La seconda rivoluzione scientifica: introduzione. Complementarita e oggetto quantistico
Complementarità e oggetto quantistico
L'opera di Niels Bohr, come spesso è stato sottolineato, è al tempo stesso quella di un fisico e quella di un filosofo. Fra questi due aspetti non c'è giustapposizione, ma un intreccio e un rinvio costante dall'uno all'altro. Nel 1913 Bohr, con la sua rappresentazione della struttura dell'atomo di idrogeno, pose le basi della futura meccanica quantistica e, successivamente, nel 1927 propose, definendola 'complementarità', un'interpretazione dei principî della descrizione dei fenomeni atomici che segnò una rottura definitiva con i fondamenti della filosofia naturale classica. Tale interpretazione, che contiene in nuce numerose implicazioni filosofiche di carattere generale, è radicata nel lavoro scientifico di Bohr ed è inseparabile da esso.
La complementarità ha polarizzato molto rapidamente tutte le discussioni sul significato della meccanica quantistica e ha causato una divisione tra i suoi fondatori: Max Planck, Erwin Schrödinger, Albert Einstein e Louis de Broglie vi si opposero, mentre Werner Heisenberg, Wolfgang Pauli, Hendrik A. Kramers, Max Born, P.A.M. Dirac e Camille Jordan l'accettarono e si sforzarono incessantemente di farne comprendere la complessità. Malgrado tale celebrità, o forse proprio a causa di essa, il pensiero di Bohr è poco conosciuto. Indubbiamente ciò è dovuto sia alla novità del suo oggetto, sia all'aspetto sconcertante della sua forma, sia infine alla sua complicata genesi. Bohr si sforzò di definire una modalità di costituzione dell'oggettività che differiva su alcuni punti essenziali da quella che la fisica aveva adottato per tre secoli. Ciononostante il suo pensiero non si presenta sotto una forma sistematica; occorre considerarlo come se fosse costruito intorno a una specifica questione, che emerge solo lentamente a partire dai diversi problemi sorti nel corso della formazione della teoria quantistica.
Per comprendere quello che Bohr ha inteso dire, è necessario capire come si passi dalle aporie della vecchia teoria quantistica all'emergere della questione generale relativa alle condizioni di coerenza, sia formale sia filosofica, di una fisica deifenomeni atomici. La necessità di un simile passaggio era già presente, all'inizio del lavoro di Bohr del 1913, On the constitution of atoms and molecules, nel problema relativo al rapporto tra teoria quantistica e fisica classica. Parlare di 'teoria' quantistica in quel momento significherebbe anticipare una coerenza che si sarebbe prodotta soltanto successivamente: in realtà il 'quanto d'azione' di Planck, i 'quanti di luce' di Einstein e il modello di Bohr per l'atomo di idrogeno non costituivano ancora un sistema concettuale ordinato e ben definito. Tuttavia una notevole difficoltà appariva già con chiarezza: se la teoria quantistica non era né una generalizzazione né un ripudio totale dell'elettromagnetismo e della meccanica, era necessario trovare un modo di descrivere questa strana relazione che definiva una situazione 'senza precedenti' nella storia della fisica. Dopo quindici anni di indagini sui diversi aspetti di tale difficoltà, Bohr giunse, negli anni 1927-1928, all'idea che ogni applicazione 'univoca' dei concetti della fisica classica (il cui impiego rimane indispensabile) ai processi quantistici comporta una contraddizione insormontabile fra le esigenze della 'rappresentazione spazio-temporale' dei fenomeni e quelle del 'principio di causalità'. Per evitare tale contraddizione bisogna rinunciare all'univocità e ammettere un''ambiguità' essenziale dei concetti classici in ambito quantistico. L'obiettività non può più avere la medesima definizione che aveva nella fisica classica e la nozione di complementarità ha il compito di esprimere tale situazione, chiarendo in quale modo sia ancora possibile utilizzare i concetti classici nella descrizione dei fenomeni atomici senza equivoci e contraddizioni. Naturalmente ciò comporta una nuova difficoltà che Bohr, come la maggior parte dei fisici di cultura tedesca, concepì nei termini del vocabolario di Kant: che cosa significa definire come oggetto il 'processo quantistico' quando non se ne hanno né l'intuizione né il concetto, ma solamente manifestazioni fenomeniche e quando, in alcuni casi, queste sono tra loro incompatibili? Nel contesto del dibattito con Einstein, tale questione della teoria della conoscenza si formula come un problema riguardante i 'nomi divini': Einstein ritiene che ci si possa rappresentare quello che fa Dio, per esempio essere sicuri che egli non giochi a dadi con il mondo, ma, replica Bohr, "già gli antichi profeti ebrei sapevano bene quanto fosse difficile descrivere la natura di Dio mediante i concetti umani". Tuttavia l'atteggiamento di Bohr alla fine sarà, secondo le sue stesse parole, quello di "evitare il misticismo per mezzo del linguaggio".
La comparsa della nozione di complementarità nei testi di Bohr, a partire dal 1927, non ne modifica la finalità essenziale, che resta quella della comprensione del rapporto fra la teoria quantistica e le teorie classiche già espresso nell'ambito del cosiddetto 'principio di corrispondenza' formulato dallo stesso Bohr nel 1920 (Tav. I). Essa inaugura però, al tempo stesso, una prospettiva completamente nuova sulla differenza fra la descrizione quantistica e la descrizione classica dell'oggetto, permettendo di scoprire la natura 'logica' (concettuale) delle difficoltà insite in questo problema.
