, che aveva temporaneamente privato della vista anche un caporale, un imboscato austriaco, che in seguito avrebbe assunto la guida del Terzo Reich e ordinato l'uso degli aggressivi chimici non contro i soldati nemici sul campo di battaglia ma contro prigionieri privi di ogni difesa rinchiusi in campi di sterminio.
Verso la fine della guerra, le attività chimiche militari di tutti i paesi belligeranti avevano superato la fase dell'improvvisazione, assumendo un carattere di stabilità e, in molti casi, i governi pretesero o tentarono di stabilizzare lo sviluppo delle capacità produttive e di ricerca. In Germania, per esempio, il ministero della Guerra iniziò, a partire dalla fine del 1915, a includere clausole relative alla 'prontezza operativa' nei contratti di finanziamento dei nuovi impianti, in base alle quali le società appaltatrici private si impegnavano a mantenere le strutture in questione in buono stato per dieci o quindici anni dopo la cessazione delle ostilità. Anche se destinati alla produzione di sostanze utili in tempo di pace, questi impianti dovevano essere in grado di riprendere immediatamente la produzione di prodotti chimici militari nel caso in cui il paese si fosse trovato coinvolto in un'altra guerra.
In seguito alla disfatta della Germania, i paesi vincitori annullarono la validità di questi contratti attraverso il Trattato di Versailles e misero in atto la prima procedura moderna di disarmo controllato, sottoposta alla supervisione di una Commissione militare interalleata (Military Inter-Allied Control Commission, MICC), i cui membri potevano ispezionare tutti gli impianti tedeschi, inclusi quelli che si trovavano nelle aree non soggette all'occupazione alleata. Sfortunatamente, lo staff della MICC era relativamente poco numeroso (la sottocommissione per gli esplosivi, per esempio, includeva solo due esperti della materia, in un primo momento rappresentati da un francese e da un chimico inglese). Non era facile quindi imporre il rispetto dei termini dell'accordo con regolari ispezioni e, a partire dal 1927, quando la responsabilità del controllo del processo di smilitarizzazione fu assunta dalla Lega delle Nazioni, non fu più effettuata nessuna ispezione. A quel tempo, tuttavia, gli Alleati avevano imposto lo smantellamento o la conversione di gran parte delle fabbriche di stato tedesche di esplosivi. Le società private, che potevano convertire i loro impianti a usi civili con una relativa facilità, riuscirono a mantenere intatte molte strutture create durante la guerra, anche se le fabbriche di esplosivi furono più colpite di quelle destinate alla produzione di coloranti. Ciononostante, nella misura in cui era in grado di produrre celluloide per usi civili, una fabbrica di esplosivi poteva mantenere intatte strutture che in seguito avrebbero potuto essere di nuovo usate per produrre materiali bellici. La regola del 'duplice uso' era ancora più evidente nel caso delle industrie di coloranti (che potevano riconvertirsi dalla produzione di aggressivi a quella di sostanze per usi civili) e soprattutto in quello degli impianti destinati alla produzione di ammoniaca sintetica della BASF; dal momento che potevano essere usati sia per produrre intermedi per esplosivi sia fertilizzanti, gli impianti Haber-Bosch rimasero pressoché intatti; la BASF perse solo alcune delle sue strutture belliche (per es., diversi impianti di fosgene). La Bayer, che si era dedicata soprattutto alla produzione di esplosivi e di aggressivi chimici, dovette smantellare un numero leggermente maggiore di impianti, tra cui le strutture destinate alla produzione di gas mostarda e la fabbrica di acido pitrico da poco costruita, perdite in parte risarcite dal nuovo governo repubblicano.
Per ironia della sorte, i britannici sottoposero a una condizione temporale lo smantellamento dei loro impianti bellici, in un certo senso di segno opposto a quella della 'prontezza operativa' introdotta dai tedeschi nei contratti di appalto stipulati prima della fine della guerra; in base a questi se nell'arco di dieci anni non fosse emersa l'eventualità di un altro conflitto, il sistema delle fabbriche statali sarebbe stato completamente smantellato. La regola dei dieci anni sembrò accettabile soprattutto perché alla Germania era stato, almeno apparentemente, imposto il disarmo. Così, quasi tutte le fabbriche statali furono demolite (tra le eccezioni va segnalato il complesso di Gretna che rimase un centro militare).
L'industria chimica tedesca si era infine arricchita con la guerra, nonostante le perdite subite dopo la disfatta e, anche se smilitarizzata, l'economia del paese seguitava a essere potenzialmente minacciosa. Quando, nel novembre 1918, l'armistizio aprì la strada alla parziale occupazione della Germania e all'ispezione dei suoi impianti industriali, i chimici militari dei paesi alleati si resero conto di questo stato di cose. Ben presto i paesi vincitori inviarono in Germania comitati di esperti incaricati di raccogliere il maggior numero possibile di informazioni relative alle attività produttive del paese, avviando un processo di trasferimento tecnologico che in qualche modo anticipava quello più articolato messo in atto dopo la Seconda guerra mondiale. Il generale di brigata ed esperto di guerra chimica Sir Harold Hartley che guidò uno dei primi comitati inviati in Germania concluse la sua relazione sulla missione sostenendo che in futuro ogni impianto chimico doveva essere considerato un potenziale arsenale. Era fondamentalmente questa la ragione che giustificava la creazione del MICC e il controllo a cui fu sottoposta l'industria chimica tedesca. Le armi messe a punto dai chimici sembravano di nuovo così devastanti da sconsigliare il ricorso alla guerra e questa volta i vincitori avrebbero dovuto evitare in ogni modo di usarle. Hartley naturalmente aveva ragione ma, ancora una volta, solo in parte.