La seconda rivoluzione scientifica: matematica e logica. Le logiche modali
Le logiche modali
L'Organon di Aristotele, atto di nascita della logica formale, comprende, oltre alla teoria delle proposizioni e dei sillogismi categorici, anche una trattazione dei loro analoghi modali. Le proposizioni categoriche rappresentano asserzioni assolute e costituiscono, con le relative inferenze, l'oggetto tradizionale della logica classica. Essa è caratterizzata dal fatto che gli operatori logici (congiunzione, disgiunzione, implicazione, negazione) sono 'verofunzionali': il loro comportamento è completamente determinato dal valore di verità (vero o falso) delle proposizioni coinvolte. In una proposizione modale, invece, intervengono qualità dell'asserzione ('modi'), che non sono verofunzionali. Aristotele prende in considerazione i quattro modi che rimarranno fondamentali ‒ necessario, possibile, contingente, impossibile ‒ e ne studia i rapporti negli Analitici primi definendo possibile ciò che non è impossibile e contingente ciò che non è né necessario né impossibile.
Le tematiche modali furono ampiamente dibattute dai successori di Aristotele, a cominciare da Teofrasto, più ancora di quelle relative alla logica usuale. Anche i megarici e gli stoici discussero le modalità e Diodoro Crono, megarico, fu forse il primo a collegarle in modo sistematico con il tempo. Il dibattito continuò intensamente durante tutto il Medioevo.
La rinascita della logica modale moderna segue di qualche decennio quella della logica classica (cioè la logica matematica così come si è sviluppata lungo l'asse Boole-Frege-Russell-Hilbert) e, in un primo momento, costituisce il catalizzatore delle critiche e delle insoddisfazioni sorte nei confronti di questa. I due autori di maggior rilievo nella fase iniziale furono Clarence I. Lewis (1883-1964) e Jan Łukasiewicz (1878-1956). In Implication and the algebra of logic (1912) Lewis critica l''implicazione materiale' dei Principia mathematica per la mancanza di connessione tra i significati delle proposizioni coinvolte, e alcuni anni dopo, in A survey of symbolic logic (1918), propone il concetto di implicazione stretta. Poiché 'A implica strettamente B' corrisponde all'espressione 'è necessario che A implichi materialmente B', Lewis, di fatto, arricchisce il linguaggio della logica classica con un operatore non verofunzionale per esprimere la necessità. Non volendo attribuire un significato univoco a tale concetto, nel 1932 l'autore propose, con Cooper H. Langford (1895-1965), ben cinque calcoli modali, S1-S5, di potenza crescente, ottenibili dal calcolo classico con l'aggiunta di assiomi riguardanti l'operatore di necessità.
Łukasiewicz pervenne alle modalità per altra via. Nel 1918 egli affiancò ai valori di verità 0 (falso) e 1 (vero), il valore di verità 1/2, ottenendo in tal modo una logica polivalente. Era naturale interpretare 1/2 come 'possibilità'. Łukasiewicz, che aveva anche profondi interessi per la storia della logica, scelse come accezione di 'possibile' quella connessa alla discussione aristotelica dei futuri contingenti, con tutte le difficoltà già note fin dall'Antichità.
Fino alla seconda metà degli anni Cinquanta, nella fase che potremmo chiamare 'sintattica', furono proposti molti calcoli. La scelta degli assiomi era strettamente legata al problema, dibattuto già dagli Antichi, del senso delle modalità iterate. Tali calcoli risultarono spesso in contrasto tra loro, chiaro segnale della mancanza di un concetto univoco di necessità. Per contro, i rapporti interni tra i modi si stabilizzarono. Se impieghiamo i simboli □ e ¬ per indicare la 'necessità' e la 'negazione' abbiamo le seguenti definizioni:
necessario α:□α; possibile α:¬□¬α;
impossibile α:□¬α; contingente α:¬□α.
Diversamente dalla posizione aristotelica, 'contingente' viene identificato con 'non necessario'. Osserviamo che si può partire da qualunque modo per generare gli altri. Per esempio, partendo dal 'possibile', che indichiamo con il simbolo ◇, abbiamo:
necessario α:¬◇¬α; possibile α:◇α;
impossibile α:¬◇α; contingente α:◇¬α.
Di solito, si assume □ come simbolo primitivo e si introduce ◇ come abbreviazione di ¬□¬.