La complementarità è straordinariamente celebre e ha suscitato una tale quantità di discussioni che si potrebbe scrivere una storia dell'epistemologia contemporanea assumendola come tema; qui sarà presentata innanzi tutto come una prescrizione per l'impiego dei concetti classici, destinata a impedire la contraddizione nel discorso della fisica. Da questo punto di vista, la complementarità è un modo di rispondere alla difficoltà che i postulati quantistici (trasformati in un unico postulato nel 1927) facevano pesare sulla coerenza del discorso fisico in generale. Tale risposta, tuttavia, si trasformerà quasi subito in un nuovo interrogativo: che cosa significa il fatto di dovere attribuire a uno stesso oggetto predicati contraddittori? Tale trasformazione si attua solamente perché Bohr non considera mai i problemi che incontra secondo un'unica prospettiva; egli moltiplica i punti di vista, usa tutti gli elementi di intelligibilità che la propria cultura gli fornisce, rileggendo Friedrich Schiller o Michael Faraday nello stesso tempo in cui discute i risultati di Carl Wilhelm Ramsauer o in cui verifica i calcoli di Felix Christian Klein. Heisenberg ha provato a definire tale situazione:
quello che è nato a Copenaghen, nel 1927, non è soltanto un insieme di prescrizioni non ambigue per l'interpretazione delle esperienze, è anche un linguaggio mediante il quale si parla della Natura a livello atomico, e in tal senso si tratta di una parte della filosofia. Il modo in cui Bohr rifletteva sui fenomeni atomici fin dal 1912 è sempre stato qualcosa di intermedio tra la fisica e la filosofia, ed è soltanto mescolando i problemi pratici dell'esperienza a una ricerca fondamentale che era riuscito a spiegare il sistema periodico degli elementi partendo dalla sola teoria atomica. Egli ha inoltre formulato la nuova interpretazione della teoria quantistica mediante il linguaggio filosofico che gli era divenuto familiare nel corso dei quindici anni passati con gli atomi e che gli sembrava quello che meglio si adattava ai problemi che si incontravano. (Heisenberg 1955a, p. 16)
Di fatto, nella genesi dell'idea di complementarità, la questione filosofica della possibilità di predicare attributi incompatibili di uno stesso oggetto emerge progressivamente dal confronto con le difficoltà sorte nello sviluppo della teoria quantistica fra il 1925 e il 1926. La complementarità resterebbe incomprensibile se non la si mettesse in rapporto con la posizione cui era pervenuto Bohr nel 1925 riguardo ai concetti della fisica classica e agli spettacolari sviluppi degli anni 1925-1927.
Nella primavera del 1925, Bohr aveva ormai rinunciato a tutte le immagini in uso nella vecchia teoria quantistica: orbite elettroniche degli stati stazionari, quanti di luce corpuscolare e campi virtuali, traiettorie degli elettroni. Tenuto conto dell'estrema prudenza testimoniata dalla conservazione del principio di corrispondenza nel corso di questo periodo, è necessario mettere in evidenza fino a che punto l'abbandono delle teorie classiche sia stato progressivo. Bohr considerava inevitabile la rottura fin dal 1913, ma è soltanto a partire dal 1918 che egli abbandona gradualmente la meccanica nell'ambito della spiegazione delle interazioni fra gli elettroni. Nel 1923 resiste alla critica radicale delle immagini meccaniche alla quale lo induce Pauli; soltanto la convergenza del fallimento della teoria degli oscillatori virtuali e delle difficoltà insormontabili che si moltiplicano negli atomi con più elettroni lo convince di come sia impossibile descrivere i fenomeni atomici attraverso rappresentazioni spazio-temporali ordinarie. Come fa notare Sandro Petruccioli, "la rinuncia a un modo di descrizione causale e spazio-temporale non fu un fiat metodologico, ma una decisione teorica necessaria, il cui carattere inevitabile si è imposto con estrema lentezza" (Petruccioli 1989, p. 111). Resta il fatto che all'inizio del 1925, tale evoluzione è compiuta e la contraddizione fra i concetti classici e i postulati quantistici sembra insormontabile. Non è esagerato descrivere questo periodo come quello di un tempo di 'sospensione' di tutti i modi conosciuti di costituzione dell'oggetto fisico. Manca il terreno sul quale camminare e perfino la direzione in cui guardare. "Ci è accaduto di essere completamente disorientati", "talvolta siamo stati vicini allo sconforto", scriverà Bohr.
Il fisico che, secondo gli auspici di Pauli, riuscì a operare una sintesi delle diverse 'assurdità' emerse nel periodo 1920-1925, fu Heisenberg il quale, nel luglio del 1925, propose una reinterpretazione (Umdeutung) delle relazioni della cinematica e della dinamica. "Attualmente, con la meccanica quantistica ispirata dalla teoria della dispersione di Kramers e sviluppata da Heisenberg con un'immaginazione e una perspicacia così straordinarie, disponiamo di una vera teoria di corrispondenza" (Bohr a Rosseland, 6 gennaio 1926, [in BCW, V, pp. 484-485]).
Il fatto che Bohr qualifichi la meccanica quantistica di Heisenberg come 'teoria della corrispondenza', come farà Heisenberg stesso, rivela fino a che punto la 'reinterpretazione' del luglio 1925 apparve immediatamente, ai suoi occhi, come uno spiraglio dischiuso verso la possibilità di un superamento delle contraddizioni fra i postulati quantistici e i principî della fisica classica. Da questo punto di vista, la restrizione alle 'grandezze osservabili' che Heisenberg, seguendo in questo l'ispirazione di Pauli e di Born, attua per pervenire a uno schema matematico nuovo è lo strumento di tale superamento. Heisenberg elabora in effetti la sintesi fra tendenze concorrenti fin dal 1923-1924, da un lato quella della ricerca di analogie con le teorie classiche, dall'altra quella della ridefinizione dei concetti fondamentali. Egli propone di costruire una meccanica analoga alla meccanica classica, ponendo semplicemente fra parentesi i concetti importati dalla fisica classica nel dominio quantistico in quanto tali concetti, in questo caso la posizione e il periodo di rivoluzione dell'elettrone, non hanno alcun significato fisico. Il ritorno a quello che Pauli definisce un''analisi fisica dei concetti di movimento e di forza nel senso della teoria quantistica', la decisione di non lasciarsi guidare che da criteri empirici, trovano così il loro significato nella constatazione del fallimento dei tentativi dei quindici anni precedenti. Il risultato di tale metodo è che Heisenberg arriva ad affrancarsi completamente dal concetto classico di movimento, sciogliendo legami che erano stati stabiliti con la fondazione della fisica matematica in epoca classica.
La meccanica quantistica di Heisenberg però, anche se sviluppata in meccanica matriciale da Born e Jordan, è solamente una soluzione incompleta delle difficoltà e non può pretendere, alla fine del 1925, di sostituire interamente la fisica classica nel campo atomico. Nel corso dei primi sei mesi del 1926, Schrödinger, sfruttando l'idea fondamentale di de Broglie, compie un progresso immenso inventando la meccanica ondulatoria, che conduce alla formulazione dell''equazione di Schrödinger'. Per far questo, però, egli procede seguendo un orientamento completamente diverso da quello di Heisenberg, Born e Jordan. Schrödinger, che d'altronde non appartiene alla tradizione degli spettroscopisti, in effetti prende spunto dall'analogia fra ottica e meccanica promossa da Einstein e de Broglie. Cercando di ottenere una rappresentazione continua e 'intuitiva' (anschaulich) dei fenomeni atomici, si propone di sviluppare il 'senso elettromagnetico' dell'equazione delle onde restando sul terreno della teoria classica di Maxwell-Lorentz e soprattutto affrancando la fisica dai concetti discontinui (stati stazionari e salti quantistici) ereditati dal modello di Bohr del 1913. Secondo Schrödinger, deve esistere "un passaggio continuo dalla meccanica macroscopica intuitiva alla micromeccanica dell'atomo". Ora "sembra estremamente difficile affrontare questi problemi in quanto ci si sente obbligati […] a eliminare ogni immagine intuitiva della dinamica atomica e a operare unicamente con nozioni astratte come le 'probabilità di transizione', i 'livelli di energia', ecc." (Schrödinger 1993, p. 94). Restare nel discontinuo condurrebbe, per Schrödinger, a un crollo cognitivo.
Dal punto di vista filosofico, un verdetto definitivo in tal senso [quello dell'abbandono delle immagini intuitive] equivarrebbe, secondo me, all'ordine di deporre le armi. Infatti ci è impossibile modificare realmente le nostre forme di pensiero e tutto quello che non possiamo calare entro tali forme ci resterà sconosciuto per sempre. È certamente così per certe cose, ma non credo che si possa organizzare la struttura dell'atomo entro esse. (ibidem, p. 95)
In tal modo, a metà del 1926, si crea una configurazione concettuale curiosa. Da un lato, secondo i termini di Schrödinger, "le due teorie quantistiche […] conducono agli stessi risultati, […] anche quando tali risultati differiscono da quelli che dà la vecchia teoria dei quanta" (ibidem, p. 43). D'altra parte, però, "tutto, punto di partenza, concezione, metodo, apparato matematico, sembrava radicalmente diverso". La dimostrazione dell'equivalenza matematica delle due versioni della teoria quantistica va a rinforzare il carattere sorprendente della situazione e sposta le priorità verso la ricerca dei criteri di scelta. Per Schrödinger, come per Heisenberg, si tratta del segno più evidente dell'opposizione fra i due modi di considerare il conflitto fra continuo e discontinuo. Secondo Schrödinger, le due meccaniche si allontanano dalla meccanica classica "dirigendosi verso direzioni diametralmente opposte", poiché la meccanica ondulatoria rappresenta, per quanto la riguarda, un "progresso verso una 'teoria del continuo'". A tale opposizione del continuo e del discontinuo si sovrappone esattamente quella dell'anschaulich e dell'unanschaulich: dopo il XIX sec., infatti, il contesto di tutte le discussioni sui fondamenti della fisica è kantiano. Il 'continuo' si trova nell'ambito dell''intuitivo', a sua volta definito come possibilità di rappresentazione nello spazio e nel tempo ordinari. Tale identificazione è un locus communis; così, in una lettera del 27 maggio 1926, Hendrik Antoon Lorentz scrive a Schrödinger, prima di presentargli molte obiezioni fondamentali: "se in questo momento dovessi scegliere fra la sua meccanica ondulatoria e la meccanica matriciale, preferirei la prima a causa della superiorità del suo Anschaulichkeit, perlomeno finché abbiamo a che fare solamente con le tre coordinate x, y, z" (Przribram 1963, p. 41).