Tra i sistemi proposti nella fase sintattica, tre emersero per importanza: il calcolo T, ottenuto prendendo come assiomi modali le formule □(α→β)→(□α→□β) e □α→α ('se α è necessario allora α è vero); il calcolo S4 (Lewis e Langford 1932), ottenibile aggiungendo a T l'assioma □α→□□α ('se α è necessario allora α è necessariamente necessario'; tale proprietà, con la precedente, comporta che ogni iterazione di modalità uguali è riducibile a una sola); il calcolo S5, degli stessi autori, ottenibile aggiungendo a S4 l'assioma α→□◇α ('se α è vera, allora α è necessariamente possibile'). La definizione, più tardi, di un efficace concetto di modello modale, giustificherà da un punto di vista semantico l'importanza di questi tre calcoli e dei loro assiomi.
Un chiarimento decisivo sulla natura dei rapporti tra la logica classica e quella modale si ha indubbiamente con il concetto di modello. Dato un enunciato α della logica classica e un modello classico M (cioè un contesto nel quale interpretare α), α può essere vero o falso in M. Per esempio, l'enunciato 'per ogni x esiste un y tale che y⟨x∃ è falso nel modello dei numeri naturali (lo 0 non ha predecessori) mentre è vero nel modello dei numeri interi. Oltre a enunciati come questo, che possono cambiare valore di verità al variare del modello di riferimento, esiste una classe di enunciati ‒ le tautologie ‒ che sono veri in ogni modello, e una classe di enunciati ‒ le contraddizioni ‒ che sono invece falsi in ogni modello. Le tautologie hanno quindi, rispetto agli altri enunciati, la caratteristica della 'necessità', essendo sempre vere, mentre le contraddizioni hanno quella della 'impossibilità', non essendo mai vere. Si determina così, in modo naturale, una correlazione tra i quantificatori (le parole 'per ogni' ed 'esiste' riferite ai modelli), gli operatori modali e anche quelli temporali (le parole 'sempre', 'talvolta', e così via).
In tale corrispondenza le modalità equivalgono a quantificazioni sui modelli e hanno luogo quindi nel metalinguaggio. Se però ci riferiamo a un singolo modello M, allora una tautologia è vera in M come lo è una qualunque altra formula non tautologica verificata in M. In altri termini, tutte le formule vere in un modello sono, per tale modello, ugualmente necessarie. I modelli classici sembrano quindi non aver bisogno di distinzioni modali al loro interno. Del resto, è stata unanime da parte dei fondatori della logica matematica la scelta di confinare le modalità nel metalinguaggio. Il loro ritorno all'interno del linguaggio, realizzato dalla logica modale, è dovuto, oltre alla già ricordata speranza di superare presunti aspetti paradossali dell'implicazione materiale, anche al desiderio di formalizzare porzioni più ampie di linguaggio naturale, al di là dei confini della matematica. Sono infatti frequenti, anche nel discorso scientifico, enunciati che fanno riferimento alla necessità o alla possibilità di determinati eventi. Poiché, da un punto di vista semantico, le considerazioni modali metalinguistiche coinvolgono la pluralità dei modelli classici, le considerazioni modali linguistiche, dovendosi interpretare in un singolo modello modale, richiedono che esso sia in qualche modo equiparabile a un insieme di modelli classici. Il primo elemento nella moderna definizione di modello modale è in effetti un insieme W di oggetti ‒ chiamati mondi, o stati di cose, o descrizioni o anche, più semplicemente, punti ‒ ciascuno dei quali può essere inteso come un modello classico.
Tuttavia, se ci fermassimo qui e definissimo necessario un enunciato quando è vero in tutti i punti di W, allora avremmo semplicemente riprodotto la situazione metalinguistica classica. La novità è costituita dalla presenza di una relazione binaria R tra gli oggetti di W, chiamata 'relazione di accessibilità'. Un modello modale è infatti definito come una coppia M=⟨W,R>, vale a dire un insieme di punti (mondi, descrizioni, stati di cose) collegati in qualche modo tra loro. L'idea intuitiva che s'intende formalizzare è la seguente: affermare che un enunciato α è necessario in un punto w equivale a dire che α è vero in ogni punto che sia accessibile, 'concepibile', a partire da w. Ciò che accade ad α in mondi che, pur esistenti, non sono concepibili da w, non può interferire con la necessità di α in w. Analogamente, affermare che α è possibile in un punto w significa che α è vero in almeno un punto che sia accessibile da w. La definizione formale ricalca quella appena data:
w ⊨□α se, per ogni u∈W tale che wRu, u ⊨α
(da leggersi: w verifica 'necessario α' se, per ogni u tale che wRu, u verifica α)
w ⊨ ◇α se esiste u tale che wRu e u ⊨ α.