La contraddizione fra il punto di vista ondulatorio e il punto di vista matriciale esplode nel luglio del 1926, in occasione di una conferenza tenuta da Schrödinger a Monaco, su invito di Wilhelm Wien e di Arnold Sommerfeld. Heisenberg assiste a questa conferenza e il suo giudizio è senza ambage. Egli scrive a Pauli: "Schrödinger è tanto simpatico come persona quanto la sua psicologia è, secondo me, aberrante: ad ascoltarlo ci si sente ringiovaniti di ventisei anni; [egli] getta in mare tutto quello che appartiene alla teoria quantistica: l'effetto fotoelettrico, le collisioni di Franck, l'effetto Stern-Gerlach, ecc.; in tali condizioni non è difficile fabbricare una teoria" (Pauli 1979, I, pp. 337-338).
Nel 1926 far ringiovanire la fisica di ventisei anni significa riportarla a prima dell'introduzione della costante di Planck. Ignorare l'effetto fotoelettrico (1905), le collisioni di Franck-Hertz (1914) e l'effetto Stern-Gerlach (1922), significa ignorare gli argomenti più forti della vecchia teoria quantistica in favore dell'esistenza di discontinuità negli scambi di energia. In tal modo Heisenberg rimprovera a Schrödinger, quello che Schrödinger stesso presenta in quel momento come la sua ambizione; gli rimprovera di tentare di ritornare a una descrizione puramente continua dei fenomeni di radiazione.
In seguito a questo primo confronto, Bohr propone a Schrödinger di andare a esporre a Copenaghen i fondamenti della sua interpretazione. La discussione che ha luogo nell'autunno del 1926 fra Bohr e Schrödinger, in presenza di Heisenberg, determina l'evoluzione ulteriore dell'interpretazione della meccanica quantistica. Heisenberg scriverà più tardi che "i mesi che seguirono la visita di Schrödinger furono mesi di lavoro estremamente intenso da cui emerse quella che viene definita 'l'interpretazione di Copenaghen della fisica quantistica'" (Heisenberg 1955, p. 14), vale a dire le due componenti fondamentali rappresentate dalla complementarità e dalle relazioni di indeterminazione. Alla fine dell'inverno 1926-1927 Heisenberg giunge alla formulazione delle relazioni di indeterminazione.
La pubblicazione dell'articolo del marzo 1927 che contiene tale formulazione è d'altronde l'occasione di un conflitto grave fra Heisenberg e Bohr, non soltanto riguardo alla questione della trattazione dell'esperimento mentale esposto in questo articolo, di cui Bohr corregge l'errore, ma anche riguardo all'atteggiamento da assumere nei confronti della meccanica ondulatoria di Schrödinger e delle idee di de Broglie, verso le quali Bohr è, secondo l'opinione di Heisenberg, troppo favorevole. A dire il vero, Bohr sta già elaborando la nuova interpretazione che, nell'autunno di quello stesso anno, presenterà alla Conferenza di Como. Nello stesso periodo egli comincia a scrivere le bozze di una risposta a un articolo di N.R. Campbell, bozze che si trasformeranno nella 'Conferenza di Como', e la posizione che emerge è profondamente diversa da quella di Heisenberg. Nella stesura finale dell'articolo sulla complementarità, le relazioni di indeterminazione rivestono naturalmente un ruolo importante. Esse forniscono un criterio rigoroso per la necessità di rinunciare alla causalità nel campo dei processi in cui non è possibile rinunciare all'intervento della costante di Planck. Tuttavia esse non costituiscono, contrariamente a quello che è stato spesso affermato, la base del ragionamento di Bohr a proposito della complementarità. Tale base comincia a costituirsi in occasione della controversia con Schrödinger.
Dopo la partenza di Schrödinger, Bohr inizia a rileggere i propri articoli del 1913 per ricercarvi le ragioni che lo avevano condotto a introdurre il concetto di stato stazionario. Egli scrive molte lettere, conclude un articolo sui principî della teoria quantistica. Si ignora quale sia stato il contenuto di tale articolo, ma la corrispondenza con Schrödinger mostra che il risultato di queste riflessioni nelle intenzioni di Bohr è quello di legare il problema dell'interpretazione quantistica a quello delle condizioni di definizione dei termini nel linguaggio.
Il 23 ottobre 1926 Schrödinger scrive a Bohr "mi sembra che lei abbia raggiunto, in un certo senso, una posizione provvisoria mediante l'idea che le immagini di apparenza anschaulich debbano essere considerate unicamente in maniera simbolica" (BCW, VI, p. 460). Considerare le immagini di apparenza anschaulich in modo simbolico significa, per Bohr, privarle precisamente di ogni Anschaulichkeit; Schrödinger rifiuta di adattarsi a tale posizione, che egli ritiene provvisoria e, in generale, altrettanto inapplicabile della propria. La lettera prosegue così:
Lei afferma: le parole e i concetti che sono stati utilizzati fino a ora non sono più sufficienti. Tale constatazione non mi soddisfa e non posso dedurne una giustificazione per continuare a operare con dei concetti contraddittori. Certamente è possibile indebolire gli enunciati, affermando per esempio che l'insieme degli atomi 'si comporta sotto certi aspetti come se […]' e ' sotto altri aspetti come se […]', ma ciò non è altro, per così dire, che un espediente giuridico che non può essere trasformato in un ragionamento chiaro […]. La sola cosa che vagamente vedo dinanzi a me, è il principio seguente: anche se si fallisce cento volte, non bisogna abbandonare la speranza di giungere allo scopo, non dico per mezzo di immagini classiche, ma mediante concezioni logicamente consistenti riguardo alla vera natura degli eventi spazio-temporali. (ibidem)
Quest'ultima osservazione è interessante per la sua concessione nei confronti di un'eventuale restrizione delle immagini classiche. Essa indica in effetti che, trovandosi in difficoltà, Schrödinger arma la sua critica contro l'aspetto più paradossale della posizione di Bohr, quello che aveva aperto la strada della nuova meccanica lasciandogli in eredità una difficoltà fondamentale: l'abbandono delle rappresentazioni spazio-temporali ordinarie in generale.
Nella sua risposta, un mese e mezzo più tardi, Bohr stabilisce una rigorosa simmetria fra la meccanica matriciale e la meccanica ondulatoria trattandole ambedue come 'teorie di corrispondenza', vale a dire come teorie fondate su analogie formali:
è effettivamente possibile [secondo le ricerche di Klein], sulla base della meccanica ondulatoria, costruire una 'teoria della corrispondenza' altrettanto compiuta della meccanica delle matrici, la quale d'altro lato può essere considerata come una 'teoria della corrispondenza' fondata sulla meccanica corpuscolare. A tale riguardo, è interessante vedere la maniera in cui talvolta è il concetto di onda, talvolta è il concetto di corpuscolo a presentarsi come quello maggiormente adeguato secondo il luogo della descrizione in cui appare esplicitamente l'ipotesi della discontinuità. Secondo me, ciò si comprende facilmente dal fatto che 'la definizione di ogni concetto o piuttosto di ogni parola presuppone la continuità dei fenomeni e di conseguenza diventa ambiguo non appena viene a mancare tale presupposto'. (ibidem, p. 462)
Quest'ultima osservazione è la più importante. Avendo fatto lavorare Klein sull'applicazione del formalismo ondulatorio, Bohr avrebbe constatato che, a seconda del modo di apparizione del discontinuo nel problema trattato, si imponeva l'una teoria o l'altra teoria; ma è la ragione invocata da Bohr che è essenziale. Se è possibile utilizzare sia il concetto di onda sia quello di corpuscolo, se dunque si rileva un''ambiguità', ciò è dovuto semplicemente alla natura del dominio degli oggetti. Nei processi atomici non è più possibile presupporre la continuità dei fenomeni; qualsiasi impiego univoco (non ambiguo) di un concetto esige la continuità delle rappresentazioni spazio-temporali. Dunque l'impiego dei concetti ondulatori e corpuscolari è equivoco e ambiguo; così le teorie di Heisenberg e di Schrödinger sono teorie della corrispondenza. Lo stesso ragionamento è proposto da Bohr a proposito della conclusione che egli trae dal fallimento della teoria di Bohr-Kramers-Slater, e ciò spiega il tono con il quale si conclude la sua lettera:
ma non vi è dubbio che qui non è soltanto l'abominazione sotterranea che lei trova ripugnante e non posso dire con quale considerevole interesse osservo i suoi sforzi per realizzare le sue speranze di chiarezza. Nel caso in cui lei non riuscirà ad assassinare completamente i fantasmi nello spazio e nel tempo ordinari, allora forse troveremo un compromesso in futuro, in un mondo a cinque dimensioni! (ibidem)
Bohr ritiene probabilmente, a giusto titolo, di aver già affrontato il problema che si pone Schrödinger, impiegando quindici anni per rinunciare alle orbite. Resta il fatto che qui si ha una delle prime occorrenze di una connessione con il funzionamento del linguaggio e che, nella sua risposta, Bohr ha spostato il luogo della difficoltà. Alla problematica di Schrödinger, che continua a postulare l'univocità e a ricercare immagini, o almeno concetti, adeguate alla vera natura degli eventi spazio-temporali, ha sostituito una problematica profondamente diversa che consiste nell'interrogare le condizioni della definizione dei concetti. La complementarità svilupperà le conseguenze di tale sostituzione.
L'importanza del periodo 1925-1926 è evidente. Dal punto di vista di Bohr, in questo periodo vi è l'emergere di due teorie di corrispondenza fra il campo quantistico e i concetti classici, che forniscono così due strumenti per superare la contraddizione apparentemente totale constatata nella primavera del 1925. Il conflitto fra queste teorie pone in primo piano il problema generale dell'interpretazione di una simile contraddizione. La reazione di Bohr non deve stupire, tenuto conto di quello che si è detto precedentemente sul suo metodo e sulla funzione del principio di corrispondenza. Essa consiste nel delucidare le ipotesi fondamentali alla base dei due formalismi, e successivamente nell'interrogarsi sui campi di validità dei concetti utilizzati in ogni versione della nuova meccanica. Al tempo stesso, però, tale spostamento del luogo della contraddizione mette in evidenza che un presupposto fondamentale di tutta la fisica classica era la non ambiguità delle definizioni. Non è dunque a tale o a talaltro concetto classico che bisogna rinunciare, come Bohr aveva creduto nel periodo precedente, ma a questo presupposto. In fisica quantistica, il linguaggio della fisica classica diventa un linguaggio equivoco: la controversia con Schrödinger potrebbe figurare, nell'evoluzione delle idee di Bohr, come un 'punto di svolta linguistico'.
La Conferenza di Como è la prima espressione pubblica delle idee di Bohr sulla complementarità. Essa ha come argomento un'interpretazione fisica coerente per la nuova 'meccanica quantistica', sintesi di due formalismi ondulatori e matriciali unificati mediante l'interpretazione statistica di Born e mediante la teoria delle trasformazioni di Dirac e di Jordan. Afferma Bohr: "Cercherò di descrivervi una sorta di punto di vista generale che ritengo capace di fornire un quadro d'insieme dell'intero sviluppo della teoria fin dal suo inizio e che, spero, contribuirà ad armonizzare le vedute apparentemente conflittuali adottate da diverse parti" (Bohr 1928a, Introduzione).