È la presenza della relazione R che rende versatile il concetto di modello modale: la possibilità di selezionare i punti accessibili da un dato punto w vincola la verità degli enunciati in w alle proprietà della relazione stessa. Lo studio di questo collegamento ha preso il nome di teoria della corrispondenza e ha rappresentato lo sviluppo più interessante della logica modale moderna. Ne vediamo alcuni esempi. L'enunciato □α→α, che caratterizza il calcolo T, vale in ogni punto w di un modello ⟨W,R> se e solo se R è riflessiva. L'enunciato □α→□□α, che caratterizza S4, vale in ogni punto di un modello se e solo se R è transitiva. La corrispondenza aiuta a comprendere il significato dell'enunciato: scopriamo che esso equivale alla richiesta che se da un mondo w è concepibile un mondo u, e da questo è concepibile un mondo z, allora anche da w deve essere concepibile z. In certi modelli, vale a dire per certe relazioni di accessibilità, l'enunciato sarà accettabile, in altri no. L'enunciato α→□◇α, che caratterizza S5, vale in ogni punto di un modello se e solo se R è simmetrica.
Se riteniamo che, dati due mondi w e u, se u è concepibile da w allora w è concepibile da u, in tal caso dobbiamo accettare l'enunciato, altrimenti rifiutarlo. È interessante osservare come alle tre formule che caratterizzano i calcoli più importanti del periodo sintattico siano venute a corrispondere, a posteriori, le tre proprietà più significative per le relazioni binarie: riflessività, transitività e simmetria.
Quella che è stata appena descritta è chiamata semantica dei mondi possibili, o relazionale, o ancora di Kripke, dal nome dell'autore, Saul Kripke, che maggiormente ha contribuito alla sua diffusione. Il primo a occuparsi esplicitamente di semantica per le modalità è stato Rudolf Carnap (1891-1970), che analizzò le modalità in termini di quantificazione su mondi possibili. Oltre che con possible worlds, di derivazione leibniziana, Carnap si riferisce ai mondi con le espressioni state descriptions o possible states of affairs, quest'ultima derivata da Ludwig Josef JohannWittgenstein (1889-1951). Nel suo lavoro tuttavia non compare l'idea di una relazione di accessibilità tra mondi. Il primo a considerarla è stato Arthur Prior (1917-1969), in ambito sia modale sia temporale. D'altronde il passaggio tra i due contesti è immediato: se, come mostra lo schema precedente, sul versante sintattico □α e ◇α divengono 'α è sempre vero' e 'α è talvolta vero', sul versante semantico i punti del modello, anziché come mondi, sono interpretati come istanti e R, anziché come relazione di accessibilità, è intesa come precedenza temporale. Prior svilupperà la semantica relazionale fino al 1962. Negli stessi anni, dal 1958 al 1965, Kripke, dimostrando la completezza di molti calcoli modali rispetto a particolari classi di modelli, sancirà in modo definitivo il successo di tale semantica.
Al fine di studiare possibili connessioni tra algebra e topologia, John C.C. McKinsey e Alfred Tarski (1902-1983), in The algebra of topology (1944), posero le basi di un nuovo calcolo algebrico. Il concetto centrale era quello di algebra di chiusura, un tipo di struttura che si ottiene aggiungendo a un'algebra di Boole un nuovo operatore unario C soddisfacente le usuali proprietà dell'operazione di chiusura topologica. Due anni dopo, gli stessi autori stabilirono una connessione tra le algebre di chiusura e le algebre di Brouwer (McKinsey 1946). Tali strutture, chiamate successivamente algebre di Heyting, rappresentano la controparte algebrica della logica intuizionista, allo stesso modo in cui le algebre di Boole lo sono della logica classica. McKinsey e Tarski dimostrarono che l'insieme degli elementi chiusi di un'algebra di chiusura (cioè gli elementi x tali che Cx=x) costituiscono un'algebra di Heyting e, viceversa, che ogni algebra di Heyting è l'algebra dei chiusi di un'algebra di chiusura.