Nei foglietti manoscritti riguardanti la Conferenza di Como, la nozione di complementarità appariva in stretta relazione con le osservazioni contenute nello scambio di lettere con Schrödinger. Così Bohr annota che "tutti i concetti classici [sono] definiti mediante immagini spazio-temporali". Egli menziona "aspetti complementari dell'esperienza che non possono essere riuniti in un'immagine spazio-temporale fondata sulle teorie classiche", e "l'inseparabilità della non-contraddizione e dei principî dell'applicazione della teoria". Soprattutto, in una bozza della lettera prevista per essere inviata alla rivista "Nature" sottolinea il "contrasto fra i principî soggiacenti alla descrizione ordinaria dei fenomeni naturali e l'elemento di discontinuità caratteristico della teoria quantistica". Tale contrasto permette di anticipare, scrive Bohr, una limitazione della validità di "ogni concetto impiegato per rendere conto dei dati sperimentali". In altre parole, "la questione non è quella di una scelta fra i due concetti rivali [per esempio i quanta di luce di Einstein e il principio di sovrapposizione], ma piuttosto quella della descrizione di due aspetti complementari del fenomeno" (ibidem, p. 245).
Si trova dunque proprio la stessa concatenazione di idee della lettera a Schrödinger. La definizione di ogni concetto classico mediante le immagini spazio-temporali (vale a dire mediante un requisito di continuità) e la discontinuità della teoria quantistica implicano la limitazione di ogni concetto utilizzato per la descrizione dell'esperienza. La novità è che Bohr, in questi manoscritti, inventa una parola per designare tale concatenazione, quella di complementarità. Egli non ne sarà peraltro mai soddisfatto, ripetendo costantemente che a tale parola "è necessario attribuire un senso completamente nuovo". Nel 1929, tenterà persino di sostituirlo con il termine 'reciprocità'.
'Complementarità', in effetti, non significa in alcun modo qualcosa come 'collaborazione'. Al contrario la complementarità include sempre la mutua esclusione degli elementi definiti complementari. Citiamo la descrizione canonica che ne fornisce l'articolo del 1928:
Secondo l'essenza della teoria dei quanta, dobbiamo accontentarci di considerare la presentazione (Darstellung) nello spazio e nel tempo e il principio di causalità, la cui combinazione è caratteristica delle teorie classiche, come aspetti complementari, ma escludentisi l'un l'altro, della descrizione del contenuto dell'esperienza che simbolizzano le possibilità di idealizzazione e di definizione.
Senza considerare per il momento il significato preciso delle parole, è possibile scomporre la struttura di questa frase. Appare immediatamente che Bohr vi descrive la differenza fra le teorie classiche e la teoria quantistica come il passaggio da una congiunzione a una disgiunzione esclusiva:
La descrizione dell'esperienza è esaustiva in ambedue i casi. Tuttavia in fisica classica essa si compie con la sovrapposizione di aspetti omogenei, mentre in meccanica quantistica essa è compiuta con la disgiunzione di tali aspetti. In altri termini, le condizioni di manifestazione fenomenica classica dell'oggetto sono esclusive l'una dell'altra in meccanica quantistica. Questo vuol dire che se a un processo quantistico fosse applicata l'esigenza della localizzazione spazio-temporale e contemporaneamente quella di causalità, si giungerebbe a una contraddizione insormontabile. Per evitare tale contraddizione bisogna rinunciare a imporre ai processi queste due esigenze contemporaneamente. Il significato della complementarità è quello di essere il genere di 'relazione' esistente fra modi di descrizione dell'oggetto fisico che sarebbero contraddittori se fossero applicati contemporaneamente allo stesso oggetto. Prima di commentare il modo in cui Bohr affronta tale problema, è utile spiegare perché esso si pone.
A tal fine bisogna ricordare che l'incompatibilità fra possibilità di idealizzazione (localizzazione spazio-temporale) e possibilità di definizione (causalità) rinvia a un contesto fisico preciso. La causalità in questo caso è un principio metodologico astratto del ragionamento scientifico, essa è indissociabile dal principio di conservazione dell'energia e dell'impulso. A proposito dell'incompatibilità fra l'applicazione delle immagini spazio-temporali e quella della conservazione rigorosa dell'energia, nel manoscritto del 10 luglio 1927, Bohr annota: "si è costretti a impiegare statisticamente i concetti classici. Il primo tentativo mettendo in relazione immagini spazio-temporali con la conservazione dell'energia e dell'impulso./ Corrispondenza, vale a dire messa in relazione leggi statistiche con i tratti caratteristici delle immagini. Possibile in larga misura. Ma conduceva all'ipotesi statistica per l'energia".
Inoltre le relazioni di indeterminazione di Heisenberg stabilivano rigorosamente tale incompatibilità. Esse effettivamente dimostravano che era possibile determinare simultaneamente con voluta precisione i parametri mediante i quali la fisica classica forniva una descrizione completa dello stato iniziale di un sistema, per esempio la posizione (localizzazione) e l'impulso (conservazione). Bisogna considerare che la "non-validità del principio di causalità" affermata alla fine dell'articolo di Heisenberg sulle relazioni di indeterminazione non significa una rinuncia al principio di conservazione stesso, che mantiene la sua validità nella meccanica quantistica, ma solamente alla possibilità di associare simultaneamente localizzazione e conservazione nell'osservazione di un sistema. La ragione di tale rinuncia è l'interazione che inevitabilmente si produce fra lo strumento di misurazione e il sistema considerato. Nell'insieme, la situazione è quella del 'dilemma', secondo il termine utilizzato costantemente da Bohr: o non si osserva il sistema, e si ha allora il diritto di applicargli una legge di evoluzione determinista (all'occorrenza l'equazione differenziale di Schrödinger), ma in tal caso si ottiene un modesto progresso nella fisica; oppure si osserva il sistema e per ciò stesso perturbandolo e ci si trova nella situazione di una reciprocità fra la determinazione dei parametri di localizzazione e quella dei parametri di impulso con la necessità di dare all'equazione di Schrödinger un'interpretazione statistica. Un passaggio della Faraday Lecture del 1932 indica chiaramente in quale senso vada interpretata la rinuncia al principio di causalità:
nell'applicazione dei concetti classici [il principio di indeterminazione di Heisenberg] fornisce i limiti entro i quali possono essere utilizzati i concetti classici per comprendere le leggi fondamentali della stabilità dell'atomo che si trovano al di là di tali concetti. Si tratta di un'indeterminazione essenziale che non deve essere considerata come un qualcosa che implichi un abbandono unilaterale dell'ideale di causalità che sottostà a ogni spiegazione dei fenomeni naturali. L'impiego della conservazione dell'energia in connessione con l'idea degli stati stazionari significa, per esempio, un mantenimento della causalità che colpisce particolarmente se ci rendiamo conto che l'idea stessa di movimento, sulla quale riposa la definizione classica dell'energia cinetica, è diventata ambigua nel campo della costituzione atomica. Come ho già sottolineato […] la coordinazione spazio-temporale e le leggi di conservazione dinamiche possono essere considerate come due aspetti complementari della causalità ordinaria che, in questo campo, si escludono l'un l'altro in certa misura, benché nessuno dei due perda la sua intrinseca validità. (Bohr 1932b, pp. 375-376)
Alla luce di questo testo, si può concludere che la mutua esclusione fra descrizione spazio-temporale e causalità significa incompatibilità fra localizzazione e conservazione. Il testo del 1929 scritto per il giubileo di Planck menzionerà la "simmetria reciproca che esiste fra la descrizione spazio-temporale e i teoremi di conservazione dell'energia e dell'impulso". D'altronde, è chiaro che le frasi nelle quali Bohr testimonia una "rinuncia a una descrizione causale nello spazio e nel tempo" indicano una "rinuncia alla descrizione 'simultaneamente' causale e spazio-temporale" che definiva la 'causalità ordinaria' o ancora il determinismo matematico della fisica classica. La complementarità definisce una forma nuova di costituzione dell'oggetto, in cui l'associazione fra cinematica e dinamica è infranto.
In quale modo Bohr stabilisce tale abbandono nell'articolo del 1928? Senza riprendere l'insieme dell'argomentazione di un testo molto lungo e nel quale ciascuna frase, sezione dopo sezione, si riferisce alle discussioni degli anni precedenti, si può presentare il ragionamento generale nella maniera seguente. In primo luogo, la teoria dei quanta riposa su un unico postulato: "ogni processo atomico contiene una nota di discontinuità o piuttosto di individualità che è del tutto estranea alle teorie classiche e che è caratterizzata per mezzo del quanto di azione di Planck". Tale postulato esprime il fatto che l'osservazione di un processo atomico implica sempre un'interazione di cui non si può non tenere conto fra l'oggetto osservato e lo strumento di misurazione. Le teorie classiche presupponevano che l'osservazione non influenzasse sensibilmente i fenomeni, cosa che conduceva ad attribuire a questi ultimi una realtà fisica indipendente. Inversamente, il postulato quantistico mette in evidenza che la nozione stessa di osservazione implica una parte di arbitrarietà nella scelta di quello che viene considerato come oggetto. Esiste quindi una limitazione fondamentale dei concetti fisici classici quando essi sono applicati ai fenomeni atomici. Considerando le conseguenze di tale situazione Bohr espone il dilemma che abbiamo già descritto e definisce la complementarità mediante la disgiunzione dell'impiego di una descrizione dei fenomeni nello spazio e nel tempo e dell'applicazione del principio di causalità. Un'altra conseguenza deve, però, essere menzionata: il postulato quantistico crea in effetti una situazione di natura speciale, in quanto "la nostra interpretazione dei dati forniti dall'esperienza si fonda sull'applicazione delle nozioni classiche". I concetti classici appaiono come 'astrazioni', nella loro applicazione a oggetti microscopici, ma è comunque necessario utilizzarli "per esprimere il contenuto dell'esperienza in una maniera che si ricollega alla nostra rappresentazione ordinaria". Si incontreranno dunque difficoltà nella semplice 'formulazione' del contenuto della teoria dei quanta. In altri termini, come parlare di fenomeni che sfuggono al dominio del linguaggio della fisica classica? La soluzione, o piuttosto una delle possibili vie di uscita, è data dalla constatazione che in realtà qui non si tratta di concezioni contraddittorie dei fenomeni, ma di concezioni 'complementari', che forniscono soltanto mediante la loro combinazione una generalizzazione razionale della modalità di descrizione classica. La regola che governa tali impieghi complementari è data dal formalismo: "considerando il carattere di complementarità richiesto dal postulato dei quanta, è effettivamente possibile costruire, con l'aiuto dei metodi simbolici [vale a dire della meccanica quantistica], una descrizione dei fenomeni atomici esente da contraddizioni" (Bohr 1928a, sez. 7). Il compito che si impone, però, richiede nientemeno che un cambiamento nel pensiero: "noi ci troviamo a questo punto sulla strada […] di un adattamento delle nostre forme di intuizione, prese in prestito dalle impressioni sensoriali, alla conoscenza via via più profonda della Natura. Gli ostacoli che incontriamo in tale percorso provengono innanzi tutto dal fatto che per così dire ogni termine del nostro linguaggio è legato a tali forme di rappresentazione". Tale stato di cose, conclude Bohr "mostra una profonda analogia con le difficoltà generali della formazione dei concetti umani, basata sulla separazione del soggetto e dell'oggetto" (ibidem).