Ancora due anni dopo, in questo quadro di interrelazioni tra teorie diverse fece il suo ingresso la logica modale. In Some theorems about the sentential calculi of Lewis and Heyting (1948) gli stessi autori dimostrarono che, traducendo (in modo molto naturale) ciascuna formula modale α in un polinomio algebrico α*, si ha che l'identità α*=1 vale in ogni algebra di chiusura se e solo se α è un teorema del calcolo modale S4. Lo stesso rapporto sussiste tra il calcolo S5 (che è una estensione di S4) e la classe delle algebre di chiusura in cui ogni chiuso è anche un aperto (algebre monadiche). Le algebre di chiusura forniscono quindi una semantica per S4 e per le sue estensioni, diversa e anteriore a quella dei mondi possibili. Inoltre il rapporto trovato in precedenza tra le algebre di chiusura e le algebre di Heyting, si riproduce tra il calcolo S4 e il calcolo intuizionista. Abbiamo quindi il seguente
Consideriamo la seguente proprietà di una relazione R: per ogni punto w esiste un unico punto u tale che wRu. La formula modale corrispondente è ◇α→□α, nel senso ormai noto che la formula vale in ogni punto di un modello ⟨W,R> se e solo se R soddisfa tale proprietà. Chiaramente, ciò che la formula asserisce (possibile implica necessario) è improponibile da un punto di vista intuitivo. In effetti, a partire dagli anni Sessanta, sotto la spinta della teoria della corrispondenza che portava a tradurre in formule modali sempre nuove proprietà di R, gli operatori ◇ e □ si affrancano dal fatto di avere come unica interpretazione ammissibile quella in termini di possibilità e necessità. Per logica modale si intese più generalmente lo studio di calcoli dotati di operatori non verofunzionali. I problemi di maggiore interesse riguardarono la caratterizzazione delle proprietà relazionali esprimibili modalmente, o il confronto tra queste e quelle esprimibili nella logica classica al primo ordine, o altri problemi ancora, ma tutti lontani dall'indagine sulla natura dei concetti di necessità e possibilità. Un'analoga generalizzazione subì la semantica algebrica, passando dalle algebre di chiusura alle più astratte algebre di Boole con operatore non booleano, chiamate appunto algebre modali.
Il triangolo logiche-modelli-algebre si chiude con la teoria della dualità sviluppata da Bjarni Jónsson e Tarski. Tale teoria, che generalizza quella di Marshall H. Stone per le algebre di Boole, pone in rapporto diretto le due semantiche: i punti di un modello relazionale sono correlati agli ultrafiltri di un'algebra modale, mentre la relazione R è correlata a una topologia sugli elementi dell'algebra stessa.
Come si vede, nel corso di pochi decenni gli strumenti impiegati in logica modale, inizialmente soltanto sintattici, si sono estesi fino a coinvolgere l'algebra, la teoria delle relazioni e la topologia. Un esempio particolarmente rilevante di questa pluralità di approcci possibili è costituito dalla vicenda delle algebre diagonalizzabili. Agli inizi degli anni Settanta, a Siena, prese l'avvio un'analisi in termini algebrici delle proprietà di Teor, un predicato che esprime la dimostrabilità all'interno dell'aritmetica di Peano. Fu quindi individuata una classe di algebre di Boole arricchite di un operatore che traducesse le proprietà del predicato 'Teor', tra le quali vi è la proprietà della diagonalizzazione (donde il nome dato alle algebre). Indipendentemente, nei Paesi Bassi, lo stesso predicato venne studiato in ambito modale con la costruzione di un calcolo, GL, al cui operatore □ furono imposti come assiomi le proprietà di 'Teor'. In questo modo, le algebre diagonalizzabili divennero la semantica algebrica del calcolo GL. Tale calcolo costituì la prima interpretazione specifica dell'operatore modale □ in termini non riconducibili alla necessità (per es., l'enunciato □α→α, che, con la lettura tradizionale, esprime la meno controversa tra le proprietà del concetto di necessità, non è un teorema di GL). Risultò in seguito che il medesimo calcolo modale, con la sigla K4W, era stato studiato alcuni anni prima nell'ambito della teoria della corrispondenza al fine di esprimere un particolare tipo di relazione d'ordine, senza tuttavia individuarne la possibile interpretazione aritmetica. Tre strade indipendenti, una aritmetico-algebrica, una aritmetico-logica e una modale-relazionale, erano confluite nello stesso punto.
Possiamo infine chiederci quali siano state le conseguenze di questi sviluppi nei confronti del nucleo originario della logica modale: lo studio dei concetti di necessità e di possibilità. Come abbiamo visto, l'atto di nascita della logica modale moderna è coinciso con una pluralità di proposte: i calcoli S1-S5 di Lewis. Dai cinque iniziali si è passati, già nel periodo presemantico e in un crescendo continuo, a un numero sempre più ampio di calcoli.
Tutto ciò poteva avere due letture diverse. Secondo la prima, la pluralità dei calcoli era un fenomeno transitorio, caratteristico della fase iniziale, e da questi tentativi sarebbe emerso un calcolo privilegiato, contraltare modale del calcolo classico. Per la seconda, la pluralità dei calcoli non era destinata a risolversi, ma era indicativa del fatto che i concetti di necessità e possibilità sono meno universali di quelli di vero e falso. La fitta rete di collegamenti stabiliti dalla teoria della corrispondenza, dalla teoria della dualità, dai rapporti con l'intuizionismo e con la temporalità, ha confermato la seconda ipotesi: molti concetti di necessità sono possibili. Inoltre, analizzando il problema da tante prospettive, sono stati precisati i contorni di questa pluralità e si è resa più consapevole ogni eventuale scelta futura.