In sintesi, l'articolo del 1928 introduce la complementarità come la 'relazione', propria della teoria quantistica, che è in grado di unire alcune modalità di descrizione dell'oggetto che nella fisica classica erano assunte come tra loro compatibili. Il fatto che la localizzazione spazio-temporale e la causalità devono essere considerate come aspetti complementari, vale a dire reciprocamente esclusivi, dell'oggetto fisico, implica la scomparsa dell'oggetto fisico classico, che era costruito attraverso una certa combinazione fra la cinematica e la dinamica. Ne risulta una limitazione dei concetti classici fondati sulle nostre rappresentazioni ordinarie, che comunque restano l'unico modo per esprimere il contenuto dell'esperienza. Se, però, l'oggetto è irrappresentabile, la fisica è 'indicibile'. Per evitare tale conclusione, bisogna lavorare a un cambiamento nell'uso delle nostre forme di intuizione, vale a dire riflettere sul linguaggio, sulla genesi dei concetti e sulla maniera in cui vengono stabiliti i confini fra il soggetto e l'oggetto.
La risposta si è dunque trasformata in domanda. Lo sviluppo di un punto di vista destinato a conciliare vedute generali divergenti riguardo al rapporto con i concetti classici ha condotto Bohr fino al problema di capire che cosa è richiesto affinché sia garantita la coerenza degli enunciati della fisica, in una situazione in cui si è costretti ad attribuire predicati contraddittori allo stesso oggetto. La difficoltà è vecchia: si potrebbe dire che la storia della filosofia è attraversata da tale problema. Bohr, comunque, candidamente o quasi, lo riscopre, ma ciò non gli impedisce di saggiarne la forza. In tal modo egli riuscirà a tenere testa alla concorrenza che viene opposta alla complementarità agli inizi della logica quantistica.
Fin dal 1927, John von Neumann dimostra che è impossibile interpretare alcune proposizioni che descrivono le situazioni sperimentali in teoria quantistica nei termini del calcolo preposizionale della logica classica. Mentre in fisica classica tutte le 'proposizioni sperimentali' sono compatibili, in fisica quantistica ciò non avviene. Introducendo la nozione di osservabilità non simultanea, la meccanica quantistica ha, secondo von Neumann, rovesciato i fondamenti stessi della logica e creato situazioni nelle quali la congiunzione o la disgiunzione non sono più operazioni definite del calcolo preposizionale. La quintessenza dell'opposizione di Bohr a tale maniera di vedere le cose è fornita dal resoconto della sua discussione con von Neumann a Varsavia:
il professor Bohr esprime la sua ammirazione per la padronanza con la quale il professor von Neumann ha trattato, dal punto di vista matematico e logico, i problemi fondamentali della teoria quantistica. Egli indica, al tempo stesso, come gli esempi semplicissimi di dispositivi sperimentali ai quali allude nel suo rapporto evidenziano precisamente, sotto una forma più elementare i medesimi punti essenziali che risultano dall'analisi matematica. Egli fa anche osservare che la questione delle forme logiche più adatte alla teoria quantistica è, in fin dei conti, un problema pratico, che riguarda la scelta e la maniera più comoda di esporre la nuova situazione che si presenta in tale campo. Da parte sua, egli si è sforzato di conservare le forme logiche della vita quotidiana, nelle quali sono necessariamente racchiuse le esperienze immediate. Lo scopo della complementarità è propriamente permettere tale mantenimento delle forme logiche abituali avendo però riguardo all'estensione necessaria per abbracciare la nuova situazione relativa al problema dell'osservazione in fisica atomica. (Bohr 1939b, p. 41)
Dal punto di vista di Bohr, ogni tentativo di fare a meno della logica classica sarebbe in effetti non realistico. In ultima istanza, i risultati dell'osservazione sono espressi nel linguaggio degli apparecchi di misurazione macroscopici, vale a dire nel linguaggio della fisica classica. Agli occhi di Bohr, non vi è più una logica quantistica utilizzabile dal fisico, così come non ci sono i concetti quantistici. È la stabilità dei referenti a svanire, e con essa la convinzione che una buona organizzazione del linguaggio umano possa tradurre la connessione degli oggetti della Natura. Heisenberg, meno reticente di Bohr verso la logica quantistica, riassumerà chiaramente le tre possibilità che si prospettano in tal caso "se si desidera parlare delle particelle atomiche stesse, bisogna impiegare sia il formalismo matematico come unico supplemento del linguaggio ordinario, sia combinarlo con un linguaggio che si serve unicamente di una logica modificata o che non utilizza alcuna logica ben definita" (Heisenberg 1958 [1961, pp. 247-248]). La complementarità corrisponde in quest'ottica al linguaggio che non utilizza alcuna logica ben definita.